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1° LEZIONE
27.02.03
In termini di costante verifica, bisogna capire che cosa sia la “Dottrina sociale della Chiesa”, detta anche “Insegnamento sociale della Chiesa”, oppure “Magistero sociale della Chiesa”.
Dottrina sociale della Chiesa è l’accezione più corrente, particolarmente cara a Giovanni Paolo II e la più familiare a Papa Montini. Con la locuzione “Insegnamento sociale della Chiesa” si intendeva esplicitare un dinamismo proprio intrinseco, appunto, del Magistero sociale della Chiesa. La dottrina sociale della Chiesa avrebbe l’intento di indicare una sistematicità, una compiutezza di tale insegnamento.
Il taglio di questo corso sarà storico, cioè capire dove oltre cento anni di insegnamento sociale, si è espresso questo pensiero sociale della Chiesa, come si è proposto, contestualizzato, come ha saputo cogliere, rispondere alle sfide del “tempo”.
La dottrina sociale della Chiesa troppo spesso e a lungo è stata confinata all’angolo della teologia morale; notoriamente i docenti di morale nei seminari riservavano un assai contenuto capitolo, se non addirittura un paragrafo, alla dottrina sociale della Chiesa, in realtà pur affermando una forte e accentuata subordinazione di questa sulla teologia morale. Evidentemente i teologi morali applicavano il metodo di tale insegnamento anche alla dottrina sociale della Chiesa.
Oggi in Italia i manuali di questa dottrina sono rari, si fatica a trovare un plausibile, soddisfacente trattato, ammesso che questo possa fare al caso nostro, poiché ci si chiede come sia possibile scrivere la parola fine, conclusione,, epilogo ad una seppur organica, sistematica riflessione di dottrina sociale della Chiesa, perché dovrebbe rappresentare una riflessione costantemente aperta, capace di confrontarsi con le sfide del tempo.
L’inizio della dottrina sociale della Chiesa non è da collocare il 15 maggio 1891 con la firma di Leone XIII sulla Rerum novarum poiché è stata percorsa, anticipata da straordinarie esperienze. Queste straordinarie esperienze cosiddette “profetiche” diremmo oggi, sono quelle proprie del laicato cattolico sociale, che già nel tardo ‘700 con alcune connotazioni, ma soprattutto nel periodo post-unitario, dopo l’unificazione nazionale in Italia e comunque anche in Europa, hanno saputo coerentemente (tanto da pervenire a una santità riconosciuta – c’è da ricordare anche una santità anonima, che è forse più persuasiva e diffusa di quanto si possa immaginare) leggere con singolare capacità di discernimento queste sfide del presente e vi hanno saputo rispondere con una testimonianza evangelica davvero eroica, convinta e tenace, nonostante i tempi. Evidentemente il Vangelo sociale ha le origini stesse del Signore Gesù, appunto dell’età evangelica; quindi è per convinzione sociale che facciamo risalire l’inizio della dottrina sociale della Chiesa alla Rerum novarum del 15 maggio 1891, perché da qui comincia un cammino più sistematico e organico.
Un autorevole interprete e promotore di dottrina sociale della Chiesa è Giuseppe Toniolo, sociologo cristiano di origine trevigiana che dalla cattedra universitaria, ma non solo, mediante quella che un tempo si definiva militanza cattolica sociale, dispiegò un autentico nuovo orizzonte di impegno nella Chiesa. Quello che noi comunemente chiamiamo movimento cattolico, cioè quella organizzazione che si traduce in una presenza capillare sul territorio nazionale a partire dagli anni ’70 con l’opera dei congressi nel 1874, e una pluralità di assegnazioni sul territorio di casse rurali, cooperative, sindacati, società, fucine economiche, scuole serali, appartiene a pieno alla prassi della dottrina sociale della Chiesa.
Nel pensiero “toniolino” si riconosce il vero grande ispiratore, autore della Reum novarum. Furono questi grandi cattolici sociali che senza un mandato dottrinale, colsero veramente l’urgenza dei tempi, per cui la Rerum novarum non fa altro che codificare un’esperienza già in atto. I riflessi e gli influssi della prassi ecclesiale nel cattolicesimo sociale si vivono tuttora; nel momento in cui un gruppo di laici si trova riunito in ambito ecclesiale a riflettere su questioni politiche, sociali, economiche, e si sforzano di interpretare i segni dei tempi alla luce del Vangelo, fanno così dottrina sociale della Chiesa. La Chiesa non può conchiudersi alla fine con la firma del Pontefice, per cui la dottrina sociale della Chiesa non può rinunciare al Vangelo sociale, ed è una componente irrinunciabile della missione evangelizzatrice della Chiesa.
Alcuni soggetti storici che si occupavano di questa dottrina furono appartenenti, aderenti ad alcuni movimenti (preti operai, cappellani di fabbrica o qualche Vescovo bizzarro come Monsignor Bettazzi); in realtà la dottrina sociale della Chiesa era una prassi per addetti ai lavori. Riscattare dall’angolo della teologia morale la dottrina sociale della Chiesa è un intento nobilissimo; ecco perché assume una propria dignità, autonomia disciplinare e costituisce un “sapere teologico” e un sapere storico. Teologia e storia, sul terreno proprio della dottrina sociale della Chiesa, si coniugano in modo equilibrato e costruttivo.
La Centesimus annus (1 maggio 1991) intendeva celebrare i 100 anni della Rerum novarum e fare sintesi di 100 anni di dottrina sociale della Chiesa, delle questioni teologiche e teoriche, di una lunga secolare esperienza storica. Esprime una sintesi più propriamente dottrinale con l’evoluzione e l’elaborazione propria espressa per altro in alcuni documenti fondamentali come la Rerum novarum (1891), la Quadragesimo anno (1931).
A quarant’anni dalla Rerum novarum siamo già ad un altro Pontefice, poiché Leone XIII morì nel 1903 e i suoi successori che furono Pio X e Benedetto XV (1914-1921) non promulgarono altri documenti sociali.
Dopo il pontificato di Benedetto XV, succedette Pio XI (1922-1939) che promulgò la Quadragesimo anno (15 maggio 1931); essa riprende concetti chiave e totalitari della Rerum novarum, ma compiendo passi avanti, mostrando la contingenza storico e politica del tempo. Nel corso di questi quarant’anni si sono verificati eventi “apocalittici”: la Rivoluzione d’ottobre bolscevica del 1917, il crollo della borsa di Wall Street, la crisi del ’29 e la grande depressione che vi è succeduta. In Italia ricordiamo il fascismo (1922), l’ascesa del nazional socialismo: due eventi che mutano lo scenario politico, sociale, economico.
Nel 1939 a Pio XI succedette Eugenio Pacelli – Pio XII (1939-1958) – che non fu autore di encicliche sociali, ma affidò alcune riflessioni ai radiomessaggi.
A Pio XII seguì Giovanni XXIII (1958-1963), il quale in cinque anni di pontificato fu autore di ben due encicliche sociali: Mater et Magistra (15 maggio 1961), Pacem in terris (11 aprile 1963).
Alla sua morte succedette Giovanni Battista Montini – ossia Paolo VI – che promulgò l’enciclica Populorum progressio (26 marzo 1967), che segnò il passaggio dal metodo deduttivo al metodo induttivo, cioè dalla storia alla dottrina. Paolo VI sollecita così le Chiese locali, il laicato, uomini di scienza, operatori economico-sociali, cristiani e non, ad interpretare e declinare secondo la condizione contestuale, sociale, politica, economica, la dottrina sociale della Chiesa.
Nel 1981, a novant’anni dalla Rerum novarum, Giovanni Paolo II (1978-….) promulga la Laborem exercens (14 settembre 1981), documento di riflessione sulla condizione e cultura dei soggetti nell’esperienza del lavoro. Ancora una volta una lettura antropologica in cui si afferma il primato dell’uomo.
Tuttavia a vent’anni dalla Populorum progressio viene emanata l’enciclica Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), che vuole dire qualcosa di nuovo e inedito.
Questo ci fa capire che la dottrina sociale della Chiesa è un cantiere ancora aperto, è un percorso avviato ma non concluso, e non concluso è il cammino della storia, le sue complessità, contraddizioni e sfide. Il Vangelo ha quindi sempre una attualità e contemporaneità insopprimibile, che non può non aprirsi alle sfide del presente.
Alla vigilia della Centesimus annus grande era stata l’attesa di una enciclica che avrebbe festeggiato i cento anni della Rerum novarum. Grande attesa non solo della cattolicità militante, ma anche curiosità della cultura laica, nell’impresa, economia e sfere della politica internazionale. La Centesimus annus giungeva dopo l’89 (a cui riservò il terzo capitolo), l’autore era il Papa polacco al quale si attribuisce gran parte della dissoluzione dei regimi comunisti nei paesi dell’Europa centrale.
Soprattutto dai fronti laici l’enciclica raffigurava un inno di vittoria della Chiesa sulle rovine della più forte ideologia atea di tutti i tempi e insieme pareva configurarsi come un giudizio sul duello tra capitalismo e comunismo, e dunque un trionfo del capitalismo e la disfatta del comunismo. Ma una volta pubblicata e letta, la Centesimus annus incontrò delusione e critica soprattutto negli ambienti laici, ma anche in quelli cattolici; questo avvenne perché ancora una volta il Magistero della Chiesa veniva interpretato strumentalmente. Questo perché all’interno delle comunità cristiane non ci si adoperava adeguatamente per comprendere e diffondere le chiavi di lettura più corrette di tale messaggio sociale.
A ben vedere Giovanni Paolo II, con una inequivocabile chiarezza aveva enunciato nella Sollicitudo rei socialis, la chiave interpretativa fondamentale della dottrina sociale della Chiesa. Nel paragrafo n. 41 della Sollicitudo rei socialis è scritto: “La dottrina sociale della Chiesa non è una terza via tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un’ideologia – un manifesto politico – ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale. L’insegnamento e la diffusione della dottrina sociale fanno parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. E, trattandosi di una dottrina indirizzata a guidare la condotta delle persone, ne deriva di conseguenza l’“impegno per la giustizia” secondo il ruolo, la vocazione, le condizioni di ciascuno.”.
Questo ci dice che è scorretto, improprio, attendersi dalla Chiesa un manifesto, trattato o un programma politico che ordini la società e l’economia in un sistema alternativo, rispetto ai sistemi storicamente in atto, ed è anche improprio pensare la Chiesa come una forza omogenea. La dottrina sociale della Chiesa appartiene a un cammino millenario di attualizzazione del Vangelo della Chiesa.
Alla domanda se dopo il fallimento dell’89 (del regime comunista e della caduta del muro di Berlino) il sistema vincente sia il capitalismo, troviamo una risposta complessa ma illuminante nella Centesimus annus.. La Centesimus annus scrive: Se con capitalismo si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della libera creatività umana nel settore economico, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare più che di capitalismo, di economia dell’impresa, di mercato. Ma se con capitalismo si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico, che la metta a servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa”.
Nel corso di 100 anni di dottrina sociale della Chiesa, allora, come è avvenuta questa evoluzione dalla Rerum novarum alla Centesimus annus? Come ha proceduto il cammino di elaborazione, innovazione, discernimento, cioè questa capacità della Chiesa di interpretare i segni dei tempi e di rispondere con il proprio Vangelo sociale, con la propria dottrina sociale?
C’è un’immagine efficace, suggestiva che non si può che attingere da Giovanni Battista Montini, in quella inaugurale enciclica del suo programma pontificale: Ecclesiam suam (1964) a pochi mesi dalla sua elezione; è l’enciclica più conciliare e più partecipe di questa primavera della Chiesa – Vaticano II dal 1962 al 1965.
Nell’Ecclesiam suam si respira una forte percezione del compito immane della Chiesa. La Chiesa deve avere lucida consapevolezza di se stessa, percezione della propria missione e delle sfide storiche che è chiamata a raccogliere. Infatti l’Ecclesiam suam, che anticipa la Gaudium et Spes che conclude i documenti del Concilio Vaticano II, scrive: “I rapporti tra la Chiesa e il mondo possono assumere molti aspetti e diversi tra loro: Teoricamente parlando la Chiesa potrebbe prefiggersi di ridurre al minimo tali rapporti con il mondo, cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società, come potrebbe proporsi di rilevare i mali che in essa possono riscontrarsi, anatematizzandoli, e muovendo crociate contro di essa. Una prima soluzione è cioè ritirarsi sulla cittadella salvata e condannare il mondo; potrebbe invece tanto avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso o cercarvi l’identificazione. Sembra invece che il rapporto della Chiesa con il mondo possa raffigurarsi nella forma e nell’esperienza del dialogo”.
Rileggendo questi 100 anni di dottrina sociale della Chiesa, in cui la Chiesa ha teorizzato e sperimentato tutte le tre forme diverse di rapportarsi con il mondo, noi possiamo percorrere il cammino per identificare una successione di momenti e di stagioni.
Basterebbe leggere quanto nel 1832, l’allora Pontefice Gregorio XVI, scrive nell’enciclica intitolata Mirari vos: “Deve essere condannata, perché pessima, libertà di stampa, assurda ed erronea sentenza o piuttosto delirium che si deve ammettere e garantire per ciascuno la libertà di coscienza”.
Tutto questo per capire come la dottrina sociale della Chiesa, mostra una straordinaria capacità di snodarsi con il proprio annuncio, e intercettare le sfide del tempo.
2° LEZIONE 06.03.03
Riprendiamo il nostro itinerario: l’intento è quello di motivare, di legittimare, di dar ragione dei fondamenti e dell’attualizzazione della dottrina sociale della Chiesa, cioè di capire il significato, la valenza, l’efficacia della dottrina sociale della Chiesa; soprattutto la capacità della stessa di concorrere in modo determinante all’opera di discernimento, anzitutto del credente, della comunità cristiana, ed evidentemente in dialogo: che non rinunci a colloquiare, ad interagire anche con la cultura e la riflessione del mondo laico.
Credo che vi sia anche un’esigenza in noi tutti, molto personale e sacrosanta, che è quella di cogliere nella dottrina sociale della Chiesa una ricchezza, un patrimonio, i contenuti di riflessioni, di esperienze che possono motivare anche la testimonianza odierna, ai nostri giorni. Quindi, il nostro è un approccio, vorrei dire, teoretico sì, ma al tempo stesso anche esperienziale, esistenziale, storico, che quindi ha una valenza di tipo ecclesiale, non solo di tipo dottrinale.
Mi sono dunque sforzato, con estrema semplicità, linearità, chiarezza, di individuare i fondamenti della dottrina sociale della Chiesa e l’attualizzazione di questa dottrina sociale della Chiesa. Quando dico attualizzazione, intenzionalmente non dico attualità. Della attualità ne sono convinto, ne siamo convinti; ma magari siamo convinti dell’attualità della Centesimus annus, un po’ meno della attualità della Rerum novarum. Mentre invece, lo sforzo è appunto quello di attualizzare anche le formulazioni più lontane nel tempo, più antiche; di cogliere nei fondali di oltre un secolo fa, propri appunto di quel cattolicesimo sociale che precorse, che anticipò la Rerum novarum, le ragioni ispiratrici, e dunque anche le ragioni fondative proprie nell’oggi della dottrina sociale della Chiesa.
Per più di un secolo la dottrina sociale della Chiesa dunque, dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, ha indubbiamente rischiarato, illuminato il cammino della cattolicità, intesa per cattolicità, quella realtà articolata, complessa, che vede, anzitutto, protagonista il laicato. Il cammino della cattolicità in ogni contesto (geografico, culturale, ecclesiale), in realtà, a ben vedere con lo sguardo retrospettivo, che dall’oggi si proietti almeno alla Rerum novarum e via, via, poi a ritroso ripercorra questo cammino, a ben vedere, la dottrina sociale della Chiesa ha offerto puntuali indicazioni, spunti suggestivi di riflessione per una lettura cristiana della realtà sociale alla luce del Vangelo. Questo è il primo elemento da appuntare.
In particolare questa lettura cristiana, questa visione cristiana, è stata certamente di aiuto per superare quella distanza, addirittura quella scissione profonda e lacerante a cui alludeva, nella Evangelli nuntiandi, Paolo VI: “Il dramma del nostro tempo è imputabile alla scissione tra fede e cultura”, intendendo in senso antropologico cultura, cioè il vissuto dell’uomo nel suo tempo. Evidentemente questa scissione era avvenuta da lungo tempo, potremmo dire dagli inizi dell’età moderna; una scissione, ancor prima che tra Chiesa e istituzioni ecclesiali, tra coscienza cristiana e vita sociale e storia, tra coscienza e forme della vita sociale.
La dottrina sociale della Chiesa, a ben vedere, ha inteso contribuire a questo dialogo, ha invitato a far convergere fede e vita, fede e storia, fede e cultura, fede e scienza, per taluni versi; in realtà non si tratta di realtà di mondi incompatibili, impermeabili, estranei, tuttavia una drastica separazione vi è stata e pare tuttora permanente, e indubbiamente questa separatezza rappresenta tuttora, come disse Paolo VI nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975 (uno splendido, profetico documento paolino), rappresenta tuttora un dramma.
Senza la fede l’agire sociale tende ad essere ridotto alla dimensione economicistica o esclusivamente politica o esclusivamente biologica (oggi potremmo dire la dimensione telematica, informatica, post-moderna, propria della terza rivoluzione industriale), e perde, dunque, di vista il suo soggetto primario, meglio il suo soggetto proprio: il sociale umano, la vita umana nella sua profonda connotazione sociale, nel suo profondo radicamento sociale. Al tempo stesso, però, senza la percezione, senza l’attenzione ai fatti della vita, della storia, la fede tende a perdere l’aggancio con la realtà, tende a perdere la propria dimensione di incarnazione nel tempo, nella storia.
Il pensiero cristiano rischia così di ripetere stancamente le verità di sempre, quelle che comunemente chiamiamo le verità eterne,…………….la realtà sociale, la storia presente, secondo logiche, chiavi interpretative, modelli interpretativi totalmente estranei ai Vangeli.
Un passo ulteriore: la dottrina sociale della Chiesa, oltre ad illuminare il cammino della cattolicità, ha anche inteso costituire un terreno (usiamo una espressione molto cara a Giovanni Paolo II), una via di confronto, sulla base dell’interpretazione della natura stessa dell’uomo e della società, con il mondo moderno, con le correnti culturali, con le concezioni sociali, politiche, economiche che via, via, nel corso del tempo, si sono andate profilando, sono andate emergendo.
Dunque, la dottrina sociale della Chiesa ha questa potenzialità. Quanto vi sia riuscita, ecco, è tutto da capire, da studiare, da comprendere; ma ha la potenzialità di costituire un terreno di confronto. In altri termini, la dottrina sociale della Chiesa è, potremmo dire, parte irrinunciabile, importante del discorso pubblico che la Chiesa ha svolto in una società sempre più secolarizzata
Al tempo stesso suscitando attenzione: si veda quanto accade in questi giorni in ordine al rischio sempre più imminente e drammatico della guerra, di quale consenso sia circondata la parola e l’azione del Papa, che offre veramente un autentico messaggio della dottrina sociale della Chiesa. E spesso la dottrina sociale della Chiesa ha suscitato attenzione anche, laddove non fosse viziata da arbitrarie pregiudiziali (a cui abbiamo alluso la volta scorsa, ricordate?), univoche e riduttive interpretazioni, ha suscitato anche nel mondo laico, non solo rispetto, apprezzamento, considerazione, ma anche, in realtà, ha suscitato emulazione, sequela.
Con una maggiore percezione storica, poi, a me pare che la dottrina sociale della Chiesa sia stata più efficace sul piano della testimonianza dei credenti, cioè della presenza storica dei credenti in una società sempre più secolarizzata, che non sui fatti sociali, sui fenomeni sociali, economici, politici, in quanto tali.
D’altro canto, questa era, anzitutto, la sua primaria funzione, cioè tener desta nella coscienza cristiana una particolare primaria attenzione ai grandi problemi di carattere sociale, economico, che desta appunto il tempo e le sue trasformazioni. Ma, ripeto, la dottrina sociale della Chiesa, non è meramente confinabile, circoscrivibile alla cattolicità.
Il fatto stesso che la dottrina sociale si sia posta l’obiettivo di superare questo diaframma, questa inconciliabilità tra modernità e fede cristiana (questa è la vera sfida), ha fatto emergere la rilevanza sociale del Vangelo sociale, la rilevanza sociale e culturale del pensiero cristiano anche oltre i confini della cristianità, con un indubbio influsso, dunque, anche sulla vita sociale.
La dottrina sociale come un seme (è un’immagine non mia questa, ma del Cardinale Poupard) ha generato, e continua a generare, una serie di innovazioni culturali e sociali, che la società non può ignorare.
A me piace un’ulteriore specificazione: ha generato nuove consapevolezze, nuove capacità di percepire le evoluzioni, le trasformazioni in atto. Ha espresso questa capacità nei credenti, non in tutti evidentemente, ma in molti credenti, questa capacità appunto, di discernimento; la capacità, cioè, di leggere i segni dei tempi, quella espressione giovannea, tanto cara, che pone in realtà forti domande, forti interrogativi, grandi sfide.
Se la società moderna è sorta e si è sviluppata in antitesi, spesso, alla fede cristiana, al pensiero sociale cristiano, è indubbio che molti valori di questa modernità sono di origine, di derivazione cristiana. Certo non si può dire che la dottrina sociale della Chiesa sia riuscita a neutralizzare o a invertire le tendenze secolarizzanti, nell’età soprattutto contemporanea tra ‘800 e ‘900, ma certamente ha contribuito a dare a tutti il senso, appunto, la consapevolezza di una responsabilità storica nella costruzione della città, della Polis, credenti e non credenti. Di una città fatta anzitutto di persone, una città che riconosce, dunque, la centralità e il primato della persona umana.
Certamente noi pensiamo al cosiddetto cattolicesimo politico, al cattolicesimo sociale, che hanno, tra virgolette, “alimentato e generato” una cultura antropologica di ispirazione evangelica cristiana che non ha mai smesso di pensare al primato dell’uomo, al primato della coscienza, che non ha mai rinunciato a riconoscere gli “ultimi” come i prediletti del Vangelo; e nella categoria “ultima” vista, evidentemente, non tanto e solo una categoria di natura economica, ma, ripeto appunto, antropologica.
Soprattutto la dottrina sociale della Chiesa, a me pare (sono osservazioni che vado qui ponendo introduttivamente) abbia contribuito a dare ai credenti il senso del dovere di una presenza, di una testimonianza. Ma quale presenza? Quale testimonianza?
Una presenza, una testimonianza talmente radicate evangelicamente, da essere una presenza, una testimonianza creativa. Una ricerca di visibilità che fosse superamento dell’intimismo spirituale, della rinuncia alla storia, un’apertura critica alla modernità, ma non una rinuncia alla modernità. Evidentemente con la categoria di modernità intendo alludere ad un complesso di fattori di cultura e di correnti, di trasformazioni sociali, politiche ed economiche.
In realtà (questa è una convinzione alla quale veramente non posso rinunciare) la dottrina sociale della Chiesa mediante, appunto, questa apertura critica alla modernità, ha sottratto o ha tentato di sottrarre la comunità credente dalla deriva del ghetto culturale, della cittadella assediata sulla rocca, lontana dal mondo: la deriva del ghetto culturale, fondamentalmente alla deriva (mi si passi una parola, una espressione un po’ logora e ideologicamente abusata) dell’integralismo.
è sempre parsa dunque, significativa, suggestiva, e al tempo stesso molto reale, molto eloquente, quella folgorante espressione di Bernanos nel “Diario di un Curato di campagna”, posta sulla bocca del parroco di Torcy, il quale rivolgendosi al suo giovane coadiutore, rievocando il 1891, la pubblicazione della Rerum novarum, ebbe a dire: ”Ci sembrò di sentire la terra tremare sotto i nostri piedi”. Si riferiva alla enciclica Rerum novarum la cui pubblicazione ebbe in realtà l’effetto di un terremoto, di un qualcosa almeno di inaspettato e di decisamente innovativo.
Dunque, a me è particolarmente cara questa immagine e cioè: la dottrina sociale della Chiesa ha sospinto il credente a confrontarsi con la modernità; ha sospinto i credenti ad accettare le sfide della storia, a proiettarsi non solo nel presente, ma anche nel futuro, ad immaginare, per gli anni ancora a venire, una loro presenza non priva di significato, una loro incisività, qual lievito nella pasta, in fedeltà al Vangelo.
Evidentemente sulla scorta di questo primo ordine di osservazioni, non è dunque difficile individuare i motivi di attualità e di attualizzazione nella dottrina sociale della Chiesa. A me è parso di cogliere nella lettera apostolica di Giovanni Paolo II “Novo millennio in eunte” al n. 52, almeno tre motivi di riflessione.
· Il primo è che la questione sociale è ormai non più la questione operaia della Rerum novarum, ma la questione sociale è divenuta una questione planetaria; perciò richiede ancora il contributo di riflessione da parte del Magistero e da parte della comunità ecclesiale; non solo del Magistero: ecco, questo discernimento comunitario. Viene in mente il discorso del Papa alle ACLI del 27 aprile 2001: “Se – dice il Santo Padre – la globalizzazione è il nuovo nome della questione sociale, diviene necessario globalizzare la solidarietà” Ed è un impegno urgente, incalzante, fondamentale, ma non solo, si badi bene, in senso politico, in senso economico, ma cosa ancor più difficile, in senso etico e culturale. Chi può negare oggi quanto la nostra società e la nostra cultura o le nostre culture siano fortemente imbevute di questa pervasiva condizione che è il relativismo etico, il relativismo morale, che appunto è un relativismo culturale. Primo elemento.
▪ Il secondo è che la testimonianza credente nella società di oggi deve conservare uno stile autenticamente e specificamente cristiano; quello stile cristiano che, uno dopo l’altro, dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, i documenti della dottrina sociale della Chiesa sono venuti gradualmente proponendo. Per cui, l’impegno sociale che vede in prima fila i laici, secondo la vocazione loro propria e che esige una solida spiritualità e una solida formazione, deve essere chiara espressione di fedeltà, anzitutto al Vangelo, e deve essere lontana da ogni aspirazione, vocazione, attitudine, intenzionalità egemonica. Non si tratta di essere presenti per fare la conta, per verificare quanti siamo, quante falangi possiamo appunto porre sul terreno di una eventuale sfida, di un eventuale conflitto, di un eventuale contrasto. E al tempo stesso, tuttavia, evitare quindi lo stile evangelico, che anzitutto ha un originaria ed irrinunciabile connotazione spirituale, perché appunto forte e costante è la tentazione di ridurre le comunità cristiane ad agenzie sociali, i pastori d’anime, come si usava dire una volta, in operatori sociali, rispettando dunque l’autonomia e le competenze della società politica e della società civile. Guai ad identificare appunto la presenza credente cristiana con le prerogative e le funzioni proprie della società civile e della società politica.
▪ Terzo motivo di attualità, a me pare riguardi la necessaria assunzione della dimensione etico-sociale nel compito della testimonianza cristiana. Cioè si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica, di una spiritualità individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con le logiche dell’incarnazione; in definitiva con la stessa tensione escatologica del cristianesimo. è questa consapevolezza escatologica che ci fa consapevoli della relatività, anche della più appassionata, come potrei dire, iniziativa di carattere sociale, di carattere politico, di carattere economico, se pur cristianamente ispirata.
Il cristiano è l’uomo che non rinuncia ad una fondamentale consapevolezza: la consapevolezza, per usare un’espressione quasi sloganistica di origine, se non vado errato, baltassariana, che è il “già e non ancora”. è d’altro canto il ritorno a quella cifra interpretativa dello stile cristiano evangelico che ci viene consegnata da quella splendida pagina denominata, per tradizione, senza ancora attribuzione definitiva di paternità, che è la lettera a Diogneto: “Nel mondo, ma non del mondo”. Quindi una alterità che pone una riserva critica; partecipare fino in fondo alle sorti del proprio tempo, ma secondo il Vangelo, cioè secondo appunto questa riserva critica.
Dunque, se resta valida ed attuale la dottrina sociale della Chiesa, è anche vero che il quadro culturale-storico entro il quale si è venuta elaborando, è mutato, ed è mutato costantemente e considerevolmente.
Abbiamo parlato prima, ormai di condizione planetaria. Bene, basterebbe leggere l’esordio della Rerum Novarum: per le nostre orecchie, per la nostra sensibilità, ci parrebbe di tornare in quel piccolo mondo antico degli opifici fumanti della Manchester di primo ‘800, oppure anche leggere l’ultimo capitolo della Quadragesimo anno per pensare che le corporazioni cristiane ai tempi (è stato Pio XI l’autore dell’enciclica) intendevano contrapporsi alle corporazioni fasciste del tempo; questo a dire, tra virgolette, “la dimensione storica”. Dunque è mutato considerevolmente il quadro culturale e storico.
Pensiamo poi all’intreccio tra questione sociale e questione economica; non solo, ma pensiamo all’intreccio tra questione politica e questione economica; non solo, ma pensiamo oggi sempre più alla questione propria della democrazia economica. (Direi, credo che sia avvertibile come questione di una attualità stridente anche nel nostro piccolo mondo italiano). O ancora alla grave questione del riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo, spesso intesi in modo liberale ed individualistico: i miei diritti, non i diritti di tutti. Come pure all’estensione della questione sociale alla questione ecologica, ambientale: è questione sociale, inimmaginabile nel 1891, ma nemmeno negli anni della Mater et Magistra del 1961.
O la questione dei rapporti, lo vediamo ai nostri giorni, dei rapporti e degli equilibri tra nazioni, tra diverse aree del mondo: nord, sud – est, ovest; sono dunque aspetti del tutto nuovi e cogenti, attualissimi, che devono essere considerati non in modo isolato, ma come temi o capitoli di una grande immane questione sociale, superando nella loro considerazione critica e percezione e analisi, superando le prospettive di lettura troppo parziale, unilaterale, monotematica. Ma vi è una novità, forse più radicale, che è ravvisabile nello spostamento e nella radicalizzazione delle problematiche dall’ambito sociale all’ambito antropologico.
Quello che è oggi in questione non è più solo e primariamente l’ordinata convivenza nella società, tra le società, ma è evidentemente in gioco la stessa fondamentale concezione dell’uomo. Credo non sfugga a tutti loro come, messa a repentaglio la questione antropologica, evidentemente poi ne conseguono effetti incontenibili.
Nell’800 e ancora in buona parte del 900, pur nella pluralità, nella diversità delle soluzioni proposte circa i rapporti tra le classi sociali, tra i ceti, circa l’organizzazione della società, permaneva in molti paesi, soprattutto dell’occidente e dunque anche l’Italia, presso ampi strati popolari una visione dell’uomo del tutto particolare, una precisa concezione della differenza dei sessi, del rapporto uomo-donna, l’importanza assegnata alla famiglia, l’affermazione del legame tra morale personale e morale pubblica, ecc.: i cosiddetti valori propri di una società come quella prevalentemente occidentale, che ha formato le generazioni sino a, potremmo dire venti, trenta,…adesso non saprei definire il periodo in cui inizia una forte, radicale evoluzione del costume e dunque delle culture.
è dunque un modello, un’antropologia, un modello di società, un costume, un’antropologia, un sentire comune, una mentalità comune di ispirazione, di appartenenza cristiana, partecipi e proprie della cosiddetta tradizione cristiana; e comunque risentivano fortemente, tra virgolette, “dell’opera evangelizzatrice della Chiesa”.
Oggi evidentemente non è più così.
Nella sua prolusione al Consiglio permanente della CEI, del maggio del 2001, il Cardinale Presidente, Ruini, ha richiamato l’attenzione sul carattere sempre più radicale della sfida che per la Chiesa, per la coscienza cristiana riviene da che cosa? Dalle questioni che si riferiscono alla vita, alla famiglia, alle biotecnologie, alla bioetica, ai mutamenti del costume, ai mutamenti delle legislazioni.
La Costituzione europea che rimuove completamente le radici cristiane, della “comunitas europea”, induce certamente a qualche riflessione. “Sta imponendosi – diceva il Cardinale Ruini – ed appare destinata a diventare sempre più acuta e pervasiva nel tempo che sta dinanzi a noi, una questione antropologica, che a differenza di un passato anche non lontano, tende non soltanto ad interpretare l’uomo, ma soprattutto tende – si badi bene l’espressione che ha un che di drammatico – a trasformarlo e a modificarlo. E questo non limitatamente ai rapporti economici e sociali, come avveniva ad esempio in una prospettiva marxiana, ma assai più direttamente e radicalmente nella nostra stessa realtà biologica e psichica. Si tratta di una, dunque, radicalizzazione di questi ordini; un mutamento di scenario e di orizzonte di fronte al quale la dottrina sociale evidentemente non può non ripensare, riflettere e proporre una lettura antropologica cristiana forte e decisa, chiara, esplicita; capace al tempo stesso di dialogicità, di interlocuzione, ma non rinunciare evidentemente ad un fondamento antropologico.
Quindi potremmo dire che in non poche parti dell’Europa già cristiana, paiono oggi prevalere orientamenti sempre più lontani da una antropologia cristiana, da un’etica di ispirazione cristiana, che tengano davvero conto del carattere anzitutto inviolabile della persona umana, dell’indole specifica della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Ecco perché la sfida oggi è ancor più penetrante, più incisiva e dunque anche più ineludibile (non si può far finta di), ed è una sfida, ripeto, anzitutto culturale; ecco perché allora con tutti i limiti, e anche le interpretazioni fuorvianti, tuttavia nel contesto proprio della società e della Chiesa italiane, il progetto culturale cristianamente ispirato può rappresentare un’esperienza e uno strumento non secondario che consenta almeno una nuova consapevolezza tra i credenti. Cioè, che aiuti i credenti a capire, a comprendere; che aiuti i credenti ad uscire dalle chiese, dal tempio, dalle sacrestie per immettersi però non da sprovveduti, non ingenuamente, ma criticamente, appunto, nel contesto di queste sfide.
La questione sociale, quella posta da Leone XIII con la Rerum novarum e dai suoi successori dunque, evolve, è evoluta, si allarga, si è allargata, si radicalizza e si radicalizzerà sempre più. Diviene dunque questione anzi tutto antropologica.
Scrive ancora Ruini: “Anche sotto un profilo storico e culturale, il venir meno della differenza qualitativa tra noi e il resto della natura, sembra privare del loro fondamento e quindi della loro plausibilità, quel ruolo centrale e quella dignità specifica del soggetto umano, che costituiscono il punto di riferimento della nostra civiltà sul piano non soltanto filosofico ed etico, ma anche giuridico, politico, esistenziale, persino estetico. Se il primato dell’uomo, evidentemente, si opacizza, sfuma, si …………, tanto da prevedere modifiche di carattere biologico, naturale, in realtà le conseguenze sono di facile prevedibilità.
Dunque, se oggi allora, e vado alla conclusione di queste considerazioni introduttive, ma che mi premeva fondamentale e doveroso non eludere, se oggi al centro della dottrina sociale della Chiesa sta la questione antropologica, allora il compito principale della dottrina sociale della Chiesa, dei credenti che ne condividono i fondamenti, il valore, il messaggio, è di continuare a rendere, evidentemente, tutti i credenti capaci di dire, e prima ancora capaci di dire a loro stessi, di dirsi con coraggio e convinzione le ragioni proprie della fede cristiana nel tempo presente. è vivo il bisogno di una nuova consapevolezza, più diffusa, più culturalmente – non m piace l’espressione, ma è la più mediata e più esplicita – più culturalmente attrezzati, cioè capaci con gli strumenti propri della cultura, della ragione umana, della scienza e con la forza della propria professionalità (ecco il ruolo dei laici cristiani), con l’apporto della propria professionalità, appunto, capaci di – direbbe Pietro – dare ragione di quella speranza che non muore mai.
Dunque una nuova consapevolezza, anche all’interno della comunità ecclesiale, anche all’interno delle comunità religiose, nel senso di congregazioni, anche all’interno di quel laboratorio di formazione che sono i Seminari. è vivo, dunque, il bisogno di una nuova consapevolezza ecclesiale, quella consapevolezza che nasce da una visione autenticamente evangelica e cristiana dell’uomo, che chiede al credente di proclamare dei “no” grandi come una casa, soprattutto in ordine a questioni decisive delle sorti umane, dalla fecondazione in vitro alla clonazione, dall’aborto all’eutanasia; e solo l’approfondimento della questione antropologica in tutte le sue implicanze attuali può trasformare questi “no” in convinto “sì” nei confronti dell’uomo, dell’uomo più autentico.
Certo non si può ignorare una questione che talvolta sfugge, e sfugge a me pare anche davvero (diciamo genericamente), alla comunità cristiana: la Chiesa. Non si può ignorare il problema della plausibilità dell’interpretazione cristiana dell’uomo, cioè della legittimità dell’interpretazione cristiana di un contesto culturale che pare evidentemente in tutt’altro senso.
Come motivare? Come argomentare? Come rendere plausibile l’antropologia cristiana, la concezione cristiana dell’uomo oggi?
Certamente molto, molto, molto più difficile di un tempo.
E allora qui il “pontus”; il carico si fa ancora più pesante, perché non si può scendere su un terreno con lo scopettino ad aria compressa a fronte (mi si passi questa immagine militare e bellicosa) a fronte di carri armati, di ultime tecnologiche invenzioni. è necessario ricorrere al meglio della propria cultura, della propria professionalità; cultura e professionalità sono due evoluzioni, sono due termini entro i quali vi sta moltissimo, ma non sto a specificare, ma mi sia consentito, è necessario far ricorso ad una nitida, tersa e davvero vivificante spiritualità.
La convinzione (sono tutte mie osservazioni) è che troppo poco si ricorre ad un elemento fontale, sorgivo che è la Parola; quì un grande maestro che ha solcato le nostre contrade in questi ultimi vent’anni è stato, appunto, il Cardinale Martini; partire dalla Parola, partire da un fondamento indubbio, per poi declinare nell’attualità il vivere cristiano.
Allora anche la dottrina sociale della Chiesa non può non muovere i suoi primissimi originali passi e non può ritornarvi, a ritroso se non, appunto, dalle parole perenni, intramontabili del Vangelo. E qui entra in gioco un’altra attitudine propria, che soprattutto per i bresciani presenti dovrebbe essere percepita anche come la cifra di un nostro vissuto ecclesiale che ha radici molto lontane, e che si fa fresco e attuale ancor più oggi; chi vive l’esperienza ecclesiale bresciana dei nostri giorni sa certamente a cosa alludo: alludo ad una attitudine, ad una vocazione che ha portato questa tradizione cattolica bresciana, già agli inizi dell’800 sino ai giorni nostri, pur con le lentezze di quest’ultima stagione, ma che, appunto, anche il Vescovo, Mons. Sanguineti, ha riproposto con grande forza e grande convinzione, tanto da farne un po’, direi, la cifra del suo servizio episcopale, cioè l’attitudine alla vocazione educativa della comunità cristiana.
La Chiesa bresciana, la storia ecclesiale bresciana è connotata da grandi apostoli dell’educazione, da grandi testimoni del Vangelo: servi di Do, serve di Dio, beati, santi, che hanno evidentemente operato proprio con grande passione educativa. E ai giorni nostri la dimensione educativa, la diaconia educativa mi parrebbe la cifra più singolare, più pregnante, più espressiva
Questo lo dico perché appunto è sempre stata una delle costanti del Magistero, del Cardinale Martini, per esempio: “Dio educa il suo popolo”. Dimensione educativa: questa dimensione perenne fatta di ascolto della Parola, quindi ascolto della storia. Un grande bresciano di elezione, pur essendo veronese, il Cardinale Bevilacqua, maestro di Paolo VI, diceva che il cristiano doveva avere entrambe le mani impegnate: da una parte la Scrittura, il Vangelo, dall’altra parte il giornale. Un’immagine anche molto cara ad esempio a don Lorenzo Milani, questo grande maestro di Valpiana: la Scrittura, il Vangelo e il giornale.
Una parola perenne, eterna, intramontabile e una parola che si consuma già con il tramonto della giornata, ma che evidentemente ci sbatte in faccia la drammaticità, quelle gioie e quelle speranze che la Gaudium et Spes hanno posto come esordio.
Bene, allora, riflessione che deve coniugarsi con l’impegno educativo ad ogni livello, ad ogni dimensione; dunque la capacità di elaborazione del pensiero cristiano con la sua incontenibile creatività e la tensione educativa-formativa costante, sono strumenti propri della dottrina sociale della Chiesa.
Per altro la vocazione e l’attitudine educativa debbono far conto su qualche virtù fondamentale. La pazienza: educare significa – chi ha speso un po’ del proprio tempo, della propria vita nell’azione, nel servizio educativo sa – che appunto si semina, ma evidentemente quando e come si raccolga è affidato solo ai disegni ella provvidenza. Pazienza, ma al tempo stesso creatività; la creatività che non è sprovvedutezza, la creatività che ad esempio è cultura: più uno intuisce, programma, progetta, più è colto. Quella cultura intesa proprio nella sua originaria accezione, non un sapere fine a se stesso, ma un sapere finalizzato ad affermare appunto la centralità antropologica. Un impegno per ridestare nuove consapevolezze, sottraendosi a luoghi comuni, a stereotipi, ad imposizioni, a intimismi e ad individualismi.
Luoghi comuni, stereotipi, intimismi ed individualismi anche di natura spirituale sono, credo di poter dire (non sono un saggio evidentemente) delle scorciatoie che si traducono poi in vicoli ciechi; perché poi portano ad un’amara, triste, rassegnata considerazione (per cui gli stereotipi e i luoghi comuni, propri anche di una certa prassi pastorale, ecclesiale e religiosa, che porta a dire: ma si è sempre fatto così e quindi andrà bene anche questa volta), confidando genericamente nella provvidenza. La provvidenza evidentemente ha ben altri disegni, oltre alle nostre banalità o banalizzazioni.
Allora, riflessione critica sul tempo presente per un’opera autentica di discernimento e al tempo stesso educazione e formazione, esigono entrambe confronto, dialogo, impegno culturale, studio, ricerca e approfondimento; mai accontentarsi delle apparenze. Il compito è certamente impervio, ma è un compito che le sfide del presente esigono dalla coscienza cristiana, dalla comunità cristiana.
La Novo millennio in eunte propone una considerazione che mi pare faccia davvero al caso nostro: “ per l’efficacia della testimonianza cristiana, soprattutto in ambiti delicati e controversi, è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente le ragioni della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma si tratta di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell’uomo. La carità si farà allora necessariamente servizio; servizio alla cultura, servizio alla politica, all’economia, alla famiglia, perché dappertutto, ovunque e sempre vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino di ogni essere umano e il futuro della civiltà”.
Bene, per i cristiani che intendono ispirarsi nella loro testimonianza, nella loro presenza, nel loro impegno, alla dottrina sociale della Chiesa, per i cristiani, questa esigenza di carità, intesa come servizio, servizio anzitutto alla cultura per rispettare e far valere i principi fondamentali dell’uomo, è un’esigenza imprescindibile. I cristiani debbono rendere ragione a tutti della loro visione dell’uomo e della visione della società umana che deriva da questa visione dell’uomo.
La posta in gioco, evidentemente, è molto seria; le difficoltà che si frappongono sono sotto i nostri occhi, ma non dimentichiamo che agli inizi della dottrina sociale della Chiesa, la posta in gioco era altrettanto seria e le difficoltà non erano meno gravi.
In un volume molto importante, che fa molto riflettere, intitolato “La comunità maledetta” di Bonomi, edito a Torino nel 2002, si legge: Un pensiero eretico, perché riscopre la persona, che riscopre la comunità, parole maledette per tutto il ‘900, un secolo ossessionato dal conflitto tra capitale e lavoro e dai simboli corrispondenti: stato e mercato”. Dunque, contro una cultura appunto egemone fin dai propri albori, dai propri inizi, la dottrina sociale della Chiesa ha saputo immettere, ha saputo dire, ha saputo far valere le parole – maledette e negate – di persona e di comunità. è stata un’opera ardua, ma come scrive la lettera a Tito “Un’opera bella e utile per l’uomo”.
Vi sono, a mio avviso, parole-chiave che, per noi che ci immettiamo nella riflessione propria della dottrina sociale della Chiesa, meritano di essere qui enucleate, indicate – sinteticamente, è un schema.
Una prima parola-chiave comprensiva di un’altra parola-chiave: carità e pace. Sono un punto di partenza e al tempo stesso un approdo, un punto di arrivo. La carità nella sua accezione teologica ispira i rapporti umani, ispira rapporti immediati e ispira rapporti mediati, fino a permeare la vita sociale. La pace è un approdo, è un traguardo che si raggiunge mediante un lungo cammino di carità. Anche la pace merita di essere percepita anzitutto nella sua valenza teologica, come aspirazione insopprimibile, da sempre, di ogni popolo.
Una seconda parola-chiave: persona, ma anche qui comprensiva e dialogica con un’altra parola-chiave: società.
Allora: carità e pace – persona e società. è il personalismo cristiano con il comunitarismo personalistico – persona e società; nell’orizzonte della carità e della pace, il primato va alla persona, colta però nella sua dimensione sociale, ma anche nella sua, appunto, esclusiva individualità, colta nella sua originaria, naturalissima dimensione sociale.
Vi è una terza parola-chiave che è sempre comprensiva di altre: comunità – cultura – dialogo interculturale.
Vi è una quarta parola-chiave: bene comune – politica – democrazia.
Vi è una quinta parola-chiave: educazione e spiritualità.
Vi è una sesta parola-chiave: uomo – donna – famiglia – generazione – matrimonio.
Ancora un’altra parola-chiave: lavoro – proprietà – destinazione universale dei beni.
Vi è un’altra parola-chiave, forse tra le più ricorrenti nel lessico, nel glossario della dottrina sociale della Chiesa, è: solidarietà e sussidiarietà.
Vi è un’altra parola-chiave che è bioetica e biotecnologia, e a ultimo: giustizia e speranza.
La giustizia non raggiunta consente comunque d’essere attesa e conseguita mediante la speranza.
Ecco, sono alcune osservazioni, ripeto sempre introduttive, ma comunque di fondamento.
3° LEZIONE 13.03.03
Vi è una riflessione che favorisce e consente di coniugare storia e attualità della dottrina sociale della Chiesa ed è una riflessione che qui propongo sempre introduttivamente, dalla quale poi ci distanziamo per compiere quel percorso storico che dalla fine dell’800, dalla Rerum novarum, perviene alla Centesimus annus.
Però mi pare sempre particolarmente proficuo ed efficace muovere i primi passi delle nostre lezioni da una sollecitazione che qui viene appunto dall’attualità………., proprio perché a me pare che la dottrina sociale della Chiesa abbia in sé una potenziale e perenne attenzione al presente e certamente anche al futuro.
Qualche anno orsono il Pontificio Consiglio Iustitia e Pax promosse una cosiddetta assemblea generale plenaria sul tema: “La dottrina sociale al servizio della nuova evangelizzazione”. I lavori di tale assemblea furono introdotti da un noto studioso di dottrina sociale della Chiesa - anche autore di un manuale di dottrina sociale della Chiesa, una sintesi appunto di dottrina sociale della Chiesa – che è (questo specialista) il gesuita Hervè Carier; un gesuita che è stato anche preside della facoltà di Scienze sociali della Gregoriana, e l’introduzione di Padre Carier significativamente è intitolata: Nuova evangelizzazione e dottrina sociale della Chiesa.
Cito solo l’esordio, più un breve commento di tale relazione: “Per molti nella Chiesa la dottrina sociale è ancora appannaggio degli specialisti, e non è chiaro che un insegnamento sociale appartiene alla pastorale della Chiesa”. Riteniamo che la difficoltà si risolva laddove si entri appunto nello spirito della cosiddetta nuova evangelizzazione. Il rinnovamento dell’evangelizzazione è indubbiamente uno dei migliori frutti del Concilio Vaticano II e i Pontefici del post-concilio ne hanno fatto il tema centrale del loro messaggio agli uomini e alle società di oggi. Dunque in tale prospettiva – nuova evangelizzazione – la stessa dottrina sociale della Chiesa si è rinnovata e si rivela con ancora maggiore evidenza come elemento caratterizzante la stessa nuova evangelizzazione.
Voi sapete che dall’idea, dal concetto di nuova evangelizzazione sono state proposte molteplici definizioni; ve ne è una particolarmente classica che è quella espressa da Giovanni Paolo II rivolgendosi al CELAM (Conferenza Episcopale Latino-Americana), laddove il Papa parlò di “nuova evangelizzazione”; sottolineando l’espressione de termine “nuova”, il Papa dice: “è nuova nel suo ardore, nuova nei suoi metodi, nuova nella sua espressione”.
Evidentemente il Vangelo è sempre nuovo; oggi però la novità si manifesta in una duplice esigenza di conversione delle coscienze delle persone, delle mentalità, dei comportamenti e delle culture. La nuova evangelizzazione potremmo subito osservare che rimarrebbe incompiuta senza una trasformazione in profondità degli atteggiamenti, delle opzioni esistenziali, delle scelte di vita, dei valori dominanti e delle culture. Ecco perché, secondo l’insegnamento i Paolo VI, la fede deve farsi cultura per essere operante e per trasformare l’intera società.
L’inculturazione del Vangelo (per usare un’espressione, direi, attualissima), l’innesto del seme evangelico nelle culture contemporanee – con l’avvertenza che anzitutto un’esigenza primaria dell’innesto del Vangelo è il rispetto delle culture, delle tradizioni, evidentemente però un rispetto che non rinunci alla criticità che il Vangelo presenta ed esprime nei confronti delle stesse culture – bene, l’inculturazione del Vangelo non può non fare i conti appunto con le problematiche, con i contenuti, con le esigenze proprie della dottrina sociale della Chiesa. La dottrina sociale della Chiesa – essa stessa – è fortemente interrogata, è fortemente interpellata appunto dalla inculturazione del Vangelo.
Evidentemente l’inculturazione del Vangelo – cioè quest’opera di dialogo con le culture contemporanee, e questa opera di dialogo tra virgolette “critico”, anche proprio per la, come potrei dire, valenza profetica che il Vangelo ha inesorabilmente insita in sé – bene, l’inculturazione del Vangelo in realtà parla il linguaggio stesso della dottrina sociale della Chiesa, perché, a fare i conti, si misura evidentemente con contesti sociali, con problemi sociali, con esigenze sociali. L’espressione “sociale” è ampiamente comprensiva di mentalità e comportamenti, di assetti politici e sistemi economici. Ora, l’inculturazione del Vangelo è reciprocamente interrogativa, cioè interroga le culture, dialoga con le culture, ma interroga il Vangelo sociale, la dottrina sociale, cioè chiede alla dottrina sociale di declinarsi nelle culture contemporanee, sempre, ripeto, con quella riserva critica; quindi non è una declinazione incondizionata, acritica, “sic et simpliciter”, assumendone “in toto” i connotati di queste culture. Esercita criticamente un proficuo vaglio, ma compie una scelta libera di un proprio innesto dei problemi, dei contenuti, delle dinamiche.
Questo mi pare estremamente importante; qui avrei evidentemente, se il tempo me lo consentisse, ampie documentazioni per poter annotare, per osservare, per appuntare questo nesso forte e decisivo tra nuova evangelizzazione e dottrina sociale della Chiesa. Mi premeva però fare almeno un cenno a questo problema, a questa dinamica propria.
Allora, tutto questo implica per la dottrina sociale della Chiesa un nuovo o rinnovato dinamismo; cioè, io ribadisco sempre (parrà quasi banale, quasi didascalico, questo cenno), ma la dottrina sociale della Chiesa comincia dopo, come potrei dire, la promulgazione di un documento, non come spesso per il passato si pensava, si esaurisse con la redazione di un documento, la Centesimus annus, la Sollicitudo rei socialis, cioè era la sua declinazione, la sua coniugazione nel presente,………………soprattutto nelle culture.
Allora, il tema, la questione è nodale, perché investe la grande, definiamola così un po’ giornalisticamente, partita del rapporto tra fede e cultura; sempre con quella accezione di cultura tipicamente conciliare, antropologicamente intesa. Il modo di pensare, il modo di agire di conseguenza dell’uomo: questa è cultura.
Ci sono evidentemente mille definizioni di cultura; vi è un dizionario, addirittura, coordinato dal Cardinale P. Poupard, che raccoglie una silloge di definizioni di cultura, ma quella abbastanza frequente è appunto quella più propriamente antropologica. A questo riguardo, citando Padre Carier, mi piace cogliere un elemento, a mio avviso davvero suggestivo, quasi affascinante: “Bisogna cogliere – scrive Padre Carier – l’intuizione nuova che conferisce quel proprio peculiare dinamismo alla nuova evangelizzazione delle culture. L’aspetto essenziale è la conversione delle culture come tali, è la cristianizzazione dell’ethos dei popoli, come pure delle coscienze. In breve è la risposta di Cristo ai grandi problemi del tempo presente, le cui culture sono in ogni parte del mondo profondamente sconvolte dai grandi incessanti mutamenti che mettono in crisi tutti i valori e tutte le istituzioni. Evidentemente – conclude – un fatto così rilevante, di importanza epocale esige un nuovo tipo di evangelizzazione, cioè esige una evangelizzazione”.
Potremmo dire che esige una rinnovata e nuova dottrina sociale della Chiesa, una capacità innovativa, appunto di questa componente propria del pensiero e della prassi ecclesiale.
Ma per meglio comprendere, appunto, queste sfide del presente alla dottrina sociale della Chiesa, vediamo di ripercorrere questo itinerario più che secolare.
Per ragioni didattiche quando parliamo di dottrina sociale ella Chiesa, di insegnamento sociale della Chiesa, intendiamo direi, correntemente appuntare la nostra attenzione ai quei documenti cardine del Magistero Pontificio, cioè i classici pronunciamenti che dalla Rerum novarum alla Centesimus annus si sono succeduti nel tempo. In realtà il Vangelo sociale è antico quanto il suo fondatore, quanto il suo primo ispiratore, e quanto l’esperienza cristiana dalla primitiva comunità apostolica, appunto, è stata in grado di rivelare ed esprimersi.
Quindi evidentemente la dottrina sociale della Chiesa nasce di gran lunga prima della Rerum novarum; deve molto al pensiero cristiano nel tempo e deve molto a pensatori e testimoni.
Un grande pensatore che ha espresso un grande insegnamento sociale è, ad esempio, Tommaso d’Aquino.
Un grande “testimone” è, ad esempio (lo abbiamo già citato nella nostra prima lezione), Giuseppe Toniolo.
Uomini, scuole di pensiero, riflessioni teologiche, esperienze storiche del cosiddetto cattolicesimo sociale, appartengono a diversi livelli, appunto, alla storia della dottrina sociale della Chiesa, al lungo corso nel tempo della dottrina sociale della Chiesa. Tuttavia, non v’è dubbio che gli apporti più autorevoli, evidentemente, per un verso, e più efficaci, rimangono i grandi documenti sociali dei successori di Pietro, dalla Rerum novarum (15.05.1891) alla Centesimus annus (01.05.1991).
Se è vero che l’attenzione della Chiesa per le questioni sociali e i problemi economici si è sempre espressa con modalità differenziate, tuttavia uno dei mezzi privilegiati di intervento è stato, appunto, nei tempi recenti, il Magistero dei Pontefici. Alcuni di questi interventi suscitarono una vera e propria svolta nell’approccio della Chiesa ai problemi sociali. Talvolta si trattò di una svolta epocale, dirompente.
Si pensi al peso esercitato dalla Rerum novarum, dalla Quadragesimo anno di Pio XI nel 1931, dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII del 1963.
Altri documenti, invece, del Magistero Pontificio costituirono prevalentemente l’approfondimento o la prosecuzione, il prolungamento nel tempo, della dottrina conferita nelle encicliche maggiori e precedenti, oppure “aggiornarono” storicamente l’applicazione alle mutate situazioni del tempo.
Dunque, come osserva allora la Sollicitudo rei socialis – cioè l’enciclica di Giovanni Paolo II del 1987, a vent’anni dalla Populorum progressio – “l’insegnamento sociale della Chiesa, mentre da un lato è caratterizzato dalla continuità, nel senso che questo insegnamento si mantiene identico nella sua ispirazione di fondo, nel suo vitale collegamento con l’Evangelo, d’altro lato è caratterizzato dalla novità”.
Perché? Perché è un atteggiamento soggetto agli inesorabili incessanti mutamenti che le condizioni storiche prevedono. Al tempo stesso è dinamico perché partecipa dei crescenti, ulteriori, progressivi approfondimenti dottrinali, anche di carattere evidentemente ecclesiologico; anche di carattere biblico; anche di carattere teologico-morale; ma anche di carattere scientifico.
Qual è oggi, come è avvenuto negli ultimi 30/40 anni, il Pontefice che elaborando un nuovo pronunciamento, un nuovo documento, un nuovo intervento di dottrina sociale della Chiesa, ignorasse l progresso delle scienze sociali?
Per scienze sociali, intenderei, le scienze umane in senso lato, dall’economia alla sociologia, ma anche dalla filosofia alla pedagogia; ma ancor più le scienze bio-tecnologiche.
Dunque, evidentemente, è l’apporto della scienza che può recare sempre più, oggi, nella ricerca degli studiosi, anzitutto credenti che si interrogano costantemente anche non solo in termini……………, ma in termini di coscienza personale cristiana, sul significato e valore della loro ricerca: che questa non sia finalizzata interamente al profitto. è evidentemente una intenzionalità, una scelta di campo che gli studiosi cristiani sono oggi sempre più chiamati a compiere.
Bene, ora dunque a questi documenti pontifici intendiamo porgere la nostra attenzione e riprendere quella felice immagine già, appunto espressa, di Paolo VI nell’enciclica programmatica del suo pontificato “Ecclesiam suam” el 1964, laddove si parla, appunto, di una Chiesa che potrebbe prefiggersi:
PRIMO – di ridurre al minimo i rapporti con la società, cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società…………, come potrebbe proporsi di rilevare i mali anatemalizzandoli, condannandoli, stigmatizzandoli e rifuggendo: “la cittadella assediata”.
Una SECONDA però grande stagione del cammino della Chiesa potrebbe invece tanto avvicinarsi – la Chiesa alla società…………… - ma cercare di prendervi influsso preponderante, o anche di esercitarvi un dominio teocratico, cioè l’identificazione con il mondo, per usare un’espressione evidentemente ricorrente.
TERZO – lo dico io, è un’immagine triplice. “Sembra a noi invece – conclude Papa Montini – che il rapporto ella Chiesa con il mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa meglio raffigurarsi in un dialogo”.
Ebbene, rileggendo criticamente e in modo sistematico i documenti sociali del Magistero Pontificio, possiamo osservare come la Chiesa nell’ultimo secolo – nel corso del ‘900 – a partire dalla Rerum novarum, ha teorizzato, ma anche successivamente sperimentato tutte e tre queste forme o immagini o stagioni. E ciò è stato allo stesso tempo causa e effetto dell’approfondimento, dell’elaborazione e dell’evoluzione della dottrina sociale della Chiesa; cioè questi tre momenti, queste tre stagioni, questi tre atteggiamenti, questi tre modi di pensarsi e di essere, di concepire la propria missione e la propria testimonianza, da parte della Chiesa, sono stati originati, generati dalla dottrina sociale della Chiesa e dalla sua evoluzione, ma al tempo stesso hanno generato una vera e propria evoluzione nella dottrina sociale della Chiesa: una vera e propria reciprocità. Ora il nostro intento, sinteticissimamente, è appunto quello di ripercorrere queste tre stagioni.
Leone XIII pubblicando nel maggio del 1891 la Rerum novarum rompe l’isolamento in cui la Chiesa si era chiusa all’indomani del profilarsi dell’età moderna - sostanzialmente diciamo dal tardo ‘500, dalla Riforma protestante – e con questa enciclica lancia un ponte verso il mondo; il mondo moderno è un mondo che nasce fuori, in certo senso nasce contro la Chiesa.
(Sono schematico e sintetico; quindi queste espressioni, evidentemente, andrebbero esplicitate, spiegate).
è un mondo “laico”, a prescindere dalla Chiesa (laico lo dico tra virgolette), che anzitutto tende a togliere alla Chiesa antichi privilegi, prerogative consoliate; non solo, ma combatte e tenta di estirpare dalla società perfino l’idea di religione, e questo tentativo o questo intento, in parte riuscito e in parte non riuscito, (Qui evidentemente spetta alla storiografia meglio capire, definire e spiegare) lo fa però grazie ad una serie di strumenti argomentativi, prevalentemente gli strumenti del pensiero filosofico, speculativo.
Evidentemente l’allusione che non può sfuggire è all’illuminismo, al razionalismo, al teismo. è un mondo che esalta il primato della ragione umana, fino a proclamare la ragione dea, che fa della libertà di pensiero e di coscienza una bandiera contro la fede religiosa, declassata a mero , puro dogmatismo.
Di fronte a “ questo attacco” la Chiesa reagisce. Come reagisce? Rinchiudendosi in se stessa, chiudendosi a riccio in se stessa, erigendo elle mura altissime, invalicabili. Lancia anatemi; si difende scomunicando in blocco il mondo moderno e soprattutto il progresso e i suoi valori. Quando dico – in questo contesto concettuale e lessicale – progresso, valori laici, lo dico tra virgolette; in realtà si tratta di verificare quanto realmente e fino a che punto fossero valori per l’uomo; quanto in realtà fosse autentico progresso è tutto da definire, ma non è questa la sede e il momento di rispondere a questi interrogativi.
Per avere appunto un’idea del clima e della implosione, del rinserrare le fila, dello scontro e della crociata che nel corso dell’800 dominano ancora i rapporti tra Chiesa e mondo, appunto, vale la citazione, che se non vado errato ho già fatto, dell’enciclica programmatica di Gregorio XVI del 1832, l’enciclica “Mirari vos”, contro quella “pessima – cito – e mai abbastanza esecrata, aborrita, libertà della stampa”, o contro “quella – cito – assurda ed erronea sentenza o piuttosto deliramentum (deliro) che si debba ammettere e garantire per ciascuno la libertà di coscienza”. Se voi pensate che esiste uno splendido documento del Vaticano II sulla libertà di coscienza: per dire quanta acqua sotto i ponti è corsa!
Per non parlare poi del notissimo “Sillabo” del 1864, destinato, a torto o a ragione, a restare il simbolo, l’emblema della drammatica rottura tra Chiesa e mondo moderno. “Sia condannato”, si legge nell’ottantesima proposizione – sapete che il Sillabo (Syllabus vuol dire elenco) elenco di 80 proposizioni, proprie della dottrina liberale che la Chiesa condanna nel 1864 – Pio IX condanna con l’ottantesima proposizione chiunque osi affermare che – cito: “Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi con il progresso, con il liberalismo e con la civiltà moderna”. è da intendersi, peraltro, Pontefice=Chiesa: c’è una piena identificazione.
Una prima osservazione su questa prima stagione: nonostante tutto non pare obiettivo né storicamente legittimo, direi, ignorare quanto “bene” la Chiesa abbia compiuto nei secoli, anche nei secoli propri in cui si era rinserrata, quale cittadella assediata sulla rocca.
Si pensi, ad esempio, al fiorire straordinario, dalla Riforma protestante, dalla Riforma cattolica, al fiorire straordinario di innumerevoli, creative, geniali, opere di carità, di assistenza, di educazione, soprattutto nei confronti degli ultimi; si pensi, ad esempio, alla promozione umana mediante l’azione missionaria di intere popolazioni, grazie appunto a questo coraggio evangelizzatore; si pensi alle straordinarie, altrettanto, figure della santità cristiana, ai grandi apostoli dell’educazione, della carità, nonostante, ripeto, questa concezione, nonostante questa ecclesiologia.
La Rerum novarum, dunque, proprio per questo è un’enciclica di rottura; è un’enciclica che supera l’atteggiamento, quello stile di cittadella assediata, arroccata sulle difensive, e affronta con coraggio e con apertura, appunto, quella che per il tempo (1891) era la questione sociale, la questione operaia. E che dunque testimonia, sperando ogni forma di crociata e di anatema, testimonia una acuta, sofferta attenzione ai problemi drammatici del mondo moderno, del mondo proprio di questa incipiente industrializzazione.
Sul finire dell’800, a tutti è noto che la questione sociale, sorta con la rivoluzione industriale, si identifica soprattutto con il dramma e i problemi del proletariato. Si ricerca la soluzione in una visione sistematica e globale delle grandi ideologie proprie ell’800: il liberalismo e il marxismo. All’una visione e all’altra visione, la Rerum novarum oppone la visione, appunto, della cosiddetta filosofia perenne, fondata su che cosa? Sul diritto naturale e sulla rivelazione cristiana; sono i due fondamenti della dottrina sociale della Chiesa, secondo la Rerum novarum: il diritto naturale e la rivelazione.
Nasce, dunque, la dottrina sociale della Chiesa, anche se Leone XIII non usa mai esplicitamente questo termine. Nasce, dunque, quel “corpus” dottrinale, organico, sistematico, quella “summa” di tesi, di proposizioni, di riflessioni; dedotto questo “corpus” dottrinale dai massimi principi dell’etica naturale e dalla rivelazione, che avrebbe dovuto essere in grado di dare tutte le risposte possibili a tutti gli interrogativi che le venivano appunto dalla questione sociale, dalla urgente e drammatica questione sociale. Si badi bene: tutte le risposte a tutti gli interrogativi, cioè questa pretesa di esaustività, di compiutezza e di definitività.
Riletta, oggi, ad oltre un secolo, la Rerum novarum appare ancora in tutta la sua forza e vigore dirompente, se rapportata evidentemente al contesto storico di fine ‘800. Ovviamente essa però è irrimediabilmente datata, cioè appartiene ad una stagione e , di fatto, per quella stagione, fu profetica. è datata, non solo perché la situazione economica, sociale e politica internazionale e mondiale è completamente mutata, ma anche per l’impostazione stessa data dalla Chiesa ai propri interventi in materia sociale, ma anche per l’ecclesiologia stessa della Chiesa. La Chiesa, oggi, mai penserebbe di proporsi in termini di esaustività, di definitività, soprattutto su di un terreno, appunto, come quello sociale.
La Rerum novarum affronta dunque la questione operaia quasi fosse una questione di principio, quasi fosse una questione filosofica, ideologica, e dunque la soluzione dove la trova? La trova a priori, cioè la deriva, l’attinge a principi immutabili e teorici, facendo poco o nessun conto dei risultati, seppur modesti del tempo, delle scienze sociali, della ricerca sociologica (si pensi che Giuseppe Toniolo era professore ordinario di sociologia a Pisa – quindi le scienze sociali avevano già acquisito una loro dignità scientifica, una loro autonomia disciplinare, una loro plausibilità), ma ripeto, attingendo dai massimi principi filosofici, ideologici, teorici; da quei immutabili principi che avrebbero dovuto illuminare, rischiarare l’orizzonte sociale economico, drammatico del tempo.
A queste analisi la Rerum novarum, alle analisi di carattere storico, che in realtà la Rerum novarum non compie, alle analisi invece che la sociologia sarebbe stata in grado di compiere, la Rerum novarum oppone una “dottrina compiuta”, definitiva, la cui elaborazione è ritenuta compito esclusivo dei Pastori, della gerarchia, giammai del laicato. Trattandosi di dedurre la soluzione del conflitto sociale, della dialettica tra, appunto, imprenditori, padroni e proletariato, la soluzione di tale conflitto era, secondo la Rerum novarum, deducibile dal diritto naturale e dalla rivelazione cristiana. In questa ottica, propria della dottrina sociale della Chiesa, i laici non dovevano far altro che attestare finalità esecutiva, agendo in pratica da braccio secolare della gerarchia, nell’assunzione dei problemi temporali.
Evidentemente non c’è ci non veda quanto questi inizi della dottrina sociale della Chiesa siano talmente lontani e quasi incomprensibili per la sensibilità e la cultura del nostro tempo, ma nonostante, e lo ribadisco, questi condizionamenti storici, teologici, culturali del tempo, fu gettato un seme incisivo, dirompente; questo seme gettato da Leone XIII, che si sarebbe dimostrato straordinariamente fecondo, se non addirittura, per il tempo, ma anche per i decenni successivi, rivoluzionario. Non è un caso che certa stampa del tempo etichettò la Rerum novarum come pronunciamento, documento socialista (non esisteva ancora il partito comunista).
Dunque vi è un elemento da non trascurare, che mi pare appartenga alla perennità della dottrina sociale della Chiesa, e che merita anzitutto di essere annotato: il riconoscimento della necessità di mediare tra etica e prassi sociale, tra fede e storia,…………………… alcuni fondamentali orientamenti operativi.
Il limite allora, però, della Rerum novarum fu di ritenere che questa mediazione spettasse solo alla gerarchia; ma ora grazie al progresso ecclesiologico, evidentemente, molto è affidato alle scienze, alle scienze sociali, alle competenze proprie scientifiche e professionali dei laici, dei cosiddetti fedeli laici.
Vi è dunque questo carattere inaugurale, e questo carattere, per il tempo, dirompente. Questa, soprattutto, capacità della Chiesa di avviare un dialogo con il mondo, di superare barriere apparentemente insormontabili, mura altissime apparentemente invalicabili; questa è appunto una prima importante stagione.
Quarant’anni dopo, nel 1931, Pio XI promulga appunto la Quadragesimo anno, ricorrendo il quarantesimo anniversario, la nuova enciclica; ma il mondo è mutato. In 40 anni che cosa è avvenuto?
Dal 1917 con la rivoluzione d’ottobre, l’ideologia marxista non è più una mera teoria, non è più una mera dottrina, ma è assunta ad un “sistema” politico ed economico. Al tempo stesso il crollo della Borsa di New York, la conseguente grane depressione, segnano in occidente la smentita storica dell’ideologia liberale capitalista. Anche, dunque, il capitalismo si va trasformando, va mutando le proprie fattezze. La conseguenza è che la questione sociale ormai, a quarant’anni, non si identifica più con la questione operaia, con i problemi di una specifica classe, come ai giorni di Leone XIII.
La questione sociale, a me pare, con sguardo retrospettivo, è dunque divenuta un problema più complesso; è divenuta una questione di modelli economici-politici, e di strutture sociali-nazionali. Lo scenario si è di gran lunga ampliato e diversificato. La Quadragesimo anno di Papa Ratti inaugura un nuovo periodo, una nuova stagione sociale di dottrina sociale della Chiesa, ed è una nuova stagione, diversa dalla precedente. è quella stagione che vede, appunto, secondo l’immagine di Papa Paolo VI nella Ecclesiam suam il forte rischio della “identificazione con il mondo”, cioè la ricerca di una nuova cristianità.
Voi sapete che l’emblema, il simbolo, la cifra complessiva interpretativa del lungo pontificato del Papa milanese (1922-1939, sostanzialmente tra le due guerre, tra un primo sofferto dopoguerra e la vigilia del secondo conflitto mondiale) è della regalità di Cristo. Non è un caso che nel 1921, questo antico anticlericale, iconoclasta, socialista che si converte, che si fa frate, che fugge a Rezzato, Edoardo Gemelli, che si fa frate assumendo il nome di Agostino Gemelli, voglia intitolare la sua università cattolica, del “Sacro Cuore”.
Questa regalità di Cristo, regalità del Cuore di Cristo. Questa ecclesiologia, appunto, propria del “Regnum Christi” in cui c’è veramente questa straordinaria valenza cristologica, questo forte fondamento cristologico, ma anche la consapevolezza di una sovranità. Allora è una sovranità di Cristo, che la Chiesa fa propria; allora c’è una sovranità laica e una sovranità ecclesiale: in fondo Pio XI alle corporazioni fasciste contrappone le corporazioni cristiane. Un’altra società: una “societas” cristiana che si contrappone ad una “societas” laica.
Anche tutto questo va compreso in una lettura seriamente e rigorosamente storica; mai con gli occhi del presente giudicare la storia. Lo storico non è mai un giudice; la storia deve aiutare a capire – l’intelligenza del passato – comprendere, cercare di spiegare, dare elle risposte, ma non giudicare. Non è un tribunale, la storia. Noi usiamo spesso l’espressione “il tribunale della storia”; c’è una strumentalità nell’impiego di questo termine, ma noi dobbiamo capire, cercare di capire.
Bene, dicevamo che cosa è avvenuto, e dunque si inaugura questa seconda stagione; di fronte alle ideologie, alle ideologie di ieri, divenute modelli concreti di organizzazioni sociali ed economiche, il liberalismo classico, il capitalismo; di fronte alle ideologie più recenti, marxismo, comunismo di stato, bolscevismo, ecc… e socialismo reale (chiamiamolo come dir si voglia), anche la Chiesa rinnova il proprio discorso sociale e passa da una prevalente riaffermazione teorica dei principi etici (ricordate qui il primo periodo: il diritto naturale e la rivelazione), passa da questa affermazione teorica alla proposta operativa di una organizzazione della società cristiana, di una organizzazione cristiana della società; da un modello politico cristiano, da un modello sociale cristiano, da un modello economico cristiano.
D’altro canto se voi interrogaste le persone più anziane, delle generazioni dei nostri nonni, vi faceste raccontare che cosa era la “militanza cattolica”, se “noi riprendessimo” il lessico, il linguaggio, i canti del tempo, sono di una ricchezza straordinaria, un inno, direi…………………….. LATO B
per, appunto, le falangi, come vengono definite, questa militanza dell’ Azione Cattolica – falangi di Cristo Redentore, la gioventù cattolica in cammino: questa immagine militare, quasi. D’altro canto, come era avvenuto nell’età della cosiddetta Controriforma, che Ignazio di Loyola fonda secondo un modello militare, tutto spagnolo, la “Compagnia di Gesù” – il Generale – una simbologia, una evocazione molto eloquente.
Bene, allora, di fronte (questa è la Quadragesimo anno) al tentativo della società moderna di legittimare culturalmente, ideologicamente e giuridicamente la via socialista o la via capitalista, Pio XI interviene proponendo una terza via: la via cattolica, alternativa sia al modello marxista, sia al modello liberale.
Di questa terza via, questo modello di società cristiana, la Quadragesimo anno indica perfino la configurazione giuridica: si tratta, spiegherà la Quadragesimo anno, di dar vita ad un ordinamento interno, nazionale ed ad un ordinamento internazionale ispirato, anzitutto, alla giustizia sociale, in grado di coordinare l’attività economica con il bene comune, ricostruendo tra stato e individuo i corpi intermedi a finalità economico professionale, sul tipo libero e spontaneo delle antiche corporazioni medioevali.
Qui si innesta, forse per la prima volta, il principio di sussidiarietà in modo esplicito, e qui sta l grande carattere di novità e di originalità. E in questa ottica Pio XI riprende i grandi temi della Rerum novarum, ma li amplia, li arricchisce, li completa secondo le nuove dimensioni assunte ormai dalla questione sociale, che non è più questione operaia. Parla, ad esempio, di salario giusto; parla di socialismo moderato e riformista; parla di funzione sociale della proprietà privata; parla dell’intervento dello Stato in economia, fronte, ad esempio, della totale neutralità che il modello liberale classico assegnava allo Stato: qui invece si parla di necessità dell’intervento dello Stato in particolari frangenti e circostanze.
Bene, a distanza di oltre 70/80 anni dalla Quadragesimo anno, anch’essa mostra, inevitabilmente, con i propri caratteri innovativi, i propri limiti, che caratterizzano anche questa seconda fase della dottrina sociale della Chiesa. Forse il limite di fondo non fu tanto quello di aver proposto, come terza via, il modello di una società cristiana “corporativa”, che non aveva nulla da spartire con il corporativismo fascista, del quale anzi costituiva una critica sottile e radicale, al punto che Mussolini fece pervenire tramite, appunto, una nota diplomatica, il proprio forte disappunto all’indomani della Quadragesimo anno.
Forse il vero limite della Quadragesimo anno fu di credere nella possibilità teorica e pratica di restaurare tra Chiesa e società profana quei medesimi rapporti, seppur aggiornati, che furono alla base dell’esperienza medioevale di cristianità, quella alleanza tra trono e altare, tra impero e Chiesa. Dunque una nostalgia della “societas” cristiana, che evidentemente, ai nostri occhi oggi, mostra un evidente anacronismo.
Peraltro già nella sua enciclica programmatica, a pochi mesi dalla sua elezione, nel 1922, nella Ubi arcano, Pio XI rivendica alla Chiesa l’immagine di società perfetta; e rivendica alla Chiesa, società perfetta, il diritto e il dovere di governare le altre società civili. Scrive nella Ubi arcano Pio XI: “Alla Chiesa di Gesù Cristo va riconosciuto il posto che Egli stesso le assegna nella società umana, dandole forma e costituzione i società, in ragione del suo fine; società perfetta, maestra e guida elle altre società, tutte quante”. Così con Pio XI il concetto, l’idea, il termine di dottrina sociale della Chiesa, entrano ufficialmente a far parte dei testi del Magistero: Pio XI adotta il termine di dottrina sociale.
La Quadragesimo anno la definisce come “l’insegnamento della Chiesa sulle materie sociali ed economiche” – al n. 20 – la cui elaborazione è un passo in avanti, la cui elaborazione a chi spetta? Alla gerarchia, ai Pastori. L’azione sociale invece tocca ai fedeli laici. In questa distinzione vi è “in nuce” il riconoscimento, ben più ampio, che il Concilio farà dei compiti propri della missione dei laici. Ma siamo ancora evidentemente molto lontani dall’acquisizione del principio di legittima autonomia dell’impegno temporale delle realtà terrene. Nell’azione sociale, secondo Pio XI, i fedeli laici svolgono un ruolo prevalentemente passivo, di esecutori delle direttive dell’autorità ecclesiastica, “essendo – dice al n. 152 l’enciclica Quadragesimo anno – ausiliari della Chiesa”, cioè la fanteria della Chiesa, le truppe che scendono in campo dopo che l terreno è stato spanato, è stato indicato, è stato tracciato.
Tuttavia, aldilà di questi limiti evidenti, storici, non v’è dubbio che l’enciclica di Papa Ratti fece compiere un passo innanzi rilevante e significativo. Pio XI ha certamente uno sguardo, potremmo dire davvero chiaroveggente, quando innovando in continuità con il Magistero precedente, insiste fortemente – questo è un aspetto estremamente interessante, che fa molto riflettere – sulla necessità di sottrarre l’economia al gioco automatico del mercato del profitto. Quando, ad esempio, ribadisce la necessità della programmazione economica, che orienti la libera iniziativa: ma dove? Verso il bene comune, affinché siano tutelate anzitutto la libertà e la dignità dell’uomo.
E desta certamente una favorevole sorpresa vedere che già nel 1931 la Quadragesimo anno auspica quelle che noi oggi chiamiamo le cosiddette riforme strutturali. Non solo a livello nazionale, ma anche a livello di strutture di impresa, di azienda; parla di riforme di struttura. Così, per esempio, l’enciclica sostiene che in determinate circostanze può essere doveroso limitare l’esercizio del diritto di proprietà, nel possesso e nella gestione delle attività e dei beni, che lasciate esclusivamente in mano privata potrebbero trasformarsi in danno per l bene comune.
Sempre la Quadragesimo anno accetta il principio della espansione dell’impresa pubblica, che per il passato era solo ed esclusivamente privata. L’espansione dell’impresa pubblica, perché sia salvaguardata l’iniziativa dei singoli e si vada sempre più nella direzione della partecipazione dei lavoratori all’impresa. Sono alcuni esempi, ma bastano certamente a dare l’idea dei passi avanti compiuti, dell’evoluzione, dell’elaborazione ulteriore, anche in questa stagione di cosiddetta “nuova cristianità”, in questa stagione in cui viene proposta una terza via tra capitalismo e marxismo.
Potremmo dire che il successore di Pio XI – Papa Pacelli che succede a Pio XI come Pio XII nel 1939, che per altro non pubblica nessuna enciclica sociale, ma solo pronuncia un radiomessaggio a 50 anni dalla Rerum novarum, quindi nel 1941 (siamo in piena II° guerra mondiale) – bene, Pio XII potremmo sinteticamente dire che rimane all’interno di questa seconda stagione, all’interno di questa terza via. E questa terza via, e questa seconda stagione, quando si conclude? Si conclude con la fine del ’58, del pontificato di Papa Pacelli, con l superamento definitivo di questo progetto di nuova cristianità.
Questo progetto avrà, come sapete, il suo teorico più acuto e più appassionato nel pensatore francese J. Maritain.
Papa Pacelli, appunto, non scrive encicliche, ma resta di lui un famoso radiomessaggio, tutto dedicato a ribadire i principi dell’etica cristiana sull’uso dei beni, sul lavoro, sulla famiglia, sul bene comune. Il radiomessaggio del 1941 è un radiomessaggio che appartiene a “tutto tondo”, completamente alla dottrina sociale della Chiesa; però anche altri radiomessaggi lambiscono questi problemi, questi terreni.
Siamo alla terza stagione, al terzo periodo; evidentemente l’apporto più decisivo, più dirompente, viene proprio dal Concilio Vaticano II. è caratterizzato da alcune essenziali acquisizioni; acquisizioni di dottrina e acquisizioni di metodo che, possiamo definire, provocano una vera e propria svolta nella dottrina sociale della Chiesa, nel suo cammino storico, nella sua evoluzione. Abbiamo già i primi sintomi alla vigilia del Concilio: i primi sintomi di questa svolta si possono cogliere nell’enciclica di Giovanni XXIII, Mater et Magistra el 1961, per i 70 anni della Rerum novarum. Quanto al contenuto il documento non si distanzia essenzialmente dai documenti, dalle encicliche sociali precedenti, soprattutto dalla Quadragesimo anno, ma evidentemente vi è qualche evidente passo innanzi.
La questione sociale, ancora una volta, anzitutto è mutata: lo scenario è mutato. Non solo, ora la questione sociale supera il conflitto tra due classi, padronato e proletariato, ma si è fatta assai più complessa; supera quel confronto tra sistemi economici nazionali che avevano caratterizzato, appunto, tra occidente e paesi dell’Est, potremmo dire, un periodo precedente. Ormai è in discussione anzitutto l’equilibrio del mondo, fra Nord e Sud: è esploso il problema demografico. Il terzo mondo chiede giustizia e sviluppo; dunque si impone un nuovo ordine internazionale.
Di fronte a queste sfide l’enciclica Mater et Magistra offre risposte che oggi appaiono evidentemente legate a situazioni contingenti, del tempo, e dunque ormai situazioni ampiamente superate. Ma la Mater et Magistra – questo è l’aspetto che mi preme evidenziare – non è solo questo. Accanto ad alcuni elementi dottrinali ed alcune rilevazioni economiche, sociali e politiche superate, vi è nel documento una nuova, inedita sensibilità, che per molti aspetti anticipa e prepara, predispone quella svolta metodologica della Chiesa del Concilio.
Anzitutto Giovanni XXIII, parlando di dottrina sociale della Chiesa, non intende solo ed esclusivamente quanto i suoi predecessori intendevano. La Mater et Magistra propone esplicitamente un modo diverso di approccio della Chiesa alla questione sociale, non più ricorrendo al cosiddetto metodo deduttivo, dei principi teorici. Dal diritto naturale, dalla rivelazione, ci si proietta, si scende, si deduce da quelli: quindi, non più ricorrendo al metodo deduttivo, che appunto consisteva nel derivare direttamente dai sommi principi del diritto e della rivelazione, un modello di “societas” cristiana, una terza via alternativa ad altri modelli ideologici. Il vecchio Giovanni XXIII introduce il metodo induttivo, in cui i tre momenti essenziali sono:
1° (e lo dice l’enciclica) – rilevazione delle situazioni;
2° - valutazione di queste alla luce dei principi evangelici e del Magistero ecclesiale;
3° - ricerca e determinazione di quello che si può e di quello che si deve fare.
è, insomma, la modalità propria del vedere, del giudicare e dell’agire che fece storia per lungo tratto, anche della nostra vita ecclesiale.
Ma due anni dopo, Papa Roncalli, applica egli stesso il nuovo metodo, e lo applica in quella enciclica, quasi l’enciclica ella morte, nel 1963, la Pacem in terris, laddove esplicitamente si affida a quella splendida intuizione che ha fatto veramente storia epocale: “i segni dei tempi”
Il punto di partenza della Chiesa nell’approccio alle questioni sociali non è più dunque costituito dal diritto naturale, dalla rivelazione; certo, la Parola di Dio, la Scrittura, l’insegnamento del Magistero restano un punto ineludibile, essenziale di riferimento per interpretare le sfide poste alla fede dalle trasformazioni, dai mutamenti e per illuminare le scelte da compiere. Non più però nel senso deduttivo, ma all’interno appunto del nuovo metodo; anzitutto vedere, osservare, rilevare, quindi giudicare, valutare criticamente e terzo, di conseguenza, agire, operare. Quindi si parte dalla realtà, dalla storia, dal presente, dalle sfide: un capovolgimento, un giro di boa significativo.
Questo medesimo metodo avrà il suo terreno privilegiato di esplicazione, di applicazione, di reale misura, dove? Nelle pieghe delle riflessioni proprie del Vaticano II, e in quel documento conclusivo, nella, appunto, Costituzione pastorale Gaudium et Spes, il cui grande (come potrei dire) autore è anzitutto la dottrina dell’Episcopato, ancor prima dei Padri conciliari, ed evidentemente Paolo VI.
E qual è l’enciclica che sperimentalmente vedrà applicata questa nuova sensibilità, questa nuova cultura, questa nuova attenzione, questa nuova intuizione? Evidentemente la prima grande enciclica sociale di Papa Paolo VI: la Populorum progressio, a due anni dal Concilio Vaticano II, quindi nel 1967.
Voi sapete che il Concilio chiude i battenti all’Immacolata del 1965 – l’8 Dicembre – con quei bellissimi messaggi, che il Santo Padre consegna all’umanità e visibilmente affida ad alcuni uomini e donne; significativi, appunto, quelli ai pensatori, affidato alle mani di J. Maritain.
Qualche anno dopo, lo stesso Paolo VI nella Octogesima adveniens, scritta nel 1971, per l’ottantesimo della Rerum novarum, giunge a codificare, a definire, potremmo dire, autoritativamente, magisterialmente, cioè dalla cattedra dell’apostolo Pietro, giunge a definire in modo ufficiale l’adozione del metodo induttivo in materia di insegnamento sociale della Chiesa. Voi sapete che Paolo VI usava frequentemente il termine “insegnamento sociale” non “impegno sociale”
Bene, questa è una splendida immagine da scolpire nei vostri appunti: vale a dire, nell’Octogesima adveniens, Paolo VI scrive testualmente: “Spetta” (qui immaginate la Ubi arcano, immaginate il Sillabo, immaginate la Mirari vos, che sono anni luce di distanza, lontani), Paolo VI dice: “Spetta (nella Octogesima adveniens del 1971) alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese – qui percepisce anche la differenziazione dei contesti culturali, sociali, politici ed economici – chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio, direttive di azione dell’insegnamento sociale della Chiesa; individuare con l’assistenza dello Spirito Santo, in comunione con i Pastori, in dialogo con i fratelli cristiani (non cattolici; cristiani, ecumenici) e con tutti gli uomini di buona volontà (e quindi anche con i non credenti) le scelte e gli impegni che conviene assumere e prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche”.
Veramente è un nuovo, inedito orizzonte che si delinea. Solo la forza di un pensiero, come potrei dire, alimentatosi, consolidatosi nel tempo, che fa pregno a quel cattolicesimo sociale da cui Papa Montini proveniva. Suo padre era stato per 30 anni direttore di un battagliero quotidiano cattolico, bresciano, “Il Cittadino” dal 1881 al 1912; quel quotidiano “Il Cittadino” che sarà soppresso, appiccandovi fuoco, nel 1926 – palazzo San Paolo – dai fascisti locali.
Dimenticavo di dirvi – solo un cenno – che una grande lezione, comunque, la da anche, in materia sociale e politica, l’anziano Giovanni XXIII, quando compie quella lucida distinzione tra ideologie e movimenti storici, volendo – per taluni versi – salvare le persone. “L’ideologia può essere atea – dice – ma il movimento storico è costituito da persone”, e queste persone, non necessariamente, appunto, si identificano con le ideologie.
Ora è una distinzione che al momento suscitò evidentemente forti reazioni e che evidentemente, come potrei dire, innescò non poche polemiche. Lo stesso Paolo VI, apparentemente, come potrei dire, compassato, dovrà fortemente “scontrarsi”, imbattersi comunque con forti resistenze e con forti reazioni. La Populorum progressio non riceverà solo plausi, ma riceverà evidentemente anche dissensi. La Octogesima adveniens ancor più della Populorum progressio.
Questo a dire che, in realtà, vi è comunque una valenza profetica, una forza profetica anche in questi grandi e importanti documenti.
3° LEZIONE 13.03.03
Vi è una riflessione che favorisce e consente di coniugare storia e attualità della dottrina sociale della Chiesa ed è una riflessione che qui propongo sempre introduttivamente, dalla quale poi ci distanziamo per compiere quel percorso storico che dalla fine dell’800, dalla Rerum novarum, perviene alla Centesimus annus.
Però mi pare sempre particolarmente proficuo ed efficace muovere i primi passi delle nostre lezioni da una sollecitazione che qui viene appunto dall’attualità………., proprio perché a me pare che la dottrina sociale della Chiesa abbia in sé una potenziale e perenne attenzione al presente e certamente anche al futuro.
Qualche anno orsono il Pontificio Consiglio Iustitia e Pax promosse una cosiddetta assemblea generale plenaria sul tema: “La dottrina sociale al servizio della nuova evangelizzazione”. I lavori di tale assemblea furono introdotti da un noto studioso di dottrina sociale della Chiesa - anche autore di un manuale di dottrina sociale della Chiesa, una sintesi appunto di dottrina sociale della Chiesa – che è (questo specialista) il gesuita Hervè Carier; un gesuita che è stato anche preside della facoltà di Scienze sociali della Gregoriana, e l’introduzione di Padre Carier significativamente è intitolata: Nuova evangelizzazione e dottrina sociale della Chiesa.
Cito solo l’esordio, più un breve commento di tale relazione: “Per molti nella Chiesa la dottrina sociale è ancora appannaggio degli specialisti, e non è chiaro che un insegnamento sociale appartiene alla pastorale della Chiesa”. Riteniamo che la difficoltà si risolva laddove si entri appunto nello spirito della cosiddetta nuova evangelizzazione. Il rinnovamento dell’evangelizzazione è indubbiamente uno dei migliori frutti del Concilio Vaticano II e i Pontefici del post-concilio ne hanno fatto il tema centrale del loro messaggio agli uomini e alle società di oggi. Dunque in tale prospettiva – nuova evangelizzazione – la stessa dottrina sociale della Chiesa si è rinnovata e si rivela con ancora maggiore evidenza come elemento caratterizzante la stessa nuova evangelizzazione.
Voi sapete che dall’idea, dal concetto di nuova evangelizzazione sono state proposte molteplici definizioni; ve ne è una particolarmente classica che è quella espressa da Giovanni Paolo II rivolgendosi al CELAM (Conferenza Episcopale Latino-Americana), laddove il Papa parlò di “nuova evangelizzazione”; sottolineando l’espressione de termine “nuova”, il Papa dice: “è nuova nel suo ardore, nuova nei suoi metodi, nuova nella sua espressione”.
Evidentemente il Vangelo è sempre nuovo; oggi però la novità si manifesta in una duplice esigenza di conversione delle coscienze delle persone, delle mentalità, dei comportamenti e delle culture. La nuova evangelizzazione potremmo subito osservare che rimarrebbe incompiuta senza una trasformazione in profondità degli atteggiamenti, delle opzioni esistenziali, delle scelte di vita, dei valori dominanti e delle culture. Ecco perché, secondo l’insegnamento di Paolo VI, la fede deve farsi cultura per essere operante e per trasformare l’intera società.
L’inculturazione del Vangelo (per usare un’espressione, direi, attualissima), l’innesto del seme evangelico nelle culture contemporanee – con l’avvertenza che anzitutto un’esigenza primaria dell’innesto del Vangelo è il rispetto delle culture, delle tradizioni, evidentemente però un rispetto che non rinunci alla criticità che il Vangelo presenta ed esprime nei confronti delle stesse culture – bene, l’inculturazione del Vangelo non può non fare i conti appunto con le problematiche, con i contenuti, con le esigenze proprie della dottrina sociale della Chiesa. La dottrina sociale della Chiesa – essa stessa – è fortemente interrogata, è fortemente interpellata appunto dalla inculturazione del Vangelo.
Evidentemente l’inculturazione del Vangelo – cioè quest’opera di dialogo con le culture contemporanee, e questa opera di dialogo tra virgolette “critico”, anche proprio per la, come potrei dire, valenza profetica che il Vangelo ha inesorabilmente insita in sé – bene, l’inculturazione del Vangelo in realtà parla il linguaggio stesso della dottrina sociale della Chiesa, perché, a fare i conti, si misura evidentemente con contesti sociali, con problemi sociali, con esigenze sociali. L’espressione “sociale” è ampiamente comprensiva di mentalità e comportamenti, di assetti politici e sistemi economici. Ora, l’inculturazione del Vangelo è reciprocamente interrogativa, cioè interroga le culture, dialoga con le culture, ma interroga il Vangelo sociale, la dottrina sociale, cioè chiede alla dottrina sociale di declinarsi nelle culture contemporanee, sempre, ripeto, con quella riserva critica; quindi non è una declinazione incondizionata, acritica, “sic et simpliciter”, assumendone “in toto” i connotati di queste culture. Esercita criticamente un proficuo vaglio, ma compie una scelta libera di un proprio innesto dei problemi, dei contenuti, delle dinamiche.
Questo mi pare estremamente importante; qui avrei evidentemente, se il tempo me lo consentisse, ampie documentazioni per poter annotare, per osservare, per appuntare questo nesso forte e decisivo tra nuova evangelizzazione e dottrina sociale della Chiesa. Mi premeva però fare almeno un cenno a questo problema, a questa dinamica propria.
Allora, tutto questo implica per la dottrina sociale della Chiesa un nuovo o rinnovato dinamismo; cioè, io ribadisco sempre (parrà quasi banale, quasi didascalico, questo cenno), ma la dottrina sociale della Chiesa comincia dopo, come potrei dire, la promulgazione di un documento, non come spesso per il passato si pensava, si esaurisse con la redazione di un documento, la Centesimus annus, la Sollicitudo rei socialis, cioè era la sua declinazione, la sua coniugazione nel presente,………………soprattutto nelle culture.
Allora, il tema, la questione è nodale, perché investe la grande, definiamola così un po’ giornalisticamente, partita del rapporto tra fede e cultura; sempre con quella accezione di cultura tipicamente conciliare, antropologicamente intesa. Il modo di pensare, il modo di agire di conseguenza dell’uomo: questa è cultura.
Ci sono evidentemente mille definizioni di cultura; vi è un dizionario, addirittura, coordinato dal Cardinale P. Poupard, che raccoglie una silloge di definizioni di cultura, ma quella abbastanza frequente è appunto quella più propriamente antropologica. A questo riguardo, citando Padre Carier, mi piace cogliere un elemento, a mio avviso davvero suggestivo, quasi affascinante: “Bisogna cogliere – scrive Padre Carier – l’intuizione nuova che conferisce quel proprio peculiare dinamismo alla nuova evangelizzazione delle culture. L’aspetto essenziale è la conversione delle culture come tali, è la cristianizzazione dell’ethos dei popoli, come pure delle coscienze. In breve è la risposta di Cristo ai grandi problemi del tempo presente, le cui culture sono in ogni parte del mondo profondamente sconvolte dai grandi incessanti mutamenti che mettono in crisi tutti i valori e tutte le istituzioni. Evidentemente – conclude – un fatto così rilevante, di importanza epocale esige un nuovo tipo di evangelizzazione, cioè esige una evangelizzazione”.
Potremmo dire che esige una rinnovata e nuova dottrina sociale della Chiesa, una capacità innovativa, appunto di questa componente propria del pensiero e della prassi ecclesiale.
Ma per meglio comprendere, appunto, queste sfide del presente alla dottrina sociale della Chiesa, vediamo di ripercorrere questo itinerario più che secolare.
Per ragioni didattiche quando parliamo di dottrina sociale ella Chiesa, di insegnamento sociale della Chiesa, intendiamo direi, correntemente appuntare la nostra attenzione ai quei documenti cardine del Magistero Pontificio, cioè i classici pronunciamenti che dalla Rerum novarum alla Centesimus annus si sono succeduti nel tempo. In realtà il Vangelo sociale è antico quanto il suo fondatore, quanto il suo primo ispiratore, e quanto l’esperienza cristiana dalla primitiva comunità apostolica, appunto, è stata in grado di rivelare ed esprimersi.
Quindi evidentemente la dottrina sociale della Chiesa nasce di gran lunga prima della Rerum novarum; deve molto al pensiero cristiano nel tempo e deve molto a pensatori e testimoni.
Un grande pensatore che ha espresso un grande insegnamento sociale è, ad esempio, Tommaso d’Aquino.
Un grande “testimone” è, ad esempio (lo abbiamo già citato nella nostra prima lezione), Giuseppe Toniolo.
Uomini, scuole di pensiero, riflessioni teologiche, esperienze storiche del cosiddetto cattolicesimo sociale, appartengono a diversi livelli, appunto, alla storia della dottrina sociale della Chiesa, al lungo corso nel tempo della dottrina sociale della Chiesa. Tuttavia, non v’è dubbio che gli apporti più autorevoli, evidentemente, per un verso, e più efficaci, rimangono i grandi documenti sociali dei successori di Pietro, dalla Rerum novarum (15.05.1891) alla Centesimus annus (01.05.1991).
Se è vero che l’attenzione della Chiesa per le questioni sociali e i problemi economici si è sempre espressa con modalità differenziate, tuttavia uno dei mezzi privilegiati di intervento è stato, appunto, nei tempi recenti, il Magistero dei Pontefici. Alcuni di questi interventi suscitarono una vera e propria svolta nell’approccio della Chiesa ai problemi sociali. Talvolta si trattò di una svolta epocale, dirompente.
Si pensi al peso esercitato dalla Rerum novarum, dalla Quadragesimo anno di Pio XI nel 1931, dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII del 1963.
Altri documenti, invece, del Magistero Pontificio costituirono prevalentemente l’approfondimento o la prosecuzione, il prolungamento nel tempo, della dottrina conferita nelle encicliche maggiori e precedenti, oppure “aggiornarono” storicamente l’applicazione alle mutate situazioni del tempo.
Dunque, come osserva allora la Sollicitudo rei socialis – cioè l’enciclica di Giovanni Paolo II del 1987, a vent’anni dalla Populorum progressio – “l’insegnamento sociale della Chiesa, mentre da un lato è caratterizzato dalla continuità, nel senso che questo insegnamento si mantiene identico nella sua ispirazione di fondo, nel suo vitale collegamento con l’Evangelo, d’altro lato è caratterizzato dalla novità”.
Perché? Perché è un atteggiamento soggetto agli inesorabili incessanti mutamenti che le condizioni storiche prevedono. Al tempo stesso è dinamico perché partecipa dei crescenti, ulteriori, progressivi approfondimenti dottrinali, anche di carattere evidentemente ecclesiologico; anche di carattere biblico; anche di carattere teologico-morale; ma anche di carattere scientifico.
Qual è oggi, come è avvenuto negli ultimi 30/40 anni, il Pontefice che elaborando un nuovo pronunciamento, un nuovo documento, un nuovo intervento di dottrina sociale della Chiesa, ignorasse l progresso delle scienze sociali?
Per scienze sociali, intenderei, le scienze umane in senso lato, dall’economia alla sociologia, ma anche dalla filosofia alla pedagogia; ma ancor più le scienze bio-tecnologiche.
Dunque, evidentemente, è l’apporto della scienza che può recare sempre più, oggi, nella ricerca degli studiosi, anzitutto credenti che si interrogano costantemente anche non solo in termini……………, ma in termini di coscienza personale cristiana, sul significato e valore della loro ricerca: che questa non sia finalizzata interamente al profitto. è evidentemente una intenzionalità, una scelta di campo che gli studiosi cristiani sono oggi sempre più chiamati a compiere.
Bene, ora dunque a questi documenti pontifici intendiamo porgere la nostra attenzione e riprendere quella felice immagine già, appunto espressa, di Paolo VI nell’enciclica programmatica del suo pontificato “Ecclesiam suam” el 1964, laddove si parla, appunto, di una Chiesa che potrebbe prefiggersi:
PRIMO – di ridurre al minimo i rapporti con la società, cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società…………, come potrebbe proporsi di rilevare i mali anatemalizzandoli, condannandoli, stigmatizzandoli e rifuggendo: “la cittadella assediata”.
Una SECONDA però grande stagione del cammino della Chiesa potrebbe invece tanto avvicinarsi – la Chiesa alla società…………… - ma cercare di prendervi influsso preponderante, o anche di esercitarvi un dominio teocratico, cioè l’identificazione con il mondo, per usare un’espressione evidentemente ricorrente.
TERZO – lo dico io, è un’immagine triplice. “Sembra a noi invece – conclude Papa Montini – che il rapporto della Chiesa con il mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa meglio raffigurarsi in un dialogo”.
Ebbene, rileggendo criticamente e in modo sistematico i documenti sociali del Magistero Pontificio, possiamo osservare come la Chiesa nell’ultimo secolo – nel corso del ‘900 – a partire dalla Rerum novarum, ha teorizzato, ma anche successivamente sperimentato tutte e tre queste forme o immagini o stagioni. E ciò è stato allo stesso tempo causa e effetto dell’approfondimento, dell’elaborazione e dell’evoluzione della dottrina sociale della Chiesa; cioè questi tre momenti, queste tre stagioni, questi tre atteggiamenti, questi tre modi di pensarsi e di essere, di concepire la propria missione e la propria testimonianza, da parte della Chiesa, sono stati originati, generati dalla dottrina sociale della Chiesa e dalla sua evoluzione, ma al tempo stesso hanno generato una vera e propria evoluzione nella dottrina sociale della Chiesa: una vera e propria reciprocità. Ora il nostro intento, sinteticissimamente, è appunto quello di ripercorrere queste tre stagioni.
Leone XIII pubblicando nel maggio del 1891 la Rerum novarum rompe l’isolamento in cui la Chiesa si era chiusa all’indomani del profilarsi dell’età moderna - sostanzialmente diciamo dal tardo ‘500, dalla Riforma protestante – e con questa enciclica lancia un ponte verso il mondo; il mondo moderno è un mondo che nasce fuori, in certo senso nasce contro la Chiesa.
(Sono schematico e sintetico; quindi queste espressioni, evidentemente, andrebbero esplicitate, spiegate).
è un mondo “laico”, a prescindere dalla Chiesa (laico lo dico tra virgolette), che anzitutto tende a togliere alla Chiesa antichi privilegi, prerogative consoliate; non solo, ma combatte e tenta di estirpare dalla società perfino l’idea di religione, e questo tentativo o questo intento, in parte riuscito e in parte non riuscito, (Qui evidentemente spetta alla storiografia meglio capire, definire e spiegare) lo fa però grazie ad una serie di strumenti argomentativi, prevalentemente gli strumenti del pensiero filosofico, speculativo.
Evidentemente l’allusione che non può sfuggire è all’illuminismo, al razionalismo, al teismo. è un mondo che esalta il primato della ragione umana, fino a proclamare la ragione dea, che fa della libertà di pensiero e di coscienza una bandiera contro la fede religiosa, declassata a mero , puro dogmatismo.
Di fronte a “ questo attacco” la Chiesa reagisce. Come reagisce? Rinchiudendosi in se stessa, chiudendosi a riccio in se stessa, erigendo elle mura altissime, invalicabili. Lancia anatemi; si difende scomunicando in blocco il mondo moderno e soprattutto il progresso e i suoi valori. Quando dico – in questo contesto concettuale e lessicale – progresso, valori laici, lo dico tra virgolette; in realtà si tratta di verificare quanto realmente e fino a che punto fossero valori per l’uomo; quanto in realtà fosse autentico progresso è tutto da definire, ma non è questa la sede e il momento di rispondere a questi interrogativi.
Per avere appunto un’idea del clima e della implosione, del rinserrare le fila, dello scontro e della crociata che nel corso dell’800 dominano ancora i rapporti tra Chiesa e mondo, appunto, vale la citazione, che se non vado errato ho già fatto, dell’enciclica programmatica di Gregorio XVI del 1832, l’enciclica “Mirari vos”, contro quella “pessima – cito – e mai abbastanza esecrata, aborrita, libertà della stampa”, o contro “quella – cito – assurda ed erronea sentenza o piuttosto deliramentum (deliro) che si debba ammettere e garantire per ciascuno la libertà di coscienza”. Se voi pensate che esiste uno splendido documento del Vaticano II sulla libertà di coscienza: per dire quanta acqua sotto i ponti è corsa!
Per non parlare poi del notissimo “Sillabo” del 1864, destinato, a torto o a ragione, a restare il simbolo, l’emblema della drammatica rottura tra Chiesa e mondo moderno. “Sia condannato”, si legge nell’ottantesima proposizione – sapete che il Sillabo (Syllabus vuol dire elenco) elenco di 80 proposizioni, proprie della dottrina liberale che la Chiesa condanna nel 1864 – Pio IX condanna con l’ottantesima proposizione chiunque osi affermare che – cito: “Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi con il progresso, con il liberalismo e con la civiltà moderna”. è da intendersi, peraltro, Pontefice=Chiesa: c’è una piena identificazione.
Una prima osservazione su questa prima stagione: nonostante tutto non pare obiettivo né storicamente legittimo, direi, ignorare quanto “bene” la Chiesa abbia compiuto nei secoli, anche nei secoli propri in cui si era rinserrata, quale cittadella assediata sulla rocca.
Si pensi, ad esempio, al fiorire straordinario, dalla Riforma protestante, dalla Riforma cattolica, al fiorire straordinario di innumerevoli, creative, geniali, opere di carità, di assistenza, di educazione, soprattutto nei confronti degli ultimi; si pensi, ad esempio, alla promozione umana mediante l’azione missionaria di intere popolazioni, grazie appunto a questo coraggio evangelizzatore; si pensi alle straordinarie, altrettanto, figure della santità cristiana, ai grandi apostoli dell’educazione, della carità, nonostante, ripeto, questa concezione, nonostante questa ecclesiologia.
La Rerum novarum, dunque, proprio per questo è un’enciclica di rottura; è un’enciclica che supera l’atteggiamento, quello stile di cittadella assediata, arroccata sulle difensive, e affronta con coraggio e con apertura, appunto, quella che per il tempo (1891) era la questione sociale, la questione operaia. E che dunque testimonia, sperando ogni forma di crociata e di anatema, testimonia una acuta, sofferta attenzione ai problemi drammatici del mondo moderno, del mondo proprio di questa incipiente industrializzazione.
Sul finire dell’800, a tutti è noto che la questione sociale, sorta con la rivoluzione industriale, si identifica soprattutto con il dramma e i problemi del proletariato. Si ricerca la soluzione in una visione sistematica e globale delle grandi ideologie proprie ell’800: il liberalismo e il marxismo. All’una visione e all’altra visione, la Rerum novarum oppone la visione, appunto, della cosiddetta filosofia perenne, fondata su che cosa? Sul diritto naturale e sulla rivelazione cristiana; sono i due fondamenti della dottrina sociale della Chiesa, secondo la Rerum novarum: il diritto naturale e la rivelazione.
Nasce, dunque, la dottrina sociale della Chiesa, anche se Leone XIII non usa mai esplicitamente questo termine. Nasce, dunque, quel “corpus” dottrinale, organico, sistematico, quella “summa” di tesi, di proposizioni, di riflessioni; dedotto questo “corpus” dottrinale dai massimi principi dell’etica naturale e dalla rivelazione, che avrebbe dovuto essere in grado di dare tutte le risposte possibili a tutti gli interrogativi che le venivano appunto dalla questione sociale, dalla urgente e drammatica questione sociale. Si badi bene: tutte le risposte a tutti gli interrogativi, cioè questa pretesa di esaustività, di compiutezza e di definitività.
Riletta, oggi, ad oltre un secolo, la Rerum novarum appare ancora in tutta la sua forza e vigore dirompente, se rapportata evidentemente al contesto storico di fine ‘800. Ovviamente essa però è irrimediabilmente datata, cioè appartiene ad una stagione e , di fatto, per quella stagione, fu profetica. è datata, non solo perché la situazione economica, sociale e politica internazionale e mondiale è completamente mutata, ma anche per l’impostazione stessa data dalla Chiesa ai propri interventi in materia sociale, ma anche per l’ecclesiologia stessa della Chiesa. La Chiesa, oggi, mai penserebbe di proporsi in termini di esaustività, di definitività, soprattutto su di un terreno, appunto, come quello sociale.
La Rerum novarum affronta dunque la questione operaia quasi fosse una questione di principio, quasi fosse una questione filosofica, ideologica, e dunque la soluzione dove la trova? La trova a priori, cioè la deriva, l’attinge a principi immutabili e teorici, facendo poco o nessun conto dei risultati, seppur modesti del tempo, delle scienze sociali, della ricerca sociologica (si pensi che Giuseppe Toniolo era professore ordinario di sociologia a Pisa – quindi le scienze sociali avevano già acquisito una loro dignità scientifica, una loro autonomia disciplinare, una loro plausibilità), ma ripeto, attingendo dai massimi principi filosofici, ideologici, teorici; da quei immutabili principi che avrebbero dovuto illuminare, rischiarare l’orizzonte sociale economico, drammatico del tempo.
A queste analisi la Rerum novarum, alle analisi di carattere storico, che in realtà la Rerum novarum non compie, alle analisi invece che la sociologia sarebbe stata in grado di compiere, la Rerum novarum oppone una “dottrina compiuta”, definitiva, la cui elaborazione è ritenuta compito esclusivo dei Pastori, della gerarchia, giammai del laicato. Trattandosi di dedurre la soluzione del conflitto sociale, della dialettica tra, appunto, imprenditori, padroni e proletariato, la soluzione di tale conflitto era, secondo la Rerum novarum, deducibile dal diritto naturale e dalla rivelazione cristiana. In questa ottica, propria della dottrina sociale della Chiesa, i laici non dovevano far altro che attestare finalità esecutiva, agendo in pratica da braccio secolare della gerarchia, nell’assunzione dei problemi temporali.
Evidentemente non c’è ci non veda quanto questi inizi della dottrina sociale della Chiesa siano talmente lontani e quasi incomprensibili per la sensibilità e la cultura del nostro tempo, ma nonostante, e lo ribadisco, questi condizionamenti storici, teologici, culturali del tempo, fu gettato un seme incisivo, dirompente; questo seme gettato da Leone XIII, che si sarebbe dimostrato straordinariamente fecondo, se non addirittura, per il tempo, ma anche per i decenni successivi, rivoluzionario. Non è un caso che certa stampa del tempo etichettò la Rerum novarum come pronunciamento, documento socialista (non esisteva ancora il partito comunista).
Dunque vi è un elemento da non trascurare, che mi pare appartenga alla perennità della dottrina sociale della Chiesa, e che merita anzitutto di essere annotato: il riconoscimento della necessità di mediare tra etica e prassi sociale, tra fede e storia,…………………… alcuni fondamentali orientamenti operativi.
Il limite allora, però, della Rerum novarum fu di ritenere che questa mediazione spettasse solo alla gerarchia; ma ora grazie al progresso ecclesiologico, evidentemente, molto è affidato alle scienze, alle scienze sociali, alle competenze proprie scientifiche e professionali dei laici, dei cosiddetti fedeli laici.
Vi è dunque questo carattere inaugurale, e questo carattere, per il tempo, dirompente. Questa, soprattutto, capacità della Chiesa di avviare un dialogo con il mondo, di superare barriere apparentemente insormontabili, mura altissime apparentemente invalicabili; questa è appunto una prima importante stagione.
Quarant’anni dopo, nel 1931, Pio XI promulga appunto la Quadragesimo anno, ricorrendo il quarantesimo anniversario, la nuova enciclica; ma il mondo è mutato. In 40 anni che cosa è avvenuto?
Dal 1917 con la rivoluzione d’ottobre, l’ideologia marxista non è più una mera teoria, non è più una mera dottrina, ma è assunta ad un “sistema” politico ed economico. Al tempo stesso il crollo della Borsa di New York, la conseguente grane depressione, segnano in occidente la smentita storica dell’ideologia liberale capitalista. Anche, dunque, il capitalismo si va trasformando, va mutando le proprie fattezze. La conseguenza è che la questione sociale ormai, a quarant’anni, non si identifica più con la questione operaia, con i problemi di una specifica classe, come ai giorni di Leone XIII.
La questione sociale, a me pare, con sguardo retrospettivo, è dunque divenuta un problema più complesso; è divenuta una questione di modelli economici-politici, e di strutture sociali-nazionali. Lo scenario si è di gran lunga ampliato e diversificato. La Quadragesimo anno di Papa Ratti inaugura un nuovo periodo, una nuova stagione sociale di dottrina sociale della Chiesa, ed è una nuova stagione, diversa dalla precedente. è quella stagione che vede, appunto, secondo l’immagine di Papa Paolo VI nella Ecclesiam suam il forte rischio della “identificazione con il mondo”, cioè la ricerca di una nuova cristianità.
Voi sapete che l’emblema, il simbolo, la cifra complessiva interpretativa del lungo pontificato del Papa milanese (1922-1939, sostanzialmente tra le due guerre, tra un primo sofferto dopoguerra e la vigilia del secondo conflitto mondiale) è della regalità di Cristo. Non è un caso che nel 1921, questo antico anticlericale, iconoclasta, socialista che si converte, che si fa frate, che fugge a Rezzato, Edoardo Gemelli, che si fa frate assumendo il nome di Agostino Gemelli, voglia intitolare la sua università cattolica, del “Sacro Cuore”.
Questa regalità di Cristo, regalità del Cuore di Cristo. Questa ecclesiologia, appunto, propria del “Regnum Christi” in cui c’è veramente questa straordinaria valenza cristologica, questo forte fondamento cristologico, ma anche la consapevolezza di una sovranità. Allora è una sovranità di Cristo, che la Chiesa fa propria; allora c’è una sovranità laica e una sovranità ecclesiale: in fondo Pio XI alle corporazioni fasciste contrappone le corporazioni cristiane. Un’altra società: una “societas” cristiana che si contrappone ad una “societas” laica.
Anche tutto questo va compreso in una lettura seriamente e rigorosamente storica; mai con gli occhi del presente giudicare la storia. Lo storico non è mai un giudice; la storia deve aiutare a capire – l’intelligenza del passato – comprendere, cercare di spiegare, dare elle risposte, ma non giudicare. Non è un tribunale, la storia. Noi usiamo spesso l’espressione “il tribunale della storia”; c’è una strumentalità nell’impiego di questo termine, ma noi dobbiamo capire, cercare di capire.
Bene, dicevamo che cosa è avvenuto, e dunque si inaugura questa seconda stagione; di fronte alle ideologie, alle ideologie di ieri, divenute modelli concreti di organizzazioni sociali ed economiche, il liberalismo classico, il capitalismo; di fronte alle ideologie più recenti, marxismo, comunismo di stato, bolscevismo, ecc… e socialismo reale (chiamiamolo come dir si voglia), anche la Chiesa rinnova il proprio discorso sociale e passa da una prevalente riaffermazione teorica dei principi etici (ricordate qui il primo periodo: il diritto naturale e la rivelazione), passa da questa affermazione teorica alla proposta operativa di una organizzazione della società cristiana, di una organizzazione cristiana della società; da un modello politico cristiano, da un modello sociale cristiano, da un modello economico cristiano.
D’altro canto se voi interrogaste le persone più anziane, delle generazioni dei nostri nonni, vi faceste raccontare che cosa era la “militanza cattolica”, se “noi riprendessimo” il lessico, il linguaggio, i canti del tempo, sono di una ricchezza straordinaria, un inno, direi…………………….. (LATO B)
…………………………………………………………………………………………………………per, appunto, le falangi, come vengono definite, questa militanza dell’Azione Cattolica – falangi di Cristo Redentore, la gioventù cattolica in cammino: questa immagine militare, quasi. D’altro canto, come era avvenuto nell’età della cosiddetta Controriforma, che Ignazio di Loyola fonda secondo un modello militare, tutto spagnolo, la “Compagnia di Gesù” – il Generale – una simbologia, una evocazione molto eloquente.
Bene, allora, di fronte (questa è la Quadragesimo anno) al tentativo della società moderna di legittimare culturalmente, ideologicamente e giuridicamente la via socialista o la via capitalista, Pio XI interviene proponendo una terza via: la via cattolica, alternativa sia al modello marxista, sia al modello liberale.
Di questa terza via, questo modello di società cristiana, la Quadragesimo anno indica perfino la configurazione giuridica: si tratta, spiegherà la Quadragesimo anno, di dar vita ad un ordinamento interno, nazionale ed ad un ordinamento internazionale ispirato, anzitutto, alla giustizia sociale, in grado di coordinare l’attività economica con il bene comune, ricostruendo tra stato e individuo i corpi intermedi a finalità economico professionale, sul tipo libero e spontaneo delle antiche corporazioni medioevali.
Qui si innesta, forse per la prima volta, il principio di sussidiarietà in modo esplicito, e qui sta il grande carattere di novità e di originalità. E in questa ottica Pio XI riprende i grandi temi della Rerum novarum, ma li amplia, li arricchisce, li completa secondo le nuove dimensioni assunte ormai dalla questione sociale, che non è più questione operaia. Parla, ad esempio, di salario giusto; parla di socialismo moderato e riformista; parla di funzione sociale della proprietà privata; parla dell’intervento dello Stato in economia, fronte, ad esempio, della totale neutralità che il modello liberale classico assegnava allo Stato: qui invece si parla di necessità dell’intervento dello Stato in particolari frangenti e circostanze.
Bene, a distanza di oltre 70/80 anni dalla Quadragesimo anno, anch’essa mostra, inevitabilmente, con i propri caratteri innovativi, i propri limiti, che caratterizzano anche questa seconda fase della dottrina sociale della Chiesa. Forse il limite di fondo non fu tanto quello di aver proposto, come terza via, il modello di una società cristiana “corporativa”, che non aveva nulla da spartire con il corporativismo fascista, del quale anzi costituiva una critica sottile e radicale, al punto che Mussolini fece pervenire tramite, appunto, una nota diplomatica, il proprio forte disappunto all’indomani della Quadragesimo anno.
Forse il vero limite della Quadragesimo anno fu di credere nella possibilità teorica e pratica di restaurare tra Chiesa e società profana quei medesimi rapporti, seppur aggiornati, che furono alla base dell’esperienza medioevale di cristianità, quella alleanza tra trono e altare, tra impero e Chiesa. Dunque una nostalgia della “societas” cristiana, che evidentemente, ai nostri occhi oggi, mostra un evidente anacronismo.
Peraltro già nella sua enciclica programmatica, a pochi mesi dalla sua elezione, nel 1922, nella Ubi arcano, Pio XI rivendica alla Chiesa l’immagine di società perfetta; e rivendica alla Chiesa, società perfetta, il diritto e il dovere di governare le altre società civili. Scrive nella Ubi arcano Pio XI: “Alla Chiesa di Gesù Cristo va riconosciuto il posto che Egli stesso le assegna nella società umana, dandole forma e costituzione i società, in ragione del suo fine; società perfetta, maestra e guida elle altre società, tutte quante”. Così con Pio XI il concetto, l’idea, il termine di dottrina sociale della Chiesa, entrano ufficialmente a far parte dei testi del Magistero: Pio XI adotta il termine di dottrina sociale.
La Quadragesimo anno la definisce come “l’insegnamento della Chiesa sulle materie sociali ed economiche” – al n. 20 – la cui elaborazione è un passo in avanti, la cui elaborazione a chi spetta? Alla gerarchia, ai Pastori. L’azione sociale invece tocca ai fedeli laici. In questa distinzione vi è “in nuce” il riconoscimento, ben più ampio, che il Concilio farà dei compiti propri della missione dei laici. Ma siamo ancora evidentemente molto lontani dall’acquisizione del principio di legittima autonomia dell’impegno temporale delle realtà terrene. Nell’azione sociale, secondo Pio XI, i fedeli laici svolgono un ruolo prevalentemente passivo, di esecutori delle direttive dell’autorità ecclesiastica, “essendo – dice al n. 152 l’enciclica Quadragesimo anno – ausiliari della Chiesa”, cioè la fanteria della Chiesa, le truppe che scendono in campo dopo che l terreno è stato spanato, è stato indicato, è stato tracciato.
Tuttavia, aldilà di questi limiti evidenti, storici, non v’è dubbio che l’enciclica di Papa Ratti fece compiere un passo innanzi rilevante e significativo. Pio XI ha certamente uno sguardo, potremmo dire davvero chiaroveggente, quando innovando in continuità con il Magistero precedente, insiste fortemente – questo è un aspetto estremamente interessante, che fa molto riflettere – sulla necessità di sottrarre l’economia al gioco automatico del mercato del profitto. Quando, ad esempio, ribadisce la necessità della programmazione economica, che orienti la libera iniziativa: ma dove? Verso il bene comune, affinché siano tutelate anzitutto la libertà e la dignità dell’uomo.
E desta certamente una favorevole sorpresa vedere che già nel 1931 la Quadragesimo anno auspica quelle che noi oggi chiamiamo le cosiddette riforme strutturali. Non solo a livello nazionale, ma anche a livello di strutture di impresa, di azienda; parla di riforme di struttura. Così, per esempio, l’enciclica sostiene che in determinate circostanze può essere doveroso limitare l’esercizio del diritto di proprietà, nel possesso e nella gestione delle attività e dei beni, che lasciate esclusivamente in mano privata potrebbero trasformarsi in danno per l bene comune.
Sempre la Quadragesimo anno accetta il principio della espansione dell’impresa pubblica, che per il passato era solo ed esclusivamente privata. L’espansione dell’impresa pubblica, perché sia salvaguardata l’iniziativa dei singoli e si vada sempre più nella direzione della partecipazione dei lavoratori all’impresa. Sono alcuni esempi, ma bastano certamente a dare l’idea dei passi avanti compiuti, dell’evoluzione, dell’elaborazione ulteriore, anche in questa stagione di cosiddetta “nuova cristianità”, in questa stagione in cui viene proposta una terza via tra capitalismo e marxismo.
Potremmo dire che il successore di Pio XI – Papa Pacelli che succede a Pio XI come Pio XII nel 1939, che per altro non pubblica nessuna enciclica sociale, ma solo pronuncia un radiomessaggio a 50 anni dalla Rerum novarum, quindi nel 1941 (siamo in piena II° guerra mondiale) – bene, Pio XII potremmo sinteticamente dire che rimane all’interno di questa seconda stagione, all’interno di questa terza via. E questa terza via, e questa seconda stagione, quando si conclude? Si conclude con la fine del ’58, del pontificato di Papa Pacelli, con l superamento definitivo di questo progetto di nuova cristianità.
Questo progetto avrà, come sapete, il suo teorico più acuto e più appassionato nel pensatore francese J. Maritain.
Papa Pacelli, appunto, non scrive encicliche, ma resta di lui un famoso radiomessaggio, tutto dedicato a ribadire i principi dell’etica cristiana sull’uso dei beni, sul lavoro, sulla famiglia, sul bene comune. Il radiomessaggio del 1941 è un radiomessaggio che appartiene a “tutto tondo”, completamente alla dottrina sociale della Chiesa; però anche altri radiomessaggi lambiscono questi problemi, questi terreni.
Siamo alla terza stagione, al terzo periodo; evidentemente l’apporto più decisivo, più dirompente, viene proprio dal Concilio Vaticano II. è caratterizzato da alcune essenziali acquisizioni; acquisizioni di dottrina e acquisizioni di metodo che, possiamo definire, provocano una vera e propria svolta nella dottrina sociale della Chiesa, nel suo cammino storico, nella sua evoluzione. Abbiamo già i primi sintomi alla vigilia del Concilio: i primi sintomi di questa svolta si possono cogliere nell’enciclica di Giovanni XXIII, Mater et Magistra el 1961, per i 70 anni della Rerum novarum. Quanto al contenuto il documento non si distanzia essenzialmente dai documenti, dalle encicliche sociali precedenti, soprattutto dalla Quadragesimo anno, ma evidentemente vi è qualche evidente passo innanzi.
La questione sociale, ancora una volta, anzitutto è mutata: lo scenario è mutato. Non solo, ora la questione sociale supera il conflitto tra due classi, padronato e proletariato, ma si è fatta assai più complessa; supera quel confronto tra sistemi economici nazionali che avevano caratterizzato, appunto, tra occidente e paesi dell’Est, potremmo dire, un periodo precedente. Ormai è in discussione anzitutto l’equilibrio del mondo, fra Nord e Sud: è esploso il problema demografico. Il terzo mondo chiede giustizia e sviluppo; dunque si impone un nuovo ordine internazionale.
Di fronte a queste sfide l’enciclica Mater et Magistra offre risposte che oggi appaiono evidentemente legate a situazioni contingenti, del tempo, e dunque ormai situazioni ampiamente superate. Ma la Mater et Magistra – questo è l’aspetto che mi preme evidenziare – non è solo questo. Accanto ad alcuni elementi dottrinali ed alcune rilevazioni economiche, sociali e politiche superate, vi è nel documento una nuova, inedita sensibilità, che per molti aspetti anticipa e prepara, predispone quella svolta metodologica della Chiesa del Concilio.
Anzitutto Giovanni XXIII, parlando di dottrina sociale della Chiesa, non intende solo ed esclusivamente quanto i suoi predecessori intendevano. La Mater et Magistra propone esplicitamente un modo diverso di approccio della Chiesa alla questione sociale, non più ricorrendo al cosiddetto metodo deduttivo, dei principi teorici. Dal diritto naturale, dalla rivelazione, ci si proietta, si scende, si deduce da quelli: quindi, non più ricorrendo al metodo deduttivo, che appunto consisteva nel derivare direttamente dai sommi principi del diritto e della rivelazione, un modello di “societas” cristiana, una terza via alternativa ad altri modelli ideologici. Il vecchio Giovanni XXIII introduce il metodo induttivo, in cui i tre momenti essenziali sono:
1° (e lo dice l’enciclica) – rilevazione delle situazioni;
2° - valutazione di queste alla luce dei principi evangelici e del Magistero ecclesiale;
3° - ricerca e determinazione di quello che si può e di quello che si deve fare.
è, insomma, la modalità propria del vedere, del giudicare e dell’agire che fece storia per lungo tratto, anche della nostra vita ecclesiale.
Ma due anni dopo, Papa Roncalli, applica egli stesso il nuovo metodo, e lo applica in quella enciclica, quasi l’enciclica ella morte, nel 1963, la Pacem in terris, laddove esplicitamente si affida a quella splendida intuizione che ha fatto veramente storia epocale: “i segni dei tempi”
Il punto di partenza della Chiesa nell’approccio alle questioni sociali non è più dunque costituito dal diritto naturale, dalla rivelazione; certo, la Parola di Dio, la Scrittura, l’insegnamento del Magistero restano un punto ineludibile, essenziale di riferimento per interpretare le sfide poste alla fede dalle trasformazioni, dai mutamenti e per illuminare le scelte da compiere. Non più però nel senso deduttivo, ma all’interno appunto del nuovo metodo; anzitutto vedere, osservare, rilevare, quindi giudicare, valutare criticamente e terzo, di conseguenza, agire, operare. Quindi si parte dalla realtà, dalla storia, dal presente, dalle sfide: un capovolgimento, un giro di boa significativo.
Questo medesimo metodo avrà il suo terreno privilegiato di esplicazione, di applicazione, di reale misura, dove? Nelle pieghe delle riflessioni proprie del Vaticano II, e in quel documento conclusivo, nella, appunto, Costituzione pastorale Gaudium et Spes, il cui grande (come potrei dire) autore è anzitutto la dottrina dell’Episcopato, ancor prima dei Padri conciliari, ed evidentemente Paolo VI.
E qual è l’enciclica che sperimentalmente vedrà applicata questa nuova sensibilità, questa nuova cultura, questa nuova attenzione, questa nuova intuizione? Evidentemente la prima grande enciclica sociale di Papa Paolo VI: la Populorum progressio, a due anni dal Concilio Vaticano II, quindi nel 1967.
Voi sapete che il Concilio chiude i battenti all’Immacolata del 1965 – l’8 Dicembre – con quei bellissimi messaggi, che il Santo Padre consegna all’umanità e visibilmente affida ad alcuni uomini e donne; significativi, appunto, quelli ai pensatori, affidato alle mani di J. Maritain.
Qualche anno dopo, lo stesso Paolo VI nella Octogesima adveniens, scritta nel 1971, per l’ottantesimo della Rerum novarum, giunge a codificare, a definire, potremmo dire, autoritativamente, magisterialmente, cioè dalla cattedra dell’apostolo Pietro, giunge a definire in modo ufficiale l’adozione del metodo induttivo in materia di insegnamento sociale della Chiesa. Voi sapete che Paolo VI usava frequentemente il termine “insegnamento sociale” non “impegno sociale”
Bene, questa è una splendida immagine da scolpire nei vostri appunti: vale a dire, nell’Octogesima adveniens, Paolo VI scrive testualmente: “Spetta” (qui immaginate la Ubi arcano, immaginate il Sillabo, immaginate la Mirari vos, che sono anni luce di distanza, lontani), Paolo VI dice: “Spetta (nella Octogesima adveniens del 1971) alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese – qui percepisce anche la differenziazione dei contesti culturali, sociali, politici ed economici – chiarirla alla luce delle parole immutabili del Vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio, direttive di azione dell’insegnamento sociale della Chiesa; individuare con l’assistenza dello Spirito Santo, in comunione con i Pastori, in dialogo con i fratelli cristiani (non cattolici; cristiani, ecumenici) e con tutti gli uomini di buona volontà (e quindi anche con i non credenti) le scelte e gli impegni che conviene assumere e prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche”.
Veramente è un nuovo, inedito orizzonte che si delinea. Solo la forza di un pensiero, come potrei dire, alimentatosi, consolidatosi nel tempo, che fa pregno a quel cattolicesimo sociale da cui Papa Montini proveniva. Suo padre era stato per 30 anni direttore di un battagliero quotidiano cattolico, bresciano, “Il Cittadino” dal 1881 al 1912; quel quotidiano “Il Cittadino” che sarà soppresso, appiccandovi fuoco, nel 1926 – palazzo San Paolo – dai fascisti locali.
Dimenticavo di dirvi – solo un cenno – che una grande lezione, comunque, la da anche, in materia sociale e politica, l’anziano Giovanni XXIII, quando compie quella lucida distinzione tra ideologie e movimenti storici, volendo – per taluni versi – salvare le persone. “L’ideologia può essere atea – dice – ma il movimento storico è costituito da persone”, e queste persone, non necessariamente, appunto, si identificano con le ideologie.
Ora è una distinzione che al momento suscitò evidentemente forti reazioni e che evidentemente, come potrei dire, innescò non poche polemiche. Lo stesso Paolo VI, apparentemente, come potrei dire, compassato, dovrà fortemente “scontrarsi”, imbattersi comunque con forti resistenze e con forti reazioni. La Populorum progressio non riceverà solo plausi, ma riceverà evidentemente anche dissensi. La Octogesima adveniens ancor più della Populorum progressio.
Questo a dire che, in realtà, vi è comunque una valenza profetica, una forza profetica anche in questi grandi e importanti documenti.
4°/5° LEZIONE 20.03.03
L’analisi critico-testuale della Centesimus annus che dovrebbe consentirci di compiere, appunto, questa sintesi più che secolare, di un cammino, appunto, come quello compiuto dalla dottrina sociale della Chiesa, per ora, appunto ci attestiamo ancora su queste riflessioni di inquadramento e quindi di approfondimento di alcuni concetti chiave.
Ora vi è, a me pare, una questione, una sollecitudine che riviene appunto dalla trasformazione, dall’evoluzione che si profila all’indomani del Concilio. In realtà l’evento conciliare, la dottrina conciliare, l’ecclesiologia conciliare, la stessa esperienza conciliare, che per altro evidentemente va presa anche nel suo background storico, imprime una svolta significativa, rilevante – potremmo dire con espressione pesante, radicale – alla dottrina sociale della Chiesa, al “farsi” della dottrina sociale della Chiesa. Potremmo dire addirittura che con il Vaticano II matura un approccio del tutto inedito e nuovo alla questione sociale, che ormai abbiamo detto non è più una questione operaia, non è più una questione economica-sociale, ma……….
Potremmo dire che già all’indomani del Vaticano II si tratta di una questione “globale”. Gli approfondimenti teorici, dottrinali e gli approfondimenti pastorali più decisivi impressi, sollecitati, promossi dal Vaticano II, e che dunque inaugurano in modo, si badi bene consapevole (la Chiesa ne è consapevole), in modo consapevole – questa definiamola appunto stagione del dialogo con il mondo, superando dunque la rottura e il clima di scomunica del passato, superando ancor più la stagione della nostalgia della cristianità perduta – bene, gli approfondimenti teorici, dottrinali e pastorali che la “nuova dottrina sociale della Chiesa”, cioè meglio la dottrina sociale della Chiesa di sempre, quindi antica, ma al tempo stesso “nuova”, cioè che acquisisce dal Concilio un rinnovato e decisivo impulso e un forte intento di rinnovamento, a me paiono almeno tre:
1. La rivalutazione della vocazione della missione propria dei laici nella Chiesa e nel mondo, e visto che i laici hanno molto sia da dire che da compiere in nome della dottrina sociale della Chiesa, quindi questa prima grande, appunto, novità: la rivalutazione della vocazione laicale, della missione laicale nella Chiesa e nel mondo.
2. La riscoperta della dimensione storica e contingente dei problemi sociali. Con una immediata lampante conseguenza; ad esempio la distinzione tra errore ed errante, che lo stesso Giovanni XXIII percepì: quindi la riscoperta della dimensione storica e contingente dei problemi sociali. La distinzione dunque anche tra ideologie e movimenti storici; un esempio direi molto classico, tra ideologia marxista e il movimento storico (ad esempio: i comunisti). Quale comunismo? Oggi non esiste più o quasi – non so bene cosa si possa dire al riguardo, ma vent’anni fa, cioè, appunto, anche meno, prima dell’89 comunque, ormai non si parlava più di comunismo, ma di comunismi, cioè di traduzioni storiche plurime differenziate della dottrina marxista.
3. La accresciuta coscienza della natura essenzialmente religiosa ed etica della missione ecclesiale; quindi, di conseguenza, il superamento di una dottrina sociale come terza via. Per la missione della Chiesa, è una missione religiosa, etica, pastorale, politica, economica, ecc. Che poi in nome del Vangelo, in nome della Chiesa, soprattutto i laici si immettano nel vivo della politica, dell’economia della società, direi è l’applicazione più coerente.
Ecco, proviamo a ripercorrere ora queste tre grandi, appunto acquisizioni. La missione propria dei laici, la vocazione e la missione propria dei laici; e qui la Sollicitudo rei socialis ne è una forte, autorevole testimonianza di applicazione. Una prima chiara riaffermazione della laicità delle realtà temporali e dunque della legittima autonomia dei laici nell’impegno politico, sociale, economico esiste già, a ben vedere nella Mater et Magistra di Papa Giovanni.
Papa Roncalli insiste sul fatto che – cito: “passare all’azione è compito che spetta ai nostri figli del laicato” Passare all’azione, è compito: quindi è già un’attribuzione di responsabilità e competenza, in virtù dice espressamente “del loro stato laicale”; quindi è in virtù della laicità. è necessario che i fedeli laici non solo siano professionalmente competenti, ma scrive ancora nella Mater et Magistra Giovanni XXIII “svolgano le attività temporali secondo le leggi ad essi…………per il raggiungimento efficace dei rispettivi fini”; cioè una soluzione di carattere tecnico, scientifico, tecnologico, non la si a ricercare appunto nella Genesi, o nel Libro dei Proverbi, evidentemente, o nella Summa di San Tommaso. è chiaro il discorso, no? Certo, agendo in coerenza con la propria coscienza, una coscienza che accetta di alimentarsi, appunto, a fonti fondamentali, quali la Rivelazione, quali la Parola di Dio, quali il Magistero ecclesiale. Tuttavia è riservata al laicato una piena autonomia e competenza.
Due anni dopo la Mater et Magistra, la Pacem in terris, e Giovanni XXIII si spinge ancor più avanti nel riconoscimento di questa legittima autonomia dei laici sul piano dell’impegno sociale; per impegno sociale intendo una realtà molto ampia, quindi anche un impegno politico, amministrativo, economico, professionale, e via dicendo.
Addirittura nella Pacem in terris, l‘anziano Pontefice rimette alla coscienza dei laici il giudizio sulla opportunità o meno di un’eventuale collaborazione con chi non crede o con chi aderisce a false concezioni della storia. “Tale decisione – cito la Pacem in terris – spetta in primo luogo a coloro che vivono e operano nei settori specifici della convivenza in cui quei problemi si pongono”. Evidentemente sempre in coerenza con la Scrittura, con il Magistero ecclesiale.
Questo alla vigilia del Concilio o a Concilio appena inaugurato. Ma sarà soprattutto il Concilio a dare un fondamento dottrinale, dunque ecclesiologico, a questa riscoperta o rivalutazione della vocazione della missione propria dei laici e anche alla autonomia delle realtà temporali, escludendo ormai definitivamente la funzione meramente applicativa esecutiva del laicato; cioè i laici non sono la fanteria che segue i generali, ma hanno una loro specifica identità ecclesiale, teologicamente definita, appunto, dall’ecclesiologia della Lumen Gentium, della Gaudium et Spes, e specificamente – come tutti ricorderanno – configurata in quel decreto sull’apostolato dei laici che, chi ha memoria un po’ lunga dovrebbe rammentare, si intitolava Apostolicam actuositatem.
Chi ha vissuto gli anni post-conciliari, anche da giovane, ragazzo, adolescente, ricorda queste edizioni così, a sprazzi, di documenti conciliari – non ancora una silloge completa – e quando uscì, ricordo, l’Apostolicam actuositatem sembrava il libretto di Mao, bandito dai laici a difesa “della loro identità”, della loro vocazione e della loro missione. Un passo ulteriore: l’Apostolicam actuositatem, cioè il decreto sull’apostolato dei laici, giunge addirittura ad affermare che i laici dovranno partecipare con la loro competenza e la loro esperienza alla stessa elaborazione dottrinale dell’insegnamento sociale della Chiesa, alla stessa elaborazione dottrinale della dottrina sociale della Chiesa.
Pertanto il Concilio esorta i laici a prepararsi seriamente;; dice l’Apostolicam actuositatem al n. 31: “Affinché si rendano capaci sia di collaborare per quanto loro spetta al progresso della stessa dottrina sociale, sia di applicarla debitamente nei singoli casi”. E, pure espressione importante dalla Gaudium et Spes che dice: “Non pensino però – rivolgendosi ai laici - che i loro Pastori, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece loro, essi stessi, piuttosto la propria responsabilità”
Quindi veramente una evoluzione evidentissima, accentuata. E tutto il Magistero sociale post-conciliare, sino ad esempio a quell’importante evento che fu il Sinodo dei Vescovi dell’87, appunto, non ha fatto, sino al Sinodo dell’87, che approfondire questa concezione, questa idea, questa identità di un laicato maturo, responsabile delle proprie scelte e competenze temporali, nell’assolvere però la missione affidata da Cristo ai fedeli laici, che poi in modo magistrale e compiuto noi ritroviamo nell’esortazione Christifideles laici. Bene, riconosciuta dunque, questa autonomia legittima dei laici nell’impegno temporale, ne consegue l’impulso, la sollecitazione e l’invito ad un dialogo, aperto, ecumenico a tutto campo, a 360°, con tutti gli uomini di buona volontà; quindi con credenti e non credenti.
La Mater et Magistra affida alla coscienza personale dei laici – evidentemente non al relativismo della coscienza – ad una coscienza solida, formata, l’opportunità di collaborazione, anche sul terreno politico; ma va ancora in là, dopo aver esortato i cattolici – cito: “ad essere sempre coerenti con se stessi, e a non venire mai a compromessi riguardo alla fede e alla morale” – l’enciclica Mater et Magistra, non esita a sollecitarli senza paura perché – cito: siano e si mostrino animati da spirito di comprensione, disinteressati e disposti a collaborare lealmente nell’attuazione di progetti che siano di loro natura buoni o almeno riducibili al bene”.
Dunque su questa strada s’avvia un forte impegno nel nome del dialogo, un dialogo appunto col mondo moderno, e dovrebbe dire oggi, col mondo post-moderno; allora con la società industriale, oggi potremmo ben dire, con la società post-industriale.
Una collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, laddove si sia memori e ci si ricordi, appunto, di quel bellissimo passaggio del vecchio Pontefice nella Pacem in terris, dove il Papa –uomo che ha vissuto a diverse latitudini, delegato apostolico, nunzio apostolico in terre dove i cattolici erano residuati e marginali: si pensi ai paesi dell’Est – bene, il Papa scrive nella Pacem in terris: “Non si dovrà mai confondere l’errore con l’errante anche quando si tratta di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale e religioso; che anzi gli incontri e le intese nei vari settori dell’ordine temporale, tra credenti e quanti non credono o credono in modo non adeguato, perché aderiscono ad errori, possano essere invece occasioni per scoprire la verità e per rendere omaggio e onore alla verità”. Quindi questa netta distinzione tra ideologie e movimenti storici, operando dunque un netto distacco, appunto, tra quest’ultima stagione della dottrina sociale della Chiesa e le prime due stagioni. “Non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche”; anche se questi movimenti, dirà, sono stati originati da queste ideologie.
Bellissima questa espressione del vecchio Pontefice: “Giacché le dottrine una volta elaborate e definite rimangono sempre le stesse, mentre i movimenti e gli uomini, agendo nelle situazioni storiche, incessantemente evolventesi, non possono non subire gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi. Inoltre – continua il Papa – chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione. Pertanto può verificarsi che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri – scrive il Papa – ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece è possibile, o lo possa divenire domani”.
Vorrei fare una piccola chiosa, così, storica: bene, un messaggio come questo, da non pochi percepito come “sciogliamo i ranghi”……………………………………….. la verità non è più una, sono tante. Accade anche questo. Accade anche una opera di “opacizzazione della verità”, un annacquamento della verità, un accomodamento della verità, una tendenza fortemente compromissioria, un’indulgenza plenaria. Ora, in realtà, questo messaggio carica di ulteriori e più forti responsabilità il laicato; invita i laici ad essere ancor più capaci di discernimento, assumendosi un ulteriore responsabilità (?) – è molto più facile obbedire acriticamente, che assumersi in presa diretta, forti e precise responsabilità.
Bene, certamente questa strada inaugurata da Giovanni XXIII sarà percorsa con intensità, forza, convinzione e anche davvero con straordinarie intuizioni da Paolo VI, che fu in realtà il vero grane Pontefice del Concilio, ancorché consumò tutto se stesso nell’attuazione del Concilio – che è un’impresa molto più ardua e che potremmo definire ancora incompiuta, cioè un cantiere aperto. Paolo VI, che ribadisce nell’Ecclesiam suam: “La Chiesa deve venire al dialogo con il mondo in cui si trova a vivere; la Chiesa si fa parola” – bellissime queste immagini, lo sapete che il lessico di Montini è un lessico che si affida molto alle immagini, addirittura che assume anche una liricità e un’efficacia comunicativa molto molto introspettiva – “La Chiesa si fa parola” – molto bella – “La Chiesa si fa messaggio, la Chiesa – scrive il Papa – si fa colloquio”.
Bellissima anche l’espressione coniata da Paolo VI, non so se ve la ricordate, e ripetuta in cinque, sei discorsi, poi in cinque, sei allocuzioni: “La Chiesa è esperta in umanità”. Il Papa dirà in una catechesi del mercoledì (credo sei mesi prima di morire), proprio perché esperta in umanità la Chiesa deve essere sempre più umile, capace di ascolto.
Però, scusate, io faccio sempre il controreattore, come in una discussione di una tesi di laurea; quando il Papa, allora, non sempre capito, anzi spesso non capito, usava queste espressioni, appunto, molti dicevano: la Chiesa si deve fare umile, mentre poi si affermavano protagonismi personalistici impressionanti, dove evidentemente chi sbaglia sono sempre gli altri e mai noi stessi; gli errori sono sempre della “Chiesa-istituzione” e non invece dei singoli fedeli. Allora basterebbe che ognuno di noi recasse il proprio mattone nell’edificazione della Chiesa e non rinunciare a questa impresa che è faticosissima.
“La Chiesa si fa colloquio”, bene, a questa espressione dell’Ecclesiam suam fa eco il Concilio nella Gaudium et Spes, che dice: “La Chiesa non può dare dimostrazione più eloquente della solidarietà, del rispetto e dell’amore nei riguardi dell’intera famiglia umana nella quale è inserita, che instaurando con questa umanità un dialogo ininterrotto”. A Paolo VI che insiste nell’Ecclesiam suam: “La Chiesa deve essere pronta a sostenere il dialogo con tutti gli uomini di buona volontà, dentro e fuori l’ambito suo proprio”, scrive ancora nell’Ecclesiam suam un’altra bellissima immagine: “Nessuno è estraneo al suo amore, nessuno è indifferente per il suo ministero, nessuno le è nemico”. Ricordate certe allocuzioni, “i nemici della Chiesa”? Paolo VI dice: “Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo”, ma la Chiesa non può vedere dinanzi a sé dei nemici; “nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo; dovunque è l’uomo in cerca di comprendere se stesso, nel mondo, noi possiamo parlare con lui, comunicare con lui, dialogare con lui”.
Bene, a questa espressione dell’Ecclesiam suam del 1964, fa eco sempre la Gaudium et Spes che scrive: Per quanto ci riguarda il desiderio di stabilire un dialogo che sia ispirato dal solo amore della verità, non esclude nessuno, né coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché non ne riconoscano ancora l’Autore, né coloro che si oppongono alla Chiesa e in varie maniere la perseguitano”. Ed ancora: a Paolo VI che non esita ad ammettere nel mondo moderno l’esistenza di valori umani autentici, come…………………, non estranei al Vangelo, scrive nell’Ecclesiam suam: “Noi abbiamo in comune con tutta l’umanità la natura, cioè la vita, con tutti i suoi doni, con tutti i suoi problemi”, fa eco ancora una volta la Gaudium et Spes che scrive: “La Chiesa non ignora quanto essa – questo è un passaggio importante del Concilio – abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano. La Chiesa vuol far tesoro, e lo fa, dello sviluppo della vita sociale umana, non quasi che le manchi qualcosa nella costituzione datale da Cristo, ma per conoscere questa più profondamente, per meglio esprimere e per adattarla con più successo ai nostri tempi”.
Dunque è il superamento della terza via, è il pieno superamento della terza via: certamente la riscoperta della vocazione e della missione laicale, una rinnovata consapevolezza della Chiesa della propria missione, anche nel solco dei profondi mutamenti, sulla scorta dei profondi rivolgimenti che la storia ha impresso al cammino umano, e colloca davvero questo nuovo approdo, questo passo ulteriore compiuto dalla dottrina sociale della Chiesa.
Nella Octogesima adveniens, appunto, del 1971 di Paolo VI, si legge: “Di frone a situazioni tanto diverse ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto – bellissima questa espressione di Montini – non è questa la nostra ambizione, e neppure la nostra missione”. Un passaggio decisivo: ci è difficile pronunciare una parola unica che valga per tutte le culture, a tutte le latitudini, in tutti i contesti; del resto, dice, non è questa la nostra ambizione, non è quella di offrire la ricetta per tutti i problemi sociali, economici, ecc… Detto con altre parole, potremmo così chiosare, commentare: non è possibile dedurre dalla fede un modello unico di società cristiana, né la Chiesa ha risposte precise e puntuali da dare ai problemi sociali; risposte che siano valide universalmente. Scrive ancora nella Octogesima adveniens Paolo VI: “Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana – conclude il Papa – può condurre a impegni diversi”.
Quindi non deve stupire che a seguito di queste nuove acquisizioni – definiamole così sinteticamente conciliari – sia caduta per un certo lungo periodo un’espressione più definita, quale dottrina sociale, che molti studiosi preferiscono riservare indicando i pronunciamenti del Magistero precedenti il Concilio, parlando invece di insegnamento sociale dal Concilio in poi. Questo un po’ per l’intero pontificato di Paolo VI.
In questo senso, ad esempio, si è mosso l’Episcopato latino-americano: a Puebla, nel 1979, per la terza Conferenza generale, ha evitato l’espressione dottrina sociale, preferendo l’espressione insegnamento sociale. Nel documento finale di Puebla, nel 1979, si legge: “Attenta ai segni dei tempi, interpretati alla luce del Vangelo e del Magistero della Chiesa, tutta la comunità cristiana è chiamata a farsi responsabile delle opzioni concrete e della loro effettiva realizzazione, per rispondere alle interpellanze che le mutevoli circostanze presentano. Questi insegnamenti sociali hanno poi un carattere dinamico – scrive – e nella loro elaborazione, come nella loro applicazione; e i laici non devono essere passivi esecutori, ma collaboratori attivi dei pastori, ai quali apportano la loro esperienza e la loro competenza professionale”.
Dunque, una concezione dinamica, anche nei contenuti oltre che nella prassi, della dottrina sociale della Chiesa: anche nel metodo. Ricordate, appunto, l’espressione già citata che compendia in sé una delle più complete definizioni di dottrina sociale della Chiesa, quella che ……………..da Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis: “La dottrina sociale della Chiesa – al n. 41 – non è una terza via tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé”. Allora, sempre un passo ulteriore: nella Sollicitudo rei socialis noi individuiamo anche un percorso, un metodo, un’indicazione per la prassi. La dottrina sociale della Chiesa comporta in primo luogo la rilevazione dei segni dei tempi; sarebbe quella fase che Papa Giovanni aveva definito del “vedere”, del “valutare”, dell’ “osservare”, del “rilevare”.
Qui, immaginate su questo terreno, quanto le scienze sociali possano dare un contributo forte e determinante. La Sollicitudo rei socialis, infatti, scrive: “La dottrina sociale della Chiesa è l’accurata formulazione dei risultati – qual risultati? – di una attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo”. Una riflessione, diciamo, sulla complessità della realtà umana nella società e nel contesto internazionale. Però questa riflessione non è acritica, non è una riflessione, come potrei dire, priva di paternità, di ascendenze, perché la Sollicitudo rei socialis aggiunge: “Una riflessione alla luce della fede e della Tradizione ecclesiale”.
Consentitemi di spendere mezza parola proprio sul concetto di Tradizione ecclesiale. Una lettura miope, arbitraria e molto riduttiva ci consegna un’immagine inesorabilmente statica della Tradizione: la Tradizione è il passato, la Tradizione è l’immobilità; nulla di più “errato”, soprattutto in una concezione teologica ed ecclesiologica della Tradizione. La Tradizione è dinamismo, la Tradizione è una successione di sequenze, di stagioni: noi oggi siamo quello che siamo, grazie alla Tradizione; noi siamo figli di una stagione che ci ha preceduto e “i nostri figli”, in senso lato e complessivo, sono evidentemente proprio figli nostri nel senso di figli della nostra cultura, della nostra concezione della Chiesa, della nostra prassi ecclesiale: quindi questa concezione dinamica della Tradizione. D’altro canto, l’etimo “tradere” vuol dire “consegnare”.
Ci sono delle bellissime immagini nei Chassidim ebraici, proprio che danno l’idea come, di parola in parola, si trasmette sino agli ultimi confini del mondo la “verità”: tante piccole verità, che continuamente si confrontano con la Verità e quindi con una davvero successioni di momenti, di protagonisti maggiori o minori, anonimi o noti, di questa, appunto, ininterrotta teoria di esperienze, di storie individuali, di storie collettive.
Dicevo, veramente mi pare, nella lezione introduttiva, che mai come la Chiesa, evidentemente, dispone di una memoria così lunga nel tempo, bimillenaria; questa memoria è in realtà il carico, anche di ombre, non sempre solo di luci, ma memoria che mostra la grande dotazione, la grande bisaccia che la Chiesa ha sulle spalle – e la Chiesa sono i credenti, oggi, la comunità cristiana – e questa bisaccia è evidentemente fatta di innumerevoli esperienze vissute, tante storie, tante esperienze anche…..(?).
Ma c’è un passaggio ulteriore nella Sollicitudo rei socialis, in questa definizione cardine: “Suo scopo principale (della dottrina sociale della Chiesa) è di – si badi bene l’espressione, il verbo – è di interpretare tale realtà”: non di decifrare.
(Io ho un grande – siccome capisco molto poco delle tecnologie informatiche e telematiche: mi basta solo la mera scrittura per l’esercizio feriale del mio lavoro – e quindi ho grande rispetto dei traguardi, ma io sono convinto che le tecnologie informatiche generino costantemente ignoranza. Perché? Perché sono affidate alla reiterazione continua, alla ripetitività, cioè gli studenti che studiano mediante “il supporto informatico, studiano per studiare, significa: mandare a memoria, memorizzare una successione di dati, di rilevazioni, ecc…, non “capire e ragionare).
Ora, l’espressione “interpretare” è un’espressione fortemente impegnativa; che non si tratta solo di registrare la realtà, ma di interpretarla, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente. (?) Il Vangelo è la cartina tornasole con cui ci si confronta e si confronta questa complessità della storia.
Infine la dottrina sociale implica, esige, comporta l’agire; non può rimanere, appunto, una bella collezione di documenti, una biblioteca specializzata: appunto, ancora una volta la dottrina sociale della Chiesa affidata agli addetti ai lavori, agli specialisti – il 90% sono ecclesiastici, perché di mestiere scrivono, elaborano la dottrina sociale della Chiesa. Bene, invece nella rinnovata concezione post-conciliare, essa (la dottrina sociale della Chiesa) implica, esige, comporta l’agire.
La lettura dei segni dei tempi alla luce del Vangelo e del Magistero ecclesiale, compiuta dalla comunità cristiana, cito la Sollicitudo rei socialis: “Per orientare il comportamento”.(Qua si è ormai saputo, inesorabilmente lettera morta)? D’altro canto la “Parola” che si fa cultura non è altro che la Rivelazione, la Scrittura, l’annuncio, la buona notizia che si traduce in comportamenti, in una seminagione del Vangelo nel tempo presente, non nell’altro ieri, che ormai è passato, ma nel tempo presente ed eventualmente soprattutto nel tempo che incalza, nell’immediato futuro. “Orientare il comportamento”, perché si deve dire che la dottrina sociale della Chiesa, scrive Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis: “Appartiene non al campo dell’ideologia, ma al campo della teologia, e più propriamente della teologia morale”.
Un ulteriore passaggio che titolerei così: “il significato e il valore etico, religioso della solidarietà”: un grande traguardo raggiunto dalla dottrina sociale della Chiesa. Bene, se noi prendiamo tra le mani la Laborem exercens, cioè l’enciclica sociale di Giovanni Paolo II per il 90° anniversario della Rerum novarum, nel 1981; se noi prendiamo tra le mani la Sollicitudo rei socialis, 1987, per i venti anni della Populorum progressio; se noi prendiamo tra le mani la Centesimus annus, per i cento anni della Rerum novarum, queste tre grandi encicliche sociali di Giovanni Paolo II recepiscono e confermano le acquisizioni conciliari. Non solo, ma le elaborano ulteriormente, compiono passi ulteriori.
La questione sociale, ad esempio, pare di capire, una questione che ha a che fare con la qualità della vita, in qualsiasi contesto, storico, geografico, culturale: ha a che fare con la qualità della vita. Gli squilibri mondiali e locali, i problemi individuali e collettivi si sono talmente ampliati da superare gli stessi confini del mondo. è una questione di pace – drammaticamente ne siamo testimoni in questi giorni – è una questione di strutture globali, è una questione di vita o di morte dell’uomo, anche di vita o di morte del suo habitat naturale.
Bene, di fronte a questa complessità, drammaticità, urgenza di problemi, la Chiesa più che mai “ha una parola da dire”, scrive la Sollicitudo rei socialis: “ha una parola da dire” – non rinuncia a dire alcune parole – perché sono implicati:
1° - Il piano dei valori, gli orientamenti etico-religiosi. La Laborem exercens scrive: “Non spetta alla Chiesa analizzare scientificamente i mutamenti sociali; essa ritiene invece suo compito contribuire ad orientare questi cambiamenti, perché si avveri un autentico progresso dell’uomo e della società”.
……………………………………………… .(LATO B) ..……………….Paolo VI definì la civiltà dell’amore, è parsa troppo spesso uno slogan, quasi un grande contenitore vuoto. Bene, in realtà, la civiltà dell’amore è, appunto, una civiltà che sappia praticare la dottrina sociale della Chiesa, sappia interpretarla.
Il grande tema che si affaccia con le tre encicliche di Giovanni Paolo II, è il grande tema della solidarietà, soprattutto nella Laborem exercens e nella Sollicitudo rei socialis: il tema della solidarietà. Evidentemente, appunto, la Sollicitudo rei socialis chiarisce subito cos’è la solidarietà e scrive: “Non è tanto un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine e lontane, quanto piuttosto la traduzione in scelte coraggiose, nell’opzione o amore preferenziale per i poveri (al n. 42 della Sollicitudo rei socialis), per le classi più emarginate e per i popoli più indigenti”
A ben vedere, queste tre encicliche di Giovanni Paolo II ci consegnano un’idea di solidarietà estremamente suggestiva e, direi con espressione forte, profetica: cioè solidarietà e anzitutto una nuova cultura, un nuovo modo di pensare, ancor prima che di vivere; o di vivere comunque coerentemente con un nuovo modo di pensare. Quindi, solidarietà è una cultura nuova, ma per il credente è una coscienza nuova; in virtù di questa nuova cultura, in virtù di questa nuova coscienza, si è indotti a superare ogni forma di egemonia, di imperialismo, di ingiustizia, di sopruso, nel piccolo e nel grande, nel vissuto umano, al fine di realizzare un sistema internazionale che si regga sul diritto, sulla norma positiva, sulla eguaglianza e sul rispetto delle differenze legittime. Quindi la Chiesa è fortemente impegnata a realizzare esperienze, culture, coscienze solidali.
Tutto quanto finora detto ha intimamente a che fare con la missione della Chiesa. Cresce, matura, evolve la dottrina sociale della Chiesa perché cresce, matura, evolve l’ecclesiologia, l’immagine, la consapevolezza che la Chiesa ha della propria vocazione e della propria missione, pur nella inalterata identità cristologica fondativa. In realtà, è la storia che pone domande, interrogativi, che interpella la Chiesa e quindi la dottrina sociale della Chiesa, che chiede alla Chiesa modalità sempre nuove di presenza, di testimonianza, di annuncio, di solidarietà, di carità. E la Chiesa, ad esempio, è chiamata ad esercitare una funzione fondamentale, irrinunciabile, che dall’età apostolica ad oggi, appunto, le è propria, cioè una funzione di coscienza critica: coscienza critica nei confronti di tutto ciò che, alla luce del Vangelo, nega l’uomo, il primato dell’uomo, la dignità dell’uomo, la sua libertà, ecc… Coscienza critica nei confronti di tutto ciò che nega la trascendenza, perché la trascendenza appartiene all’uomo, è connaturata all’uomo, è dimensione fondativa dell’uomo.
Ma la Chiesa ha anche un’altra missione: è quella di ricomporre moralmente e socialmente l’umanità; evidentemente è una missione immane, potremmo dire, utopica, che solo, appunto, in quel “non ancora” potrà inverarsi, però, evidentemente, questa prospettiva utopica va precorsa e anticipata con segni concreti, storici, nel presente. E quindi, allora, uno sforzo paziente, impressionantemente e logorantemente paziente, per cui va posto in evidenza, sempre più affermato. Accentuato, promosso, quanto c’è di comune e non quanto, invece, divide, a tutti i livelli, in tutti i contesti, oltre le differenze, intorno evidentemente a valori fondamentali, condivisi, di convivenza umana.
Ora, il cosiddetto discorso sociale della Chiesa, il cosiddetto insegnamento sociale della Chiesa, la cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, ha compiuto evidentemente lunghi passi. Evidentemente c’è una grande missione, che viene affidata alla Chiesa ed è la missione, direi, originaria e ineludibile, fondamentale: è la missione evangelizzatrice. Ora, evangelizzare significa, appunto, offrire costantemente la “buona notizia”, il buon annuncio “euanghelion”; quindi questa buona parola che merita di essere declinata, interpretata in una pluralità sterminata di culture, di stagioni storiche, di contesti differenziati.
Tutte queste riflessioni, molto sintetiche, evidentemente, ci immettono in quella sintesi che, a distanza di un secolo dalla Rerum novarum, con la Centesimus annus, ha fatto tesoro della dottrina, delle riflessioni, delle ricerche, delle elaborazioni, ma anche delle esperienze storiche. è un secolo di cammino dottrinale, ma anche un secolo di cammino reale, storico, di carità, di solidarietà, di …………, appunto, di passione per l’uomo, di dedizione alla causa dell’uomo. E un’utilissima battuta, che credo meriti di essere fatta dopo questa prima parte, ed è una battuta che investe un tema molto difficile ed apparentemente distinto da tutto quanto abbiamo detto e che è stato fortemente e coraggiosamente sintetizzato nella Veritatis splendor di Giovanni Paolo II: è il grande tema della verità.
Bene, non si può presumere di fare dottrina sociale della Chiesa, laddove non siano chiari i fondamenti veritativi sull’uomo, sul suo destino, sulla sua natura; cioè, evidentemente, il rischio è che ci si batta per un uomo parziale, ridotto a dimensioni contenute – non per tutto l’uomo – e, appunto, come dice Paolo VI nella Populorum progressio: “per tutti gli uomini”. Quindi, questa integralità, proprio perché il vero progresso, il vero sviluppo – Populorum progressio – implica, esige, lo sviluppo dell’uomo tutto intero, e di tutti gli uomini.
Perché questo avvenga, almeno tendenzialmente, virtualmente e potenzialmente, evidentemente, è implicata una solida concezione cristiana dell’uomo, cioè un’antropologia cristiana, un’idea di uomo, direi, nella sua compiutezza, nella sua unità, che solo la verità cristiana è in grado di dire, con una parola, da questo punto di vista, veramente e finalmente definitiva, perché anzitutto è la Rivelazione, sono le Scritture che ci dicono qual è il vero volto dell’uomo, la vera fisionomia dell’uomo.
La Redemptor hominis, evidentemente, lo esplica in modo davvero finissimo; ecco perché la dottrina sociale della Chiesa non può essere solo una riflessione di carattere sociale, ma è anche una riflessione di carattere teologico, antropologico-teologico. Questo mi pare estremamente importante.
Sempre nella prima lezione del nostro corso, …………. credeva di osservare che ancora oggi, troppo spesso, pare che la dottrina sociale della Chiesa sia appannaggio degli addetti ai lavori, degli specialisti e soprattutto non è ben chiaro se la dottrina sociale della Chiesa debba e possa innestarsi nella cosiddetta pastorale ordinaria. Forse qualche chiarificazione e anche qualche passo in avanti lo si potrebbe compiere laddove, appunto, proprio sulla scorta delle autorevoli sollecitazioni di Giovanni Paolo II, se si decidesse ad immetterci, ad entrare nel vivo della cosiddetta nuova evangelizzazione.
Cioè, in realtà, ci poniamo adesso il problema del rapporto tra dottrina sociale della Chiesa e nuova evangelizzazione. Si è detto, evidentemente, che grazie al Vaticano II si è rinnovata la dottrina sociale della Chiesa, come si è rinnovata l’evangelizzazione. Dall’evento conciliare, sulla scorta della dottrina conciliare, dell’ecclesiologia conciliare, si profilano evidentemente nuovi scenari, nuovi percorsi, nuovi orizzonti. E dunque la dottrina sociale della Chiesa è fortemente interpellata dalla nuova evangelizzazione, anzi addirittura è a tal punto interpellata da essere, come potrei dire, assunta dalla nuova evangelizzazione come componente fondamentale, imprescindibile.
Ora, abbiamo detto anche che non è semplice definire che cosa sia “nuova evangelizzazione”. Tuttavia, e lo vedremo, la Centesimus annus ci offrirà una chiara interpretazione e anche approfondirà il rapporto nuova evangelizzazione-dottrina sociale della Chiesa. Al tempo stesso, vorremmo un poco anticipare e isolare questa questione.
Con una preoccupazione, una volta tanto sana e sacrosanta, che è quella della …………….. ed è anche quella della più immediata e coerente applicazione di quanto sinora si è detto, cioè rispondere alla domanda: ma che cosa ha a che fare la dottrina sociale della Chiesa con il mio impegno contemporaneo, credente, un impegno ecclesiale, un impegno spirituale, un impegno pastorale, un impegno culturale, cristianamente ispirato? è un po’ quanto sostanzialmente ci si è chiesti qualche anno fa, e forse ancora oggi ci si chiede: questo progetto culturale cristianamente ispirato promosso dalla Chiesa in Italia, se allora siamo convinti che non sia un “progetto politico della Chiesa italiana”, se siamo convinti che non sia un modello, un ermeneutica di carattere economico, sociale, ecc., che cosa è? In realtà la dottrina sociale della Chiesa e il progetto culturale trovano qualche risposta adeguata proprio laddove si entri più nel vivo della nuova evangelizzazione, si entri sul terreno proprio della nuova evangelizzazione.
Tutti siamo d’accordo, ad esempio – procedo un po’ per sillogismi, per consequenzialità, per affermazioni che conducono continuamente ad altre osservazioni – se il Vangelo, e siamo concordi, è sempre nuovo (che ha evidentemente in sé una novità feconda e inesauribile), oggi però questa novità si manifesta in una duplice esigenza: l’esigenza della conversione personale e l’esigenza della conversione comunitaria. Per conversione è da intendersi una conversione delle culture, delle mentalità, delle modalità comportamentali, delle coscienze. In grande sintesi.
In realtà, la nuova evangelizzazione rimarrebbe incompiuta – diciamo più brutalmente, lettera morta – se non incidesse in profondità sui comportamenti individuali e collettivi, se non “convertisse” i valori, gli pseudovalori – che culture dominanti diffondono. In fondo si torna ad una questione decisiva, nodale, che magari appariva più attuale per il passato, ma che mi pare abbia oggi una sua straordinaria attualità, vorrei dire: la fede; un’idea, a mio avviso, davvero basilare – la fede per essere operante, trasformante, incisiva, deve farsi cultura.
E qui, evidentemente, sta uno dei nodi fondamentali della nuova evangelizzazione, perché la fede, facendosi cultura, possa operare significativamente, possa incidere e trasformare la società, la vita individuale, si esige un rinnovamento pastorale; rinnovamento pastorale, ad esempio, che è da prevedersi in un certo percorso. In grande sintesi: un discernimento comunitario delle culture, perché consenta, appunto, di capire, di comprendere, di penetrare la realtà umana che si vorrebbe evangelizzare. Chi, oggi, la Chiesa è chiamata ad evangelizzare? Quindi, evidentemente, c’è da chiedersi chi sono i soggetti della pastorale. Come nel passato, evidentemente, per i pontefici, gli ecclesiastici, i pastori, oggi, tutti i credenti sono soggetti pastorali evangelizzatori.
C’è una bella espressione ripresa a più mani, ma che nella sua semplicità è di una eloquenza davvero suggestiva: sapere guardare e amare le culture con gli occhi, e al tempo stesso, con il cuore di Cristo. Quindi non solo una lucida rilevazione, ma anche una “condivisione con le sorti (?) dell’uomo e del mondo”. E la cultura costituisce quel movente decisivo che innesca il cambiamento, la trasformazione; la cultura è intrinsecamente dinamica e genera processi dinamici. Ora, il cristiano è consapevole che il Vangelo è intrinsecamente dinamico. Allora, una cultura evangelicamente ispirata, evidentemente, ha in sé un prorompente dinamismo; non può non scuotere, non solo le coscienze, ma anche i comportamenti, le scelte, le dinamiche, addirittura anche sociali.
Però che cosa significa convertire le culture? Direi che una delle più naturali, immediate definizioni o indicazioni, convertire le culture significa: compiere un’opera di cristianizzazione dell’ethos dei popoli, e al tempo stesso delle coscienze personali. E questo ethos, cioè questo intreccio di pensiero di pensiero e azione, di mentalità e di comportamenti, evidentemente è la risultante di condizionamenti storici, del perpetuarsi di strutture sociali, economiche, politiche; un poco è quanto la sua storia lo ha reso, lo ha fatto. Ora, un aspetto, a mio avviso, irrinunciabile in questa fase introduttiva, è davvero la consapevolezza che non tutti i popoli sono uguali, non tutte le culture sono uguali, perché esiste una difformità, una pluralità; evangelizzare le culture, allora, significa capirle, ascoltarle, penetrarle, approfondirle, e allora, appunto, compiere quell’opera di discernimento evangelico.
Un discernimento su che cosa? Di che cosa? Un discernimento dei valori dominanti di una cultura in una società, ma un discernimento anche sugli atteggiamenti e comportamenti, sui comportamenti individuali e collettivi, sulle condizioni di giustizia, di convivenza, ecc., considerando comunque le società in continuo divenire, in continuo mutamento.
Quando uno dice: la società italiana, ecco, quale società italiana? Dire la società italiana è già una forte generalizzazione – la cultura italiana. Nella migliore delle ipotesi, evidentemente, si dovrebbe dire: le culture italiane, le società italiane, e i sistemi economici italiani e non l’economia italiana, per indicare una frammentazione, ma pur (?) in una piccola penisola quale è la nostra, immaginiamo uno scenario, evidentemente, molto più ampio, in ……………. più dilatato.
Quindi, concepire la nuova evangelizzazione anzitutto partendo dalla cultura, cioè partendo, appunto, da quell’intreccio tra mentalità e comportamenti che fanno la cultura di una persona, di un popolo, di una società. Questa è una concezione quasi banale, ma essenziale, e sostanzialmente antropologica. Compiere dunque quell’opera di inculturazione del Vangelo: questa è la nuova evangelizzazione di inculturazione del Vangelo, la novità evangelica che, come seme nella massa, come lievito, evidentemente, fermenta, che opera dinamicamente.
Ad esempio, una cultura evangelizzata è l’opposto di una ideologia; una cultura evangelizzata ed evangelizzante, cioè capace di rinnovarsi continuamente, è l’opposto di una ideologia, che ha una propria griglia rigida e blindata, dalla quale fatica, evidentemente, a scorgere i mutamenti, i cambiamenti che le stanno attorno. Questa cosiddetta forza del Vangelo, di cui Paolo parla insistentemente, è appunto generata da un dinamismo incessante: il dinamismo di Cristo, cioè quel fermento ininterrotto che pervade la storia.
Certo, a questo punto, vi è una domanda quasi drammatica: come è possibile che dopo “2000 anni di cultura cristiana” sussistano ancora i mali del mondo? Evidentemente, solo un recupero di una visione alta, appunto evangelica, consente comunque di sperare contro tutti e contro tutto.
Una cultura evangelizzata, evidentemente, ha in sé una forza dirompente, quella che anni fa un giovane (?) amava definire: la riserva critica del Vangelo. Il Vangelo non può mai accontentarsi “in modo esclusivo” di un modello, di una cultura, di una formula; di una riserva critica che ha in sé una forza profetica, evidentemente – una valenza profetica – perché, evidentemente solo il Padre è perfetto, il resto è di questa valle di lacrime, per usare un’espressione ben nota.
Ora, fatta questa premessa – allora la dottrina sociale della Chiesa quale ruolo può giocare in questo scenario detto della nuova evangelizzazione? Anzitutto il rinnovamento della missione evangelizzatrice della Chiesa, il rinnovamento dell’opera indefessa, quotidiana, feriale o domenicale, per dire i grandi momenti, i grandi eventi, feriali e quotidiani del vissuto. Questo rinnovamento dell’opera evangelizzatrice della Chiesa costituisce già di per sé un arricchimento per la dottrina sociale della Chiesa, perché conferisce alla dottrina sociale della Chiesa una altrettanto missione dinamica di rinnovamento nella valutazione, nel giudizio, nel discernimento, nello scrutare i segni dei tempi, nell’individuare l’azione, la testimonianza, la presenza: questo è un elemento sul quale poi ruota il nostro ragionamento.
Però, una migliore riflessione, che non sia quella mia, ci viene sempre comunque da quel tanto annunciato e proclamato Concilio, che ancora poco conosciamo, e soprattutto applichiamo. Bene, l’apporto più notevole del Vaticano II alla dottrina sociale della Chiesa, ad esempio – già un po’ l’abbiamo detto e lo riprendiamo qua – è, appunto, l’ampliamento e il perfezionamento del modo di trattare i problemi che la storia pone dinanzi. Cioè, si è ad esempio affinata, approfondita la capacità di analisi e la forza di scrutare, penetrare, approfondire in una disamina, appunto, sempre più acuta, e la Gaudium et Spes resta comunque la magna charta per la dottrina sociale della Chiesa dal Concilio in avanti, perché colloca la dottrina sociale della Chiesa già nel solco della missione evangelizzatrice della Chiesa. La dottrina sociale della Chiesa non è qualcosa di a se stante, una competenza, una specializzazione, una scienza teologica; la dottrina sociale della Chiesa è opus ecclesiae – opera della Chiesa – e esplica, manifesta la missione evangelizzatrice della Chiesa.
L’altra grande fecondità conciliare che ne viene, l’altra grande eredità che il Concilio affida alla dottrina sociale della Chiesa è quella dello strumento, del metodo, della modalità del dialogo, che richiede straordinaria umiltà, capacità di ascolto paziente, sforzo, appunto, di comprensione e di discernimento, non pretesa o presunzione o supponenza di.
Vi è, ad esempio, poi una terza grande eredità conciliare che è la ricchezza teologica che riviene dal Concilio Vaticano II, e affidata alla dottrina sociale della Chiesa per quanto attiene la riflessione sulle realtà temporali. Potremmo dire – adesso con una immagine che così invento al momento – potremmo dire che il Concilio dissoda un terreno, predispone un terreno, perché sia “fertilizzato”, fecondato, seminato dalla nuova evangelizzazione. Il terreno di competenza e specifico della dottrina sociale della Chiesa, è il terreno delle cosiddette realtà temporali, dove, appunto, alla grande ulteriore eredità del Vaticano II compete una autentica missione al laicato – ai laici. Anzi, a ben vedere, è su questo terreno che il laico credente riscopre la propria identità: su questo terreno; non ho detto al laico, ho detto al laico credente, cioè al laico che tutti i giorni fa i conti con la Parola di Dio, con il Magistero ecclesiale, che si sente partecipe di una tradizione ecclesiale: non è un anonimo, non è un orfano, non è privo di paternità, ma ha delle ascendenze, appartiene ad una genealogia, è figlio di una tradizione e di una storia. Provate a pensare perché noi preghiamo in un certo modo, oggi; perché noi crediamo in un certo modo, oggi; perché siamo figli di un modo di pregare, di un modo di credere che ci ha preceduto.
Ora, ecco qui è scoperta anche questa idea dinamica della tradizione ecclesiale. E questo terreno delle realtà temporali, se io chiedessi ad ognuno di voi di – con una espressione, con una locuzione, con un termine – di identificare una zolla di questo terreno, io credo che non riusciremmo nel tempo restante ad assodare, ad individuare, appunto, le tessere di questo mosaico, le zolle di questo terreno; perché? Perché queste realtà temporali vanno dalla famiglia – luogo naturale, ecc. ecc. – alla promozione della pace; vanno dal sindacato alla cooperazione; vanno dalla cultura, in senso più specialistico – l’intelligenza e la pensosità delle persone, soprattutto dei giovani – al ruolo sociale dei media; vanno dalle nuove tecnologie della comunicazione, e vanno, appunto, alla ricerca scientifica.
Vi è, dunque, anzitutto quest’opera di discernimento. Il terreno della nuova evangelizzazione sta dinanzi quello che è proprio specifico delle realtà temporali, e pure altrettanto dinanzi – anzi è parte integrante – è un’opera di discernimento comunitario criticamente ispirato, quindi sapienziale, che fa costantemente i conti con la Parola, che riesce a leggere in filigrana le parole umane alla luce della Parola divina. è evidentemente una fatica importante e gravosa, che il tempo presente pastorale – la pastorale ordinaria – spesso tende a subordinare a mille altre esigenze.
Io capisco che i Pastori, ma non solo loro, perché mi pare un gioco un po’ viziato quello di dire: “se i preti fossero così; se il mio parroco fosse cosà, ecc.”, la risposta più naturale è: “e tu cosa fai?”. Tu fai poco, ma fai già molto se non ti limiti solo a chiederti, dalla mattina alla sera, che cosa fanno gli altri, ma cominci a fare. Questo lo dico anche sulla scorta di una personalissima esperienza ecclesiale, dove uno, appunto, si logora il fegato, però rischia ad un certo punto di girare a vuoto e di girare su se stesso, laddove non si è più capaci di relazioni, anche ecclesiali, laddove non pensi di essere responsabile. Il Vangelo ci definisce autenticamente “servi inutili”, però noi sappiamo che l’operaio della undicesima ora, evidentemente, ha diritti sacrosanti e una remunerazione tale e quale dell’operaio della prima ora.
Dicevo, appunto, che è in realtà una prassi pastorale che chiede di essere ripensata. Ma come ripensata? Essere ripensata proprio sulla scorta di questa capacità e di questa forza che la dottrina sociale della Chiesa ha intrinsecamente insita, radicata, cioè quella di squarciare gli occhi, di puntare gli occhi per capire quali sono le sfide dei segni dei tempi, le domande, gli interrogativi che vengono posti. Dicevo, il metodo è, appunto, quello del discernimento comunitario; che è impresa faticosa e difficile: non ci si illuda, è un’impresa difficile che chiede, ad esempio, sapienzialità, che richiede sforzo di obiettività.
(Faccio solo un passaggio ulteriore, poi apriamo il dibattito, eventualmente).
La Centesimus annus, al n. 54, scolpisce con una battuta, in grande sintesi, quanto fino ad ora stiamo introducendo: “La dottrina sociale della Chiesa ha di per sé un valore di uno strumento di evangelizzazione”. Alla fine che cosa scopriamo? Scopriamo che il principio della nuova evangelizzazione è anche il principio primario della dottrina sociale della Chiesa; cioè Cristo è, evidentemente, al centro dell’evangelizzazione, dell’inculturazione e dunque anche socialmente, politicamente, economicamente parlando, della liberazione (?) umana. “Non c’è vera soluzione della questione sociale – scrive la Centesimus annus – fuori del Vangelo”: vera soluzione. Ricordate, non a caso ho parlato di verità, cioè non a caso volevo richiamare alla verità sull’uomo, non alla contraffazione, alla riduzione, alla parzialità, ma alla verità tutta intera sull’uomo.
Qualche giorno fa sono stato ad ascoltare una bella meditazione tenuta da don Canobbio, qui in centro storico, che in una serie di martedì di quaresima che contemplavano, appunto, le opere di misericordia, ……………………, affidata ad una delle opere di misericordia più faticose, perché è molto più semplice dar da mangiare agli affamati e anche ………….. ma molto più difficile è istruire gli ignoranti e consigliare i dubbiosi: opere di misericordia spirituale. Molto più difficile. Anzitutto perché ignoranti e dubbiosi siamo tutti; istruire gli ignoranti quando uno non accetta di riconoscersi ignorante, non è un’impresa delle più agevoli. E consigliare i dubbiosi in un intreccio di culture dominanti in cui il dubbio è il valore per eccellenza, e allora si vive costantemente nel dubbio, anzi è come una funzione sodomistica: infatti nei salotti bene si dice che si dubiti inesorabilmente da mattina a sera.
Una cultura che nega la trascendenza e che quindi nega la verità sull’uomo non può che essere una cultura perennemente dubbiosa; laddove addirittura il dubbio diventi rituale, cioè si è intelligenti laddove si dubita. Dubitare perennemente. Per cui chi non dubita, allora è dogmatico, è dottrinale: i cattolici non dubitano, quindi sono dogmatici, sono dottrinali. A parte che dal punto di vista esistenziale, fino all’ultimo, qualche domanda dubbiosa permane anche nel credente tutto di un pezzo, ma evidentemente il cristiano abbraccia anche laddove non capisce fino in fondo la verità tutta intera. Ho detto non ………………………………..……………… (CAMBIO CASSETTA) ma è un gesto esistenziale di fondo, perché al fondo la fede è un abbandono incondizionato: è la ricerca, nel dubbio, ma evidentemente non può non esserci poi un abbandono incondizionato.
Ora, questa espressione “non vi è vera soluzione della questione sociale fuori del Vangelo” ci convince che esiste un Vangelo sull’uomo: il Vangelo di sempre, dove non si trovano, ripeto, le ricette tecnologiche, scientifiche, ecc. ecc., ma si trovano le grandi risposte per l’uomo che poi, evidentemente, armato, appunto, di questo strumento (puntini puntini).
Allora, il Concilio – a questo punto – e una nuova evangelizzazione che rende nuova anche la dottrina sociale della Chiesa, che cosa insegna? Insegna una cosa estremamente interessante: la socialità, appunto, del Vangelo. Il Vangelo, meglio diciamo, Cristo Salvatore, Cristo Redentore, salva l’uomo storico, cioè l’uomo incarnato nella storia, non l’uomo “enucleato” dei sofisti, dei presocratici, ma l’uomo nel suo vissuto, nella sua unità; ecco perché allora la dottrina sociale della Chiesa ha qualcosa di importante da dire all’uomo del nostro tempo, perché, attingendo – la dottrina sociale della Chiesa – le risposte fondamentali dal Vangelo – evidentemente – allora parla al cuore, all’intelligenza dell’uomo, di questo uomo preciso, descritto, definito.
Ma c’è una espressione ancor più importante che viene da quella straordinaria, bella immagine che in filigrana cogliamo nella Redemptor hominis – uno pensa: nella Redempor hominis io trovo veramente il volto di Cristo; è vero. Ma tu trovi il volto di Cristo Redentore che, evidentemente, riflette il volto più autentico dell’uomo. Quindi la Redemptor hominis parla dello sviluppo dell’uomo che viene da Dio, da quel modello di Gesù che è l’Uomo-Dio, che deve ricondurre a Dio. Ecco perché tra annuncio, tra nuova evangelizzazione e promozione dell’uomo e dottrina sociale, vi è una stretta connessione: non sono piani separati.
Potremmo dire con Padre Carier, questo grande specialista di dottrina sociale della Chiesa, che tutto l’insegnamento della Chiesa è sociale, perché l’uomo è sociale; perché parla all’uomo, si rivolge all’uomo, ma a un uomo sociale, un uomo che vive di relazioni; anche l’uomo più misantropo. Anche il monaco incastonato nelle Meteore elleniche, evidentemente è un uomo non estrapolato, che è lì da solo, ma che evidentemente ha una serie comunque – prima, poi, durante, dopo – di relazioni.
Allora, davvero, questa dimensione sociale e antropologica rende ancor più attuale la parola propria della dottrina sociale della Chiesa. Certamente non si fatica a convenire che questa dimensione sociale è una dimensione irrinunciabile e che permea, ad esempio, tutti i più fondamentali documenti di Giovanni Paolo II, sia quelli sociali – i cosiddetti tradizionali, cioè appunto la Laborem exercens, la Sollicitudo rei socialis e la Centesimus annus – ma molti altri documenti e faccio una specie di sintesi rapidissima. Non solo dunque le tre grandi encicliche sociali, ma l’insegnamento di Giovanni Paolo II implica, concorda, dà conto della dimensione sociale e culturale, in quanto riflette ininterrottamente questa forte passione per l’uomo, della Chiesa e di Giovanni Paolo II, e dell’uomo contemporaneo in tutti ……
Si potrebbe partire dalla Redemptor hominis, del 1979, su Gesù Cristo Redentore, che delinea le gravi minacce della civiltà contemporanea, spesso materialistica,, e al tempo stesso però indica le più profonde aspirazioni ad un giusto sviluppo umano.
Per passare poi alla Dives in misericordia, del 1980, che parla della misericordia di Dio per l’uomo, dell’uomo contemporaneo, e al tempo stesso della ricerca della giustizia del mondo.
Quindi la Familiaris consortio, del 1981, sulla famiglia cristiana, che analizza i riflessi e i condizionamenti sociali sulla vita familiare. La Familiaris consortio per altro risente molto di un altro importante e difficile, contrastato, sofferto, documento di Paolo VI, la Humanae vitae, del 1967, sulla famiglia.
E ancora, la Reconciliatio et paenitentia, del 1984, che, sì è un invito primario, forte, deciso alla conversione personale e collettiva – la penitenza – ma che enumera i cosiddetti peccati sociali e strutturali, tipici della nostra epoca.
E ancora la Dominum et Vivificantem, l’enciclica del 1987 sullo Spirito Santo, che denuncia il materialismo ateo come uno dei peccati più gravi contro lo Spirito.
Ed ancora, sempre nel 1987, la Redemptoris Mater, sulla Madonna, che presenta Maria come “un modello di ispirazione per quanti – bellissimo il passaggio centrale dell’enciclica – perseguono la liberazione dell’uomo e l’amore preferenziale per i poveri”. Questo a dire della dimensione sociale ricorrente nella nuova evangelizzazione.
Ed ancora, la Mulieris dignitatem, nel 1988, sulla dignità della donna e sulla promozione del suo ruolo nella società, laddove si parla di mali sociali, soprattutto che si riflettono sulla vita della donna.
Ed infine, la Centesimus annus, che presenta la dottrina sociale della Chiesa come strumento di evangelizzazione, al n. 54. Scrive al n. 5: “La nuova evangelizzazione di cui il mondo moderno ha urgente necessità e su cui ho più volte insistito – dice il Papa – deve annoverare tra le sue componenti essenziali l’annuncio della dottrina sociale della Chiesa”.
Allora, qui che cosa emerge? La forte, decisa, esplicita, chiara, portata rilevanza sociale del Vangelo, dell’annuncio evangelico, della nuova evangelizzazione, che, ripeto, mira anzitutto alla conversione delle coscienze, dei comportamenti degli uomini, delle culture, come per altro ha ben sottolineato in quella splendida esortazione apostolica del 1975, Paolo VI, la Evangelii nuntiandi: “Tutta la forza del Vangelo è necessaria per trasformare le coscienze, per trasformare le mentalità e le istituzioni, al fine di farvi regnare giustizia e pace”. E questa intuizione sta al centro della dottrina sociale della Chiesa, costituisce la chiave principale dell’insegnamento della Chiesa, anche perché, non si dimentichi, la fonte primaria della dottrina sociale della Chiesa è il Vangelo, e i principi fondativi attingono, rivengono tutti dal Vangelo. E al n. 41 della Sollicitudo rei socialis c’è una ulteriore esplicitazione: “La Chiesa reca il suo primo contributo all’assunzione dell’urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su Cristo, quando proclama la verità su se stessa, quando proclama la verità sull’uomo, applicandola in una situazione storica concreta”. è la sintesi, appunto, che la Sollicitudo rei socialis offre alle nostre riflessioni.
Evidentemente possono prevedersi obiezioni alla affermazione che non vi sia soluzione alla questione sociale all’infuori del Vangelo, che evidentemente per le culture correnti pare stridente, addirittura potrebbe costituire un ostacolo e un impedimento alla ricezione del Vangelo sociale, della dottrina sociale. Io credo che la risposta più plausibile e più fondata a tali obiezioni viene proprio dalla Centesimus annus – per cui la risposta a quell’altra puntata, più avanti.
Tuttavia vi è una questione nodale che investe la nuova evangelizzazione e che investe l’annuncio della dottrina sociale della Chiesa e la sua realizzazione; e la questione nodale è una questione originariamente teologica, anzi è una questione originariamente e fondativamente cristologica, che io tradurrei in una domanda che lasciamo aperta: Come annunciare Cristo morto e risorto – morto e risorto per la salvezza dell’uomo, per la salvezza anche sociale dell’uomo, che è una salvezza individuale e collettiva – ad una umanità segnata e (?) da culture egemoni che ben conosciamo? D’altro canto, siamo nel cuore della quaresima, il Cristo morto e risorto, soprattutto il Cristo morto e morto in croce, sappiamo essere stato, ed essere tuttora “scandalo per i Giudei e follia per i Gentili”, come afferma Paolo.
Bene, non possiamo allora a questo punto, conclusivamente, negare che l’insegnamento sociale della Chiesa partecipa di questa radicalità della croce, e partecipa di questa radicalità che è profetica. è quella radicalità che appartiene, appunto, al “già e non ancora”. Giovanni Paolo II, commenterebbe, e ha commentato in questi termini: “Da un lato la Chiesa non può abbandonare la sua missione evangelizzatrice, non può rinunciare; dall’altro è però ben consapevole dei grandi ostacoli e delle profonde pregiudiziali e chiusure che incontra in questa sua missione”.
Ecco perché allora la nuova evangelizzazione, ecco perché allora la “nuova dottrina sociale della Chiesa”, deve mettere in conto, in bilancio, anche questi ostacoli, queste pregiudiziali, queste difficoltà ancor più forti e diffuse rispetto al passato, e che a ben vedere sono anzitutto difficoltà, pregiudiziali di tipo culturale che ormai si sono tradotte in comportamenti di vita, in scelte fondamentali di vita, in decisioni – dell’uomo – fondamentali.
Allora è l’inculturazione della fede, del Vangelo, della dottrina sociale della Chiesa, che deve riscoprire questa sua fondamentale radicalità e questa sua forza, appunto, profetica, con quella riserva critica e con questa capacità di discernimento che sa cogliere e distinguere il bene dal male, che parrebbe oggi, quest’opera di discernimento, sempre più difficile e sempre più impervia.
6° LEZIONE 10.04.03
Riprendiamo il nostro lavoro, questo percorso che dovrebbe addentrarci sempre più nella comprensione diciamo paradigmatica, esemplare, di quale sia la natura, la finalità complessiva del metodo, delle fonti della dottrina sociale della Chiesa. Perché dico in modo paradigmatico ed esemplare? Perché evidentemente non possiamo compiere un’analisi sistematica di tutti i documenti, almeno diciamo pontifici, della dottrina sociale della Chiesa; ne scegliamo uno, appunto, che però ha una valenza, evidentemente, ampiamente rappresentativa, significativamente rappresentativa, cioè espressiva di un secolo di riflessione, di esperienza storica: la Centesimus annus, ma detto questo, dilazioniamo ancora un poco in là nel tempo l’esame analitico del documento, nel senso che mi preme offrire altre considerazioni i carattere generale.
Non sarebbe possibile capire, comprendere, approfondire la Centesimus annus senza tutta una serie di passi propedeutici, di tasselli che via, via, appunto, costituiscono e avvalorano questo mosaico quale dovrebbe essere, appunto, la nostra considerazione della dottrina sociale della Chiesa. Allora, ripeto, attendiamo ancora un attimo ad addentrarci sulla enciclica specifica e compiamo qualche riflessione ulteriore che voglia essere, per un verso di riconsiderazione sintetica e retrospettiva di tutto quanto abbiamo detto sinora, però puntualizzando, cioè fissando alcuni “punti fermi”, alcuni elementi caratterizzanti la dottrina sociale della Chiesa, e aprendo ulteriori prospettive.
Si è detto: primo, quanto sia antica – come il Vangelo, diciamo così, come il primo annuncio – la dottrina sociale della Chiesa,, quale sia la natura e il significato della dottrina sociale della Chiesa. Evidentemente tutto quanto è stato detto sinora ha la presunzione di affermare che la dottrina sociale della Chiesa è legata all’intera esistenza e alla ricca esperienza della Chiesa stessa, della Chiesa apostolica per il lungo corso di questi 2000 anni di storia. Questo sta a dire quanto sia antica e al tempo stesso sempre nuova – quanto antico e sempre nuovo è il Vangelo – e presumere che la dottrina sociale della Chiesa appartenga solo a quel tratto di tempo che va dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, evidentemente è assai riduttivo ed è semplificatorio, ed è univoco.
In secondo luogo, pare di aver sufficientemente, adeguatamente osservato che la dottrina sociale della Chiesa merita di essere sempre collocata, percepita, approfondita nella sua intrinseca, connotativa, dimensione storica. Quindi la dottrina sociale della Chiesa si radica in una ecclesiologia, in una “temporalità” storica che riflette, evidentemente, l’idea, l’immagine, la consapevolezza che la Chiesa ha di se stessa, e al tempo stesso, riflette il tentativo, più o meno riuscito, di corrispondere alle attese, alle esigenze, alle sfide del tempo: quindi la storicità.
Proprio per questo, allora, la dottrina sociale della Chiesa merita di essere inesauribilmente approfondita e merita, ad esempio, di essere compreso il tempo storico, ma anche l’evoluzione teologica, che accompagna questo lungo cammino, per valutare la ricchezza profonda della dottrina sociale della Chiesa e, al tempo stesso, anche l’attualità, la contemporaneità della dottrina sociale della Chiesa. Esistono ormai studi accreditati che mostrano le ascendenze bibliche, patristiche e teologiche, dottrinali della dottrina sociale della Chiesa.
Un esame critico, rigoroso, in tale prospettiva, mostra ancor più la storicità, nel senso migliore, del tempo, non la datazione, l’obsolescenza della dottrina sociale della Chiesa, ma proprio perché una particolare temperie culturale e religiosa, è in grado di ispirare e di immettere nella dottrina sociale della Chiesa elementi che, in altri momenti, non apparivano così evidenti. Faccio un esempio: l’afflato biblico, l’afflato ecclesiologico, che il Vaticano II conferisce alla dottrina sociale della Chiesa, dalla Gaudium et Spes in avanti, era inimmaginabile per il tempo passato, precedente – l’idea di Chiesa, l’idea di Chiesa sacramento, l’idea di Chiesa comunione, l’idea di Chiesa popolo di Dio – determina direi inevitabilmente e significativamente le riflessioni che la dottrina sociale della Chiesa, appunto, dalla Populorum progressio in poi, cioè dal post-concilio in avanti, esprime, manifesta, conferma.
Vorrei, a questo punto, fissare ulteriormente, appunto, alcuni punti fermi, e così sistematicamente sempre evidentemente per ragioni di tempo, le affiderei a questa succesione di frequenze.
1. La dottrina sociale della Chiesa appartiene compiutamente – si è detto – alla vita, all’esistenza, alla storia della Chiesa, e data la sua missione profetica, la Chiesa non ha mai rinunciato, alternando momenti e sensibilità diverse, ma non ha mai rinunciato a proporre il Vangelo sociale, cioè un Vangelo che abbia diretta pertinenza con la dimensione sociale, economica, politica. La dottrina sociale della Chiesa, proprio perché antica quanto la Chiesa, ha mostrato, in fasi e modalità alterne, una scelta evangelica, privilegiata – una predilezione particolare – per i poveri, gli ultimi. Paradossalmente laddove i Pastori della Chiesa avessero obnubilato, opacizzato, allentato tale attenzione, tale predilezione, guarda caso, storicamente questa predilezione per i poveri, per gli ultimi, è stata fatta propria da grandi figure che noi identifichiamo, appunto, nella storia della santità cristiana; cioè la difesa dei poveri, la promozione della giustizia, la promozione della carità in contesti, in latitudini, le più diverse: è stata un’espressione comunque costante e ininterrotta.
Se la Parola di Dio, se la Rivelazione, se l’ordine naturale, il diritto naturale, sono elementi cardine della Dottrina sociale della Chiesa, questo evidentemente esprime l’innesto della Chiesa nella storia. Sarebbe interessante – siamo sempre al primo punto – cogliere come certe caratteristiche, certe accentuazioni della dottrina sociale della Chiesa sono tanto antiche quanto antico è l’Antico Testamento; cioè questa sensibilità e questa accentuazione per i poveri, gli indifesi, gli ultimi, appartiene ad un orizzonte tanto remoto e tanto antico quanto l’Antico Testamento, e lì la Scrittura, una silloge di casi, di esperienze, di modelli, che potrebbero dire, evidentemente, molto anche ai giorni nostri.
D’altro canto la carica profetica che il Vangelo sprigiona, questa – come più volte è stato detto – radicalità, appunto, evangelica è da leggersi, è da percepirsi anzitutto in ordine a quella che forse in modo così esplicito, in quel lontanissimo documento dell’episcopato italiano – o meglio di un Vescovo italiano che fu il Cardinale Michele Pellegrino – fu definita, appunto, l’opzione fondamentale per i poveri; e questo comandamento evangelico che innesca, appunto, una valenza, una forza incontenibile, profetica, appunto, è in realtà consostanziale, intrinseco, insito nel Kerigma, nel nucleo direi originario e fondativo dell’annuncio evangelico.
2. La dottrina sociale della Chiesa si è arricchita attraverso i secoli grazie ad una esperienza unica, che potremmo dire irripetibile, che consente alla Chiesa una comprensione della condizione umana del tutto particolare – ripeto; unica e irripetibile. Anche perché questa esperienza storica della Chiesa ha varcato i confini del tempo, delle epoche storiche, dei periodi, delle scansioni temporali. Questa, appunto, quasi addirittura incommensurabilità, incomparabilità della vita della Chiesa lungo i secoli, conferisce alla Chiesa una “capacità comprensiva”, direi appunto, universale nel tempo e nello spazio. E sta qui la prospettiva storica della dottrina sociale della Chiesa, perché corrisponde alla prospettiva storica della Chiesa stessa.
Quindi la capacità di superare limiti, periodi, epoche e latitudini e contesti. Potremmo dire, allora, che la storicità della dottrina sociale della Chiesa in realtà fa propria quella visione teologica della storia e della società umana, che è propria della Chiesa stessa. Dal momento che la dottrina sociale della Chiesa appartiene all’evangelizzazione e missione evangelizzatrice della Chiesa, fa propria la visione teologica della storia e della società umana. E dunque la condizione umana, la dignità della persona umana, ha quell’origine divina che, appunto, è l’origine creaturale che viene affermata e riconosciuta; e il destino trascendente nella visione biblico-teologica cristiana – giudaico-cristiana – in realtà conferisce alla dottrina sociale della Chiesa, appunto, questa dimensione storica, universale.
A questo riguardo sono tuttora memorabili alcune espressioni di Paolo VI alle Nazioni Unite nel 1965 o di Giovanni Paolo II che, riprendendo Paolo VI, nella Sollicitudo rei socialis afferma che: “La Chiesa può legittimamente definirsi esperta in umanità”. Ora questa immagine della Chiesa, esperta in umanità, ben si attaglia alla dottrina sociale della Chiesa, anzi potremmo dire che proprio …………… alla dottrina sociale della Chiesa.
3. La dottrina sociale della Chiesa e il pensiero sociale cristiano sono il riflesso dunque di una ricchezza e di una fecondità propria della Tradizione ecclesiale, sin dal suo originario annuncio evangelico di giustizia e di carità: la radicalità evangelica.
I più antichi pensatori cristiani sono stati profondamente influenzati, appunto, dai primi annunciatori del Vangelo, ma anche dai primi martiri, dai primi testimoni e, appunto, dai grandi santi, che in modo davvero universale e profetico hanno affermato questi valori evangelici che attengono alla giustizia e alla carità.
Tuttavia anche gli inizi dell’età moderna, anche lungo i tempi e i secoli in cui è parso di riconoscere cadute e peccati storici, in seno alla Chiesa non è mancata – direi paradossalmente – una adeguata, attenta, sistematica predicazione che atteneva alla giustizia, alla carità. Questo rendeva, e rende evidentemente più evidente il limite, la contraddizione, la caduta propria degli uomini credenti – siano essi Pastori, sino agli “ultimi fedeli”.
Basterebbe un poco del nostro tempo per enumerare come nel tardo ‘400 e su nel ‘500, nel ‘600, nel ‘700, non sono mancati pronunciamenti del Magistero, sia ordinario che – direi – pastorale, che investivano, dal punto di vista della riflessione teologica, appunto, le grandi questioni che attengono alla giustizia e alla carità; tanto da suscitare movimenti religiosi che nella constatazione della infedeltà, dell’incoerenza della Chiesa e dei suoi uomini, si richiamavano alla purezza delle origini, ed era proprio su questo terreno il ritorno all’autenticità dell’età apostolica, il ritorno alla purezza delle origini, quindi il ritorno alla antichità con tutte le virtualità e le potenzialità che noi riconosciamo ai Santi, che richiamavano ma al tempo stesso vivevano con eroismo, con una coerenza appunto degna, potremmo dire, dell’onore degli altari.
Laddove invece questa rievocazione delle origini risultava solo strumentale, evidentemente mostrava, potrei dire, la sua estemporaneità, la sua datazione: nel battere di pochi decenni tutto sfumava.
4. Tuttavia riconosciamo che con il maggio del 1891 si avvia un itinerario sistematico, più organico, a partire dalla Rerum novarum di Leone XIII, che indubbiamente rappresenta l’incipit, l’avvio, e soprattutto rappresenta un momento dirompente, un contributo eccezionale, in quanto era la prima volta che, in modo sistematico e organico, un Pontefice affrontava le complesse problematiche che derivano, attenevano alla rivoluzione industriale i suoi effetti, i suoi riflessi.
La Rerum novarum infatti ancora oggi rappresenta, senza enfatizzazione, senza indulgenze retoriche, ma rappresenta la pietra migliare, il punto di riferimento in ordine al quale, appunto, si confronta il proseguio, il cammino ulteriore della dottrina sociale della Chiesa. Evidentemente anche la Rerum novarum soffre del limite tipicamente storico in cui, appunto, è stata proposta, ed è esito, peraltro della ricerca e degli studi, ma soprattutto è l’esito di un crescente impegno che, appunto, soprattutto il laicato cattolico e soprattutto in Europa, seppe manifestare ed esprimere: e ancora una volta allora la sua “storicità” risulta evidente.
Non è difficile – ormai esiste una letteratura copiosa – non è difficile individuare quali siano stati i precorritori della Rerum novarum, e quali siano stati i pionieri di questo cattolicesimo sociale, che già negli anni venti dell’800, anticiparono lo spirito e la lettera della dottrina sociale della Chiesa. Infatti basterebbe scorrere una certa pubblicistica, una certa produzione di “cattolici sociali” in Europa negli anni venti e negli anni trenta, oppure leggere la predicazione nel secondo ‘800 del Cardinale Manning, dell’arcivescovo Kettler o del Toniolo stesso – del suo magistero, del suo insegnamento – dei cattolici sociali francesi, per individuare alcuni passaggi cardine della Rerum novarum.
Ma io non sono mai stato particolarmente indotto a cogliere “prevalentemente” in questi grandi pionieri, il grande merito, indubbio, riconosciuto, ma mi pare, per una mia affezione, simpatia, soprattutto per i “movimenti popolari” – cioè il coinvolgimento del popolo nelle grandi idealità sociali cattoliche – di riconoscere in questo terreno, in questa spinta dal basso, più che dall’alto, le maggiori sollecitazioni, provocazioni, impulsi, per appunto l’emanazione della Rerum novarum, e via, via anche degli altri documenti, tant’è che c’è da chiedersi se spesso in pronunciamenti e documenti propri della dottrina sociale della Chiesa, non abbiano rappresentato più che, come potrei dire, l’inaugurazione di una esperienza, la sintesi e il compimento di quella esperienza storica, cioè abbiano codificato e siglato quanto già era in essere da tempo. In fondo, dal “Curato di campagna” di Bernanos, ai nostri cattolici sociali italiani, anche bresciani ben noti, noi cogliamo una entusiastica percezione che finalmente venivano riconosciuti principi, valori, e soprattutto venivano riconosciute le loro esperienze storiche: un autorevole alto riconoscimento pontificio di quanto era già in essere, in atto – di molte realizzazioni, di molti pensamenti, convincimenti, ideali, principi, che erano già in parte condivisi.
A conferma di quanto vi dico, ora potrei indicare una certa significativa testimonianza che è l’esito di un importante convegno che promuovemmo a livello nazionale proprio a Brescia – in Università Cattolica – nel 1991, cioè a cent’anni dalla Rerum novarum: promuovemmo un convegno dal titolo “La Rerum novarum e il movimento cattolico italiano”. Invitai a questo convegno numerosi studiosi, colleghi e amici da tutte le parti d’Italia e dopo due, tre grandi introduzioni – una bellissima relazione dell’amico Paolo Pecorari (abbastanza conosciuto come grande biografo del Toniolo e studioso della cosiddetta sociologia cristiana del Toniolo e del suo insegnamento) – dopo, ripeto due, tre grandi relazioni introduttive, una serie fitta di contributi di storici che parlarono della Rerum novarum e del movimento cattolico moderno a Milano, a Cremona, a Catania, Napoli, ecc., ecc., bene, nella stampa del cosiddetto movimento cattolico del tempo, dopo l’entusiastica, come potrei dire, accoglienza immediata, poi non se ne parla più della Rerum novarum: non se ne parla più.
Allora in grande sintesi, due sono le tesi: o in parte da molti cattolici sociali la Rerum novarum veniva data quasi per acquisita, consolidata nella loro esperienza per cui era “la benedizione finale”, o in realtà, scarsamente nota e sconosciuta. Evidentemente i limiti della divulgazione del tempo: non è come oggi, che esce l’enciclica e il giorno dopo – il giorno stesso – in sala stampa vaticana, su internet (sito: santa sede), uno legge integralmente…
Ecco, qui vi sono alcune interpretazioni; però in realtà l’eco che la Rerum novarum alla sua pubblicazione suscitò non fu corale in seno alla Chiesa, almeno nell’ambito del cattolicesimo italiano. Credo che, senza tema di smentita, non vi furono più di una dozzina di lettere pastorali di Vescovi italiani che riprendevano la Rerum novarum. Questo a dire, in realtà, come il pronunciamento di Leone XIII esprimeva evidentemente una sensibilità personale dell’anziano Pontefice, una sensibilità, un’attenzione, una predilezione per questi gravi problemi che all’orizzonte industriale, appunto, traboccava e faceva esplodere, ma che erano percepiti, evidentemente, non da tutti – io direi: da pochi.
D’altro canto va anche considerato che il movimento cattolico del secondo ‘800 non era organizzato, come potrei dire, come per alcuni decenni del ‘900 era organizzata l’Azione Cattolica, cioè con una forte centralizzazione e con le cinghie di trasmissione che non facevano altro che applicare le direttive che da Roma venivano annunciate, proposte, indicate. Questo per dire che in realtà questo terreno sociale non era poi così arato, così esplorato dall’intera comunità ecclesiale. Tuttavia la Rerum novarum pone, centrale all’attenzione della Chiesa – istituzionalmente – la questione sociale; d’ora innanzi la Chiesa e i cattolici non potranno più simulare disattenzione, distrazione, latitanza, in ordine alla questione sociale, e soprattutto non potranno più simulare una latitanza nei confronti, appunto, delle cosiddette classi sociali, che Leone XIII definisce, del proletariato.
La Rerum novarum, dunque, è sintesi e compimento di un cammino già da lungo tempo avviato, da quei movimenti cattolici, soprattutto laicali; al tempo stesso offre un riconoscimento a quella che per il tempo era chiamata la scienza sociale cattolica, o la sociologia cattolica, o la sociologia cristiana, e soprattutto costituisce – come già ho detto – la pietra miliare in ordine alla quale, con scansione temporale (40 anni dopo, 60 anni dopo,70 anni dopo, ecc.), con l’occasionalità evocativa della commemorazione, si compiono i passi ulteriori: si va oltre la Rerum novarum.
La dottrina sociale della Chiesa sino alla Centesimus annus potrebbe essere letta, appunto anche in questa chiave, vale a dire: l’andare oltre nella riflessione, nell’approfondimento, nell’interpretazione e nell’esperienza storica – andare oltre la Rerum novarum.
5. Dal punto di vista teoretico, dottrinale, teologico, è la seconda enciclica a 40 anni dalla Rerum novarum, cioè la Quadragesimo anno, che offre una sistemazione alle questioni e definisce i termini, le condizioni e i contenuti della dottrina sociale della Chiesa. Soprattutto che analizza la natura, analizza la funzione, analizza la finalità, afferma l’autorevolezza e la legittimità della dottrina sociale della Chiesa.
I documenti successivi, dal Radiomessaggio del ’41, alla Mater et Magistra del ’61, alla Pacem in terris del ’63, e via, venendo su, offriranno invece arricchimento e approfondimento tematico, senza indulgere eccessivamente all’idea, alla nozione, alla definizione di dottrina sociale della Chiesa; e questo sino alla Sollicitudo rei socialis del 1987 di Giovanni Paolo II.
Mi preme appuntare l’attenzione proprio su questo fatto, questo evento, perché la Sollicitudo rei socialis riprende, come potrei dire, gli elementi fondativi della dottrina sociale – diciamo con una battuta gergale: perché di acqua sotto i ponti ne è corsa moltissima – ed è ormai ineludibile, indispensabile riconsiderare, appunto, la fisionomia della dottrina sociale della Chiesa, riprenderla dalle fondamenta e riproporla.
Ci sono anche qui testimonianze dirette di alcuni teologi, di alcuni Pastori, che affermano che il vero intento di Giovanni Paolo II – dopo una deludente constatazione che la Laborem exercens non aveva poi interessato e coinvolto più di tanto la cattolicità e la Chiesa – l’intento di Giovanni Paolo II con la Sollicitudo rei socialis è di rilanciare nella Chiesa e nella riflessione teologica, appunto, la dottrina sociale della Chiesa, di rinnovare e di conferire un nuovo mandato, una nuova missione alla dottrina sociale della Chiesa; ma con un aggiornamento sostanziale, cioè con una capacità innovativa davvero prospettica e coraggiosa.
Infatti devo dire che ormai tutti gli studiosi riconoscono alla Sollicitudo rei socialis una carica innovativa davvero sorprendente. Vorrei dire che, il documento che meglio attua lo spirito conciliare, in tempi nuovi e prospettici, futuri, è appunto la Solliciudo rei socialis: a me pare forse il messaggio più diretto e mirato che la Sollicitudo rei socialis, e quindi il suo autore, Giovanni Paolo II, volesse attribuire a questa enciclica dell’87. Era rivolto ai Pastori e ai teologi, cioè caricarli di una rinnovata responsabilità: dire ai Vescovi e dire ai teologi che la dottrina sociale della Chiesa non è un fattore decorativo, non è un orpello, non è un optional di cui di tanto in tanto ci si può avvalere, ma è un elemento fondativo della nuova evangelizzazione, della missione propria della Chiesa, e dunque, Pastori e teologi – i più “addetti ai lavori” – avrebbero dovuto d’ora innanzi caricarsi di questa responsabilità.
I teologi che sapessero sempre più interloquire con “gli studiosi laici” – laici nel senso seppur prevalentemente credenti cattolici, ma che praticano, professano discipline, scienze, non teologiche. Questo a dire, in realtà, l’importanza dell’apporto della scienza, della ricerca, su questo terreno proprio della dottrina sociale della Chiesa.
Basterebbe porre (io non sono un economista), oggi ad un economista nostrano – nel senso anche locale, però affidabile e serio – una domanda: dove vanno oggi le scienze economiche? Procureremmo al predetto economista un grande smarrimento, una incapacità sostanziale di indicare anche solo un elenco di scuole economiche, tale è la magmaticità, la difficoltà a fissare, in modo definito e sistematico, orientamenti e indirizzi.
Ora, voi immaginate: la Centesimus annus è già apparsa ben 12 anni fa; si volesse pensare – tra 4 o 5 anni, l’attuale o futuro Pontefice – ad una nuova enciclica sociale, si tratterebbe innanzitutto di investire, io dico, anche solo studiosi credenti (meglio se anche non credenti), ma anche solo studiosi credenti, inclusi economisti, della responsabilità di recare un apporto di riflessione: un’impresa davvero cospicua ed immane – questo per dire come – e considerando che oggi tra oltreoceano ed Europa vi sono distanze enormi, distanze di mentalità, di cultura, di sensibilità, di comportamento pubblico e privato, ecc., ecc... Quindi una complessità di problemi.
Certamente con la Sollicitudo rei socialis si afferma la natura teologica, anzitutto, della dottrina sociale della Chiesa, anche per distinguerla dal rischio di ideologizzare la dottrina sociale della Chiesa, cioè di consegnarla ad una scuola, piuttosto che ad un’altra, seppur cattolica: una scuola di pensiero. Quindi anche la difficoltà di collocare la dottrina sociale della Chiesa in una postazione che sappia andare oltre, trascendere orientamenti e indirizzi.
Chi ha avuto l’avventura di partecipare a questa stagione – che risale a 15 anni fa, circa – di ripresa delle cosiddette settimane sociali dei cattolici italiani, ha percepito che anche solo in Italia e in ambito cattolico, esistono indirizzi pluridifferenziati, diversi, di approccio, di comprensione, di analisi, anche di metodo. Io vedo i colleghi – noi abbiamo costituito l’anno scorso la 14° facoltà dell’università cattolica, che è l’ultima nata e che è la facoltà di Sociologia – ma vedo in colleghi ed amici che già insegnano: colgo già sfumature molto diverse tra loro, perché oggi la parcellizzazione scientifica, la specializzazione è tale che anche solo dal punto di vista metodologico c’è il sociologo del lavoro, c’è il sociologo addirittura della cultura, c’è il sociologo delle istituzioni, c’è il sociologo dell’impresa – per dire davvero questa frammentazione. E sono tutti cattolici, apostolici, romani; per dire che pur appartenendo alla Sociologia dell’Università Cattolica, mostrano sensibilità, orientamenti, ecc…; e basterebbe oggi dire, che cosa ha da dire sulla dottrina sociale della Chiesa la sociologia cattolica italiana, evidentemente avremmo un dibattito abbastanza vivace. Poi gli economisti: sentiamo cosa dice Stefano (?), ma sentiamo anche cosa dice il Cella piuttosto che il Provasi – per parlare di sociologi milanesi, bresciani.
6. La dottrina sociale della Chiesa nel corso di oltre cento anni, sino alla Centesimus annus ed oltre, fino ad oggi, indubbiamente si è arricchita del progresso delle scienze teologiche. Non è un caso che – non so se 2 anni fa, 3 anni fa – il nostro amico don Canobbio abbia programmato, organizzato a Brescia un convegno, un congresso dell’ATI (associazione dei teologi italiani) su: “Scienze teologiche, teologia e saperi scientifici”: la teologia che si confronta, si misura. Ora qualsiasi confronto, qualsiasi misura, prevede intrinsecamente un dinamismo, altrimenti uno dice: non si parla più, non si confronta più, cioè se io non ho più nulla da aggiungere, da dire, da approfondire, sono “tagliato fuori”, sono finito; non tanto perché si deve andare alla rincorsa, ma perché le questioni, le sfide che si pongono oggi, sempre più alle scienze teologiche, impongono alle stesse scienze teologiche di ripensarsi, di riproporsi, di riconsiderarsi dal punto di vista epistemologico, dal punto di vista metodologico, dal punto di vista degli approfondimenti tematici.
Quindi è ormai un dato significativo quello per cui i documenti sociali della Chiesa, sempre più si avvalgono dei più recenti studi teologici, ma anche dei più recenti studi biblici, ma anche dei più recenti studi della sociologia, dell’economia, della storia – soprattutto della storia sociale – e della antropologia.
Il protagonista della questione sociale che aveva dinanzi nel suo immaginario Leone XIII, evidentemente non è l’interlocutore che Giovanni Paolo II immaginava dinanzi a sé scrivendo la Centesimus annus. Ho rischiato quasi la banalità nel dire questo, ma per dare avvero l’idea di una evoluzione incessante.
Al tempo stesso la Chiesa, proponendo la dottrina sociale della Chiesa, impone a se stessa una costante riflessione su se stessa, sulla propria missione, laddove le sfide del tempo la interpellano, la interrogano – abbiamo appunto la coscienza della Chiesa, cioè la consapevolezza che la Chiesa ha di se stessa; tant’è che la Chiesa sempre meno afferma l’esaustività dei suoi pronunciamenti, non rivendica più alcuna competenza specifica nell’ambito delle scienze umane, ma come qualsiasi istituzione, intrattiene un libero confronto e dialogo con gli esperti delle varie discipline sociali.
Quindi, indubbiamente la centralità della dottrina sociale della Chiesa è un dato di fatto, anche perché sono un dato di fatto questioni cruciali quali la liberazione, la pace, la solidarietà e il lavoro umano, i diritti umani e l’autodeterminazione dei popoli, l’interdipendenza economica e la democrazia economica, la fraternità universale e l’inculturazione del Vangelo, e via dicendo: cioè le grandi questioni che oggi sono il terreno privilegiato della dottrina sociale della Chiesa.
……………..……………………………………………………………………………….(LATO B)
La Chiesa è chiamata a riflettere, non dico dare delle risposte, ma a riflettere, a valutare, a percepire, a rilevare.
7. La dottrina sociale della Chiesa mostra di reggersi sempre più su essenziali elementi permanenti e molteplici elementi contingenti. I principi costanti ben li conosciamo, perché affondano le loro radici nel Vangelo, nella rivelazione e nella Tradizione viva, vitale del cristianesimo, lungo i secoli. Sono quei principi che investono la cosiddetta antropologia cristiana, la concezione dell’uomo, della natura dell’essere umano creato e redento da Dio, la dignità di ogni persona umana, la fraternità universale, le esigenze fondamentali di giustizia e di carità, la predilezione e l’opzione fondamentale per i poveri, la difesa e la promozione degli ultimi, l’appello costante alla conversione personale, individuale e strutturale, il riconoscimento dei grandi peccati storici: sono dunque principi permanenti.
Aspetti contingenti invece derivano dal fatto che la dottrina sociale della Chiesa si applica a situazioni storiche mutevoli, e il giudizio della Chiesa in merito a queste situazioni deve essere letto e capito, compreso, nel contesto storico specifico. Quindi anche riconoscendo il declino di talune interpretazioni e il sorgere di nuove, rinnovate, interpretazioni.
Facciamo due, tre brevi esempi. Se Leone XIII era preoccupato dal crollo dei vecchi regimi europei, se era altresì preoccupato dallo sgretolamento della civiltà cristiana tradizionale, e dunque era necessario correre ai ripari, perché l’incipiente industrializzazione innescava un processo, percepito già da Leone XIII, di secolarizzazione, di laicizzazione, oggi evidentemente, all’indomani della Centesimus annus, non possiamo concludere che quella idea di Stato, che quella idea di società che traspare, si enuclea nella Rerum novarum, possa essere l’idea di Stato, di società corrente e contemporanea.
Evidentemente oggi i credenti sono chiamati, non tanto a reggere strutture o regimi plurisecolari, ma sono chiamati a costruire costantemente la polis, la città dell’uomo, la città terrena – agostinianamente parlando; e sono chiamati ………….. non in termini “di potere” o in termini accentuatamente individualistici, ma partecipando ad un progetto “comune”. Si pensi ai grandi insegnamenti dei grandi padri dell’Europa, nel secondo dopoguerra; una ricostruzione che vede, evidentemente, l’apporto di grandi statisti – guarda caso, credenti e guarda caso personalmente venati di autenticità e di spirito evangelico.
D’altro canto abbiamo già osservato come, sin da Giovanni XXIII, la dottrina sociale della Chiesa riconosce che la giustizia sociale è un principio, valore e impegno, che deve essere realizzato in una società democratica e pluralista. Evidentemente già questo spirito, questo afflato, compariva nei radiomessaggi di Pio XII, ma evidentemente tutto questo, sino al secondo dopoguerra, appariva quasi utopico. Evidentemente, la visione cristiana della storia, della vita, della politica, dell’impegno sociale, è una visione ispirata al Vangelo, e i credenti non possono rinunciare, appunto, a tale coerenza; ma al tempo stesso non impongono il loro modello, la loro visione, in nome del Vangelo e della Chiesa, quali cittadini di questo mondo.
Oggi la Chiesa può, dunque, con convinzione, con forza, affermare che la dottrina sociale che professa, che propone e che cerca di “praticare”, di declinare concretamente nei contesti storici – i più diversi – riveste sì un valore universale, che si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà, ma al tempo stesso è impegnata a rispettare le diversità di varia natura: culturali, etniche, sociali, politiche, economiche. Ecco perché allora, oggi, alla luce della Centesimus annus, la questione sociale è questione, appunto, cosmica; questione, appunto universale, mondiale.
8. D’altro canto non sfugge – passo ulteriore – non può sfuggire questa consapevolezza che deve, a mio avviso, caricare il credente sempre più, oggi, anche di una – consentitemi questa espressione – sapienzialità e capacità di discernimento. Tutti sogniamo una Chiesa “utopica” fatta di puri fedeli evangelici, nel senso proprio del termine; ma così non è. Il peso della storia, il carico di umanità che connota la Chiesa, evidentemente ci fa percepire quasi come un miraggio – una proiezione lontana, assai distante da noi. Ma la proclamazione del Vangelo, l’annuncio del Vangelo chiede, appunto una radicalità, tanto che la dottrina sociale della Chiesa non può caricarsi di silenzi, di latitanze; eventualmente deve però avere insita in sé una percezione realistica, cioè una lucida coscienza storica, che affida alla gradualità, che affida alla scansione nel tempo, la compiuta realizzazione del Vangelo, perché così è per ogni credente e così è, appunto, per ogni pellegrino su questa terra.
Dalle origini sino ai nostri giorni la Chiesa ha annunciato sì, il Vangelo sociale, ma evidentemente questo Vangelo sociale attende di essere compiutamente realizzato; e una adeguata, matura ecclesiologia ha in sé anche, forte e chiara, la dimensione escatologica di un compimento che, credo, ognuno di noi vedrà (?) realizzato su questa terra.
Il giorno della Pentecoste del 1991 Giovanni Paolo II dichiara che la dottrina sociale della Chiesa non è altro che lo sviluppo organico della verità stessa del Vangelo; e aggiungeva: “Questa dottrina è il Vangelo sociale dei nostri tempi, così come l’epoca storica degli Apostoli ha avuto il Vangelo sociale della Chiesa primitiva; come lo ha avuto anche l’epoca dei Padri della Chiesa, l’epoca di Tommaso d’Aquino, l’epoca dei grandi Dottori medioevali. Poi venne il Vangelo sociale del XIX secolo, caratterizzato da grandi cambiamenti e da grandi novità, da iniziative e problemi che hanno contribuito a preparare il terreno per l’enciclica Rerum novarum”.
Allora, qualche prima conclusione – dico prima nel senso che le conclusioni più mature le coglieremo alla fine della Centesimus annus. Anzitutto questa immediata: la dottrina sociale della Chiesa è inseparabile dalla totalità della vita e dalla totalità della missione della Chiesa; dalla totalità – ho detto intenzionalmente – della vita, della storia della Chiesa e della missione della Chiesa. La Chiesa, tuttavia, essendo “innestata” nel tempo storico, ha il dovere di proclamare il Vangelo nella sua integrità e purezza – San Francesco direbbe: sine glossa – senza, evidentemente, riduzioni: nella sua integrità e dunque nella sua radicalità.
Al tempo stesso, sarebbe impossibile per la Chiesa non avere una propria dottrina sociale della Chiesa, e sempre più non avere la forza, la capacità di declinare in contesti diversi, appunto, questo Vangelo sociale. Questo è forse il maggior patrimonio donato alla dottrina sociale della Chiesa dal Concilio Vaticano II, soprattutto dalla Gaudium et Spes, da questa riflessione teologico-pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Bene, a distanza di qualche decennio (1965-2003) ci è più agevole comprendere meglio l’impulso decisivo, determinante e fortemente arricchente, recato dalla Gaudium et Spes, dalla stessa esperienza del Vaticano II – del Concilio – alla dottrina sociale della Chiesa, proprio perché, appunto, dal Vaticano II uscì una nuova consapevolezza della Chiesa della propria missione; di riflesso della missione propria, della natura propria della dottrina sociale.
E se la Chiesa è chiamata ad una missione dialogica, di annuncio e di dialogo, di annuncio e di confronto, di annuncio e di innesto, inculturazione del Vangelo, nelle dimensioni molteplici del tempo presente, altrettanto è chiamata a compiere la dottrina sociale della Chiesa: cioè in questo sforzo di comprensione dei segni dei tempi. Con l’autorità del Concilio Vaticano II, cioè di questa coralità ecclesiale, la Chiesa si è proclamata pellegrina nel tempo e nella storia; si è affidata, si è data un’immagine, appunto come potrei dire, dinamica, laddove sappia trascendere la storia, ma al tempo stesso innestarsi nella storia.
E proprio da ultimo: qual è il compito e la responsabilità che potrebbe rivenire ai credenti in rapporto alla dottrina sociale della Chiesa? è una breve riflessione – è una considerazione che mi viene da due eventi: uno già seppur limitato e circoscritto e uno invece che investe la Chiesa bresciana. Il primo è quello a cui ho preso parte proprio venerdì e sabato scorso: il V° Forum del progetto culturale a Roma – il titolo significativo era: “Di generazione in generazione”. Il convegno ecclesiale bresciano che si celebrerà dal 2 al 4 maggio ha, evidentemente, un titolo molto significativo: “Generazione di fede, trasmissione della fede e comunità cristiana”, laddove soprattutto le nuove generazioni non dovrebbero essere percepite come interlocutori passivi, ma come protagonisti.
Però l’espressione “di generazione in generazione” carica di una forza dinamica la testimonianza cristiana: cioè la generazione adulta nella Chiesa che considerasse esaurita la propria “funzione e missione”, evidentemente contraddice e smentisce se stessa, laddove si considerasse cristiana, cattolica. Ora, questa forte carica che investe la Chiesa e i cattolici di una missione educativa, credo davvero abbia qualche attinenza con la dottrina sociale della Chiesa – non tanto qualche – ma forti, decise, attinenze, pertinenze con la dottrina sociale della Chiesa. Perché? Perché chiama i credenti, oggi, ad essere – ancor più rispetto al passato – presenti e dinamici nella storia, nel tempo storico.
Parlo un po’ quasi sloganisticamente, ma per ragioni di sinteticità, di schematicità: presenti, vivi e consapevoli; questo pare, appunto, uno slogan molto bello, anche molto – lessicalmente – molto, molto suggestivo. In realtà è il fardello pesantissimo, l’onere gravosissimo di una responsabilità quale quella del discernimento: capire dove stiamo andando. Forse un poco sappiamo donde veniamo – lo sanno pochissimo i giovani – ecco la responsabilità educativa: far capire ai giovani che sono un segmento di una storia che ha un lungo passato e che si presume avrà un lungo futuro, e con loro non si esaurisce, evidentemente, la storia; cioè renderli partecipi e consapevoli di essere, appunto, parte di un lungo cammino. Rammentare loro, non a parole, ma nei fatti, nella formazione culturale, spirituale, ecclesiale, sociale, rammentare loro che, loro sono quello che sono grazie ad un prima, ma che in realtà con loro, appunto, non finisce la storia, ma prosegue; quindi loro hanno – si trovano tra un prima e un dopo – soprattutto in ordine al prima, hanno la responsabilità di conoscere questo prima, cioè di andare alle loro radici, alle fondamenta della casa in cui abitano e in ordine al dopo, hanno la responsabilità di crescere, di diventare quanto prima adulti nella fede, e anzitutto uomini, donne adulte, mature e quindi pensando al dopo significa: caricare di una responsabilità anche civile, sociale, politica.
Questa è la vera accezione di politica, molto cara a Paolo VI, quando parlano di politica disse: “la più alta ed esigente forma di carità”, cioè il sentirsi responsabili della polis, sentirsi chiamati a costruire. Ora, mi dicono gli amici statistici e sociologi, che la pratica religiosa in Italia non supera il 15% - veleggia tra il 15 e il 20 nelle migliori condizioni; quindi, se a noi interessa saperlo, i cattolici italiani sono una netta minoranza. Credo che ormai più nessuno – qualche solo nostalgico eremita, non l’eremita quello vero, ma gente che abita in centro ma vive fuori al mondo – avesse ancora qualche vagheggiamento trionfalistico, per cui, appunto, si andava alla conta: quanti siamo, quanto contiamo, quanto valiamo – addirittura ai tempi quando si diceva: abbiamo uomini nostri al governo, ecc…
Siamo una netta minoranza. Quanto oggi “la voce” dei cattolici sia presente nelle aule parlamentari, nei media, ecc., confermerebbe questa nostra minorità, questa nostra marginalità. Questo per un verso ci può anche caricare “di una carica”, appunto, “utopica”, che a mo’ di don Chisciotte pensiamo: “adesso d’ora innanzi conquistiamo noi il mondo”; ora rischieremmo, appunto, di essere “scalzati da cavallo”
Credo che a questo punto, proprio la dottrina sociale della Chiesa ci investa di una fatica pesantissima; è quella che sempre Paolo VI, giovane assistente nazionale della FUCI nel ‘31-’32 – negli anni difficili del conflitto tra Azione Cattolica, FUCI e regime – chiamava in una bellissima pagina: “la fatica del pensare”
Ora, io non so se loro se ne rendono conto, ma noi viviamo oggi in un tempo fortemente irrazionale; cioè la gente rinuncia a pensare, a ragionare, a capire, a porsi delle domande e a dare delle risposte, o tentare di dare delle risposte. Bene, io credo che il primo dovere del credente sia, appunto, di caricarsi di questa fatica del pensare; secondo, non pensare mai da soli – si è credenti, si è partecipi di una vita e di una comunione ecclesiale, e dunque il dovere e la responsabilità di pensare insieme; ecco il discernimento comune, il discernimento cristiano, comunitario: pensare insieme e condividere questa pensosità.
Però, pensare sul nulla è tempo perso e vano. Allora, la dottrina sociale della Chiesa chiede soprattutto ai laici di “attrezzarsi” di competenze, di conoscenze, di risorse intellettuali, culturali, tecniche, scientifiche, professionali. Questo, secondo me, è uno degli aspetti più belli del Vaticano II, della sua teologia del laicato, nella Apostolicam actuositatem, ma anche nella Gaudium et Spes; cioè, noi veramente sacralizziamo, cristianizziamo il tempo storico – le realtà temporali – qualificandoci professionalmente, crescendo professionalmente, maturando direi una qualità professionale, un saper fare al meglio il nostro mestiere, perché la nostra vocazione non è quella di sostituire il prete sull’altare, non è quella di andare a leggere, ma è quella di vivere da cristiani la nostra responsabilità – anzitutto professionale.
Io sono tentato (da un vizio da cui non riesco a liberarmi) quando mi accade di conoscere un “politico”, mi informo subito che cosa facesse prima, e se questo “prima” nel suo identikit ha poco di professionale, già questo mi insospettisce, cioè questo cerca un posto al sole e soprattutto un posto al sole ben remunerato, perché non sa fare altro. Allora, questo cosa farà? Farà di tutto per aggrapparsi a questo posto e non mollarlo più. Se invece questo, un serio “professionista” – fosse l’operaio della Breda piuttosto che l’avvocato, appunto, del Foro bresciano, il medico piuttosto che l’insegnante – allora questo mi sta molto bene, anche perché mi lascia presumere che questo farà il politico per 5 anni, per 10 anni, poi tornerà ancora a fare il professionista, pensando almeno. Io sono sempre tentato – è vero che Andreotti dice che “pensare male si fa peccato, ma si indovina” – ma in realtà io sarei portato, per l’ottimismo cristiano, a pensare bene.
Ma per richiamare noi tutti a un impulso, ad una sollecitazione, ad un monito, ad una provocazione che ci viene proprio dalla dottrina sociale della Chiesa: imparare ad essere noi stessi.
Cosa che io non dimentico mai di dire ai miei studenti, in aula, soprattutto ai miei laureandi, e dico stringendo la mano, quando li proclamo Dottori, ecc., ecc. – non dimentico mai di dire: abbia ………………… una propria identità professionale. Lei non deve chiedere, mendicare a nessuno il proprio valore, la propria qualità professionale; deve imparare a fare bene il suo mestiere, non perdere tempo, soprattutto voi giovani imparate le lingue, ecc., ecc. Non dico molto sull’informatica perché io sono un semi-analfabeta (mi basta una modesta scrittura e poco più); ma soprattutto cerchi di imparare al meglio il proprio mestiere – lei in questo modo afferma la propria libertà e autonomia.
Questa è una delle maggiori sollecitazioni.
Terza sollecitazione: per il credente oggi, è giunto il tempo di caricarsi maggiormente di quanto abbia fatto in questi anni di diaspora cattolica, in cui è venuto meno il grande, appunto – “la balena bianca” è scomparsa, e sappiamo bene che cos’era la balena bianca; bene, allora ognuno se ne è tornato a casa, e la tentazione più forte che i cattolici hanno vissuto è, appunto quella: allora a questo punto io mi chiamo fuori. Peggio ancora, pensando apocalitticamente, come facevano certi cattolici intransigenti dell’800 (pochi per fortuna), che pensavano e praticavano la logica del “tanto peggio, tanto meglio”, cioè peggio vanno le cose – è come chi dopo aver avuto grandi responsabilità istituzionali, dice: “dopo di me il diluvio” – quindi tanto peggio vanno le cose, più dimostro quanto io ero bravo, perché prima andavano bene grazie a me. Oggi poi il Vangelo ci insegna sempre che siamo servi inutili: dopo un Papa, se ne fa un altro.
Ma, credo davvero che i cattolici debbano rimettersi sulla strada della coscienza e della responsabilità civile e politica, nel senso che debbono sempre più rimboccarsi le maniche e ricostruire questa città davvero ancora troppo frammentata; anche solo perché si è fortemente segnati, pressati, condizionati da una cultura estremamente e sempre più individualistica, segnata – ripeto – da una deriva o da più derive che chiamano alla diffidenza, alla fuga dalla responsabilità e dall’impegno e, appunto, al rifugio in se stessi: qui è tutto quanto questo comporta.
Ora, c’è una lezione, c’è un messaggio forte, importante che la dottrina sociale della Chiesa, oggi, dal punto di vista dei comportamenti – appunto, che viene dalla dottrina sociale della Chiesa – è questa chiamata alla responsabilità. Allora, voi capite bene che – non lo faccio ad uso strumentale – ma capite bene quanto sia importante per i credenti quella che genericamente chiamiamo la formazione culturale; cioè che i credenti escano da questi circoli viziosi – di un eccesso di ritualismo, di un eccesso di “sacrestia” – e si immettano nel vivo della storia, ma ben attrezzati, cioè capendo questo tempo complesso, difficile e contraddittorio. Per capire questo tempo complesso, difficile e contraddittorio è evidentemente sempre più necessario, appunto, coltivare l’intelligenza, coltivare la coscienza.
La concezione antropologica, tutta cristiana, del concetto, dell’idea di cultura è proprio questo: capire, sulla base di conoscenze sempre più affinate, sempre più approfondite – per cui allora anche “il dibattito politico, anche il dibattito sociale, anche il dibattito economico”, i cattolici lo sapranno, come potrei dire, condurre, vivere, partecipare, non in termini di approssimazione, di sentito dire (battute da bar, da osteria, ecc., ecc.), ma, ripeto, con pregnanza, con pertinenza, con circospezione sulla base appunto, di tesi fondate, pensate, elaborate. Allora la fatica del pensare sta proprio qui.
Una fede non pensata, dice Giovanni Paolo II, non pensata e non pensosa è una fede fortemente ridotta, una fede monca; e quindi davvero questa pensosità, che significa impegni culturali, impegni di riflessione critica, esercizio critico, credo che sia davvero una delle grandi – come potrei dire – partite che siamo chiamati a vivere, a condurre.
7° LEZIONE 24.04.03
Proprio perché non siete moltissimi apro una grande parentesi. La parentesi, la digressione pensavo di affidarla – proprio perché mi è arrivato, proprio 3-4 giorni fa a ridosso della Pasqua, un volume di Atti di un Convegno che si svolse un anno fa, circa, a Bergamo, e il tema del Convegno (Convegno storico) era il seguente: “Identità italiana e cattolicesimo”, sottotitolo: una prospettiva storica.
Bene, questo Convegno affronta una serie di aspetti e problemi della vicenda italiana tra ‘800 e ‘900, però avrebbe una ragione sottesa, storiografica, una ambizione che parte e che risulta confermata dai lavori del Convegno, cioè che il cattolicesimo ha contribuito in modo determinante alla costruzione di questo Paese: ecco perché il tema è: “Identità italiana e cattolicesimo”; ancor più ha contribuito – il cattolicesimo – a costruire l’identità nazionale. In grande sintesi: perché sarebbe stato capace di consolidare, rafforzare, irrobustire il tessuto sociale, cioè di amalgamare, tramite i valori propri del cattolicesimo, questo tessuto sociale. Infatti non è certo fuori luogo, anche storicamente, oggi – quindi con una distanza temporale, prospettica – affermare che si trattò fino a pochi anni orsono, di una cosiddetta “Italia cattolica”, o comunque di una identità nazionale intessuta, appunto, di spirito cattolico, spirito cristiano.
Fatta questa premessa, mi piacerebbe richiamare la vostra attenzione su di un tema che spesso sfugge alla considerazione degli studiosi della dottrina sociale della Chiesa, ed è la storia religiosa, sociale e politica dell’Italia contemporanea – intendendo per Italia contemporanea, l’800 e il ‘900. L’attenzione è su una realtà composita e dinamica, nel senso che nel corso del tempo è una realtà che nasce, che si afferma, che si consolida e che magari mostra oggi il proprio declino – ed è il titolo, sostanzialmente, della mia relazione a questo Convegno, che è abbastanza, come potrei dire, non dico provocatorio, ma comunque è significativo; io ho intitolato la mia relazione a quel Convegno: “L’altro movimento cattolico: le Congregazioni religiose tra ‘800 e ‘900”.
Cosa vuol dire “altro movimento cattolico”? Vuol dire che accanto al tradizionale movimento laicale – quello del Toniolo in scala nazionale, quello del Tovini in scala bresciana, quello di Aldo Moro, ecc., tanto per citare figure del cattolicesimo, del movimento cattolico, più vicini a noi – accanto a questo movimento cattolico fatto dai laici, con quella miriade di iniziative che vanno dalle casse rurali alle società di mutuo soccorso, alle fucine economiche, alle scuole serali, al credito, alla cooperazione, al sindacato bianco, ecc., ecc.; accanto a questo movimento cattolico, ci sta anche un altro movimento cattolico, cioè una realtà composita, dinamica che corrisponde alla innumerevole, alla pluralità di congregazioni religiose femminili e maschili, sorte tra ‘800 e ‘900, che anch’esse partecipano in modo determinante, quasi protagonistico, alla crescita, allo sviluppo, all’affermarsi di questa identità nazionale.
Con una bellissima immagine – che adesso cito a memoria e quindi non cito perfettamente – il massimo esperto italiano di congregazioni religiose (don Giancarlo Rocca, che è un religioso della congregazione di San Paolo – di don Alberione) ha offerto alcune immagini molto efficaci; una di queste è molto semplice, molto pregnante – dice: “Nella vicenda italiana contemporanea dell’800, ‘900, c’è sempre una suora che accompagna la vita del cittadino italiano dalla culla alla tomba”. Ora, l’espressione è un po’ “retorica”, un po’ enfatica, ma che risponde straordinariamente al vero, cioè una religiosa nella storia di questo paese s’accompagna alla vita nascente e accompagna questa vita sino al suo tramonto.
Allora, la cosa che mi preme anche solo porre alla vostra attenzione è questa: come non considerare, nell’esperienza storica del cattolicesimo italiano tra ‘880 e ‘900, che seppe tradurre (?) lo spirito e anche la lettera della dottrina sociale della Chiesa, anche le congregazioni religiose; che magari, in parte non hanno creato grandi seminari di studio sulla dottrina sociale della Chiesa – e forse non era neanche questa la loro competenza, la loro missione – ma hanno tradotto nel vissuto, la realtà (la più feriale, la più umile, la più silenziosa), lo spirito vero, autentico della dottrina sociale della Chiesa.
Bene, io faccio qualche citazione di dati e di considerazioni di questa mia relazione, per darvi un’idea, per darvi uno spaccato dell’entità della dimensione di questo fenomeno. Noi parliamo oggi da storici, quindi valutiamo a distanza di tempo il fenomeno – scrivo: La più recente e aggiornata storiografia sulle congregazioni religiose sorte in Italia tra ‘800 e ‘900, in particolare gli studi di Nicola Ramponi e Giancarlo Rocca (due studiosi), mettono a disposizione degli studiosi un panorama vasto e ormai definito nelle sue linee principali.
L’altro movimento cattolico, secondo la felice definizione coniata da Sergio Dainelli (?), costituisce sempre più un terreno privilegiato di indagine; ma non solo di indagine da parte degli storici religiosi, cioè degli storici del cristianesimo, degli storici della pietà popolare, ma pure degli storici della società e dell’economia. In Italia nella prima metà dell’800 è possibile assistere – nella prima metà, nei primi 50 anni – alla nascita di 75 nuove congregazioni religiose. Successivamente, e nonostante gli ostacoli prodotti dalle leggi eversive pre e post unitarie, cioè le leggi anti ecclesiastiche, anti religiose nello Stato Sabaudo (1855-1859) e in Italia post unitaria (1866-1873), durante il periodo compreso tra l’unificazione (1861) e la fine del secolo, il numero delle nuove congregazioni sale sino a 127. Assommano a 170, infine, gli ordini religiosi sorti nel corso del ‘900.
Tale fioritura di congregazioni non è peraltro limitata entro i confini italiani. La Francia, nel corso dell’800, assiste alla nascita di circa 400 nuove congregazioni religiose; complessivamente su 400, 207 nuove fondazioni nel corso dell’800 furono congregazioni femminili. Ora, volendo prendere in esame la localizzazione geografica dei nuovi istituti in Italia, può essere interessante notare (?) che sulle 75 nuove fondazioni della prima metà dell’800, la maggioranza, cioè 52, sorge nell’Italia settentrionale, 19 nell’Italia centrale, e solo 4 nel meridione.
Al nord – questo nella prima metà dell’800 – questi dati sono più indicativi di una parabola ascendente o discendente, cioè di un movimento che si innesta nella storia della società italiana pre e post unitaria, da essere – come potrei dire – il riflesso anche delle dinamiche proprie del processo di secolarizzazione. Al nord esse sono distribuite in modo equilibrato tra Lombardo-Veneto e Regno di Sardegna; ciononostante alcune città si segnalano per una significativa concentrazione di istituti. Bene, nella prima metà ell’800, 10 sorgono a Torino, 6 a Verona, 10 a Brescia, 10 a Milano, 8 a Bergamo, 6 a Venezia. Nella seconda metà del secolo dell’800, con 48 nuovi ordini al nord, 47 al centro e 33 al sud, si assiste a un rilevante mutamento della tendenza che si conferma nel corso dell’900, quando 47 dei 170 nuovi istituti sorgono al nord, 58 al centro Italia e 65 al sud – c’è una evoluzione.
Per formarsi un quadro obiettivo della situazione non va però dimenticato il fatto che l’incremento meridionale resta per lo più collegato alle chiese locali – sorgono innumerevoli congregazioni di carattere fortemente locale – e va in genere allo sforzo dei singoli Parroci, dei singoli Vescovi. Gli ordini che nascono al sud dopo la metà dell’800, conservano quindi una diffusione limitata, mentre il nord mantiene il primato per quanto attiene le congregazioni diffuse su tutto il territorio nazionale.
è opportuno poi distinguere tre generazioni nella storia delle congregazioni – e questo è un passaggio estremamente interessante. Alla prima generazione possono essere ricondotti gli istituti, appunto, tutti sorti nella prima metà dell’800, come ad esempio: le Figlie della Carità di Maddalena di Canossa sorte a Verona nel 1808; le Suore della Santa Famiglia della ………………. sorte sempre a Verona nel 1816; le Suore della Carità di don Nicola Mazza sorte sempre a Verona nel1828; le Suore Maestre di S. Dorotea sorte a Vicenza nel 1836; le Orsoline dell’Immacolata di …………… nel bergamasco sorte nel 1818; le Figlie del S. Cuore fondate da Teresa Eustochio Verzeri nel …………… nel 1831; le Suore di Carità della Capitanio, della Gerosa, sorte a Lovere nel 1832; le Ancelle della Carità di Maria Crocifissa di Rosa sorte a Brescia nel 1840; l’Istituto della Carità fondato da Rosmini a Domodossola nel 1828; a Torino le Sorelle Penitenti di S. Maria Maddalena fondate dalla Marchesa di Barolo nel 1833; la congregazione dei Fratelli di S. Giuseppe nel 1833; le Suore di S. Giuseppe nel 1839, i Preti della SS.ma Trinità del Cottolengo nel 1840 a Torino.
Tra i motivi che spingono – adesso vado sintetizzando – la nascita di queste congregazioni vanno certamente menzionati sia il desiderio di reagire, in questa prima metà ell’800, alla progressiva laicizzazione della società e della cultura popolare, derivante dalla diffusione delle idee nazionalistiche illuministe, sia pure il bisogno insopprimibile di opporsi agli eccessi anti religiosi e alle secolarizzazioni forzate che avevano caratterizzato la Rivoluzione francese – quindi un cammino verso l’unificazione nazionale. Ma accanto a tali motivi, diciamo di reazione – quindi motivi cosiddetti esogeni – non va però dimenticata la tensione insopprimibile, nei fondatori e nelle fondatrici, in questo periodo e in parte della seconda metà dell’800, la tensione verso una nuova via alla dimensione mistica e religiosa dopo che la politica regalistica degli Stati, di governi rivoluzionari e l’inclinazione laicistica e modernizzatrice del Codice napoleonico, avevano gettato in una profonda crisi le tradizionali esperienze claustrali.
Il traguardo – questo è un aspetto importantissimo che connota tutto l’800 e il primo ‘900 – il traguardo del cosiddetto “stato di perfezione”; secondo le istanze di questa nuova spiritualità non è più identificato nella vita claustrale, nella mistica contemplativa, ma corrisponde ad un impegno concreto, soprattutto corrisponde all’apostolato caritativo verso il prossimo.
Anche dal punto di vista del Diritto Canonico, accanto all’osservanza dei cosiddetti consigli evangelici, della vita in comune, dello spirito di preghiera, gli Ordini e le Congregazioni sorte nella prima metà dell’800 – e possiamo dire anche nella seconda metà dell’800 e nel primo ‘900 – registrano sostanziali modifiche innovative rispetto al modello tradizionale: è introdotta per la prima volta la figura, ad esempio, di un/di una Superiore Generale che coordina e sovrintende alla gestione di tutte le sedi periferiche dell’Ordine, della Congregazione; i voti sono resi temporanei e la clausura è abolita.
Ma la novità più cospicua resta la forte, accentuata sollecitudine ad una carità operosa verso gli ultimi. Le nuove congregazioni abbandonano l’ideale isolamento tra le mura del chiostro e si prefiggono il compito di agire concretamente nel mondo a vantaggio della società, con il fine esplicito e dichiarato – basterebbe prendere tutte le Costituzioni ottocentesche, cioè gli Atti di fondazione – di guarire i mali materiali e spirituali, di alleviare le sofferenze dei più deboli, degli emarginati e degli esclusi. Bisogna però rimarcare che l’esigenza di apostolato che pervade gli istituti religiosi sorti in questa prima fase, non arriva a produrre una riflessione compiuta su un’ampia serie di problemi a cui i nuovi istituti e i loro fondatori si dedicano: l’assistenza ospedaliera, l’istruzione della gioventù cittadina e della gioventù campagnola, l’accoglienza degli orfani e i cosiddetti esposti, l’educazione e l’istruzione di sordomuti, di ciechi e così via.
In altre parole, in questa prima fase, l’accento è posto più sulla risposta alle problematiche e alle sfide sociali, affrontate direttamente e con esiti significativi e importanti, che sulla identificazione delle loro cause. Quindi l’impegno apostolico è fortemente mirato ad affrontare e risolvere queste sfide emergenti.
La successiva generazione – questa è la prima generazione – la successiva generazione di istituti religiosi si apre con le grandi fondazioni compiute in quella straordinaria stagione storica che fu denominata “la Torino della carità”: si allude al ……………… e a don Bosco, oppure si allude al Pavoni a Brescia, a cui seguono tra gli ultimi decenni dell’800 e i primi del ‘900, nel periodo classico del movimento cattolico laicale, gli istituti di: don Orione, della Cabrini, di don Alberione, di don Giuseppe Baldo, di don Scalabrini, di don Guanella. Sono nomi che evocano lo spaccato di una serie di espressioni di apostolato caritativo, che si dedica, appunto, ai ciechi, sordomuti; che si dedica alle ragazze di campagna, che si dedica, appunto, agli esposti, che si dedica agli emigranti – si pensi lo Scalabrini e la Cabrini, ad esempio, insomma questi grandi apostoli dell’immigrazione, i primi a valicare oltreoceano, i confini, e a dar vita a presenze religiose che s’accompagnano ai nostri primi emigranti.
Tale seconda stagione, generazione o fioritura, trae origine da una duplice fonte di fattori:
primo, quello di carattere politico, cioè legato all’acuirsi del conflitto Stato-Chiesa, all’insorgenza di quella Questione Romana che peserà fortemente sulle sorti del nostro paese; ai diversi modi con cui il mondo cattolico si sforza di rispondere all’avanzata della secolarizzazione;
secondo, quelli di ordine socio-economico, conseguenti all’incipiente processo di industrializzazione, di sviluppo economico, cioè a quei profondi cambiamenti sociali che derivano dai mutamenti del mondo del lavoro e del rapporto tra realtà urbana e realtà rurale, all’urbanizzazione.
L’impegno caritativo e sociale di queste nuove fondazioni è, se possibile, ancor più marcato, e si concentra sulle problematiche nuove e drammatiche che derivano dalle profonde trasformazioni in corso nella società italiana, lo sfruttamento del lavoro minorile e del lavoro femminile, la mancanza di istruzione e di preparazione professionale dei giovani, l’emarginazione dei ceti popolari: operai, contadini, ecc… nelle periferie cittadine.
Nella prima metà del ‘900, infine, fiorisce una serie di congregazioni – ecco la terza generazione – il cui impegno si concentra meno nel campo sociale per porre più decisamente l’accento sulle esigenze delle Chiese locali. Tale sollecitudine si declina nella promozione di pratiche spirituali e di culto, come la devozione al S. Cuore di Gesù, all’adorazione riparatrice, alla catechesi, all’assistenza ai membri più anziani della comunità ecclesiale, come i sacerdoti e le loro collaboratrici domestiche, della collaborazione alle opere (?) promosse dall’Azione Cattolica
Ma questo periodo è caratterizzato anche da un acceso dibattito, da un certo fervore di riflessione sulle nuove esperienze di vita apostolica e, più in generale, sul significato della vita consacrata nella società italiana che si rinnova. E questo dibattito, che inizia soprattutto nel secondo dopoguerra, ……………………………… (?) di quel famoso documento – Perfectae caritatis – che il Concilio consegnerà alle congregazioni religiose e che impegnerà le congregazioni religiose, nel dopo Concilio, a rinnovarsi, a riscoprire le proprie origini, il proprio carisma di fondazione; ecco perché ad esempio all’indomani del Concilio inizia una serie di faticosa operosità delle congregazioni religiose volte, ripeto, a studiare meglio il fondatore, la fondatrice, a studiare le loro origini, cioè a, come potrei dire, ripristinare il volto più autentico della loro fondazione.
C’è però un secondo aspetto – non sto a citarvi le innumerevoli espressioni di impegno che presenta, di azione, di testimonianza, di queste congregazioni tra ‘800 e ‘900: le lascio in parte alla vostra conoscenza pregressa e in parte anche alla vostra immaginazione, nel senso che in realtà, basta pensare a queste “apostole della carità” per immaginare quanto sia inesauribile questa loro carità operosa: le pensavano di notte e le realizzavano di giorno – quindi siamo veramente a livelli di straordinaria strategia caritativa.
Però gli storici, da tempo, puntano anche l’attenzione su un capitolo sino ad ora inesplorato che darebbe maggiore entità e rilevanza a questa presenza nella società italiana tra ‘800 e ‘900, cioè per capire meglio quanto abbiano pesato, proficuamente, positivamente, costruttivamente le congregazioni nell’edificazione della società italiana; alludo al capitolo dedicato, per molti versi, ma importante da conoscersi e da approfondirsi, che è il capitolo economico-finanziario, non tanto perché si sia mossi da una incontenibile curiosità, quasi morbosamente alla ricerca di capire quali fossero i patrimoni in dotazione alle congregazioni religiose, quanto per capire come questi patrimoni, queste dotazioni furono impiegate e spese dalle congregazioni religiose, appunto, nelle cosiddette opere di carità, e ne esce, dai primi campioni che stiamo compiendo, nella provincia-diocesi di Milano, di Bergamo e di Brescia, ne esce una campionatura estremamente interessante.
L’ascesi (?) delle congregazioni religiose tra ‘800 e ‘900 appare dunque un fenomeno assai rilevante; se da una parte esso tende …………………… dalle particolari condizioni sociali, culturali, religiose, esaminate, appunto, sinora, dall’altra fu catalizzato, si badi bene, paradossalmente e con toni, aspettative e previsione, anche dalla legislazione eversiva varata dal potere centrale. Che cosa ne esce? Una prima grande constatazione: più gli Stati pre e post unitari promuovono leggi, cosiddette, eversive – di soppressione di congregazioni, di limitazione delle loro competenze, delle loro funzioni – più le congregazione sorgono e si diffondono: questo è un dato evidente…
L’altra cosa ancor più interessante: immediatamente dopo l’unificazione nazionale erano state infatti promulgate numerose leggi con l’obiettivo di sopprimere gli istituti religiosi e di incamerarne le risorse, privandole della personalità giuridica necessaria per possedere qualsiasi bene. Se l’obiettivo di tali leggi era quello di eliminare forme di vita religiosa, dichiarate inutili e dannose, impedendo ad un ordine religioso il possesso dei beni, quelle leggi non potevano però impedire ai singoli cittadini italiani, come a tutti gli effetti era ancora un religioso o una suora, di vivere in comune e di essere proprietari di beni, mobili, immobili, ecc. La cosa interessante qual è? Vengono, queste congregazioni, private della titolarità giuridica e quindi della facoltà di possedere in comune. Le congregazioni cosa fanno? Si sciolgono come istituti, distribuiscono la titolarità dei beni tra i singoli religiosi/religiose.
Questo, addirittura, paradossalmente ha un che di folkloristico. Voi tutti sapete che cosa sono le cartelle del debito pubblico; voi sapete che nel 1861 quando nasce lo Stato unitario, eredita i debiti degli Stati precedenti, quindi lo Stato unitario nasce già indebitato. Per “sdebitarsi” emette le cartelle del debito pubblico, cioè lo Stato chiede ai sudditi prima, ai cittadini poi, di acquisire queste cartelle. Le congregazioni religiose soppresse, private della titolarità giuridica, risultano essere tra – i frequenti, ricorrenti – gli acquirenti delle cartelle del debito pubblico. Per cui, paradossalmente, lo Stato sopprime le congregazioni religiose e queste, distribuendo cartelle del debito pubblico tra le migliaia di religiose/religiosi rappresentano, evidentemente, uno dei maggiori “clienti” dello Stato. In termini molto sommari, è altamente paradossale.
Faccio qualche ulteriore esemplificazione: è proprio tramite questo escamotage che le congregazioni sorte a partire dalla metà dell’800, furono in grado di opporsi alla volontà del potere centrale – proprio nella misura in cui lo Stato puntava a spogliarle delle loro risorse economiche, ricorrendo al diritto civile, al diritto privato, offriva in realtà ad esse (cioè le congregazioni) le armi per rispondere sullo stesso terreno. I nuovi istituti potevano infatti appellarsi al codice civile italiano che sanciva chiaramente i diritti di associazione e di proprietà privata, trovando così un’argomentazione ineccepibile per conservare i propri beni e anzi prosperare senza preoccupazioni. La conseguenza più evidente di tale battaglia giuridica fu che 30 anni dopo la promulgazione delle leggi eversive, il numero delle congregazioni religiose, dei loro aderenti e delle loro opere era cresciuto a ritmi mai toccati prima.
Ora, questo è un dato reale e inconfutabile – grazie alla campionatura a cui alludevo prima (milanese, bresciana, bergamasca) e ha dei riscontri precisi; e questo ci consente di dire quale fosse l’enorme divario tra paese legale e paese reale.
Dopo aver sperimentato il giuridismo (?) e il giurisdizionalismo, le soppressioni giacobine e napoleoniche, le ingerenze liberali a partire dall’800, la Chiesa inaugura una nuova forma di vita religiosa; si superano dunque contemporaneamente e la dimensione monacale, con le saltuarie sortite dovute alla questua casa per casa, e quella claustrale con il rigoroso isolamento della clausura. Ora, gli appartenenti (?) alle congregazioni escono nel mondo per insegnare, educare, assistere, in un ciclo che va, appunto, dalla nascita alla morte. La congregazione religiosa parte allora da premesse radicalmente diverse rispetto agli ordini tradizionali, costretta com’è ad affermarsi in contesti ostili e connotati da una ingente attività legislativa e giuridica, volta a sfavorirla. Ed è dunque questa particolare temperie che meriterebbe ulteriori approfondimenti.
Considerare la congregazione religiosa anche – evidentemente, prima tutto il resto: carisma, santità, spiritualità, carità, educazione, ecc. – anche come autonomo soggetto economico, partendo all’esame delle sue risorse, dei criteri di gestione e di amministrazione, porta a ragionare in termini di sistema economico-finanziario. Da questo approccio derivano risultati e linee di interpretazione non scontate; un solo esempio: ci è oggi possibile ribaltare la considerazione che le congregazioni dovessero necessariamente disporre di notevoli risorse per finanziare un così ampio numero di opere caritative, assistenziali e pedagogiche.
L’indagine, in effetti, permette di comprendere come il rapporto causa-effetto venga in realtà ad essere invertito. Le opere sociali non derivano da una estesa disponibilità economica, ma ne sono piuttosto la causa; infermerie, orfanotrofi, asili, scuole, non costituivano infatti una voce di spese, ma erano in realtà una fonte di reddito che venivano nuovamente reinvestita. Le religiose, i religiosi che vi operavano, ricevevano, seppur di modesta entità, uno stipendio, una pensione, che veniva devoluto alla congregazione, la quale a sua volta reinvestiva appunto in opere di carità e di assistenza. Questo è un solo esempio a dire che, anche nella costruzione, appunto, dell’identità nazionale, questa forte, significativa, anche numerica componente, esercitò un ruolo non trascurabile.
Ci sono dei fenomeni poi che ci fanno ulteriormente pensare, confermare, appunto, questo enorme divario tra paese legale e paese reale. Le leggi eversive venivano enunciate, comparivano sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia; comparendo sulla Gazzetta d’Italia diventavano, appunto, vigenti, operanti. Le succedevano una serie di circolari a carattere amministrativo che il potere centrale – decentrato – cioè i Prefetti, affidavano per la loro esecutività, quasi sempre ai Sindaci e alle stazioni dei Carabinieri locali, i quali – questo è l’aspetto interessante, che abbiamo comprovato e dimostrato – non chiudevano un occhio, ma ne chiudevano due; perché il Sindaco che era costretto a chiudere l’asilo, la scuola, l’orfanotrofio e l’ospedale – perché si doveva sciogliere la congregazione, la comunità religiosa locale – evidentemente doveva affrontare dei guai, quali le sollevazioni popolari, ecc., per cui il più delle volte nei carteggi intercorsi tra le autorità locali e le autorità provinciali si assiste (si registra) a delle vere e proprie simulazioni, perché in realtà gli stessi Prefetti consigliavano ai Sindaci gli escamotage per non applicare, almeno in parte, le leggi eversive. Questo dice anche quale profondo radicamento avessero queste congregazioni religiose sul terreno, ripeto, più propriamente sociale.
Ora io ho voluto citare questo capitolo importante nella realizzazione storica dello spirito della verità della dottrina sociale della Chiesa. Spesso, nell’irrisione talvolta crescente, si guarda alle congregazioni religiose come ad una presenza superflua e inutile. Ora, credo che la storia, anche solo di questo paese, la stessa identità nazionale – chi ha insegnato a cantare certi canti, chi ha insegnato la storia italiana se non, sui banchi della scuola elementare, una serie di maestre religiose – anche il tessuto connettivo di questo paese è stato fortemente incrementato e alimentato da questo pianeta, proprio delle congregazioni religiose. Ed è, ripeto, un capitolo estremamente interessante; questo approccio anche di lettura economico-finanziario, mostra ancor più la rilevanza e l’incidenza delle congregazioni.
Potremmo intitolare questo primo intervento: “Avvertenze per la lettura”.
Che cosa intendo con questo? Intendo indicare alcuni elementi, meglio alcuni criteri di lettura e di comprensione – lettura critica e comprensione – dei documenti pontifici del Magistero sociale, della dottrina sociale della Chiesa. Abbiamo più volte ribadito anzitutto che la nostra è un’opzione, una scelta consapevolmente limitata e circoscritta; del Magistero pontificio esiste evidentemente una tradizione ecclesiale bimillenaria, dove la dottrina sociale della Chiesa è annunciata, proclamata, espressa, professata con modalità le più diverse. Esiste tuttora un Magistero sociale che appartiene ai pronunciamenti delle Conferenze Episcopali, o dei singoli Vescovi, dei singoli pastori; considerando Conferenze e Vescovi, comunque, soggetti primari del Magistero. A questi, evidentemente, non possiamo fare riferimento, non possiamo alludere, per ragioni di tempo.
La scelta è appunto quella di cadenzare la nostra traiettoria in una Tradizione più che secolare dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, e non avendo, per altro, il tempo per ripercorrere tutti i documenti precedenti, e affidandoci a questa grande sintesi, a questo grande compendio che è la Centesimus annus, diamo almeno qualche criterio di lettura e di comprensione.
Anzitutto un primo criterio o elemento di cui indubbiamente la Chiesa è consapevole, e lo è ancor più il Magistero petrino – il Magistero del successore di Pietro - è che tra l’annuncio, la proposizione, l’enunciazione teorica e la realtà, la prassi, evidentemente, vi stanno sempre grandi distanze; e questo dipende evidentemente dal limite della condizione umana, all’inadeguatezza dei credenti, della storia comune, e tutto va compreso in questa – come potrei dire – tensione alla coerenza: ben sappiamo che il compimento non è certamente realizzabile su questa terra. Questo mi pare di grande importanza, perché potrà certamente capitare che leggendo queste pagine – più di un secolo di dottrina sociale della Chiesa – ci scappi la battuta naturale e legittima: “belle parole, però…, quanti principi, però…”. Evidentemente questo discorso va assunto anzitutto in termini di coscienza personale, di percezione della personale responsabilità e, ripeto, alla responsabilità di testimonianza personale; evidentemente non può essere ………….(?) una valutazione più ampia e complessiva. Questo mi pare importante.
Un secondo importante criterio o una chiave di lettura complessiva di oltre un secolo, dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, di dottrina sociale della Chiesa – e dico ora, nel senso che dal 1991 ad oggi sono trascorsi già 12 anni, e pur non essendoci stato più un pronunciamento organico con un’enciclica, vi è stata però una riflessione ulteriore, sulle dinamiche che attanagliano drammaticamente il vivere odierno: cioè voi pensate se la Chiesa e soprattutto la Chiesa irachena non abbia qualcosa da dire, alla luce della dottrina sociale della Chiesa, in ordine alla ricostruzione prospettica.
Un terzo elemento è l’elemento di continuità, cioè dalla Rerum novarum alla Centesimus annus si conferma una linea di continuità; questa linea di continuità che promana da tutti gli insegnamenti, ma che promana anzitutto in modo sorgivo, fontale, dal Vangelo della carità, che viene applicato nel corso del tempo, nel corso della storia e quindi anche nelle successive encicliche sociali. Ma è anzitutto il Vangelo della carità che rappresenta l’elemento di unità, il filo conduttore delle encicliche, e questo Vangelo della carità ha evidentemente un’idea di uomo, un’antropologia evangelica, cristiana, irrinunciabile: la Chiesa ……………….(?) il povero, l’oppresso, la denuncia dell’ingiustizia, il destino trascendente dell’uomo, la fraternità universale, la gratuità del servizio verso tutti i fratelli, sono alcuni dei contenuti di questo Vangelo della carità. E da questa linea di continuità emerge chiaramente che la dottrina sociale della Chiesa, così come viene espressa nei singoli documenti, nelle singole encicliche, è un prolungamento, una promanazione, una filiazione dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, sin dai tempi apostolici, sin dalla comunità degli Atti degli Apostoli; quindi, questo a confermare che esiste una continuità tra comunità cristiana primitiva, tra comunità – diciamo – apostolica e la Centesimus annus. Evidentemente vi è in questa linea di continuità la riproposizione incessante, ripeto, dell’antropologia cristiana, cioè della concezione cristiana dell’uomo. Questa concezione cristiana che è affidata alla Rivelazione: è l’immagine dell’uomo che la Rivelazione ci consegna, che la Scrittura ci consegna, che la Tradizione ecclesiale ci consegna.
Una quarta chiave di lettura è rappresentata dalla constatazione del graduale progressivo adeguamento della dottrina sociale della Chiesa ai bisogni e alle condizioni del tempo e ai bisogni e alle condizioni delle società locali. Il Concilio Vaticano II ha ben espresso questo atteggiamento della Chiesa, invitando la comunità cristiana ad un opera incessante di discernimento; è un approccio non nuovo nella Chiesa, ma che con il Concilio viene riproposto in tutta la sua freschezza, in tutto il suo sapore, afflato primaverile, cioè di vera e propria tensione al rinnovamento, all’aggiornamento. Si vede che Papa Giovanni nei propri appunti, nel diario dell’anno, annotava questa espressione: “Un Concilio – scrive – per l’aggiornamento”; per condurre ai giorni nostri una riflessione sulla Chiesa.
I primi documenti, in modo particolare la Rerum novarum, muovono da una grande considerazione: vale a dire che i valori cristiani tutelano e difendono la civiltà umana, e si parla di valori cristiani che configurano un ideale Stato cristiano, un modello cristiano di Stato, un modello cristiano di politica. Questo modello di Stato, questo modello di società è storicamente datato, cioè legato ad esempio alla vecchia Europa, alle entità statali proprie della vecchia Europa.
E potremmo dire che questa concezione di cristianità, elaborata e formata da Pio XI e in parte anche da Pio XII, vede una stretta connessione tra Stato e Chiesa, anzi vede un prevalere della Chiesa che modella e plasma gli Stati. Gli Stati debbono apprendere dalla Chiesa la loro fisionomia, la loro configurazione; nel segno alto e nobile che è raffigurato emblematicamente nel motto episcopale e pontificale di Pio XI: “Instaurare ……..(?) in Cristo”; cioè un regno (?- impegno) sociale di Cristo, una regalità di Cristo. In fondo il pontificato di Pio XI, ricordate, nasce nel 1922, l’Università Cattolica nasce nel 1921: c’è uno stretto collegamento, anche per una conoscenza personale tra il già Arcivescovo di Milano – Achille Ratti – poi Pio XI e Agostino Gemelli, l’Università Cattolica del S. Cuore, questa regalità di Cristo, che è interpretata politicamente, anche come sovranità di Cristo sui regni terreni.
In realtà, a ben vedere, per taluni versi è una ecclesiologia estremamente interessante e promettente: cioè la centralità di Cristo, crocevia centrale, eterno – evidentemente è una visione cosmica, anche storica. Sono le declinazioni che poi invece risultano datate, cioè affidate al tempo e, superato quel tempo, non risultano più evidentemente valide. Allora, come leggere ad esempio, questa stagione che va da Leone XIII, dalla Rerum novarum, alla Quadragesimo anno (1931) di Pio XI, nel loro profondo, essenziale, fondamentale spirito missionario – vera e propria evangelizzazione – ma al tempo stesso anche percepite nella loro connotazione storica? è il quinto elemento chiave di lettura, cioè qui si intreccia una perennità e anche una mutevolezza della dottrina sociale della Chiesa.
Allora: una componente perenne, cioè l’annuncio del Vangelo e del Vangelo sociale, del Vangelo della carità; e la declinazione storica, le forme storiche che vanno via, via tramontando e si superano nel tempo.
Ed è in questa via la concezione di civiltà cristiana e quindi quest’opera di civilizzazione cristiana: il…. (?), il linguaggio, la terminologia di tutte queste encicliche, compreso il Radiomessaggio del 1941; che se noi lo leggiamo è estremamente interessante, perché parla della ricostruzione – cioè nel 1941 la guerra non era finita – ma intanto guarda al dopo. Non sa quando finirà questa guerra, ma pensa alla ricostruzione e pensa ad una sola via per la ricostruzione: la democrazia. In fondo, la seconda guerra mondiale rappresenta il crollo, in parte almeno, di due totalitarismi: evidentemente la via, la soluzione, è affidata a scelte proprie di autodeterminazione dei popoli, di scelte democratiche interne dei popoli.
Ma la vera svolta – altro elemento di lettura – lo ribadisco, è rappresentato dalla Gaudium et Spes, che è preannunciata dalla Mater et Magistra e dalla Pacem in terris (1961/1963) di Giovanni XXIII, ma che è consegnata – la vera svolta – alla Gaudium et Spes, l’ultima Costituzione pastorale del Concilio, proprio alle ultime battute nel 1965 del Vaticano II.
Vi è un ulteriore elemento, o chiave di lettura: le encicliche sociali dei Pontefici, dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, potrebbero anche essere percepite e comprese nella dilatazione dei problemi. Cioè, la Rerum novarum ha un mega problema: la questione operaia, la questione industriale; la Centesimus annus affronta, dinanzi a sé, il problema. Quindi è la dilatazione, l’espansione, la prolificazione dei problemi, che la dottrina sociale della Chiesa si trova dinanzi, e al tempo stesso la dottrina sociale della Chiesa compie un lungo cammino di autocomprensione, cioè di riflessione su se stessa; a esempio, già a partire dalla Gaudium et Spes, non pensa più di essere esaustiva, cioè di essere in grado di offrire, di fornire tutte le risposte a tutti i problemi.
Come dice Paolo VI: “è sì, la Chiesa esperta in umanità, ma è anche serva di questa umanità”. La Chiesa esprime una diaconia incondizionata nei confronti dell’uomo; basterebbe prendere la Redemptor hominis – per cogliere davvero – e l’ultimo capitolo importante che leggeremo meditandolo, battuta per battuta, della Centesimus annus: La via dell’uomo e la via della Chiesa. Qui la Chiesa non ha più nulla di “trionfalistico”, nella concezione, nella sua percezione di sé; evidentemente ha invece questa straordinaria capacità dialogica, di discernimento.
Dicevamo che il Vaticano II è l’evento epocale, e il contributo del Vaticano II alla dottrina sociale della Chiesa è molteplice; è un contributo che investe la natura propria della dottrina sociale della Chiesa, che investe il metodo proprio, che investe il linguaggio, che investe i contenuti – cosa che abbiamo già in parte detto, e qui le sintetizzo; le vedremo meglio nell’affrontare la Centesimus annus.
Evidentemente è soprattutto il Magistero paolino – il Magistero di Papa Paolo VI – che potrei dire rappresenta una marcia in più, un salto di qualità, perché evidentemente la Populorum progressio – la prima grande enciclica sociale di Paolo VI – e la Octogesima adveniens – la seconda grande enciclica sociale – propendono (?), sottendono una grande ecclesiologia, che è l’ecclesiologia della Lumen Gentium, cioè l’ecclesiologia conciliare, con uno stile nuovo, un linguaggio nuovo, una percezione nuova di sé per la Chiesa e, appunto, per la dottrina sociale della Chiesa: è la missione della Chiesa che esige nuove modalità, nuove capacità, stile, metodo, linguaggio della dottrina sociale della Chiesa.
Vi è poi il forte recupero delle scienze teologiche e delle scienze umane – altro elemento caratterizzante dal Concilio in poi; più cresce la ricerca teologica, più crescono le scienze umane del rigore (?) metodologico, di ricerca, di studio, più si arricchisce la dottrina sociale della Chiesa; più le competenze laicali si immettono nel vivo, nel reticolo dinamico di tale tendenza, la dottrina sociale della Chiesa è capace di aggiornarsi e di corrispondere alle sfide del tempo.
E da ultimo, la dottrina sociale della Chiesa esprime costantemente e indissolubilmente il legame stretto tra missione religiosa, spirituale e pastorale e in parte sociale, e incarnazione nella storia: tra annuncio e incarnazione nella storia. è il terreno proprio della dottrina sociale della Chiesa che testimonia e manifesta questo connubio, questo stretto legame.
C’è una domanda che lasciamo aperta, che pongo a me stesso, che pongo a voi, e alla quale daremo una risposta: è possibile una scelta sociale cristiana? è possibile una sociologia cristiana? è possibile il matrimonio scientifico, pluridisciplinare, di saperi scientifici cristianamente connotati? Una domanda impegnativa, molto impegnativa alla quale vedremo di dare una risposta.
DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
2° LEZIONE 06.03.03
Riprendiamo il nostro itinerario: l’intento è quello di motivare, di legittimare, di dar ragione dei fondamenti e dell’attualizzazione della dottrina sociale della Chiesa, cioè di capire il significato, la valenza, l’efficacia della dottrina sociale della Chiesa; soprattutto la capacità della stessa di concorrere in modo determinante all’opera di discernimento, anzitutto del credente, della comunità cristiana, ed evidentemente in dialogo: che non rinunci a colloquiare, ad interagire anche con la cultura e la riflessione del mondo laico.
Credo che vi sia anche un’esigenza in noi tutti, molto personale e sacrosanta, che è quella di cogliere nella dottrina sociale della Chiesa una ricchezza, un patrimonio, i contenuti di riflessioni, di esperienze che possono motivare anche la testimonianza odierna, ai nostri giorni. Quindi, il nostro è un approccio, vorrei dire, teoretico sì, ma al tempo stesso anche esperienziale, esistenziale, storico, che quindi ha una valenza di tipo ecclesiale, non solo di tipo dottrinale.
Mi sono dunque sforzato, con estrema semplicità, linearità, chiarezza, di individuare i fondamenti della dottrina sociale della Chiesa e l’attualizzazione di questa dottrina sociale della Chiesa. Quando dico attualizzazione, intenzionalmente non dico attualità. Della attualità ne sono convinto, ne siamo convinti; ma magari siamo convinti dell’attualità della Centesimus annus, un po’ meno della attualità della Rerum novarum. Mentre invece, lo sforzo è appunto quello di attualizzare anche le formulazioni più lontane nel tempo, più antiche; di cogliere nei fondali di oltre un secolo fa, propri appunto di quel cattolicesimo sociale che precorse, che anticipò la Rerum novarum, le ragioni ispiratrici, e dunque anche le ragioni fondative proprie nell’oggi della dottrina sociale della Chiesa.
Per più di un secolo la dottrina sociale della Chiesa dunque, dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, ha indubbiamente rischiarato, illuminato il cammino della cattolicità, intesa per cattolicità, quella realtà articolata, complessa, che vede, anzitutto, protagonista il laicato. Il cammino della cattolicità in ogni contesto (geografico, culturale, ecclesiale), in realtà, a ben vedere con lo sguardo retrospettivo, che dall’oggi si proietti almeno alla Rerum novarum e via via, poi a ritroso ripercorra questo cammino, a ben vedere, la dottrina sociale della Chiesa ha offerto puntuali indicazioni, spunti suggestivi di riflessione per una lettura cristiana della realtà sociale alla luce del Vangelo. Questo è il primo elemento da appuntare.
In particolare questa lettura cristiana, questa visione cristiana, è stata certamente di aiuto per superare quella distanza, addirittura quella scissione profonda e lacerante a cui alludeva, nella Evangelli nuntiandi, Paolo VI: “Il dramma del nostro tempo è imputabile alla scissione tra fede e cultura”, intendendo in senso antropologico cultura, cioè il vissuto dell’uomo nel suo tempo. Evidentemente questa scissione era avvenuta da lungo tempo, potremmo dire dagli inizi dell’età moderna; una scissione, ancor prima che tra Chiesa e istituzioni ecclesiali, tra coscienza cristiana e vita sociale e storia, tra coscienza e forme della vita sociale.
La dottrina sociale della Chiesa, a ben vedere, ha inteso contribuire a questo dialogo, ha invitato a far convergere fede e vita, fede e storia, fede e cultura, fede e scienza, per taluni versi; in realtà non si tratta di realtà di mondi incompatibili, impermeabili, estranei, tuttavia una drastica separazione vi è stata e pare tuttora permanente, e indubbiamente questa separatezza rappresenta tuttora, come disse Paolo VI nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975 (uno splendido, profetico documento paolino), rappresenta tuttora un dramma.
Senza la fede l’agire sociale tende ad essere ridotto alla dimensione economicistica o esclusivamente politica o esclusivamente biologica (oggi potremmo dire la dimensione telematica, informatica, post-moderna, propria della terza rivoluzione industriale), e perde, dunque, di vista il suo soggetto primario, meglio il suo soggetto proprio: il sociale umano, la vita umana nella sua profonda connotazione sociale, nel suo profondo radicamento sociale. Al tempo stesso, però, senza la percezione, senza l’attenzione ai fatti della vita, della storia, la fede tende a perdere l’aggancio con la realtà, tende a perdere la propria dimensione di incarnazione nel tempo, nella storia.
Il pensiero cristiano rischia così di ripetere stancamente le verità di sempre, quelle che comunemente chiamiamo le verità eterne,…………….la realtà sociale, la storia presente, secondo logiche, chiavi interpretative, modelli interpretativi totalmente estranei ai Vangeli.
Un passo ulteriore: la dottrina sociale della Chiesa, oltre ad illuminare il cammino della cattolicità, ha anche inteso costituire un terreno (usiamo una espressione molto cara a Giovanni Paolo II), una via di confronto, sulla base dell’interpretazione della natura stessa dell’uomo e della società, con il mondo moderno, con le correnti culturali, con le concezioni sociali, politiche, economiche che via via, nel corso del tempo, si sono andate profilando, sono andate emergendo.
Dunque, la dottrina sociale della Chiesa ha questa potenzialità. Quanto vi sia riuscita, ecco, è tutto da capire, da studiare, da comprendere; ma ha la potenzialità di costituire un terreno di confronto. In altri termini, la dottrina sociale della Chiesa è, potremmo dire, parte irrinunciabile, importante del discorso pubblico che la Chiesa ha svolto in una società sempre più secolarizzata
Al tempo stesso suscitando attenzione: si veda quanto accade in questi giorni in ordine al rischio sempre più imminente e drammatico della guerra, di quale consenso sia circondata la parola e l’azione del Papa, che offre veramente un autentico messaggio della dottrina sociale della Chiesa. E spesso la dottrina sociale della Chiesa ha suscitato attenzione anche, laddove non fosse viziata da arbitrarie pregiudiziali (a cui abbiamo alluso la volta scorsa, ricordate?), univoche e riduttive interpretazioni, ha suscitato anche nel mondo laico, non solo rispetto, apprezzamento, considerazione, ma anche, in realtà, ha suscitato emulazione, sequela.
Con una maggiore percezione storica, poi, a me pare che la dottrina sociale della Chiesa sia stata più efficace sul piano della testimonianza dei credenti, cioè della presenza storica dei credenti in una società sempre più secolarizzata, che non sui fatti sociali, sui fenomeni sociali, economici, politici, in quanto tali.
D’altro canto, questa era, anzitutto, la sua primaria funzione, cioè tener desta nella coscienza cristiana una particolare primaria attenzione ai grandi problemi di carattere sociale, economico, che desta appunto il tempo e le sue trasformazioni. Ma, ripeto, la dottrina sociale della Chiesa, non è meramente confinabile, circoscrivibile alla cattolicità.
Il fatto stesso che la dottrina sociale si sia posta l’obiettivo di superare questo diaframma, questa inconciliabilità tra modernità e fede cristiana (questa è la vera sfida), ha fatto emergere la rilevanza sociale del Vangelo sociale, la rilevanza sociale e culturale del pensiero cristiano anche oltre i confini della cristianità, con un indubbio influsso, dunque, anche sulla vita sociale.
La dottrina sociale come un seme (è un’immagine non mia questa, ma del Cardinale Poupard) ha generato, e continua a generare, una serie di innovazioni culturali e sociali, che la società non può ignorare.
A me piace un’ulteriore specificazione: ha generato nuove consapevolezze, nuove capacità di percepire le evoluzioni, le trasformazioni in atto. Ha espresso questa capacità nei credenti, non in tutti evidentemente, ma in molti credenti, questa capacità appunto, di discernimento; la capacità, cioè, di leggere i segni dei tempi, quella espressione giovannea, tanto cara, che pone in realtà forti domande, forti interrogativi, grandi sfide.
Se la società moderna è sorta e si è sviluppata in antitesi, spesso, alla fede cristiana, al pensiero sociale cristiano, è indubbio che molti valori di questa modernità sono di origine, di derivazione cristiana. Certo non si può dire che la dottrina sociale della Chiesa sia riuscita a neutralizzare o a invertire le tendenze secolarizzanti, nell’età soprattutto contemporanea tra ‘800 e ‘900, ma certamente ha contribuito a dare a tutti il senso, appunto, la consapevolezza di una responsabilità storica nella costruzione della città, della Polis, credenti e non credenti. Di una città fatta anzitutto di persone, una città che riconosce, dunque, la centralità e il primato della persona umana.
Certamente noi pensiamo al cosiddetto cattolicesimo politico, al cattolicesimo sociale, che hanno, tra virgolette, “alimentato e generato” una cultura antropologica di ispirazione evangelica cristiana che non ha mai smesso di pensare al primato dell’uomo, al primato della coscienza, che non ha mai rinunciato a riconoscere gli “ultimi” come i prediletti del Vangelo; e nella categoria “ultima” vista, evidentemente, non tanto e solo una categoria di natura economica, ma, ripeto appunto, antropologica.
Soprattutto la dottrina sociale della Chiesa, a me pare (sono osservazioni che vado qui ponendo introduttivamente) abbia contribuito a dare ai credenti il senso del dovere di una presenza, di una testimonianza. Ma quale presenza? Quale testimonianza?
Una presenza, una testimonianza talmente radicate evangelicamente, da essere una presenza, una testimonianza creativa. Una ricerca di visibilità che fosse superamento dell’intimismo spirituale, della rinuncia alla storia, un’apertura critica alla modernità, ma non una rinuncia alla modernità. Evidentemente con la categoria di modernità intendo alludere ad un complesso di fattori di cultura e di correnti, di trasformazioni sociali, politiche ed economiche.
In realtà (questa è una convinzione alla quale veramente non posso rinunciare) la dottrina sociale della Chiesa mediante, appunto, questa apertura critica alla modernità, ha sottratto o ha tentato di sottrarre la comunità credente dalla deriva del ghetto culturale, della cittadella assediata sulla rocca, lontana dal mondo: la deriva del ghetto culturale, fondamentalmente alla deriva (mi si passi una parola, una espressione un po’ logora e ideologicamente abusata) dell’integralismo.
è sempre parsa dunque, significativa, suggestiva, e al tempo stesso molto reale, molto eloquente, quella folgorante espressione di Bernanos nel “Diario di un Curato di campagna”, posta sulla bocca del parroco di Torcy, il quale rivolgendosi al suo giovane coadiutore, rievocando il 1891, la pubblicazione della Rerum novarum, ebbe a dire: ”Ci sembrò di sentire la terra tremare sotto i nostri piedi”. Si riferiva alla enciclica Rerum novarum la cui pubblicazione ebbe in realtà l’effetto di un terremoto, di un qualcosa almeno di inaspettato e di decisamente innovativo.
Dunque, a me è particolarmente cara questa immagine e cioè: la dottrina sociale della Chiesa ha sospinto il credente a confrontarsi con la modernità; ha sospinto i credenti ad accettare le sfide della storia, a proiettarsi non solo nel presente, ma anche nel futuro, ad immaginare, per gli anni ancora a venire, una loro presenza non priva di significato, una loro incisività, qual lievito nella pasta, in fedeltà al Vangelo.
Evidentemente sulla scorta di questo primo ordine di osservazioni, non è dunque difficile individuare i motivi di attualità e di attualizzazione nella dottrina sociale della Chiesa. A me è parso di cogliere nella lettera apostolica di Giovanni Paolo II “Novo millennio in eunte” al n. 52, almeno tre motivi di riflessione.
· Il primo è che la questione sociale è ormai non più la questione operaia della Rerum novarum, ma la questione sociale è divenuta una questione planetaria; perciò richiede ancora il contributo di riflessione da parte del Magistero e da parte della comunità ecclesiale; non solo del Magistero: ecco, questo discernimento comunitario. Viene in mente il discorso del Papa alle ACLI del 27 aprile 2001: “Se – dice il Santo Padre – la globalizzazione è il nuovo nome della questione sociale, diviene necessario globalizzare la solidarietà” Ed è un impegno urgente, incalzante, fondamentale, ma non solo, si badi bene, in senso politico, in senso economico, ma cosa ancor più difficile, in senso etico e culturale. Chi può negare oggi quanto la nostra società e la nostra cultura o le nostre culture siano fortemente imbevute di questa pervasiva condizione che è il relativismo etico, il relativismo morale, che appunto è un relativismo culturale. Primo elemento.
▪ Il secondo è che la testimonianza credente nella società di oggi deve conservare uno stile autenticamente e specificamente cristiano; quello stile cristiano che, uno dopo l’altro, dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, i documenti della dottrina sociale della Chiesa sono venuti gradualmente proponendo. Per cui, l’impegno sociale che vede in prima fila i laici, secondo la vocazione loro propria e che esige una solida spiritualità e una solida formazione, deve essere chiara espressione di fedeltà, anzitutto al Vangelo, e deve essere lontana da ogni aspirazione, vocazione, attitudine, intenzionalità egemonica. Non si tratta di essere presenti per fare la conta, per verificare quanti siamo, quante falangi possiamo appunto porre sul terreno di una eventuale sfida, di un eventuale conflitto, di un eventuale contrasto. E al tempo stesso, tuttavia, evitare quindi lo stile evangelico, che anzitutto ha un originaria ed irrinunciabile connotazione spirituale, perché appunto forte e costante è la tentazione di ridurre le comunità cristiane ad agenzie sociali, i pastori d’anime, come si usava dire una volta, in operatori sociali, rispettando dunque l’autonomia e le competenze della società politica e della società civile. Guai ad identificare appunto la presenza credente cristiana con le prerogative e le funzioni proprie della società civile e della società politica.
▪ Terzo motivo di attualità, a me pare riguardi la necessaria assunzione della dimensione etico-sociale nel compito della testimonianza cristiana. Cioè si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica, di una spiritualità individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con le logiche dell’incarnazione; in definitiva con la stessa tensione escatologica del cristianesimo. è questa consapevolezza escatologica che ci fa consapevoli della relatività, anche della più appassionata, come potrei dire, iniziativa di carattere sociale, di carattere politico, di carattere economico, se pur cristianamente ispirata.
Il cristiano è l’uomo che non rinuncia ad una fondamentale consapevolezza: la consapevolezza, per usare un’espressione quasi sloganistica di origine, se non vado errato, baltassariana, che è il “già e non ancora”. è d’altro canto il ritorno a quella cifra interpretativa dello stile cristiano evangelico che ci viene consegnata da quella splendida pagina denominata, per tradizione, senza ancora attribuzione definitiva di paternità, che è la lettera a Diogneto: “Nel mondo, ma non del mondo”. Quindi una alterità che pone una riserva critica; partecipare fino in fondo alle sorti del proprio tempo, ma secondo il Vangelo, cioè secondo appunto questa riserva critica.
Dunque, se resta valida ed attuale la dottrina sociale della Chiesa, è anche vero che il quadro culturale-storico entro il quale si è venuta elaborando, è mutato, ed è mutato costantemente e considerevolmente.
Abbiamo parlato prima, ormai di condizione planetaria. Bene, basterebbe leggere l’esordio della Rerum Novarum: per le nostre orecchie, per la nostra sensibilità, ci parrebbe di tornare in quel piccolo mondo antico degli opifici fumanti della Manchester di primo ‘800, oppure anche leggere l’ultimo capitolo della Quadragesimo anno per pensare che le corporazioni cristiane ai tempi (è stato Pio XI l’autore dell’enciclica) intendevano contrapporsi alle corporazioni fasciste del tempo; questo a dire, tra virgolette, “la dimensione storica”. Dunque è mutato considerevolmente il quadro culturale e storico.
Pensiamo poi all’intreccio tra questione sociale e questione economica; non solo, ma pensiamo all’intreccio tra questione politica e questione economica; non solo, ma pensiamo oggi sempre più alla questione propria della democrazia economica. (Direi, credo che sia avvertibile come questione di una attualità stridente anche nel nostro piccolo mondo italiano). O ancora alla grave questione del riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo, spesso intesi in modo liberale ed individualistico: i miei diritti, non i diritti di tutti. Come pure all’estensione della questione sociale alla questione ecologica, ambientale: è questione sociale, inimmaginabile nel 1891, ma nemmeno negli anni della Mater et Magistra del 1961.
O la questione dei rapporti, lo vediamo ai nostri giorni, dei rapporti e degli equilibri tra nazioni, tra diverse aree del mondo: nord, sud – est, ovest; sono dunque aspetti del tutto nuovi e cogenti, attualissimi, che devono essere considerati non in modo isolato, ma come temi o capitoli di una grande immane questione sociale, superando nella loro considerazione critica e percezione e analisi, superando le prospettive di lettura troppo parziale, unilaterale, monotematica. Ma vi è una novità, forse più radicale, che è ravvisabile nello spostamento e nella radicalizzazione delle problematiche dall’ambito sociale all’ambito antropologico.
Quello che è oggi in questione non è più solo e primariamente l’ordinata convivenza nella società, tra le società, ma è evidentemente in gioco la stessa fondamentale concezione dell’uomo. Credo non sfugga a tutti loro come, messa a repentaglio la questione antropologica, evidentemente poi ne conseguono effetti incontenibili.
Nell’800 e ancora in buona parte del 900, pur nella pluralità, nella diversità delle soluzioni proposte circa i rapporti tra le classi sociali, tra i ceti, circa l’organizzazione della società, permaneva in molti paesi, soprattutto dell’occidente e dunque anche l’Italia, presso ampi strati popolari una visione dell’uomo del tutto particolare, una precisa concezione della differenza dei sessi, del rapporto uomo-donna, l’importanza assegnata alla famiglia, l’affermazione del legame tra morale personale e morale pubblica, ecc.: i cosiddetti valori propri di una società come quella prevalentemente occidentale, che ha formato le generazioni sino a, potremmo dire venti, trenta,…adesso non saprei definire il periodo in cui inizia una forte, radicale evoluzione del costume e dunque delle culture.
è dunque un modello, un’antropologia, un modello di società, un costume, un’antropologia, un sentire comune, una mentalità comune di ispirazione, di appartenenza cristiana, partecipi e proprie della cosiddetta tradizione cristiana; e comunque risentivano fortemente, tra virgolette, “dell’opera evangelizzatrice della Chiesa”.
Oggi evidentemente non è più così.
Nella sua prolusione al Consiglio permanente della CEI, del maggio del 2001, il Cardinale Presidente, Ruini, ha richiamato l’attenzione sul carattere sempre più radicale della sfida che per la Chiesa, per la coscienza cristiana riviene da che cosa? Dalle questioni che si riferiscono alla vita, alla famiglia, alle biotecnologie, alla bioetica, ai mutamenti del costume, ai mutamenti delle legislazioni.
La Costituzione europea che rimuove completamente le radici cristiane, della “comunitas europea”, induce certamente a qualche riflessione. “Sta imponendosi – diceva il Cardinale Ruini – ed appare destinata a diventare sempre più acuta e pervasiva nel tempo che sta dinanzi a noi, una questione antropologica, che a differenza di un passato anche non lontano, tende non soltanto ad interpretare l’uomo, ma soprattutto tende – si badi bene l’espressione che ha un che di drammatico – a trasformarlo e a modificarlo. E questo non limitatamente ai rapporti economici e sociali, come avveniva ad esempio in una prospettiva marxiana, ma assai più direttamente e radicalmente nella nostra stessa realtà biologica e psichica. Si tratta di una, dunque, radicalizzazione di questi ordini; un mutamento di scenario e di orizzonte di fronte al quale la dottrina sociale evidentemente non può non ripensare, riflettere e proporre una lettura antropologica cristiana forte e decisa, chiara, esplicita; capace al tempo stesso di dialogicità, di interlocuzione, ma non rinunciare evidentemente ad un fondamento antropologico.
Quindi potremmo dire che in non poche parti dell’Europa già cristiana, paiono oggi prevalere orientamenti sempre più lontani da una antropologia cristiana, da un’etica di ispirazione cristiana, che tengano davvero conto del carattere anzitutto inviolabile della persona umana, dell’indole specifica della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Ecco perché la sfida oggi è ancor più penetrante, più incisiva e dunque anche più ineludibile (non si può far finta di), ed è una sfida, ripeto, anzitutto culturale; ecco perché allora con tutti i limiti, e anche le interpretazioni fuorvianti, tuttavia nel contesto proprio della società e della Chiesa italiane, il progetto culturale cristianamente ispirato può rappresentare un’esperienza e uno strumento non secondario che consenta almeno una nuova consapevolezza tra i credenti. Cioè, che aiuti i credenti a capire, a comprendere; che aiuti i credenti ad uscire dalle chiese, dal tempio, dalle sacrestie per immettersi però non da sprovveduti, non ingenuamente, ma criticamente, appunto, nel contesto di queste sfide.
La questione sociale, quella posta da Leone XIII con la Rerum novarum e dai suoi successori dunque, evolve, è evoluta, si allarga, si è allargata, si radicalizza e si radicalizzerà sempre più. Diviene dunque questione anzi tutto antropologica.
Scrive ancora Ruini: “Anche sotto un profilo storico e culturale, il venir meno della differenza qualitativa tra noi e il resto della natura, sembra privare del loro fondamento e quindi della loro plausibilità, quel ruolo centrale e quella dignità specifica del soggetto umano, che costituiscono il punto di riferimento della nostra civiltà sul piano non soltanto filosofico ed etico, ma anche giuridico, politico, esistenziale, persino estetico. Se il primato dell’uomo, evidentemente, si opacizza, sfuma, si …………, tanto da prevedere modifiche di carattere biologico, naturale, in realtà le conseguenze sono di facile prevedibilità.
Dunque, se oggi allora, e vado alla conclusione di queste considerazioni introduttive, ma che mi premeva fondamentale e doveroso non eludere, se oggi al centro della dottrina sociale della Chiesa sta la questione antropologica, allora il compito principale della dottrina sociale della Chiesa, dei credenti che ne condividono i fondamenti, il valore, il messaggio, è di continuare a rendere, evidentemente, tutti i credenti capaci di dire, e prima ancora capaci di dire a loro stessi, di dirsi con coraggio e convinzione le ragioni proprie della fede cristiana nel tempo presente. è vivo il bisogno di una nuova consapevolezza, più diffusa, più culturalmente – non m piace l’espressione, ma è la più mediata e più esplicita – più culturalmente attrezzati, cioè capaci con gli strumenti propri della cultura, della ragione umana, della scienza e con la forza della propria professionalità (ecco il ruolo dei laici cristiani), con l’apporto della propria professionalità, appunto, capaci di – direbbe Pietro – dare ragione di quella speranza che non muore mai.
Dunque una nuova consapevolezza, anche all’interno della comunità ecclesiale, anche all’interno delle comunità religiose, nel senso di congregazioni, anche all’interno di quel laboratorio di formazione che sono i Seminari. è vivo, dunque, il bisogno di una nuova consapevolezza ecclesiale, quella consapevolezza che nasce da una visione autenticamente evangelica e cristiana dell’uomo, che chiede al credente di proclamare dei “no” grandi come una casa, soprattutto in ordine a questioni decisive delle sorti umane, dalla fecondazione in vitro alla clonazione, dall’aborto all’eutanasia; e solo l’approfondimento della questione antropologica in tutte le sue implicanze attuali può trasformare questi “no” in convinto “sì” nei confronti dell’uomo, dell’uomo più autentico.
Certo non si può ignorare una questione che talvolta sfugge, e sfugge a me pare anche davvero (diciamo genericamente), alla comunità cristiana: la Chiesa. Non si può ignorare il problema della plausibilità dell’interpretazione cristiana dell’uomo, cioè della legittimità dell’interpretazione cristiana di un contesto culturale che pare evidentemente in tutt’altro senso.
Come motivare? Come argomentare? Come rendere plausibile l’antropologia cristiana, la concezione cristiana dell’uomo oggi?
Certamente molto, molto, molto più difficile di un tempo.
E allora qui il “pontus”; il carico si fa ancora più pesante, perché non si può scendere su un terreno con lo scopettino ad aria compressa a fronte (mi si passi questa immagine militare e bellicosa) a fronte di carri armati, di ultime tecnologiche invenzioni. è necessario ricorrere al meglio della propria cultura, della propria professionalità; cultura e professionalità sono due evoluzioni, sono due termini entro i quali vi sta moltissimo, ma non sto a specificare, ma mi sia consentito, è necessario far ricorso ad una nitida, tersa e davvero vivificante spiritualità.
La convinzione (sono tutte mie osservazioni) è che troppo poco si ricorre ad un elemento fontale, sorgivo che è la Parola; quì un grande maestro che ha solcato le nostre contrade in questi ultimi vent’anni è stato, appunto, il Cardinale Martini; partire dalla Parola, partire da un fondamento indubbio, per poi declinare nell’attualità il vivere cristiano.
Allora anche la dottrina sociale della Chiesa non può non muovere i suoi primissimi originali passi e non può ritornarvi, a ritroso se non, appunto, dalle parole perenni, intramontabili del Vangelo. E qui entra in gioco un’altra attitudine propria, che soprattutto per i bresciani presenti dovrebbe essere percepita anche come la cifra di un nostro vissuto ecclesiale che ha radici molto lontane, e che si fa fresco e attuale ancor più oggi; chi vive l’esperienza ecclesiale bresciana dei nostri giorni sa certamente a cosa alludo: alludo ad una attitudine, ad una vocazione che ha portato questa tradizione cattolica bresciana, già agli inizi dell’800 sino ai giorni nostri, pur con le lentezze di quest’ultima stagione, ma che, appunto, anche il Vescovo, Mons. Sanguineti, ha riproposto con grande forza e grande convinzione, tanto da farne un po’, direi, la cifra del suo servizio episcopale, cioè l’attitudine alla vocazione educativa della comunità cristiana.
La Chiesa bresciana, la storia ecclesiale bresciana è connotata da grandi apostoli dell’educazione, da grandi testimoni del Vangelo: servi di Do, serve di Dio, beati, santi, che hanno evidentemente operato proprio con grande passione educativa. E ai giorni nostri la dimensione educativa, la diaconia educativa mi parrebbe la cifra più singolare, più pregnante, più espressiva
Questo lo dico perché appunto è sempre stata una delle costanti del Magistero, del Cardinale Martini, per esempio: “Dio educa il suo popolo”. Dimensione educativa: questa dimensione perenne fatta di ascolto della Parola, quindi ascolto della storia. Un grande bresciano di elezione, pur essendo veronese, il Cardinale Bevilacqua, maestro di Paolo VI, diceva che il cristiano doveva avere entrambe le mani impegnate: da una parte la Scrittura, il Vangelo, dall’altra parte il giornale. Un’immagine anche molto cara ad esempio a don Lorenzo Milani, questo grande maestro di Valpiana: la Scrittura, il Vangelo e il giornale.
Una parola perenne, eterna, intramontabile e una parola che si consuma già con il tramonto della giornata, ma che evidentemente ci sbatte in faccia la drammaticità, quelle gioie e quelle speranze che la Gaudium et Spes hanno posto come esordio.
Bene, allora, riflessione che deve coniugarsi con l’impegno educativo ad ogni livello, ad ogni dimensione; dunque la capacità di elaborazione del pensiero cristiano con la sua incontenibile creatività e la tensione educativa-formativa costante, sono strumenti propri della dottrina sociale della Chiesa.
Per altro la vocazione e l’attitudine educativa debbono far conto su qualche virtù fondamentale. La pazienza: educare significa – chi ha speso un po’ del proprio tempo, della propria vita nell’azione, nel servizio educativo sa – che appunto si semina, ma evidentemente quando e come si raccolga è affidato solo ai disegni ella provvidenza. Pazienza, ma al tempo stesso creatività; la creatività che non è sprovvedutezza, la creatività che ad esempio è cultura: più uno intuisce, programma, progetta, più è colto. Quella cultura intesa proprio nella sua originaria accezione, non un sapere fine a se stesso, ma un sapere finalizzato ad affermare appunto la centralità antropologica. Un impegno per ridestare nuove consapevolezze, sottraendosi a luoghi comuni, a stereotipi, ad imposizioni, a intimismi e ad individualismi.
Luoghi comuni, stereotipi, intimismi ed individualismi anche di natura spirituale sono, credo di poter dire (non sono un saggio evidentemente) delle scorciatoie che si traducono poi in vicoli ciechi; perché poi portano ad un’amara, triste, rassegnata considerazione (per cui gli stereotipi e i luoghi comuni, propri anche di una certa prassi pastorale, ecclesiale e religiosa, che porta a dire: ma si è sempre fatto così e quindi andrà bene anche questa volta), confidando genericamente nella provvidenza. La provvidenza evidentemente ha ben altri disegni, oltre alle nostre banalità o banalizzazioni.
Allora, riflessione critica sul tempo presente per un’opera autentica di discernimento e al tempo stesso educazione e formazione, esigono entrambe confronto, dialogo, impegno culturale, studio, ricerca e approfondimento; mai accontentarsi delle apparenze. Il compito è certamente impervio, ma è un compito che le sfide del presente esigono dalla coscienza cristiana, dalla comunità cristiana.
La Novo millennio in eunte propone una considerazione che mi pare faccia davvero al caso nostro: “ per l’efficacia della testimonianza cristiana, soprattutto in ambiti delicati e controversi, è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente le ragioni della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma si tratta di interpretare e difendere i valori radicati nella natura stessa dell’uomo. La carità si farà allora necessariamente servizio; servizio alla cultura, servizio alla politica, all’economia, alla famiglia, perché dappertutto, ovunque e sempre vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino di ogni essere umano e il futuro della civiltà”.
Bene, per i cristiani che intendono ispirarsi nella loro testimonianza, nella loro presenza, nel loro impegno, alla dottrina sociale della Chiesa, per i cristiani, questa esigenza di carità, intesa come servizio, servizio anzitutto alla cultura per rispettare e far valere i principi fondamentali dell’uomo, è un’esigenza imprescindibile. I cristiani debbono rendere ragione a tutti della loro visione dell’uomo e della visione della società umana che deriva da questa visione dell’uomo.
La posta in gioco, evidentemente, è molto seria; le difficoltà che si frappongono sono sotto i nostri occhi, ma non dimentichiamo che agli inizi della dottrina sociale della Chiesa, la posta in gioco era altrettanto seria e le difficoltà non erano meno gravi.
In un volume molto importante, che fa molto riflettere, intitolato “La comunità maledetta” di Bonomi, edito a Torino nel 2002, si legge: Un pensiero eretico, perché riscopre la persona, che riscopre la comunità, parole maledette per tutto il ‘900, un secolo ossessionato dal conflitto tra capitale e lavoro e dai simboli corrispondenti: stato e mercato”. Dunque, contro una cultura appunto egemone fin dai propri albori, dai propri inizi, la dottrina sociale della Chiesa ha saputo immettere, ha saputo dire, ha saputo far valere le parole – maledette e negate – di persona e di comunità. è stata un’opera ardua, ma come scrive la lettera a Tito “Un’opera bella e utile per l’uomo”.
Vi sono, a mio avviso, parole-chiave che, per noi che ci immettiamo nella riflessione propria della dottrina sociale della Chiesa, meritano di essere qui enucleate, indicate – sinteticamente, è un schema.
Una prima parola-chiave comprensiva di un’altra parola-chiave: carità e pace. Sono un punto di partenza e al tempo stesso un approdo, un punto di arrivo. La carità nella sua accezione teologica ispira i rapporti umani, ispira rapporti immediati e ispira rapporti mediati, fino a permeare la vita sociale. La pace è un approdo, è un traguardo che si raggiunge mediante un lungo cammino di carità. Anche la pace merita di essere percepita anzitutto nella sua valenza teologica, come aspirazione insopprimibile, da sempre, di ogni popolo.
Una seconda parola-chiave: persona, ma anche qui comprensiva e dialogica con un’altra parola-chiave: società.
Allora: carità e pace – persona e società. è il personalismo cristiano con il comunitarismo personalistico – persona e società; nell’orizzonte della carità e della pace, il primato va alla persona, colta però nella sua dimensione sociale, ma anche nella sua, appunto, esclusiva individualità, colta nella sua originaria, naturalissima dimensione sociale.
Vi è una terza parola-chiave che è sempre comprensiva di altre: comunità – cultura – dialogo interculturale.
Vi è una quarta parola-chiave: bene comune – politica – democrazia.
Vi è una quinta parola-chiave: educazione e spiritualità.
Vi è una sesta parola-chiave: uomo – donna – famiglia – generazione – matrimonio.
Ancora un’altra parola-chiave: lavoro – proprietà – destinazione universale dei beni.
Vi è un’altra parola-chiave, forse tra le più ricorrenti nel lessico, nel glossario della dottrina sociale della Chiesa, è: solidarietà e sussidiarietà.
Vi è un’altra parola-chiave che è bioetica e biotecnologia, e a ultimo: giustizia e speranza.
La giustizia non raggiunta consente comunque d’essere attesa e conseguita mediante la speranza.
Ecco, sono alcune osservazioni, ripeto sempre introduttive, ma comunque di fondamento.
Dottrina sociale della chiesa
8 maggio
Se ci fosse ancora bisogno di specificare ulteriormente l’identità della D.S.dCh basterebbe prendere fra le mani la Centesimus Annus al n° 57 e leggere questo incisivo e chiaro passaggio volto a definire sulla scorta di cent’anni di riflessioni e di esperienze proprie dell’insegnamento sociale della chiesa, l’identità, la definizione, la nozione di D.S.d Ch.
PARAGRAFO 57
Giovanni Paolo II° scrive:
Per la chiesa il messaggio sociale del Vangelo non deve essere considerato una teoria, ma prima di tutto, un FONDAMENTO , e una MOTIVAZIONE PER L’AZIONE. Spinti da questo messaggio, alcuni dei primi cristiani distribuivano i loro beni ai poveri, testimoniando che, nonostante le diverse provenienze sociali, era possibile una convivenza pacifica e solidale. Con la forza del Vangelo nel corso dei secoli, i monaci coltivarono le terre, i religiosi e le religiose fondarono ospedali e asili per i poveri, le confraternite, come pure uomini e donne di tutte le condizioni, si impegnarono in favore dei bisognosi e degli emarginati, essendo convinti che le parole di Cristo: ( Mt.25,40):… “ogni volta che farete queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a Me”… , non dovevano rimanere un pio desiderio, ma diventare un concreto impegno di vita.
Oggi più che mai la Chiesa è cosciente che il suo messaggio sociale troverà credibilità nella TESTIMONIANZA DELLE OPERE, prima che nella sua coerenza e logica interna. Anche da questa consapevolezza deriva la sua opzione preferenziale per i poveri, la quale non è mai esclusiva né discriminante verso altri gruppi. Si tratta infatti, di opzione che non vale soltanto per la povertà materiale, essendo noto che, specialmente nella società moderna, si trovano molte forme di povertà non solo economica, ma anche culturale e religiosa. L’amore della Chiesa per i poveri che è determinante ed appartiene alla sua costante tradizione, la spinge a rivolgersi al mondo nel quale, nonostante il progresso tecnico-economico, la povertà minaccia di assumere forme gigantesche. Nei paesi occidentali c’è la povertà multiforme dei gruppi emarginati, degli anziani e malati, delle vittime del consumismo e, più ancora, quella dei tanti profughi ed emigrati; nei paesi in via di sviluppo si profilano all’orizzonte crisi drammatiche, se non si prenderanno in tempo misure internazionalmente coordinate.
Qui dunque il carattere proprio specifico identificativo, della D.S.d:Ch parrebbe non tanto quello di una formulazione teorica, ma anzitutto di fondamento e motivazione per l’azione.poco più innanzi la Chiesa è cosciente che il suo messaggio sociale troverà credibilità , esplicitazione , nella testimonianza delle opere, prima che nella sua coerenza e logica interna.
Questo dice ancora una volta che la D.S. non solo appartiene alla vocazione e alla missione evangelizzatrice della Chiesa, ma connota le opere e i giorni della Chiesa, quindi gli eventi , ispira e guida l’operosità evangelica dei credenti. Questo in termini virtuali , potenziali, in termini di auspicata coerenza, in termini di non smentita affermazione di principi. Ne consegue che ogni qualvolta si contraddice questa affermazione di principi, questa formulazione dottrinale, in realtà la D.S.d.Ch risulta essere lettera morta, una parola vuota e irrilevante, per nulla incisiva.
Ecco perché, a mio modesto avviso, la D.S.d.Ch va anzitutto compresa, percepita, approfondita nella sua dimensione, nella sua connotazione e nella sua esplicitazione, applicazione STORICA proprio perché riflette un tempo storico e ambisce incarnarsi NEL TEMPO STORICO.
Anche la formulazione dei cosiddetti principi perenni, permanenti, intramontabili della D.S.d.Ch ha significato e valore laddove questi sanno incarnarsi nella storia, nel tempo storico altrimenti restano oggetto di elevata erudizione teologica, dottrinale, di elaborazione teorica concettuale. Ecco perché l’immagine, l’espressione, di un Vangelo sociale che impone alla coscienza credente una ineludibile testimonianza, coerente, consequenziale è un’immagine la più calzante, la più attuale. Ecco perché al fondo la misura della validità, dell’efficacia della D.S.d.Ch è data, è espressa ,dalla coerenza dei credenti, che ispirandosi alla D.S.d.Ch, in modo aggiornato “con modalità storiche”, la sanno tradurre e non solo annunciare e proporre, la sanno incarnare non solo teoricamente elaborare, la sanno aggiornare costantemente in ragione dei mutamenti incessanti che investono la vita dell’uomo, e dunque del credente, che vive nel tempo storico.
Questa mi parrebbe davvero una osservazione preliminare alla nostra lettura della C:A. per dire la costante attualità , e per dire come in realtà la C.A. esprime questa capacità di compendiare teoria e prassi, riflessioni lungo un secolo dalla Rerum Novarum , appunto alla C.A., ma anche esperienza, prassi storica, anche operosità evangelica. In realtà noi sappiamo che , appunto citando Paolo VI°, ..”il nostro tempo ha bisogno di maestri, ma appunto, MAESTRI che siano TESTIMONI”…. Quindi testimoni che possano offrire lezioni tanto eloquenti ed efficaci con la loro testimonianza di vita, con la loro operosità, ispirata appunto alla D.S.d.Ch.
Questa osservazione preliminare ci introduce ad una schematica presentazione della C.A. che trae origine, come molti altri pronunciamenti pontifici che abbiamo più volte evocati e commentati ,dalla cadenza anniversaria commemorata autorevolmente, solennemente in centenario della R.N..
Giovanni Paolo II° pubblica nel maggio del 1991 appunto la C.A.
Potremmo dire anzitutto che è un documento maturo che sa compendiare un secolo di riflessione e di esperienza. Riprende anzitutto:
Dunque la C.A .riflette il grande respiro, il grande afflato conciliare che innesta la D.S.d.Ch nella missione evangelizzatrice. Ecclesiologicamente la C:A. è un’enciclica pienamente e completamente conciliare; al tempo stesso la C.A. potrebbe configurarsi anche come un vero e proprio “laboratorio”, un vero e proprio banco di prova in ordine alla capacità della Chiesa, e dunque della D.S. d.Ch di leggere cristianamente le sfide del tempo. Cioè la C.A si propone come LETTURA CRISTIANA DEL MONDO MODERNO. Con le sue straordinarie creazioni, con le sue più alte e nobili aspirazioni, ma anche con i suoi mali e contraddizioni.
L’enciclica si regge su due grandi eventi di particolare e singolare rilevanza:
I due eventi: 1891-1989 non presentano alcuna analogia, tuttavia vi è comunque una sottesa correlazione-colleganza che a me pare evidente, non molto esplicita, ma abbastanza evidente: a ben vedere l’ideologia socialista respinta da Leone XIII° con la R.N. per i suoi effetti devastanti dal punto di vista soprattutto antropologico. Sostanzialmente la società, lo stato, i modelli di società e di stato che la ideologia socialista, nella lettura della R.N .intendeva realizzare, rischiava di “contraffare” e ridurre l’idea e il concetto do uomo, e della sua dignità trascendente.
Al tempo stesso i fatti dell’89 dimostrano il fallimento di tale ideologia, il fallimento storico.
Al tempo stesso non mostrano, non affermano la vittoria di una ideologia alternativa, cioè quella capitalista, con tutti i suoi risvolti occidentali e attualisti.
L’enciclica si articola in sei partizioni:
PRIMA RIPARTIZIONE:
tratti caratteristici della R.N
Quindi riconosce il carattere dirompente e rivoluzionario della C.A. che apre uno squarcio.la R.N. è del 11 maggio 1891; non sono passati secoli dalla “quanta cura (?????)” di Pio IX° che aveva un’appendice ancor più nota che si chiamava “SILLABO” , non sono passati secoli dalla MIRARI BOSS di Gregorio XVI° (1832) dove si stigmatizzava come un male la libertà di pensiero e di parola. Dunque questo stà a dire la novità straordinaria della C.A.
Chi ha studiato a fondo e forse meriterebbe ancora ulteriori e seri studi, la biografia di Leone XIII°, a ben vedere non poteva facilmente prevedere questo documento.certamente un uomo che nella stagione della sua esperienza diplomatica, nunzio a Bruxelles, giovanissimo, per molti anni arcivescovo di Perugina, in cui dice, compendia in termini e modi abbastanza eccezionali per il tempo, la duplice esperienza internazionale, diplomatica, politico-diplomatica e pastorale, al tempo stesso uomo di solida formazione teologica, di grandee dottrina, uomo di straordinaria intelligenza, ma non oltre. Io credo si possa accreditare quella felice osservazione che anni orsono una fonte non sospetta, non incline ad un ossequio a dismisura incondizionato nei confronti di un’autorità ecclesiasticas come appunto Padre Bartolomeo Sorge, ebbe a dire che: “…certamente il grande ed anziano Leone fu significativamente ispirato nella intuizione che era giunto il tempo di dire una parola autorevole ed importante sulle questioni sociali e sulla questione industriale…”; ma vi è un’altra osservazione di Sorge, come scrissi nel mio articolo citato nella prima lezione, all’indomani della C.A. là dove mi accadeva in realtà di osservare che”…. questo papa ormai molto anziano, ma che sopravviverà ancora ben 14 anni, muore nel 1903, fu mosso a scrivere dalla sollecitazione di un laicato che ormai mordeva il freno , e che ormai incalzava e bussava alla porta perché si riconoscesse questa sua operosità evangelica soprattutto sul terreno proprio delle questioni sociali ed economiche….”. ora questo ci induce a riflettere come davvero la vita della Chiesa appartiene ancora in parte ed è straordinariamente esaltante che sia così, anche al mistero. Cioè chiede una comprensione che al tempo stesso si deve arrestare talvolta, sulla soglia e deve affidarsi ad una lettura davvero provvidenziale, appunto misterica.
Laddove anche eventi e fatti apparentemente scontati poi prendono una piega di tutt’altro segno: chi avrebbe pensato che alla morte di Paolo VI° e dopo il breve pontificato di circa un mese di Giovanni Paolo I°, ad una lunga successione di pontefici tutti italiani, tutti “ occidentali” venisse quest’uomo dall’est a squarciare orizzonti apparentemente impenetrabili. E chi alla fine dell’800, laddove i documenti pontifici non erano altro che la codificazione di tesi già a lungo confermate, potesse squarciare un orizzonte in modo così forte come la R.N. così ha fatto Giovanni Paolo II° con la C.A. Questo ci da la percezione di quello che io amo definire la “ STORIOGRAFIA DEL PROFONDO “cioè la capacità di penetrare le pieghe della storia sino in fondo, di capire che la storia non è meramente fenomenologia, cioè la storia non è un atto notarile, cronachistico che rivela, descrive quanto appare, quanto è evidente. La stori è fatta anche di profondità, è fatta anche di radici profonde; la storiografia del profondo viene da un’intelligenza sapienziale cioè un’intelligenza che non si accontenta di quanto appare, ma viene dalla capacità di penetrare il mistero della vita umana nella complessità del tempo storico.
SECONDA RIPARTIZIONE:
verso le “cose nuove” di oggi
Siamo alla svolta storica del 1989, una svolta epocale con il crollo dei regimi marxisti totalitari provocato in buona parte da una resistenza civile, da una coscienza civile , spesso con una componente cristiana, rilevante che nostra l’insopprimibilità di diritti fondamentali e irrinunciabili che proprio la società civile è stata storicamente in grado di manifestare e di esprimere alta voce sino alla ferma resistenza e protesta e alla sollevazione. Questo ha generato un’implosione, una conflagrazione interna di sistemi, di modelli statuari in nome dell’inviolabilità e dell’affermazione dei diritti civili, politici e della verità delle culture nazionali. In fondo è il crollo delle ultime forme ed espressioni di imperialismo ideologico, politico, economico. La ricostruzione dell’Europa centro-orientale diviene una grande sfida per tutto l’occidente, mette a dura prova la capacità “affermata e conclamata” delle democrazie occidentali di esprimersi in termini di solidarietà e di sussidiarietà, di osservanza rigorosa dei principi propri della D.S.d.Ch. anche perché la sfida è una sfida a tutto tondo e in termini cosmopoliti ,perché alla porta bussano i paesi in via di sviluppo, e chiedono una risposta forte e decisa all’occidente. L’enciclica dice : “ l’occidente, la vecchia Europa, che caduto il comunismo statuale, l’ideologia socialista statalista totalitaria, possa in modo esclusivo affermare un proprio modello planetario e internazionale.
privata e l’universale destinazione
Dei beni
E’ la più densa e suggestiva che, dedicata alle grandi questioni proprie che, in modo aggiornato e rinnovato, hanno via via nel tempo accompagnato la riflessione propria della D.S.d.Ch. e la testimonianza di credenti coerenti. Si ragiona e si riflette sulla proprietà privata, connessa all’universale destinazione dei beni. E’ importante questa aggiornata lettura della proprietà privata che si apre alla destinazione universale dei beni, compresi i beni materiali, economici, e i beni culturali. L’avventura dell’enciclica muove dalla dignità dei lavoratori dal loro diritto alla proprietà, dalla libertà di iniziativa e di impresa economica,, esamina le forme che deve assumere la vita economica dopo il naufragio della economia socialista statalista. La Chiesa, al tempo stesso se riconosce il ruolo del profitto, se riconosce il libero mercato, se riconosce la libera impresa, non propone però alcun modello particolare; la sconfitta del socialismo reale, dell’ideologia statalista e socialista non significa un’automatica alternativa o sostituzione con il modello capitalista. Quest’ultimo è si accettabile sul piano del rispetto delle esigenze etiche, nel rifiuto di ogni tendenza materialistica, consumistica, disumanizza le persone, ma anche le comunità, le collettività, le società, gli stati. Minaccia ad esempio il futuro ecologico del pianeta; piuttosto che di capitalismo, a ben vedere, l’encoclica parla di economia d’impresa, di economia di mercato, di economia libera, anche queste connotazioni terminologiche fanno riflettere ed inducono le democrazie occidentale a riflettere criticamente sui loro modelli economico –capitalistici.
Si affronta un tema originale e suggestivo,è sicuramente un tema che affascina molto,e che meriterebbe di ricorrere più frequentemente nel dibattito ecclesiale Lo stato e la cultura ;per delineare il ruolo dello stato nella società civile, a servizio dell’uomo , della persona , del cittadino , ma anche a servizio del nucleo familiare, dell’ economia , delle istituzioni , delle culture proprie delle nazioni .Vengono individuate le cause di ogni forma di totalitarismo,vengono indicati ed elencati i requisiti propri di una democrazia, autentica, reale , non formale,non conclamata, non dichiarata, ma reale. Cioè un sistema politico che contempli la responsabilizzazione di tutti i cittadini nella determinazione delle sorti del paese . soprattutto in questa quinta parte , si afferma il concetto , l’idea di verità sull’uomo , sulla libertà culturale di un paese e in ordine alla verità sull’uomo, un ordine alla migliore e più adeguata espressione delle culture , si indica il ruolo decisivo delle chiese, della comunità cristiana, dei credenti ; chiamati in modo singolare , originale e specifico, a concorrere a questa “causa della libertà”.
Il titolo è significativo e suggestivamente prospettico . L’uomo è la via della chiesa.
Questa parte approfondisce i principi teologici, sottesi alla D.S.D.CH., in cui si afferma la missione propria della stessa : servire l’uomo annunciandogli la propria salvezza in Gesù Cristo.
Quindi la D:S:D.CH. ha un caposaldo, un perno , fortemente cristocentrico. L’uomo è la via della chiesa , la quale deve ricercare indefessamente , senza sosta,senza indugio , l’uomo nella sua pienezza , nella sua piena libertà e dignità .
Al numero 53 appunto dice
: l’uomo è la via della chiesa tracciata da Cristo stesso, è importante evocare questo importante passaggio.
Di fronte alla miseria del proletariato Leone XIII diceva:”affrontiamo con fiducia questo argomento e con pieno nostro diritto, ci parrebbe di mancare al nostro ufficio se tacessimo”. …fine della citazione . continua la centesimus annus…”.Negli ultimi 100 anni la chiesaha ripetutamente manifestato il suo pensiero, seguendo da vicino la continua evoluzione della questione sociale ,e non ha certo fatto questo per recuperare privilegi del passato o per imporre la sua concezione. Suo unico scopo è stata la cura e responsabilità per l’uomo ,a lei affidato da Cristo stesso,per questo uomo che , come il concilio vaticano II ricorda, è la sola creatura che Dio stesso abbia voluto per sé stessa e per cui Dio ha il suo progetto , cioè la partecipazione alla salvezza . Non si tratta dell’uomo astratto, , MA DELL’UOMO REALE, CONCRETO, E STORICO: SI TRATTA DI CIASCUN UOMO….vediamo l’antropologia cristiana ….si tratta di ciascun uomo , perché ciascuno è stato compreso nel mistero della redenzione …c’è la citazione della Redemptor Homnis……e con ciascuno Cristo si è unito per sempre attraverso questo mistero. Ne consegue che la chiesa non può abbandonare l’uomo , e che : questo uomo e’ la prima via che la chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione …. La via tracciata da Cristo stesso,via che immutabilmente passa attraverso il mistero, dell’incarnazione e della redenzione . Cita ancora la R.H.
E’ questa , solo questa, l’ispirazione che presiede alla D.S.D.CH…….E qui è affermata la finalità essenziale….. se essa l’ha a mano a mano elaborata in forma sistematica,soprattutto a partire dalla data che commemoriamo, è perché tutta la ricchezza dottrinale della chiesa ha come orizzonte…..molto bella questa definizione… l’uomo nella sua concreta realtà e di peccatore e di giusto.”
NUMERO 54.
La D.S. oggi specialmente mira all’uomo , in quanto inserito nella complessa rete di relazioni,, delle società moderne. Le scienze umane e la filosofia sono di aiuto per integrare la centralità dell’uomo dentro la società e per metterlo in grado di capire meglio sé steso, in quanto “essere sociale”,. Soltanto la fede, però gli rivela la sua vera identità, e proprio da essa prende avvio la D.S.D.CH , la quale , valendosi di tutti gli apporti delle scienze e della filosofia, si propone di assistere l’uomo nel cammino della salvezza…..
Questo fondamento antropologico della C.A. è la grande lezione di 100 anni de D.S.D.CH..
Sempre introduttiva alla C.A. la quale afferma con forza , la continuità della D.S., soprattutto con Davoli, che offriva il modello permanente e afferma quello che si sarebbe chiamato poi in seguito :insegnamento sociale, dottrina sociale, magistero sociale della chiesa, . dopo aver ribadito la fecondità dell’insegnamento della R.N. la C.A. arricchisce e rinnova il metodo di analisi , anzitutto delle parti sociali, mostra una sorprendente capacità di lettura del tempo storico , soprattutto una capacità di comprensione delle culture, molteplici e delle istituzioni anche internazionali, allo stesso tempo approfondisce la natura teologica, e dunque evangelizzatrice della D.S.D.CH.. potremmo dire che la C.A. riscatta la D.S. , la pone al cuore della chiesa , e il baricentro è ecclesiologico .
Per analizzare le “res nove” e le sfide presenti, l’enciclica ricorre a due concetti chiave, 2 categorie ineludibili:
la cui rilevanza è posta in luce più volte reiteratamente, riserveremo una lezione al concetto di cultura che pervade la C.A.: cultura del lavoro, delle nazioni , stato e cultura, cultura del totalitarismo, contenuto della chiesa alla cultura, inculturazione del vangelo ….il concetto , la categoria di cultura è una chiave interpretativa, al fondo l’enciclica ci aiuta a capire che i veri mutamenti sono di carattere culturale
fondamentale e onnipresente nell’enciclica , e credo sia uno dei concetti più cari e fondamentali per Giovanni Polo II, secondo il quale la questione può essere risolta solo…”nella verità dell’uomo, sull’uomo e su Dio,nella verità naturale e nella verità rivelata ….” Al n°29…”nessun autentico progresso è possibile senza il rispetto del naturale e originario diritto di conoscere la verità e vivere secondo la verità …”
si richiama l’attenzione su questo aspetto dell’enciclica:il concetto di verità . il suo uso ricorrente nell’enciclica e questo è una vera novità , il ricorrente impiego , del concetto di verità . Anche perché spesso le riflessioni di carattere sociologico eludono il concetto di verità .
IN grande sintesi, 10 aspetti caratterizzano la D.S.D.CH. secondo la C.A. :
Questo schema complessivo dell’enciclica , mi pare dia anche la dimensione, la percezione dei grandi passi compiuti dalla centesimus annus , e lungo il corso di questi 100 anni . per essere un po’ più precisi , dirò che l’enciclica si sviluppa gradualmente , evolutivamente , per ben 62 numeri (le encicliche procedono x numeri ) ,questa è articolata in 6 partizioni ed è preceduta da una introduzione.
L’introduzione compendia il numero :1 - 2 - 3 dell’enciclica .
Il capitolo parte prima : dal n° 4 compreso al n° 11 compreso e il titolo è appunto:
TRATTI CARATTERISTICI DELLA R. N. .
Il capitolo 2, la parte seconda :12 - 21 :
VERSO LE COSE NUOVE DI OGGI….cose “nuove” fra virgolette..
Il terzo capitolo 23 - 29:
L’ANNO 1989
Il quarto capitolo 30 - 43.
LA PROPRIETA’ PRIVATA E L’UNIVERSALE DESTINAZIONE DEI BENI
Il quinto 44 - 52:
STATO E CULTURA
Il sesto 53 - 62
L’UOMO E’ LA VIA DELLA CHIESA
Al numero –62- proprio le ultime battute si esplicita, si enuclea lo spirito che fonda l’intera enciclica:
“questa mia enciclica ha voluto guardare al passato. Ma soprattutto è protesa verso il futuro. Come la R.N. si colloca quasi alla soglia del nuovo secolo ed intende,con l’aiuto di Dio , prepararne la venuta.
La vera e perenne “novità delle cose” in ogni tempo viene dall’infinita potenza divina,che dice:”…..ecco io faccio nuove tutte le cose”….. (Ap. 21,5) . queste parole si riferiscono al compimento della storia ,quando Cristo :”consegnerà il regno al Padre”….”perché Dio sia tutto in tutti ..”… quindi il fondamento Cristologico..…(1Cor 15,24.28) . ma il cristiano sa bene che la novità che attendiamo nella sua pienezza al ritorno del signore,è presente fin dalla creazione del mondo e, più propriamente, da quando Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo e con Lui per Lui ha fatto una “nuova creazione” (2Cor 5,17;Gal 6,15) .
Nel concludere , ringrazio ancora Dio onnipotente, che ha dato alla sua chiesa la luce e la forza di accompagnare l’uomo nel cammino terreno verso il destino eterno . Anche nel terzo millennio, la chiesa , sarà fedele “ nel fare propria la via dell’uomo “ ….bella questa espressione…. consapevole che non procede da sola, ma con Cristo suo Signore .E ’Lui che ha fatto propria la via dell’uomo e lo guida anche quando questi non se ne rende conto. ….pare questa la cifra dell’evangelizzazione….la chiesa , l’evangelizzazione ha fatto propria la via dell’uomo anche quando questi non se ne rende conto……
Maria , la Madre del redentore, la quale rimane accanto a Cristo nel suo cammino verso e con gli uomini , e precede la Chiesa nel pellegrinaggio della fede, accompagni con materna intercessione l’umanità verso il prossimo millennio , in fedeltà a Colui che <<ieri come oggi è lo stesso e lo sarà per sempre>> (Eb 13,18) . Gesù Cristo , nostro Signore nel cui Nome tutti benedico di cuore
Dato a Roma, presso S. Pietro, il 1° maggio –memoria di San Giuseppe lavoratore – dell’ anno 1991 , decimo terzo di pontificato
JOANNES PAULUS II
Ha voluto citare esplicitamente queste ultime battute dell’enciclica, qui stà il segno in cui si compie questa riflessione sintetica a cent’anni dalla R:N: ..è un compendio di un secolo di insegnamento sociale della chiesa , di esperienza storica , che mostra come la via dell’uomo e’ la via della chiesa , ma di un uomo il cui volto evidentemente è riflesso nel volto di Cristo. Mi pare davvero questa forte caratura Cristocentrica ,non a caso questo pontificato all’insegna della Redentor homnis , dica davvero un’affermazione , (malgrado l’uomo non se ne renda conto) una testimonianza della verità tutta intera sull’uomo . l’uomo è inconsapevole, direi, soprattutto, quest’uomo di una società post-moderna, e sempre più post-cristiana , è sempre più inconsapevole , perché le culture mirano a renderlo inconsapevole del proprio destino religioso , e trascendente . il valore della D:S:D:CH: è appunto anche questo: affermare la verità sull’uomo e su Dio , per un nuovo umanesimo .
24-05-03
X L’ESAME:
VA CONOSCIUTA DENE LA :
PIU’ CHE BENE LA:
Oramai abbiamo detto molte volte che la dottrina sociale della chiesa cerca di applicare la dottrina evangelica , cristiana , il patrimonio dottrinale cristiano alle situazioni storiche contemporanee.
Le situazioni storiche interpellano fortemente la dottrina cristiana. Questo cosa presuppone?
Un atteggiamento ed un’opzione,che sempre più i documenti sociali della chiesa manifestano e confermano negli anni post-conciliari. Cioè presuppone una chiave di lettura una volontà e una capacità di lettura dei fatti. Una considerazione equilibrata , capace di leggere tutti gli aspetti fondamentali e le dinamiche , di una vicenda storica , x poter compiere un’ analisi della vicenda storica ,degli avvenimenti della storia . Ecco perché quell’attitudine al discernimento che sempre più emerge, come imperativo categorico,ed esigenza fondamentale per la missione della chiesa , che non è estrapolabile dal contesto storico, essendo, la chiesa , figlia del proprio tempo
Gli uomini di chiesa , tutti gli , noi stessi, storicamente datati circostanziati , da una cultura, da una visione del mondo e della storia che appartengono al nostro tempo, quindi la chiesa stessa, nella ricostruzione della vicenda storica e del discernimento , ecco l’aspetto più decisivo: il discernimento, che riconduca ad una visione alta cioè alle vicende bibliche e teologiche, la vicenda quotidiana, intrinsecamente ha una grande potenzialità un grande virtualità, io dico sempre, che il discernimento è un esame di coscienza per noi stessi, è un banco di prova, è la “misura”della nostra evangelicità o meno , del nostro impegno e del nostro tradimento,della nostra incoerenza. Il discernimento va assunto come abito costante come connotazione individuale, personale ,ecclesiale e comunitaria .
Pervenire già a questa che definirei , montinianamente ,“stile ecclesiale” , è davvero un grande traguardo .
La presente enciclica….dice la centesimus annus….mira a mettere in evidenza la fecondità dei principi espressi da Leone XIII, i quali appartengono al patrimonio ecclesiale della chiesa , e per tale titolo, impegnano l’autorità del suo magistero, ma la sollecitudine pastorale mi ha spinto altresì a proporre l’analisi di alcuni avvenimenti della storia recente …..l’analisi di alcuni avvenimenti della storia recente…. Qui vi è esplicita questa scelta, si dichiara apertamente che , pur facendo grande tesoro del patrimonio dottrinale , è ineludibile, fondamentale, compiere quest’analisi di alcuni avvenimenti della storia recente. E l’espressione successiva ha il sapore e il carattere della teologia della storia, dice il Papa, in questo passo:….. . E’ superfluo rilevare che il considerare attentamente il corso degli avvenimenti, per discernere le nuove esigenze dell’evangelizzazione fa parte del compito dei pastori . Tale esame, tuttavia, non intende dare giudizi definitivi, in quanto di per sé non rientra nell’ambito specifico del magistero
Lo stile è quello del discernimento,che mira a compiere della vicenda .
Evidentemente , la chiesa, realizza la propria missione evangelizzatrice , soprattutto, partecipa a questa nuova “grande avventura” che è la nuova evangelizzazione, anzitutto realizzando una lettura critica .
Vi è una seconda grande affermazione , oltre i confini , il perimetro di una lettura evangelica, è difficile trovare soluzioni ai problemi ed alle questioni antropologiche , e dunque anche alle grandi questioni sociali.
Dice l’enciclica:….in effetti, x la chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice, fa parte del messaggio cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società , e inquadra il lavoro quotidiano per le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo salvatore . …. Un passaggio ulteriore……. Ora, la validità di tale orientamento, …. Dice l’enciclica….mi offre, a distanza di 100 anni, l’opportunità di dare un contributo all’elaborazione della dottrina sociale cristiana…..ecco questo patagio è ulteriormente esplicativo, e conferma in realtà la capacità progressiva della d.s.d.ch.il tutto stà nel termine “elaborazione”, il Papa dice, dopo aver riconosciutoli grande merito innovativo , pionieristico di Leone XIII, percepisce i mutamenti di 100 anni di storia, e soprattutto coglie la necessità di elaborare questa d.s.d.ch .ulteriormente
Io faccio sempre un esempio molto classico ….chiedo a 2 o 3 studiosi ; economista giurista , sociologo ,non storici, sulle questioni del lavoro ……hanno concordato su alcune chiavi di lettura in ordine alla vicenda Italiana fra 800 e 900 , la questione “lavoro” post-unitaria, ha subito una forte marginalità Nella cultura economico-sociale del nostro paese , le questioni connesse al lavoro , sono sempre state fortemente subordinate, quindi pagare meglio , il più possibile, ma non qualificare il lavoro. Uno dei tanti esempi ….tant’è che nel contesto europeo , il nostro paese è all’ultimo posto, per ciò che riguarda l’istruzione e la formazione professionale.
Uno dei grandi problemi dell’istruzione del nostro paese è l’istruzione e la formazione professionale. Ancora oggi. C’è da chiedersi se manca la volontà politica, e la cultura, la classe politica di fine 800 e fino alla grande guerra,è connotata da una cultura fortemente anti-industrialista ,nel nostro paese, dal 600, alla cosiddetta età Giolittiana , aveva scelto ,un percorso di crescita e sviluppo univoco ed esclusivo : agricolo commerciale, con un primato, un’esorbitanza agricola . E questo ha escluso nella mentalità un percorso alternativo :lo sviluppo industriale . Ma sarà gioco forza intraprendere questo percorso , quando l’equilibrio agricolo-commerciale, dopo la grande crisi agraria degli anni 80 e 90 dell’800, investirà il paese e sarà gioco forza rivolgersi alle attività non agricole, manifatturiere ed industriali, e da li l’avvio lento , fortemente ritardato rispetto all’Europa . SE noi pensiamo che la rivoluzione industriale inglese muove i primi passi negli anni 60 del 700, e Germania e Francia,Belgio e Svizzera sono coinvolti nel processo di industrializzazione europeo agli inizi dell’800, tant’è che la prima grande industrializzazione in Europa ha compimento nella metà dell’800, quando noi siamo ancora un paese agricolo , con una quota di addetti al settore agricolo del 70% circa. E le attività non agricole sono marginali. Perché faccio questi esempi? Leone XIII quando scrive la R.N. pensa non già all’Italia ma al resto del mondo dove l’industrializzazione è già fortemente avviato e in fase avanzata, mentre noi siamo ancora prevalentemente un paese agricolo, ma l’idea di lavoro di fine 800, è tutt’altro rispetto all’idea di lavoro che noi abbiamo oggi.
Questo mi porta a compiere un ragionamento: come è chiamata , la D.S.D.CH. ….faccio questo in virtù del fatto che mi trovo davanti persone adulte….la questione lavoro dovrebbe essere centrale x i credenti oggi , e x la D.S.D.CH., oggi….tutti dovrebbero riflettere su queste questioni: capire perché le questioni connesse al lavoro sono tutt’ora marginali,è fondamentale e primario lo sviluppo tecnologico ,economico ,industriale, telematico, informatico, ecc….ma il lavoro umano è fortemente marginale, nonostante la Lab. Exer. Affronti proprio questa questione in modo centrale e primario . Soprattutto vedo marginale,”la” cultura del lavoro,”le” culture del lavoro. Uno dei rischi maggiori dei credenti è stato quello di demonizzare il lavoro. Il lavoro è alienazione, allora vediamo di riscattarlo . Di riappropriarci e di dare dimensione protagonistica a chi lavora. Anche qui è un problema di tipo culturale .
Decifrazione di quali siano oggi le questioni del lavoro. Io non credo sia marginale il fatto che nel mirino delle brigate rosse ci siano dei gius-lavoristi , studiosi di diritto del lavoro , degli economisti del lavoro che stanno andando al cuore di taluni grandi problemi,grandi riflessioni. Il nostro paese dimostra ancora il ritardo economico-sociale ,laddove non affronta i problemi come questi. Quale rilievo hanno oggi i movimenti cattolici? Marginalissimo, quasi inesistenti,le organizzazioni cristiano-sociali.
La pastorale sociale dovrebbe essere ordinaria di tutti i giorni.
Essere una componente fondamentale.
In chiesa la domenica il 50-60% dei presenti lavora , e si deve tener conto che sono investiti di tutta una serie di problemi . tener conto anche dei problemi di chi lavora all’iveco….
Sono le questioni vitali della chiesa , che investono il vissuto della gente, e qui si deve porre l’attenzione, anche nelle omelie domenicali.
Una caratteristica della D.S.D.CH. è la sua costante preoccupazione per i poveri, l’opzione preferenziale per i poveri , una priorità della carità valida in ogni tempo. Oggi la povertà minaccia di assumere forma gigantesche…hanno ripetuto più volte le encicliche sociali degli ultimi tempi , e nei paesi in via di sviluppo si profilano crisi drammatiche , laddove la comunità internazionale non prenderà tempestive misure.
Con la C.A. si sottolinea la continuità ininterrotta della D.S.D.CH., sin dalla R. N. , laddove l’epicentro , il focus,è rappresentato dalla persona umana. La dimensione antropologica è costante e presente all’insegnamento sociale della chiesa, il referente è la persona umana, e tale principio fa da trama e guida a tutta la D.S.D.CH.
Seconda partizione: LE COSE NUOVE DI OGGI
La cose nuove di Leone XIII , sono quelle affrontate dalla R.N. , la questione sociale è “la questione operaia” , che per alcuni paesi è la prima industrializzazione, il caso nostro , per altri è di seconda industrializzazione.
Il fenomeno asuume anche una dimensione nuova, si abbandonano le campagne, e si approda in città, gli agglomerati urbani sono eclatanti, con tutto quanto comporta, paradossalmente, alla fine dell’800 , il nostro paese che è agli inizi, manifesta in modo più evidente quel fenomeno che è “il dualismo economico” NORD-SUD, o il REGONALISMO-ECONOMICO, una disparità di livelli, il più evidente è il nord-sud, ma il nord-est, non è identico al nord-ovest , oltre il triangolo industriale:Milano Genova Torino, ci sono grandi sacche di depressione. Tutto ciò stà a dire che si è trattato di un processo di crescita diseguale, squilibrato, e questo evoca un macroscopico divario, nord-sud , paesi sviluppati e paesi sottosviluppati, ma anche paesi in via di sviluppo che già potrebbero ritenersi partecipi dello sviluppo. Oggi noi parliamo non più di terzo mondo , ma di quarto, quinto mondo, bene, le cose nuove , qui parrebbero dalla C.A. essere colte dagli avvenimenti degli ultimi mesi dice il Papa al numero 12, dell’anno1989 e dei primi del 1990…essi…..questi avvenimenti… e le conseguenti trasformazioni radicali non si spiegano se non in base alle situazioni anteriori ,le quali, in certa misura,avevano cristallizzato o istituzionalizzatole previsioni di LEONE XIIII ed i segnali , sempre più inquieti, avvertiti dai suoi successori…..a dire, nell’89 esplodono situazioni già annunciate con grande anticipo….faccio un esempio che mi ha sempre interessato…tutti avete sentito parlare del crollo della borsa di New York del ’29 , la grande crisi , ma più dell’evento che portò un gran numero di suicidi, gente che aveva perso tutto e rovinata… la crisi fu fortemente annunciata, ho scritto un libro 2 anni fa… esaminando gli archivi di Ginevra, delle organizzazioni internazionali , all’indomani della fine della prima guerra mondiale nasce per volontà dei vincitori , nel 1919, la SOCIETA’ DELLE NAZIONI che fallisce dopo pochi misi , perché non è in grado di reggere l’equilibrio internazionale, perché la logica del più forte prevale per l’ennesima volta . d’altro canto , oggi , l’impotenza dell’ONU , stà ad indicare quanto sia impervio e difficile un equilibrio e una regia internazionale. Però a vedere le carte di Ginevra del ’19-20 , si ha proprio una chiara percezione di ciò che accadrà , non a caso ho intitolato il mio libro :”Una crisi annunciata”, a 10 anni di distanza , come da manuale , si avvera quanto era stato previsto . e tra le cose previste vi è questa incapacità e inadeguatezza di regolare il processo di industrializzazione , e gli squilibri si erano accentuati, favoriti dalle speculazioni internazionali, che giocano una carta determinante . Papa Leone ,infatti previde le conseguenze negative sotto tutti gli aspetti , politico, sociale ed economico, di un ordinamento della società quale proponeva il “socialismo” , che allora era allo stadio di filosofia sociale e di movimento più o meno strutturato
AL NUMERO 13 VI è UN PASSAGGIO IMPORTANTE
Approfondendo ora la riflessione e facendo riferimento a quanto è stato detto nelle Encicliche: Laborem Exercens ,e Sollecitudo Rei Socialis ,bisogna aggiungere che l’errore fondamentale del socialismo è di carattere antropologico. Esso infatti, considera il singolo uomo come un semplice elemento e una molecola dell’organismo sociale, di modo che il bene dell’individuo viene del tutto subordinatola funzionamento del meccanismo economico-sociale ,mentre ritiene, d’altro canto, che quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua autonoma scelta, dalla sua unica ed esclusiva assunzione di responsabilità davanti al bene o al male,…… l’uomo cosi è ridotto ad una serie di relazioni sociali, e scompare il concetto di persona come soggetto autonomo di decisione morale
Ora , non tanto per peccare di attualismo, qual è la reazione che si è manifestata l’alto giorno , davanti al Santo Padrenel discorso che ha pronunciato al movimento per la vita …ha affermato che la negazione della vita umana , fin dal suo concepimento, in realtà , è la negazione dell’uomo per l ‘ intero corso della sua vita, quindi investe le grandi questioni dello sviluppo economico e sociale . Mi torna alla mente ciò che vi ha citato nell’introduzione del corso , se ricordate, ero partito dall’eco espressa all’indomani della pubblicazione della centasimus annus , dove ancora una volta era avvenuta una mala interpretazione della D.S.D.CH. . si pensa che l’etica e l’antropologia cristiana debba avere il suo corso senza nulla a che fare con le grandi questioni dello sviluppo. Allora il pronunciamento della chiesa ,mi va bene dove si stigmatizzano le forme di ingiustizia, mi va meno bene dove investe le questioni di tipo antropologico .
SECONDA CONSIDERAZIONE
A RIDOSSO DEL NUMERO 13 CHE ABBIAMO LETTO.
L’illusione che con il crollo del comunismo la chiesa abbracciasse acriticamente le logiche o le “ideologie capitalistiche” .
Torniamo al paragrafo 41 della Sollecitudo Rei Socialis :dove si afferma:
la dottrina sociale della chiesa NON è una TERZA VIA tra capitalismo liberista , e collettivismo marxista , e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte : essa costituisce una categoria a sé …..ed ancora ….improprio è attendersi dalla chiesa un manifesto , un trattato, un progetto o programma politico che ordini società ed economia entro un sistema alternativo. Improprio è pensare la chiesa come una forza omogenea , come quella di cui sono costituiti gli stati con i loro apparati burocratici ed industriali ………. ed ancora………..le vicende storiche dove il conflitto sociale si è trasferito sul piano della guerra ed ei conflitti internazionali, ha consentito alla chiesa una più profonda esperienza di riflessione…… riflettere è sempre vivere, noi abbiamo una concezione manichea del lavoro:intellettuale e manuale, come se che chi svolgesse l’uno piuttosto che l’altro , sia separato da tutto il resto, spesso le condizioni reali giocano negativamente in questo senso . si tende a separare. Il compito della D.S.D.CH. è questo, recuperare l’unità della persona quando lavora .Perché almeno 8 ore al giorno , la persona è li impiegata . mente cuore spirito coscienza fatica ecc…
anche la chiesa da questo ha imparato molto , ad esempio uno stile più umile e capace di ascoltare , meno “impositivo” meno autoritario . l’ascolto della storia , che investe anche la chiesa , insegna molto sull’uomo, e qui la chiesa è custode della verità sull’uomo , ma anche dell’uomo storico, quindi la storia insegna continuamente sull’uomo .
LA S.R.S. e la L. E. , le 2 encicliche,che precedono e coerentemente ci portano alla C. A. se noi le prendessimo, vedremmo come centrale sia l’idea di uomo , l’antropologia cristiana.
PARTIZIONE CENTRALE DELL’ENCICLICA : CAPITOLO TERZO
L’ANNO 1989
E’ il capitolo in cui il discernimento , di cui dicevo , è messo alla prova,
è misurato concretamente, gli avvenimenti dell’89 sono letti in modo distaccato, non cronachistico, senza dietrologie di tipo ideologico.
Al numero 23 si legge:
“Tra i numerosi fattori della caduta dei regimi oppressivi alcuni meritano di essere ricordati in particolare . Il fattore decisivo che ha avviato i cambiamenti, è certamente la violazione dei diritti del lavoro….la violazione dei diritti del lavoro……. Non si può dimenticare che la crisi fondamentale dei sistemi, che pretendono di esprimere il governo, ed anzi la dittatura degli operai, inizia con i grandi moti avvenuti in Polonia, in nome della solidarietà. Sono le folle dei lavoratori a de-legittimare l’ideologia che presume di parlare in loro nome, ed a ritrovare e quasi riscoprire , partendo dall’esperienza vissuta e difficile del lavoro e dell’oppressione , espressioni e principi della D.S.D.CH. …”
questo mi pare un passaggio importante; è la voce, segnata dalla fatica e dal difficile riscatto di chi vive quotidianamente legato ad una condizione di lavoro non agevole, che ha questa forza dirompente di divellere l’imbrigliatura dell’ideologia , dove la condizione dell’uomo è incapsulata, è etero-diretta e manipolata.
Si intende x ideologia , soprattutto un’idea di uomo , un’antropologia , un modo di concepire l’uomo , il suo destino, la sua sorte , le condizioni e le modalità del vivere.
L’altra ideologia , conseguente, co-partecipe, è un certo tipo di ideologia del lavoro che evidentemente la laborem exercens aveva stigmatizzato e condannato.
Ecco perché è strettamente connessa l’antropologia cristiana con le questioni del lavoro
Al paragrafo 25:
gli avvenimenti dell’89 offrono l’esempio del successo della volontà di negoziato e dello spirito evangelico contro un avversario deciso a non lasciarsi vincolare da principi morali: essi sono un monito per quanti, in nome del realismo politico,……….. e qui possiamo dire equamente, sia l’ideologia marxista, sia l’ideologia capitalista ……….. vogliono bandire dall’arena politica il diritto a la morale. Certo, la lotta che ha portato ai cambiamenti dell’89 , ha richiesto lucidità moderazione, sofferenze e sacrifici ; in un certo senso essa è nata dalla preghiera , e sarebbe stata impensabile senza un’illimitata fiducia in Dio , Signore della storia , che ha nelle sue mani il cuore degli uomini. E’ unendo la propria sofferenza per la verità e per la libertà, a quella di Cristo sulla croce, che l’uomo può compiere il miracolo della pace ed è in grado di scorgere il sentiero , spesso angusto tra la verità che cede al male e la violenza che , illudendosi di combatterlo, lo aggrava. …
tuttavia vi sono poi una serie di esplicazioni; il Papa dice:gli avvenimenti dell’89 insegnano anche con crudezza , in quali condizioni l’uomo , nei paesi in cui è negato il diritto di libertà politica , fondamentale, si trova a vivere. E qui non stabilisce grandi distinzioni , noi siamo invitati ad una prospettiva geo-politica illimitata, senza selezioni di sorta, laddove il diritto e la libertà politica, la democrazia sono mortificati, sminuiti o integralmente negati, ne consegue una forte oppressioni di tipo intellettuale, culturale, morale, politico. Torno ancora ad una considerazione che è importante ,qui, riaffermare.
La chiesa non professando , e questo emerge con grande evidenza nella centesimus annus, una ideologia, e se lo ha fatto ha sbagliato, se nel passato lo ha fatto …la chiesa è estranea ad ogni possibile modellazione istituzionale , di un regime democratico, e dunque , non presume….. dice la C.A……al n°46….di imprigionare in un rigido schema la cangiante realtà socio-politica, e riconosce che la vita dell’uomo si realizza nella storia in condizioni diverse e non perfette. La chiesa pertanto, riaffermando costantemente la trascendente dignità della persona, ha come suo metodo, il rispetto della libertà…..
C’è un passaggio, apparentemente marginale, sul quale vorrei un po’ soffermare la vostra attenzione, …..la chiesa riconosce che la vita dell’uomo si realizza nella storia in condizioni diverse, e non perfette …..ora, c’è un grande impulso, interiore spirituale, , ancor prima che ecclesiale, e culturale, che viene dal vangelo , che mi fa dire questo:” l’unica grande utopia è quella del vangelo, “…perché ?
Perché la storia insegna che gli utopismi storici hanno portato al fallimento , cioè gli utopismi storici muovono da una grande miopia o anomalia, che è concepire l’uomo perfetto!!!! Ora , il vangelo dice che l’uomo è peccatore, bisognoso di misericordia, che è perfettibile, si, ma, nemmeno la santità , nemmeno le suore Dorotee qui presenti, pensino che la loro fondatrice, Annunciata Cocchetti, che ha perseguito le virtù , perché ha vissuto in modo eroico il vangelo, ma che fosse una donna perfetta…giammai…
.(non ha capito perché l’esempio non lo abbia fatto con un soggetto maschio…..N.D.R.)
Ora, l’utopismo storico ha armato di violenza la mano dell’ uomo, ha portato a stravolgimenti rivoluzionari , magari mossi dalle migliori intenzioni, ma che poi hanno negato l’uomo .E gli esempi storici si sprecano.
Quindi avere costantemente presente la D.S.D.CH. ci offre questa grande lezione , che poi ci offre il vangelo : le condizioni dell’uomo storico sono evidentemente diverse, e già la OCTOGESIMA ADVENIENS ,affidava alla comunità locale, cristiana , alcune opzioni e scelte particolari , specifiche. Dalla logia di San Pietro non si può presumere che vengano delle applicazioni specifiche , circostanziate. No . ma soprattutto importante, è maturare la consapevolezza della perfettibilità, della condizione umana.
Giovanni Paolo II fissa 2 opposti confini, all’esteso campo della libertà umana,
Dice la C.A. al n°25:
“la politica diventa allora una -religione secolare- , che si illude di costruire il paradiso in questo mondo”…è l’utopismo socialista….
….vado sempre a commento….Quel che è accaduto dunque , e quel che stà accadendo….ci dice la C.A. immersa nei fatti dell’89…. Con impressionante rapidità è: la dissoluzione del comunismo, ormai avvenuto, ma non è la vittoria del capitalismo.
Nell’età dunque nostra, che potremmo definire : post-comunista, e post moderna, in questa età della frammentazione, della dispersione che si riflette fortemente sulle giovani generazioni….. un a amico, mi dice che una nostra matricola , arriva in università con u bagaglio di 20.000 ore sulle spalle…televisive….io non sono tentato tanto di formulare un giudizio morale, è bene o male…intrinsecamente è male…ma , io devo capire che quando predico la domenica dal pulpito, a un ragazzo che passa l’uscio della chiesa , il mio linguaggio evidentemente è tutt’altro rispetto al back-ground di tipo culturale o pseudo-culturale, che questo ragazzo ha sulle spalle. Qui il problema dei linguaggi, di una cultura frammentata, dell’immediato, dell’apparire, del presente , dell’attualità e mai , del prima , o del non ancora ,credo che la virtù impossibile , per le giovani generazioni , sia quella che i nostri vecchi definivano”la virtù dei forti”….la pazienza e la fatica del pensare…
Qui davvero come educatori siamo investiti di grande responsabilità , evitando il rischio dell’appiattimento su quella lunghezza d’onda del “giovanilismo” , siccome il ragazzo ha 18 anni , e 20.000 ora allora anch’io devo avere 20.000 ore, parlare come lui, pensare come lui, …questo è un po’ l’errore …la sbavatura di un forte impegno educativo.
Non la vittoria del capitalismo, nell’età che si apre dunque, cosiddetta del post-moderno , del post –comunismo , risiedono , in tanta parte del mondo tante oppressioni di libertà , ingiustizia sociale, miseria , con vaste isole di opulenza e di progresso, di egoismo e di indifferenza morale e religiosa . Dirò una banalità ,ma credo di dover affermare che è molto più facile , segnalare , denunciare , questi grandi divari, queste povertà conseguenti a tanta opulenza e progresso ,è molto più facile che riconoscere il nostro egoismo , la nostra incapacità a condividere, scegliere, ecc..ecc…
sarebbe una triste e meschina vittoria, quella di un sistema, che , proprio perché declinato definitivamente il comunismo, punta solo sull’economicismo , in una frenetica rincorsa: prodotti-consumi, vale a dire una nuova forma di alienazione , anzitutto una alienazione della coscienza umana. Ancora una volta la C.A. indica una via nel traguardo più alto raggiunto dalla civiltà giuridica del ‘900 , pagato con il sangue , e le vite di milioni di vittime di torture , carcerazioni, internamenti, esili, genocidi , migrazioni, apolidi, esiti anche questi , della metamorfosi della lotta di classe in conflitto ideologico, in esaltazione nazionalistica , in emarginazione razzista, nelle molteplici forme di fondamentalismo. Il traguardo dei diritti umani è l’orizzonte, entro il quale si colloca complessivamente la C.A il traguardo dei diritti umani, garantiti da istanze nazionali ma anche internazionali. L’abbiamo vissuto sulla nostra pelle, se un ‘organizzazione internazionale avesse avuto la capacità di potere reale , giuridico, politico, di regolare i conflitti che sappiamo, non si sarebbe giunti a talune estreme conseguenze
Il traguardo dei diritti umani , garantiti da istanze nazionali e internazionali, i diritti umani coprono tutta l’area della libertà dell’uomo dalla vita alla famiglia, alla proprietà , al lavoro, alla libertà di coscienza, di pensiero, e partecipazione politica. I diritti umani, più di ogni altra forma di situazione giuridica, soggettiva, rivelano la radice morale del diritto ,soprattutto i diritti umani, le condizioni fondamentali della democrazia non solo politica ma anche economica, ci fanno pensare quanto sia importante andare oltre una situazione giuridica soggettiva .uno dice:…” sono in situazione di totale benessere perché sono giuridicamente tutelato…. “e allora il diritto si modella sul proprio personale diritto, …evidentemente i doveri stanno altrove… una civiltà giuridica, regola condizioni fra diritti e doveri , uguali x tutti . questo è un orizzonte, un capitolo , nuovo della D.S.D.CH. , per il passato misconosciuto.
La C.A. ha un passaggio che è la chiave complessiva del messaggio sociale all’indomani del 2000 , e proprio al:
n°54, al capitolo VI:
L’UOMO E’ LA VIA DELLA CHIESA
L’enciclica ha scandagliato nuovi percorsi per la D.S.D.CH., nuove vie, non ultima quella della civiltà giuridica. Tutto questo però non risolve il problema, ha individuato, percepito, mostrato una consapevolezza. La C.A. ha dato prova di essere all’altezza dei tempi , capace di annunciare coerentemente il vangelo sociale all’uomo di oggi. L’annuncio , però esige ed implica la testimonianza.
In quale prospettiva? In quella enunciata con chiarezza ed essenzialità al n°54;
La D.S.D.CH. oggi , specialmente mira all’uomo in quanto inserito nella complessa rete di relazioni delle società moderne, le scienze umane e la filosofia sono di aiuto per interpretare la centralità dell’uomo dentro la società ….. allora, l’uomo , non l’uomo astratto , ma l’uomo immerso in una rete di relazioni, l’uomo storico, di ogni latitudine, di ogni cultura, …..ripeto…”la centralità dell’uomo dentro la società, e per metterlo in grado di capire meglio sé stesso, in quanto “essere sociale”. Soltanto la fede , però gli rivela pienamente la sua identità vera, e proprio da essa prende avvio la D.S.D.CH………la d.s.d.ch. prende avvio dalla verità sull’uomo…… la quale, avvalendosi di tutti gli apporti delle scienze e della filosofia , si propone di assistere l’uomo nel cammino della salvezza.
Fonte: http://www.appuntibs.it/2an200809/D.S.Prof.Taccolini/Appunti%20Dottrina%20Sociale%202004.doc
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Autore del testo: Taccolini
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