Appunti filosofia morale

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Appunti filosofia morale

ETHOS – abitudine
ÈTHOS – luogo di vita abituale, consuetudine, costume, uso, carattere
MORES – i costumi, il carattere ( morale )
ETICA
Vocabolario della Lingua Italiana Treccani:
«Ogni dottrina o riflessione speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo,
soprattutto in quanto intenda indicare quale sia il vero bene e quali i mezzi atti a
conseguirlo, quali siano i doveri morali verso se stesso e verso gli altri, e quali i criteri
per giudicare sulla moralità delle azioni umane».
METAETICA – designa il discorso su i discorsi etici, analizza le procedure del linguaggio e dei concetti espressi dal discorso etico.
L’etica
Definizione: è una parte della filosofia che studia la condotta umana, i moventi
che la determinano e le valutazioni morali (bene o male, giusto o sbagliato).
Socrate: è lo scopritore della ricerca interiore (conosci te stesso). La sua teoria
etica è detta intellettualismo etico in quanto lui riteneva il bene attraente, quindi chi
lo conosce non può non praticarlo, invece coloro che commettono il male lo fanno
solo per ignoranza.
Platone: si giunge alla felicità solo attraverso la conoscenza, la cui forma più
elevata è la matematica. Solo il filosofo è veramente felice perché riesce a
contemplare le forme e va oltre il mondo sensibile dell’esperienza quotidiana.
Aristotele: la morale non è una scienza, non è soggetta a leggi assolute e
rigorose, non svaluta l’esperienza (come Platone), anzi applica il metodo induttivo
(dal noto e dal particolare ricava la legge generale) anche all’etica. L’etica è
inscindibile dalla politica.
Egli distingue due tipi di virtù: quelle etiche (sono pratiche, la più alta è la giustizia)
e quelle dianoetiche (prevedono l’uso della ragione, la più alta è la sapienza). La
virtù per Aristotele risiede nel giusto mezzo.
Lo stato di natura tra etica e politica
Hobbes: prima della creazione dello stato civile e delle leggi, gli uomini vivevano
in uno stato di natura, nel quale prevale il diritto all’autoconservazione dei singoli: è
lo stato del bellum omnium contra omnes. In questo stato di insicurezza e pericolo
subentra la ragione. Gli uomini, emanando un contratto sociale, alienano i propri
diritti nella figura di un sovrano in nome della propria sicurezza. Il sovrano ha
poteri assoluti, può tutto sui sudditi tranne togliere loro il diritto alla sicurezza.
Non stipula nessun contratto, diversamente dai suoi sudditi, quindi non ha nessun
dovere nei loro confronti.
Locke: lo stato di natura per Locke non è uno stato di guera e violenza, anzi gli
uomini manifestano una tendenza alla socialità innata, all’interno di esso già
esiste il diritto di proprietà, prima di se stessi, poi dei propri beni che sono
l’estensione del corpo umano attraverso il lavoro. L’uscita dallo stato di natura
nasce dall’esigenza materiale di poter scambiare ciò che ognuno individualmente
produce. Il sovrano firma un contratto con i sudditi, quindi ha diritti e doveri,
deve garantire i diritti già esistenti, primo tra tutti il dirtto di proprietà. Se il sovrano
non rispetta i propri doveri ed infrange il contratto il popolo è legittimato a
ribellarsi.
L’etica, utilità e formalità
L’etica utilitaristica: l’utilitarismo trova la sua formaulazione compiuta nel pensiero
di J. Bentham e più avanti di J. Stuart Mill.
• L’utilità è la misura della felicità di un essere sensibile.
• Il bene è ciò che aumenta la felicità.
• In una dimensione sociale la finalità della giustizia diviene la massimizzazione del
benessere del maggior numero di persone.
L’etica kantiana: è un’etica formale (cioè svincolata dai contenuti), la sua moralità
si fonda sull’imperativo categorico:
• agisci in modo che la massima della tua azione divenga legge universale;
• agisci in modo di trattare l’umanità sempre come fine e mai soltanto come mezzo.
È un’etica pura, cioè il suo unico movente è il dovere.
Se un uomo deve, allora è libero. Chi agisce sencondo la legge è sempre virtuoso,
ma non sempre felice, dunque è necessario ammettere l’esistenza di un Dio giusto
che garantisce e concilia la felicità con la virtù nel sommo bene.
La virtù in questa vita non permette di raggiungere la perfezione morale, dunque è
necessario ammettere l’immortalità dell’anima perché solo così si avrà la possibilità
di raggiungere la santità.
Nelle culture arcaiche, la morale di una determinata comunità sociale
è sempre fondata su una teologia basata sul mito e sulla presunta
rivelazione.
La risposta dell’etica greca consistette nell’identificare il sommo
bene con la felicità, anche se la definizione di felicità era varia nei
contenuti.
Per i Sofisti, la virtù può essere insegnata e si esplica in regole che permettono di
vivere in società; essa non è legata al diritto di nascita ma coincide con comportamenti
funzionali ai bisogni sociali; c’è una coincidenza tra virtù e osservanza della
legge. Per Socrate, la virtù è unica e s’identifica con la conoscenza, l’azione malvagia
è il frutto dell’ignoranza; questa posizione non lascia spazio alla volontà
dell’azione etica; la conoscenza si esemplifica in una cura costante della propria
anima che deve dominare il corpo, in ciò consiste il fine della vita. Per i Cinici, la
virtù è vivere secondo i bisogni primari di natura; essa è un esercizio che deve portare
a non avere bisogno di nulla e al soddisfacimento dei bisogni elementari. Per
Epicuro, la natura è il fondamento della morale, ma la natura non è un ordine necessario;
l’agire è legato alle passioni e all’arbitrio e non ai comandi degli dèi o
all’ordine cosmico; il movente della condotta morale è la virtù che è privazione di
dolore fisico e morale. Per gli Scettici, poiché la realtà non ha un significato assoluto,
la felicità è data soltanto dall’apatia e dalla imperturbabilità della condotta; la ragione
non va guidata dogmaticamente: i principi non comandano, ma orientano,
suggeriscono ciò che è utile e opportuno. Per Platone, le virtù e la giustizia sono
funzioni delle parti dell’anima; il bene è «vita mista di piacere e pensiero»; l’etica è
la scienza che ha per oggetto il bene, l’idea suprema, raggiungibile con un processo
d’elevazione al mondo intelligibile; guardando alle idee si possono individuare
dei criteri per distinguere il giusto dall’ingiusto. Per Platone, la fondazione della polis
presuppone un’operazione etica: un’intesa linguistica. E’ questo il motivo per cui
occorre escludere dalla polis i retori, che muovono la gente tramite gli affetti; i sacerdoti,
che parlano ex-autoritate; i poeti, che mentono troppo e lasciano oscillare i
significati; sono ammessi invece i filosofi che parlano dopo avere definito cose e
regole. Per Aristotele, la legittimazione della morale dipende dalla natura dell’uomo,
dalle forze dell’anima; la felicità è il fine della condotta e si conforma alla natura razionale
dell’uomo, la sapienza. Per gli Stoici, le regole di condotta vanno dedotte
dalla struttura razionale della natura e dalla natura propria dell’uomo; occorre vivere
secondo ragione; la loro è una morale che vale per tutta l’umanità e prescinde dagli
usi e costumi di una singola polis; questo ideale cosmopolita si traduce nella conformità al dovere; la perfezione della ragione si esplica nella virtù, nell’attenersi aldovere. Per lo stoico imperatore Marco Aurelio, l’uomo è diretto nel suo agire dal divino presente in lui, cioè l’intelletto; egli deve sentirsi partecipe delle sorti dell’intera umanità. Per Plotino: la virtù è purificazione e liberazione dall’esteriorità e progressiva conversione nell’Uno.
L’ethos dello Stato deriva dall’autolegislazione dei suoi membri,
che può derivare da tre diverse attitudini fondamentali:
1. I cittadini cedono ogni diritto al sovrano: le norme etiche risultano
dal diritto positivo, cioè dalle leggi.
2. I cittadini conservano alcuni diritti inalienabili: alcune delle norme
etiche precedono il diritto positivo.
3. Lo Stato non diviene altro che l’espressione della sovranità inalienabile
dei cittadini: il diritto positivo discende dalla volontà etica
generale.
«il mondo moderno vanta almeno
due significative origini precedenti l’età dei Lumi: la prima è quella
della scoperta e conquista dell’America a partire dal 1492; la seconda è quella dell’asservimento della natura ad opera dell’uomo mediante
la scienza e la tecnica» MOLTMANN
L’Umanesimo del XV secolo promuove la presa di coscienza della
storia come di una missione tipicamente umana che si esprime
attraverso le lettere.
Il Rinascimento del XVI secolo conosce un rinnovamento dello
spirito dell’uomo anche per merito della scoperta delle opere degli
antichi.16
La Riforma del XVI secolo ridefinisce il principio dell’autorità,
«benché i riformatori, per lo più anticopernicani e poco democratici,
restassero ancora per molti aspetti legati a concezioni e modi
di comportarsi medievali».
La rivoluzione scientifica dei secoli XVI e XVII muta la visione del
mondo: la scienza diviene l’unico sapere oggettivo e l’avvento
della tecnica trasforma il modo di vita.
L’Illuminismo del XVIII secolo può considerarsi la realizzazione
intellettuale della modernità; la ragione illuminata assurge a criterio
assoluto di verità, bellezza, bontà e ordine.
Con le rivoluzioni in America (1776) ed in Francia (1789)
l’individuo diviene un reale soggetto politico.
l’umanesimo aveva sancito il riconoscimento
della centralità della persona umana nell’universo; su tale
scia la modernità ha decretato la definizione dell’uomo quale soggetto razionale in un mondo di oggetti da comprendere per mezzo della
ragione. BURCKHARDT
«Non sorprende che la difesa della ragione liberata abbia solo
dato nuova forma alle idee della divina provvidenza, piuttosto che
spazzarla via. Un tipo di certezza (legge divina) è stata sostituita da
un’altra (la certezza dei nostri sensi e dell’osservazione empirica),
mentre la divina provvidenza è stata sostituita dal progresso provvidenziale.
»  Giddens:
Eagleton:
«Visto generalmente come positivistico, tecnocentrico e razionalistico,
il modernismo universale è stato identificato con la fede
nel progresso lineare, nelle verità assolute, nella pianificazione razionale
di ordini sociali ideali e nella standardizzazione della conoscenza
e della produzione.» Eagleton:
«A connotare questa età sono stati, dunque, il
progresso, la crescita e l’espansione, le utopie e le rivoluzioni nel
segno della speranza.» Moltmann
1. J. B. Heller sostiene che la generazione dei postmoderni è la terza
fra quelle che si sono succedute nel dopoguerra, quella esistenzialista
e quella dell’alienazione che si è esaurita nella sua
disillusione nel 1968.
2. Jean F. Lyotard fa iniziare la postmodernità negli anni ’50, che in
Europa segnano la fine della ricostruzione. In seguito, però, lo
stesso autore fa coincidere la nascita del postmoderno con
l’evento di Auschwitz.
3. Gianni Vattimo indica il momento simbolico del passaggio epocale
con la distruzione nichilistica che compie Nietzsche in Umano,
troppo umano
Benjamin, in un celebre frammento, ha
descritto il cammino della Storia come una corsa verso il futuro che
lascia dietro di sé cumuli di rovine, seppellendo le vittime cadute durante
l’avanzata del progresso. «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo
che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi
spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo
aspetto. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula
senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben
trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso,
che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle.
Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre
il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è
questa tempesta.»  MOLTMANN
Significativa è stata l’opera di Simone Weil:«L’illimitatezza, la
forza, la distruzione della tradizione, lo sradicamento, temi decisivi
per l’analisi del nichilismo insieme alla metamorfosi moderna della
potenza, costituiscono infatti il nucleo della sua riflessione.»
Per tale autrice, ebrea convertita al cattolicesimo, alla debolezza
dell’uomo si affianca quella di Dio, un Dio colto come asintoto e
luogo immaginario ed impensabile.
La Weil contrappone questa debolezza divina alla forza mondana
delle grandi Chiese.
In lei è presente il concetto di malheur: la lontananza dal luogo
della misura, dell’equilibrio e della riconciliazione, l’infelicità moderna
per cui l’essere si allontana sempre senza possibilità di ritorno, ma
sempre memore della patria lasciata: «in questo rotolare via, Simone
Weil vede la condizione tipica della modernità».
«Sembra dunque che il fallimento di Dio per il credente sia andato
di pari passo con il fallimento, per il non credente, della ragione,
e l’uno e l’altro concorrano a non lasciarci più molte illusioni
sull’approssimarsi dell'età del nichilismo... Non abbiamo mai avuto
difficoltà ad ammettere che la ragione non è, ma diviene. Ora apprendiamo
che non è, ma diviene, anche Dio, proiettato nella Storia...
Non si sta affacciando all’orizzonte di una società in angustie
una sorta di teologia debole, che si viene stranamente affiancando
al cosiddetto “debolismo” filosofico?» BOBBIO
Per Lyotard83 la modernità ha prodotto delle grandi narrazioni84
(cioè concezioni globali ed ideologiche della storia con forte senso
della trama e dell’organizzazione gerarchica) per orientare in modo
unitario il corso della storia dell’occidente e per legittimare istituzioni,
pratiche sociali e modi di pensare.
Kuhn
La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), denunciava come insostenibili:
1. l’idea di un metodo unico (quello ipotetico-deduttivo) per l’analisi
delle teorie;
2. l’idea che la scienza fosse avalutativa, cioè non influenzata dai
valori.
Inoltre, analizzando la storia delle scoperte scientifiche, affermava
che:
1. ogni teoria è relativa ad un certo paradigma e vale solo all’interno
di quel paradigma;
2. i paradigmi e le teorie conseguenti non sono neutrali, ma coinvolte
in motivi psicologico-sociali. Di conseguenza, il passaggio da
un paradigma ad un altro non avviene razionalmente, ma per salti
fideistici
Ne consegue che le diverse teorie scientifiche non sono confrontabili
tra loro, in quanto mancano dei criteri oggettivi.
Le teorie, sempre più, sono giudicate come interpretazioni:101 infatti,
se le procedure cognitive della scienza non obbediscono ad alcun
criterio riconoscibile come oggettivo, allora anche nell’ambito
scientifico non ci sono più fatti, ma solo interpretazioni, si ha dunque
un’ermeneuticizzazione della teoria della scienza, cioè una sua soggettivizzazione.
Il privilegio dell'esperienzale: non si tratta di credere ma di sperimentare.
•Il tentativo di autotrasformarsi grazie a tecniche psicocorporali o
psicoesoteriche.
Un carattere progressista della concezione monista del mondo
con il rifiuto del postulato dualista della separazione fra l'umano e
il divino (concezione olistica del sacro; coscienza planetaria).
Ottimismo, anche se si tratta di un ottimismo moderato.
Primato dell'amore: un comportamento è eticamente giusto
quando è ispirato dall'amore.
Esperienza di realtà non ordinarie (con un ritorno dell'interesse
per esperienze occulte, psichiche, esoteriche); ricerca di una felicità
privata, qui e ora».
«...l’incarnazione, e cioè l’abbassamento di Dio a livello dell’uomo...
andrà interpretata come segno che il Dio non violento e non assoluto
dell’epoca post-metafisica ha come suo tratto distintivo quella
stessa vocazione all’indebolimento di cui parla la filosofia di ispirazione
heideggeriana;118 –ancora parla di– una concezione della
secolarizzazione caratteristica della storia dell’Occidente moderno
come fatto interno al cristianesimo, legato positivamente al senso
del messaggio di Gesù; e una concezione della storia della modernità
come indebolimento e dissoluzione dell’essere.» VATTIMO
LA VERITA’
Una riflessione sul concetto di verità che sta oggi emergendo deve
tenere conto dei seguenti elementi:
Le varie teologie sono la manifestazione di processi di inculturazione
in corso.
I credenti, soprattutto oggi, vivono in mezzo ad una pluralità di
concezioni razionali del mondo non facilmente sintetizzabili e con
una forte coscienza di finitezza.
Nel relativismo contemporaneo, di cui occorre comunque tenere
conto, la verità di una tradizione è interpretata come puramente
immanente e legata al tempo.139
L’idea di verità come orizzonte, che concepisce l’eternità come
unico luogo della verità, significa che nessun approccio e nessun
cammino può presumere di identificarsi con la verità come orizzonte.
Questa contesta l’incompatibilità necessaria tra tradizioni
diverse; non svuota l’idea di una fede definitiva, ma la concepisce
in senso escatologico (al termine di un verso dove…) e la connette
con altre verità parziali senza pretese egemoniche.
La verità è infinita e non è mai posseduta da ciò che è finito.
Quando Cristo afferma di essere la verità, in realtà si definisce
come rivelazione della verità e non cerca di limitarla entro gli ambiti
dell’esperienza del suo insegnamento. Scrive Ricca: «Ecco
perché è così difficile raggiungere la verità: non solo perché bisogna
andare al fondo delle cose, ma perché bisogna andare al
fondo di noi stessi. E questo non è solo difficile, è doloroso.»141
Occorre riconoscere che c’è sempre una distanza tra la Verità e
la nostra particolare verità: «Nel momento in cui la coscienza di
questa distanza non è più mantenuta, divento arrogante: sappiamo
bene quanti delitti sono stati commessi in nome della verità e
per affermare la verità.»142 La verità in senso assoluto è più grande
di ogni percezione della verità.
La verità si fa strada da sé, non s’impone. I comportamenti
s’impongono, non così la fede che è un’esperienza di libertà.
Per Tommaso, «le immagini, mediante le quali la fede percepisce
qualcosa, non costituiscono l’oggetto della fede, ma ciò mediante
cui la fede tende al suo oggetto».
Nei confronti delle altre religioni, i cristiani non sempre hanno tenuto
conto del fatto che la rivelazione è un atto d’amore di Dio e
hanno mancato di rispetto per la ricerca dello spirito umano.
Ha scritto Kierkegaard che «chi vuole annunziare veramente
qualche verità deve guardarsi dalla bramosia… di guadagnare il
consenso degli uomini, come se fosse il consenso degli uomini a
stabilire ciò che è vero e ciò che è falso».
Occorre anche evitare la confusione tra verità e significato: «il bisogno
della ragione non è ispirato dalla ricerca della verità, ma
dalla ricerca di significato. E verità e significato non sono la stessa
cosa».
Il concetto di verità come asintoto od orizzonte escatologico può
aiutare il percorso ecumenico: tale verità è generosa, comunitaria,
accogliente, senza l’angoscia del sincretismo (che resta un
pericolo), critica con se stessa.
L’integralismo implica un ripiegamento su se stessi, un rifiuto della
storia e dei diritti umani fondamentali.
Occorre tenere viva la tensione tra verità e libertà. Da un lato, la
libertà mette in discussione la verità della rivelazione cristiana;
dall’altro, la verità rivelata mette in discussione critica la libertà
storica degli uomini.
Occorre ricordare anche che l’etica è la verità tradotta in prassi, e
quindi le attitudini morali dipendono dal modo di intendere la verità.
Sul piano delle convinzioni o verità dottrinali, l’approccio con
l’altro dipende molto dall’esistenza o meno di una gerarchia di verità
che definisce principi irrinunciabili ed attitudini o convinzioni
negoziabili.
Bauman:
«La società attuale forma i suoi membri al fine primario che essi
svolgano il ruolo di consumatori. Ai propri membri la nostra società
impone una norma: saper e voler consumare… In una società dei
consumi che funzioni correttamente, i consumatori si danno da fare
per essere sedotti.»
«...lo spirito movens dell’attività del consumatore non è più la
gamma misurabile di bisogni articolati, bensì il desiderio, un’entità
molto più volatile ed effimera, evasiva e capricciosa, ed avulsa dai
bisogni, una forza autoprodotta e autoalimentata che non abbisogna
di altra giustificazione o causa.»

Riassumendo, la postmodernità si caratterizza per quattro grandi
tematiche
1. Un modo diverso di intendere la razionalità; da qui la cosiddetta
crisi della ragione.
2. La crisi del soggetto; venendo meno la coscienza dell’unità
dell’io, tutti i diversi atti che erano considerati espressione del
soggetto acquistano un’autonomia che li rende indipendenti gli
uni dagli altri disgregando il soggetto stesso.
3. Una ridefinizione della storia e della storicità; c’è una crisi
dell’idea di progresso, un galleggiare nel tempo e, talvolta, un ritorno
al tempo ciclico. Scrive Vattimo: «Credo che la filosofia non
debba né possa insegnare dove si è diretti, ma a vivere nella
condizione di chi non è diretto da nessuna parte.»166 Nella postmodernità, all’uomo non resta che portare la sua frammentarietà
temporale, che è la sua storia, al di là di ogni progetto o illusione
di progresso.
4. L’esistenza di una molteplicità di punti di vista ha dato origine ad
un diffuso pluralismo etico per il quale la differenza dei punti di vista
è un fatto molto apprezzabile e la tolleranza è un valore essenziale
Rossi ha confrontato moderno e postmoderno in un'interessante sintesi; il moderno,
nell’interpretazione postmoderna, appare «1) come l’età di una ragione forte...
dominata dall’idea di uno sviluppo storico del pensiero come incessante e progressiva
illuminazione; 2) come l’età dell’ordine nomologico della ragione...; 3)
come l’età... del pensiero inteso come accesso al fondamento; 4) come l’età
dell’autolegittimazione del sapere scientifico e della piena e totale coincidenza fra
verità ed emancipazione; 5) come l’età del tempo lineare...; 6) come l’età dominata
dalla persuasione della positività dello sviluppo e della crescita tecnologica», per
contro, il postmoderno si presenta: «1) come l’età di un indebolimento delle pretese
della ragione...; 2) come l’età della plurivocità o della polimorfia o dell’emergere di
una pluralità di modelli e paradigmi di razionalità non omogenei... vincolati solo alla
specificità del loro rispettivo campo d’applicazione; 3) come l’età di un pensiero
senza fondamenti o della decostruzione o di una critica della ragione strumentale
che revoca il senso della storia e ne riconosce il carattere enigmatico; 4) come l’età
in cui la scienza riconosce il carattere discontinuo e paradossale della sua propria
crescita; 5) come l’età della dissoluzione della categoria del nuovo e dell’esperienza
della fine della storia; 6) infine come l’età in cui scienza e tecnica appaiono rischiose.
Simone Weil (1909-1943) nasce da genitori ebrei non praticanti. A 16 anni vive
una forte crisi depressiva, il cui frutto più significativo è la scoperta di una personale
vocazione alla verità che non l’abbandonerà più. Insegna filosofia in vari licei, con
l'interruzione di due anni in cui lavora in fabbrica. Nel ’37, vive un’esperienza mistica
di incontro col Cristo particolarmente intensa che indirizzerà il suo pensiero in
termini decisamente spirituali. Da allora preferirà alla cultura platonico-ellenica lo
studio dei principali testi sacri esistenti, dal Libro dei Morti Egiziano al Corano, dalla
Bibbia alla Bhagavad-Gita. Nel ’40, abbandona Parigi a causa dell’invasione e si
rifugia negli USA, da qui passa in Inghilterra dove lavora per l’organizzazione Fran
ce libre e muore nel 1943. La Weil subisce dapprima il fascino del marxismo di cui
tuttavia rifiuta l’autoritarismo. Si occupa di politica fin dagli anni del liceo, ma non si
iscrive mai ad alcun partito. La sua militanza politica iniziale, più anarchica che
marxista, trova le sue ragioni in un’ispirazione etica che la guiderà sempre a fianco
degli oppressi. Aderisce inizialmente allo spiritualismo francese d’inizio secolo,
permeato di una forte carica anti-sistematica. Successivamente la Weil svilupperà il
suo pensiero che sarà sempre più caratterizzato dalle esperienze interiori. Gli anni
della fabbrica danno l’avvio ad una profonda e sofferta riflessione sul senso della
propria esistenza, mentre vive l’esperienza operaia come occasione d’esperienza
interiore. L’idea della morte attraverserà tutta la sua vita costituendone il vettore di
ricerca della verità. Scrive in una lettera: «Ho sempre pensato che l’istante della
morte sia la norma, lo scopo della vita. Pensavo che, per coloro che vivono come si
conviene, sia l’istante in cui per una frazione infinitesimale di tempo penetra
nell’anima la verità pura, nuda, certa, eterna. Posso dire di non aver desiderato per
me altro bene.» Abbandona gradualmente l’interesse politico e spinge la sua riflessione
in direzione del senso dell’esistere, colto nei suoi risvolti religiosi e mistici,
senza rinunciare al tentativo di tradurre il tutto in pensiero, compito che non delegò
mai ad alcuna istituzione. E’ un personaggio estremamente significativo per la radicalità
con cui ha vissuto la sua visione del mondo attraverso le sue trasformazioni.
Come filosofa certamente non fu capita: ci fu sempre un maggior interesse per il
suo vissuto. Una caratteristica della sua esistenza fu proprio quel particolare contatto
col malheur, la sofferenza come realtà universale, nonché l’accettazione di esserne
posseduti senza che ciò porti alla rassegnazione: «Non si tratta di cercare un
rimedio contro la sofferenza, ma di farne un uso soprannaturale». Il centro del pensiero
di Weil è imperniato sul concetto di decreazione, quale conseguenza diretta
della creazione stessa: in merito la Weil rivela una tendenza gnostica: «La creazione
è abbandono. Creando ciò che è altro da Lui, Dio l’ha necessariamente abbandonato.
La creazione è abdicazione.» E ancora: «Dio si è svuotato della sua divinità
e ci ha riempito di una falsa divinità. Svuotiamoci di essa. Questo atto è il fine
dell’atto che ci ha creati. In questo stesso momento Dio con la sua volontà creatrice
mi mantiene nell’esistenza perchè io vi rinunci. Dio attende con pazienza che io voglia
infine acconsentire ad amarlo.» Decreazione, quindi, come atto di spoliazione
totale e come unica via per portare a realtà quella scintilla divina presente in noi.
Attraverso la Weil si stabilisce un rapporto tra la facoltà naturale dell’intelligenza e
quella soprannaturale dell’amore: la prima infatti può cogliere «l’esistenza
nell’anima di una facoltà superiore a se stessa, che conduce il pensiero al di sopra
di essa». E’ in virtù di tale scoperta e non di alcuna costrizione esterna, che
l’intelligenza umana trova in se stessa «un motivo sufficiente che la costringa a subordinarsi
all’amore soprannaturale».
Relativismo etico, antidogmatismo e tolleranza
1. Il relativismo etico descrittivo
La tesi del relativismo etico descrittivo è che gli individui, e in particolare gli individui appartenenti a culture diverse, hanno opinioni morali spesso discordanti, tali per cui uno è convinto che X sia buono e un altro che X sia cattivo, uno ritiene che nelle circostanze C si debba fare Y e un altro ritiene invece che nelle circostanze C non si debba fare Y. Questa è una tesi di etica descrittiva, cioè una tesi avanzata allo scopo di riferire ciò che avviene nel mondo dei fatti, e può dunque essere considerata vera o falsa a seconda che i fatti stiano o non stiano nel modo in cui essa li rappresenta.
Per la precisione bisogna dire che questa tesi può in effetti essere proposta in più di una versione. Nella versione più semplice essa è riducibile all'asserzione che individui diversi esprimono (spesso o talvolta) giudizi morali contrastanti, ed appare dunque come un'ovvietà, perché è innegabile che individui diversi esprimano (spesso o talvolta) opinioni morali contrastanti. In altre versioni, invece, appare meno pacifica.
Ad esempio, questa tesi appare meno pacifica nella versione in cui dice che la diversità delle opinioni morali espresse dagli individui è determinata, almeno in alcuni casi, dalla diversità dei valori o dei principi da cui tali opinioni dipendono e in base ai quali potrebbero essere giustificate . A questa versione del relativismo etico descrittivo si contrappone infatti la posizione universalista secondo cui tutti gli individui, o meglio tutte le culture, condividono gli stessi valori o principi morali fondamentali, cioè quelli che possono essere richiamati in ultima istanza per la giustificazione dei giudizi morali, e pertanto le divergenze tra i giudizi morali che vengono avanzati dai diversi individui dipendono unicamente da disaccordi sui fatti rilevanti per la formazione e la giustificazione di tali giudizi. Si deve peraltro notare che l'universalismo etico descrittivo non è necessariamente una concezione ottimistica, secondo cui la diffusione e la crescita delle conoscenze scientifiche, producendo accordi sui fatti, è in grado di ridurre progressivamente lo spazio dei conflitti morali. Infatti, il sostenitore dell'universalismo etico descrittivo potrebbe anche ammettere che i disaccordi sui fatti che determinano la diversità delle opinioni morali non possano essere tutti risolti dalla crescita delle conoscenze empiriche, poiché alcuni di questi riguardano l'esistenza di divinità e il contenuto dei loro comandi.
2. Il relativismo metaetico
Dal relativismo etico descrittivo deve essere distinto il cosiddetto relativismo metaetico, cioè la posizione secondo cui la correttezza, validità o verità dei giudizi morali dipende da criteri che possono essere diversi per individui diversi, ovvero per individui che appartengono a culture diverse. Secondo questa posizione, la correttezza, validità o verità dei giudizi morali è non oggettiva o assoluta, ma relativa a un contesto o a un insieme di criteri o coordinate; vi è una pluralità di contesti possibili; non vi sono criteri indipendenti da questi contesti per mostrare la superiorità di uno di questi contesti sugli altri.
Il relativismo metaetico comprende una varietà di posizioni, e qui sarà opportuno precisare che possono essere considerate relativiste teorie metaetiche di diverso tipo: da un lato teorie metaetiche naturaliste, ed oggettiviste per quanto riguarda la verità dei giudizi etici, dall'altro lato teorie metaetiche non naturaliste e non oggettiviste . Le teorie metaetiche naturaliste possono essere considerate relativiste se attribuiscono ai termini etici fondamentali un significato tale per cui giudizi come «È bene fare X» o «È giusto fare X» risultano veri o falsi in relazione a chi li proferisce o li valuta in vista di una possibile accettazione. A questo riguardo, un esempio è costituito dalla teoria secondo cui 'buono' ha un significato tale per cui dire che un'azione X è buona equivale a dire che X è un'azione che non ci piace; un altro esempio è costituito dalla teoria secondo cui 'giusto' ha un significato tale per cui dire che un'azione X è giusta equivale a dire che X è conforme alle consuetudini seguite dal gruppo al quale si appartiene. Una teoria metaetica non naturalista è invece relativista se assume che siano variabili le ragioni ultime, cioè i valori o principi fondamentali, utilizzabili da individui o gruppi diversi per giustificare i propri giudizi morali, e che dunque che siano variabili, da individuo a individuo o da gruppo a gruppo, i criteri di correttezza, validità o verità di questi giudizi.
La diversità tra queste teorie è evidente. Secondo le teorie relativiste naturaliste i giudizi morali sono "oggettivamente" veri o falsi e tuttavia è possibile che individui diversi esprimano giudizi morali veri e divergenti: ad esempio, secondo la teoria per cui dire che un'azione è buona equivale a dire che quell'azione ci piace, è possibile che l'affermazione di Tizio che l'azione X è buona e l'affermazione di Caio che l'azione X non è buona, pur essendo in un certo senso divergenti, siano entrambe "oggettivamente" vere, perché è possibile che effettivamente a Tizio piaccia X ed a Caio non piaccia X. Secondo una teoria relativista non naturalista, invece, la verità dei giudizi morali è non "oggettiva", ma relativa agli insiemi di valori o principi fondamentali in base ai quali i diversi individui giustificano (o giustificherebbero, nel caso in cui fosse loro richiesto) i loro giudizi morali: ad esempio, il giudizio secondo cui l'azione X è buona può essere al tempo stesso vero in relazione all'insieme di valori o principi fondamentali di Tizio e falso in relazione all'insieme di valori o principi fondamentali di Caio.
Le teorie relativiste naturaliste vanno incontro alle consuete obiezioni che possono essere rivolte alle metaetiche naturaliste. A queste teorie si può ad esempio obiettare che appare perfettamente sensato dire «Faccio X non perché mi piace, ma perché è bene agire così», oppure «So che fare X è contrario alle consuetudini della mia comunità, ma farò X perché è giusto agire così» e che, in definitiva, ogni definizione naturalista dei termini etici fondamentali è resa problematica dalla possibilità di negare sensatamente che una qualche azione, pur soddisfacendo le condizioni stabilite dalla definizione, sia buona, giusta o doverosa. Per le difficoltà in cui incorrono e per il fatto di non essere oggi molto diffuse, non terrò conto di queste teorie nella discussione che segue.
Più diffuse appaiono le teorie relativiste non naturaliste, delle quali bisogna rilevare la prossimità alle teorie metaetiche scettiche, cioè alle teorie secondo cui i giudizi morali non sono veri né falsi, perché non si riferiscono a fatti e costituiscono semplicemente l'espressione di emozioni o sentimenti individuali. Infatti, l'idea secondo cui i giudizi morali non sono veri né falsi non è troppo diversa dall'idea secondo cui ogni giudizio morale può essere al tempo stesso vero e falso, perché giustificabile sulla base dei valori o principi fondamentali adottati da alcuni individui e non giustificabile sulla base dei valori o principi fondamentali adottati da altri individui.
Si deve comunque notare che il relativismo metaetico sembra talvolta presentarsi, nelle pagine dei suoi sostenitori, anche in una versione che lo rende abbastanza ben distinguibile dallo scetticismo metaetico. La versione in cui non è ben distinguibile dallo scetticismo metaetico è quella per così dire individualista, secondo cui i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli adottati dai singoli individui che esprimono tali giudizi: non sembrano infatti esservi grandi differenze tra l'idea che i giudizi morali non siano veri o falsi e l'idea che la verità dei giudizi morali dipenda da criteri puramente soggettivi. La versione che sembra meglio distinguibile dallo scetticismo metaetico è quella per così dire culturalista, secondo cui i principi o valori fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli propri delle culture alle quali appartengono gli individui che esprimono tali giudizi: questa versione fa infatti dipendere la verità dei giudizi morali da criteri non puramente soggettivi, ma intersoggettivi e pubblici (sebbene contingenti e non universali).
Il problema è però che questa seconda forma di relativismo o è, al di là delle apparenze, riducibile alla prima oppure è difficilmente sostenibile, e per più di una ragione. La versione culturalista è infatti riducibile alla versione individualista se alla tesi di quest'ultima, cioè alla tesi secondo cui i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali sono quelli adottati dai singoli individui che esprimono tali giudizi, si limita ad aggiungere l'asserzione (vera o falsa a seconda che corrisponda o non corrisponda ai fatti) che individui appartenenti alla stessa cultura condividono in genere gli stessi valori o principi fondamentali. La versione culturalista si distacca invece dalla versione individualista, e risulta effettivamente ben distinguibile dallo scetticismo metaetico, se assume che le culture abbiano una sorta di autorità per quanto concerne i valori o principi fondamentali che determinano la verità dei giudizi morali, cosicché il giudizio morale di Tizio deve essere considerato vero o falso a seconda che soddisfi o non soddisfi i criteri propri della cultura cui Tizio appartiene e non quelli, eventualmente diversi, che Tizio potrebbe eventualmente adottare. I problemi che comporta questa versione sono però evidenti. Anzitutto non è chiaro se e come sia possibile tracciare precise linee di confine tra le diverse culture, in modo da includere nell'una o nell'altra cultura ogni individuo che esprima giudizi morali. Inoltre non è chiaro se e come sia possibile individuare con sufficiente precisione i valori o i principi morali fondamentali propri di una cultura, visto che in molte culture (comunque queste siano delimitate) sembrano convivere individui provvisti di opinioni morali profondamente diverse. Infine, non è chiaro come sia possibile conferire il valore di criteri di verità ai valori o principi morali propri delle culture e non a quelli adottati dai singoli individui, dato che la questione della verità dei nostri giudizi non sembra concepibile come una questione risolvibile in base a principi di autorità o a regole di maggioranza.
Bisogna dunque concludere che il relativismo metaetico, nella sua variante più persuasiva, è sostanzialmente affine allo scetticismo metaetico. A suo sostegno, così come a sostegno dello scetticismo metaetico, possono essere addotte varie ragioni, e prima tra tutte l'assenza di un mondo di fatti morali che consenta di verificare i giudizi morali nel modo in cui il mondo fisico consente di verificare le asserzioni relative sui fatti. Varie sono però anche le ragioni per cui può essere considerato insoddisfacente.
3. Il relativismo etico normativo
Il relativismo etico normativo consiste in una dottrina morale, o meglio in una famiglia di dottrine morali. Adottare la posizione del relativismo etico normativo significa dunque avere determinate convinzioni o credenze morali, condividere determinati giudizi riguardo al modo in cui è bene, giusto o doveroso agire.
Del relativismo etico normativo bisogna anzitutto distinguere una possibile variante che fa riferimento agli individui e un'altra che fa riferimento a gruppi. Secondo la prima, ognuno deve agire (o è bene o giusto che agisca) in conformità con le proprie idee di come si deve (o è bene o giusto) agire. Secondo l'altra variante, ognuno deve agire (o è bene o giusto che agisca) in conformità con le idee di come si deve (o è bene o giusto) agire condivise all'interno del proprio gruppo, comunità o cultura, ovvero seguendo le regole ivi accettate e osservate. Poiché la variante che fa riferimento a gruppi appare più diffusa, qui non terrò conto di quella che fa riferimento a individui.
Della variante che fa riferimento a gruppi sono possibili una pluralità di versioni. In primo luogo, infatti, possono essere caratterizzati diversamente i gruppi alle cui opinioni morali o norme l'individuo deve adeguarsi: questi gruppi possono ad esempio essere identificati con comunità statali oppure con gruppi culturali. E vale la pena di osservare che, se questi gruppi sono identificati con comunità statali, il relativismo normativo finisce col coincidere con il cosiddetto giuspositivismo etico, cioè con la concezione secondo cui in ogni circostanza è giusto o doveroso osservare le norme dall'ordinamento giuridico cui si è soggetti, quale che sia il loro contenuto .
In secondo luogo, bisogna rilevare che il relativismo normativo può presentarsi in una versione elementare (e meno diffusa) e in una versione più complessa, rispettosa dei confini tra comunità o culture. La versione elementare è quella secondo cui gli individui devono agire osservando le norme vigenti nel territorio della comunità o nel gruppo che li accoglie. La versione più complessa è quella secondo cui gli individui devono agire osservando le norme vigenti nel territorio della comunità o nel gruppo che li accoglie solo entro i confini di questo territorio o all'interno di questo gruppo, cioè senza interferire con l'azione di altri individui che in altri territori o all'interno di altri gruppi seguano le norme ivi vigenti. La differenza tra le due versioni è evidente: la prima, diversamente dalla seconda, conferisce validità ad ogni norma vigente in ogni comunità di un certo tipo. Infatti, se nella comunità C vige la norma N secondo cui ci si deve impossessare delle teste degli individui appartenenti ad altre comunità, la prima variante dice che N deve essere osservata da tutti gli appartenenti alla comunità C; la seconda variante dice invece che N non deve essere osservata dagli appartenenti alla comunità C (tranne nel caso, assai improbabile, in cui in altre comunità sia vigente la norma secondo cui ci si deve far tagliare la testa dai membri di C).
Al relativismo etico normativo si contrappone l'universalismo etico normativo. Riguardo a questa contrapposizione, bisogna però chiarire due aspetti: il primo è che anche il relativismo metaetico è in un certo senso una dottrina universalista; il secondo è che anche l'universalismo normativo può imporre obblighi o conferire diritti non a tutti gli individui, ma solo ad alcuni che siano provvisti di determinati caratteri o che si trovino in determinate situazioni.
Il relativismo etico normativo è, in un certo senso, una dottrina universalista, in quanto necessariamente assume che sia valida una norma universale: nella variante elementare, assume che sia valida la norma universale secondo cui tutti gli individui devono osservare le norme vigenti nella propria comunità o nel proprio gruppo; nella variante rispettosa dei confini tra culture o comunità, assume invece che sia valida la norma universale secondo cui ognuno deve osservare le norme vigenti nella propria comunità o nel proprio gruppo unicamente entro il territorio di questa comunità o nei rapporti con i membri di questo gruppo.
L'universalismo normativo non necessariamente impone obblighi o conferisce diritti a tutti gli esseri umani, perché le norme universali che assume come valide non necessariamente impongono obblighi e/o conferiscono diritti incondizionatamente a tutti gli individui: la maggior parte delle dottrine universaliste assumono infatti che siano valide anche norme universali che impongono obblighi e conferiscono diritti (non a tutti incondizionatamente, ma) a tutti a coloro che presentano determinate proprietà, ossia a questi soltanto. Da un lato, è possibile che una dottrina universalista assuma che siano valide norme che impongono obblighi o conferiscono diritti a tutti coloro che hanno generato un figlio, cioè ai soli genitori, o a tutti coloro che siano di sesso femminile, cioè alle sole donne, o a tutti coloro che svolgano un certo lavoro, cioè ad esempio ai soli giornalisti o ai soli avvocati, ecc. E dunque è anche possibile che una dottrina universalista imponga un obbligo solo a coloro che si trovano in società provviste di determinati caratteri, nell'ambito di culture provviste di determinati mezzi tecnici e non di altri, entro comunità stanziate in territori provvisti di determinati beni e non di altri, ecc. Dall'altro lato, è possibile che una dottrina universalista fornisca un fondamento ad alcune forme di potere, ad esempio al potere democratico, e quindi conferisca validità anche alle norme prodotte da queste forme di potere. Tradizionalmente, alcune dottrine di questo genere hanno sostenuto che gli esseri umani devono seguire le norme giuridiche vigenti nel territorio in cui vivono, ma solo fin quando tali norme non siano contrastanti, o non siano eccessivamente contrastanti, con determinati principi morali fondamentali. È peraltro evidente che una dottrina morale universalista non può sostenere, dovendo distinguersi dal relativismo, che debbano essere seguite, a prescindere dal loro contenuto, tutte le norme prodotte da qualsiasi forma di potere si sia imposta in un territorio o entro un gruppo culturale.
4. Il bello del relativismo?
Chi si dichiara relativista sembra spesso convinto del fatto che la diffusione di idee relativiste abbia conseguenze apprezzabili sull'azione e sugli atteggiamenti degli individui. Credo che la distinzione dei tre tipi di relativismo etico sia utile per mostrare che questa convinzione dipende probabilmente da equivoci.
È possibile che la tesi del relativismo etico descrittivo, in qualcuna delle sue possibili versioni, sia vera: ad esempio, è possibile che davvero individui diversi adottino valori morali differenti e che dunque i conflitti morali non dipendano solo da disaccordi su determinati fatti rilevanti. Se questa tesi è vera, allora indubbiamente si pongono per la nostra azione problemi diversi da quelli che si porrebbero se la tesi fosse falsa. Però è altrettanto indubbio che da ciò non segue nulla per quanto concerne il modo in cui dobbiamo agire.
Alcuni ritengono che il relativismo metaetico e lo scetticismo metaetico siano posizioni da preferire a quella dell'oggettivismo metaetico. Come ho già detto, una discussione a questo riguardo non è qui possibile; ciò che conta è comunque che neppure da queste posizioni discende una qualche indicazione per la nostra azione. Il relativismo metaetico e lo scetticismo metaetico forniscono infatti una risposta non alla domanda di come si deve agire, ma alla domanda se e in che senso i giudizi morali possano essere considerati veri o falsi.
Evidentemente, il solo tipo di relativismo in grado di orientare la nostra azione è il relativismo etico normativo, cioè una particolare dottrina morale. Ma questa dottrina morale può ritenersi fondata o in qualche modo attraente? Non solo è possibile dubitarne; è anche ragionevole credere che in effetti non siano molti, anche tra coloro che si dichiarano relativisti, quelli che davvero sarebbero disposti ad accettare il relativismo etico normativo in tutte le sue implicazioni.
Abbastanza frequentemente i sostenitori del relativismo sembrano ritenere che il relativismo etico normativo sia una conseguenza necessaria del relativismo etico descrittivo e/o del relativismo metaetico. Sembra cioè che essi ragionino più o meno così: individui diversi, o culture o popoli diversi, hanno credenze morali irriducibilmente diverse; dunque, si deve ritenere che i giudizi morali non siano oggettivamente veri o falsi, ma siano veri o falsi solo in relazione a un insieme di credenze morali fondamentali adottato da un individuo o da una cultura o da un popolo ecc. (oppure, si deve dunque ritenere che i giudizi morali non siano veri né falsi); dunque, ognuno deve seguire le regole della propria cultura o comunità senza interferire nelle attività delle altre culture o comunità. Questo ragionamento è però sbagliato. Dall'osservazione che gli individui hanno opinioni morali contrastanti non segue infatti che i giudizi morali non siano oggettivamente veri o falsi, così come dall'osservazione che gli individui hanno credenze diverse sull'origine dell'universo o sulle cause di alcune malattie non segue che le asserzioni degli astronomi o dei biologi non siano oggettivamente vere o false. E neppure si può asserire che la prescrizione secondo cui gli individui devono osservare le regole della propria cultura o comunità discenda dall'osservazione che gli individui di culture o comunità diverse hanno opinioni morali contrastanti o dall'assunzione secondo cui i giudizi morali non sono oggettivamente veri o falsi. Vi è certamente un legame tra il relativismo etico normativo ed il relativismo etico descrittivo, ma solo in quanto il primo presuppone una qualche forma del secondo, dato che la prescrizione secondo cui ognuno deve osservare le regole della propria cultura o comunità non sarebbe sensata se non vi fossero culture o comunità distinte provviste di regole diverse. Nessuna relazione necessaria può invece essere individuata tra il relativismo etico normativo e le concezioni metaetiche del relativismo e dello scetticismo: si potrebbe semmai sostenere che uno scettico coerente, se davvero ritiene che i giudizi morali costituiscano solo l'espressione di emozioni e sentimenti, dovrebbe esprimere i propri sentimenti ed emozioni senza mascherarli dietro il linguaggio della morale, cioè rinunciare ad avanzare giudizi morali e a dare il proprio sostegno a dottrine morali, siano queste universaliste o relativiste.
Le attrattive del relativismo etico normativo appaiono abbastanza diverse a seconda che prendiamo in considerazione la variante elementare di questa dottrina o la variante complessa, rispettosa dei confini tra comunità o culture. La variante elementare, infatti, nega tutto ciò che siamo soliti ritenere provvisto di valore morale, in quanto conferisce valore a tutto ciò che in ogni possibile cultura o comunità potrebbe essere considerato provvisto di valore: all'imperialismo e al bellicismo così come al pacifismo, all'intolleranza così come alla tolleranza, e poi alla diseguaglianza, allo sfruttamento, al razzismo, ecc. La variante complessa, invece, accoglie almeno uno dei nostri valori: una certa forma di tolleranza, consistente nella non interferenza, tra le diverse culture o comunità.
Ma, tutto considerato, anche la variante complessa può difficilmente essere considerata attraente. Essa consente la convivenza pacifica tra le diverse culture o comunità, ma a ciò sacrifica ogni altra cosa. Anch'essa infatti legittima ogni forma di intolleranza, diseguaglianza, sfruttamento e razzismo, purché permanga all'interno della cultura o comunità che la accoglie . Inoltre, essa delegittima ogni tentativo di mutare le regole delle diverse culture, a meno che questi tentativi non siano consentiti da queste stesse regole: cioè condanna ogni aspirazione ad una diversa società che sia condannata dalla società stessa in cui sorge e si manifesta. Come è stato sottolineato più volte, il relativismo etico normativo consiste in una dottrina morale conservatrice e conformista .
Inoltre, il relativismo etico normativo, quale che sia la variante presa in considerazione, o fa riferimento alle regole poste nell'ambito di comunità statali, e come ho già accennato coincide quindi con il giuspositivismo etico, o si basa su una concezione piuttosto dubbia delle culture. Infatti, nel prescrivere a ogni individuo di osservare le tradizioni o le regole della propria cultura, presuppone che sia possibile tracciare confini rigidi e precisi tra le diverse culture, come se queste fossero entità ben distinguibili e non fenomeni caratterizzati da fluidità e da compenetrazione. E sulla base di questo presupposto inevitabilmente assoggetta un gran numero di individui a culture o tradizioni in cui non si riconoscono.
5. Relativismo etico, antidogmatismo, tolleranza, pacifismo
Il relativismo viene talvolta considerato attraente in quanto viene confuso con l'antidogmatismo, cioè con l'atteggiamento di chi non erige le proprie convinzioni a dogmi inattaccabili dalla critica ed è pronto a rivederle alla luce delle convinzioni altrui, mostrandosi così disponibile al dialogo e attento alle ragioni degli altri. A questo riguardo si può rilevare da un lato che appare inopportuno chiamare relativismo l'antidogmatismo e dall'altro lato che l'antidogmatismo, così come il dogmatismo, non è implicato da alcuna delle tre posizioni del relativismo etico che prima ho distinto, né peraltro dalle posizioni che a queste si contrappongono. Chi adotta il relativismo etico descrittivo può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico, così come chi adotta l'universalismo etico descrittivo. Chi adotta il relativismo metaetico può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico allo stesso modo di chi adotta l'oggettivismo metaetico. Infine, anche chi adotta il relativismo etico normativo, cioè chi adotta una dottrina morale relativista, può essere indifferentemente dogmatico o antidogmatico, cioè pronto a mutare la propria dottrina morale, non diversamente da chi adotta una dottrina morale universalista.
Qualcuno sembra però credere che le convinzioni morali degli altri siano più facilmente apprezzabili da chi ritiene che non vi siano verità assolute in etica, e che dunque il relativismo metaetico, anche se non implica l'antidogmatismo, favorisca comunque atteggiamenti antidogmatici meglio dell'oggettivismo metaetico. Anche quest'idea, però, è ragionevolmente sbagliata e si può anzi sostenere che è l'oggettivismo, e non il relativismo metaetico, a rivelarsi più favorevole all'antidogmatismo. Per l'oggettivismo, infatti, la questione se un certo giudizio morale sia vero o falso non è una questione privata di colui che proferisce il giudizio, risolvibile guardando alla coerenza di questo con l'insieme delle credenze morali fondamentali del parlante, ma è una questione in un certo senso pubblica, perché un giudizio vero è un giudizio che deve essere accettato da tutti e che non può che imporsi a tutti per le ragioni che lo fondano. Chi adotti la posizione oggettivista sarà dunque spinto a prendere in considerazione i giudizi morali avanzati dagli altri e le ragioni con cui questi sono giustificati, per valutare se tali giudizi, date le ragioni che li sorreggono, siano migliori candidati alla verità dei propri. Per il relativismo, invece, la questione se un certo giudizio morale sia vero o falso è in un certo senso una questione privata di colui che proferisce il giudizio, poiché questo sarà probabilmente vero per il parlante, cioè sulla base delle credenze morali fondamentali che egli adotta (e presumibilmente falso sulla base di altre credenze morali fondamentali che altri adottano o potrebbero adottare). Chi adotti la posizione relativista, dunque, non ha particolari motivazioni a prendere in considerazione i giudizi morali avanzati dagli altri e le ragioni con cui questi sono giustificati: la questione se questi giudizi, date le ragioni che li sorreggono, siano candidati alla verità migliori dei propri giudizi difficilmente si pone là dove si ritiene che ogni individuo abbia le proprie verità. Ancor meno propenso a valutare i propri giudizi morali confrontandoli con quelli degli altri sarà poi chi adotta la posizione dello scetticismo metaetico: per chi è convinto che i giudizi morali esprimano solo sentimenti ed emozioni, ovvero gusti personali, non sembra infatti ragionevole intavolare una discussione al fine di individuare il giudizio morale migliore, cioè sorretto più solidamente da ragioni (come è noto, è inutile disputare intorno ai gusti).
Un'altra attrattiva del relativismo viene talvolta individuata nella tolleranza, poiché ad alcuni sembra che il relativismo, in qualcuna delle sue forme, implichi la tolleranza. A questo riguardo abbiamo già visto che il relativismo etico normativo, in una sua versione, prescrive effettivamente una certa forma di tolleranza, in quanto prescrive ad ogni cultura di non interferire negli affari delle altre culture. Certamente, però, il relativismo normativo non prescrive, in nessuna delle sue forme, la tolleranza alla quale siamo soliti attribuire valore, cioè la non interferenza del potere in determinati ambiti dell'azione umana, come quelli della manifestazione del pensiero o della religione: esso conferisce infatti validità alle regole di ogni possibile cultura, a prescindere dalla questione se queste garantiscano o non garantiscano la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa o qualunque altra libertà.
Un'idea piuttosto diffusa è che il valore della tolleranza presupponga il relativismo metaetico o lo scetticismo metaetico, perché solo dalla convinzione che in etica vi siano molte verità o nessuna verità può seguire l'idea che non vi è alcuna ragione per imporre agli altri le nostre credenze morali o determinati comportamenti che ci appaiono giusti. Anche questo modo di pensare, però, è evidentemente sbagliato: relativismo metaetico e scetticismo metaetico non implicano alcun valore particolare, e dunque neppure il valore della tolleranza .Per contro, chi ritenga che il valore della tolleranza sia provvisto di un fondamento oggettivo, e dunque debba essere adottato da tutti, si porrà inevitabilmente nell'ambito dell'oggettivismo metaetico .
Alcuni sembrano infine ritenere che dal relativismo segua il pacifismo e dal suo opposto la legittimazione della guerra, almeno in alcune circostanze. In particolare vengono addossate responsabilità belliche alle dottrine morali universaliste che fanno proprio il valore della democrazia o l'idea dei diritti umani. Anche questa posizione, però, è evidentemente sbagliata. Da un lato è vero che il relativismo etico normativo assicura la pace tra le diverse culture (mentre ciò non è evidentemente assicurato né dal relativismo etico descrittivo né dal relativismo metaetico). Dall'altro lato, però, è falso che l'universalismo etico normativo legittimi necessariamente la guerra in qualche circostanza. Le dottrine morali universaliste possono infatti essere le più varie quanto al contenuto, e dunque possono essere le più varie anche le posizioni che da esse discendono riguardo alla legittimità della guerra nell'una o nell'altra circostanza.
Neppure si può sostenere che la guerra sia necessariamente legittimata da dottrine universaliste che facciano proprio il valore della democrazia o l'idea dei diritti umani. Se e in quali circostanze la guerra sia legittima dipende, ancora, dal contenuto complessivo di queste dottrine. È certamente probabile che dottrine di questo genere consentano azioni e interventi volti a favorire l'instaurazione di regimi democratici o a garantire la protezione dei diritti umani. Ma questi non saranno necessariamente interventi bellici: sono indubbiamente possibili dottrine universaliste che in ogni circostanza (o in quasi tutte le circostanze) consentano solo forme di intervento che sarebbero giudicate favorevolmente dalla maggior parte dei pacifisti.
La questione del relativismo tra filosofia e dibattito pubblico
1. Il puro e l'impuro
Il relativista a buon mercato è ansioso di tradurre il proprio punto di vista in atteggiamenti pratici, in prese di posizione definite in ambito politico. Ma il relativismo può essere formulato anche in una prospettiva del tutto diversa: cioè, come una tesi concernente la natura delle norme morali che non ci dice di per sé nulla su quali norme debbano o possano essere adottate. Inoltre, si può essere relativisti in etica anche senza respingere in blocco l'idea di una verità oggettiva e assoluta. Il relativista a buon mercato tipicamente ignora questa distinzione; ma c'è invece chi ne tiene conto, sostenendo contemporaneamente l'oggettività dei fatti e la soggettività e relatività dei valori. «La concezione soggettivistica dei valori appare [...], almeno a prima vista, molto più plausibile. La ragione di questa apparente plausibilità è che, nel caso dei valori, sembra che non abbiamo un'analoga distinzione tra il valore intrinseco di qualcosa e la nostra opinione sul suo valore. [...] Le cose sono "là fuori", e sono come sono indipendentemente da quel che ne possiamo pensare noi; i valori, invece, non sono "là fuori" indipendentemente dal fatto che noi li attribuiamo (o, almeno, li riconosciamo). O così ci sembra a prima vista» . Naturalmente, quest'ultima frase suggerisce che in realtà le cose non stanno come ci sembra a prima vista, e che quindi anche i valori sono oggettivi, sono quello che sono a prescindere dalle nostre opinioni in proposito.  Sebbene capiti di rado che le opinioni etiche, politiche o religiose possano essere giustificate in modo tale da guadagnare ad esse un consenso generalizzato, ciò «non equivale a una dimostrazione che in questi ambiti la conoscenza sia impossibile e la discussione infondata» . Il «soggettivismo nichilistico» o semplicemente «nichilismo». L'idea è che, da un lato, qualcosa sia un valore per un soggetto X solo se X lo riconosce come tale, e che, dall'altro, il riconoscimento da parte di X di qualcosa come un valore sia determinato completamente dalla biologia, dalla psicologia, dalla storia personale di X; sicché in definitiva «è un mero fatto - l'effetto di un processo causale - che qualcosa sia un valore per qualcuno» . Il nichilismo, conferisce al relativismo etico un contenuto abbastanza preciso, ma ne costituisce anche una versione particolarmente problematica: infatti, «l'operazione nichilistica sui valori, in buona sostanza, abolisce la dimensione morale dell'esistenza e svuota il vocabolario dell'etica» . Perché? Perché il nichilismo implica che «non ci sono propriamente valori, ma soltanto preferenze (individuali o collettive) determinate da varie circostanze» e che le opzioni in campo etico sono in definitiva come le scelte dettate dal gusto: « Si scelgono i valori come si scelgono le marche di sigarette o gli abiti da indossare» .
Non è vero - si potrebbe essere tentati di rispondere - che il nichilista sia costretto ad assimilare l'adesione ai valori morali alle mere scelte di gusto, perlomeno se, queste ultime sono concepite come cose di scarsa importanza. Anche l'oggettivista etico più convinto - si potrebbe dire - deve ammettere che le nostre esistenze sono in larga misura plasmate dalla nostra costituzione fisica e psicologica e dalla nostra storia personale: chi negherebbe mai che questi fattori, agendo per via causale, concorrano a determinare non solo dettagli marginali come la predilezione per un tipo di sigarette o un certo hobby, ma il nostro intero stile di vita, le nostre simpatie e antipatie più radicate, i nostri odi e amori più intensi e profondi? Chi negherebbe mai che fattori puramente causali intervengano a costituire il nostro stesso senso di identità personale? Ma allora - si potrebbe concludere - che cosa c'è di così assurdo nell'idea che anche l'adesione a certi valori morali piuttosto che ad altri sia determinata da cause dello stesso tipo?
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Si noti: i "valori" del nichilista non perdono la loro natura di valori perché non siano più in grado di orientare il comportamento di chi li riconosce. Gusti e preferenze possono condizionare il comportamento al massimo grado. [...] I gusti sono in questo senso impegnativi quanto i valori. Non sono, però, impegnativi sul piano specificamente morale .
Presentare una scelta come determinata casualmente da fattori "oggettivi" riduce la nostra responsabilità, e soprattutto dissocia la scelta da ogni giudizio di superiorità sull'oggetto della scelta [...] Una scelta motivata soltanto dai propri gusti non implica alcun giudizio di valore su ciò che viene scelto, né di disvalore su ciò che viene scelto. Allo stesso modo, se una scelta è determinata soltanto da circostanze oggettive - biografiche, ambientali, sociologiche - essa non implica alcun giudizio di valore .
Dunque, sebbene alcuni dei suoi esempi siano da questo riguardo un po' fuorvianti, il contrasto tra valori morali e gusti che, rende assurdo il nichilismo non è costituito da un diverso grado di radicamento nella nostra psiche o di incidenza sui nostri comportamenti; è invece una differenza intrinseca e irriducibile concernente il tipo di giudizi attraverso i quali l'adesione ai valori morali e le preferenze di gusto rispettivamente si esprimono e il tipo di impegni che, tramite la formulazione di questi giudizi, si contraggono.
Una volta chiarito questo, però, c'è ancora spazio per una difesa del nichilismo. Ammettiamo pure che,  i giudizi morali - per il nostro modo di intenderli, per il tipo di giustificazioni che ne diamo e le conseguenze che ne traiamo - debbano essere classificati in una categoria nettamente distinta da, e non riducibile a, quella dei giudizi di gusto (o più in generale dei giudizi per mezzo dei quali diamo voce a predilezioni dichiaratamente soggettive). La cosa è plausibile. C'è, intuitivamente, un divario netto tra il dire, da un lato, "Detesto le fragole" o "Mi piace la montagna" e il dire, dall'altro, "Si devono aiutare i più deboli" o "E' male non mantenere la parola data": in particolare, io posso rendere conto esaurientemente delle due prime affermazioni menzionando una mia caratteristica fisica (sono allergico alle fragole) o certi dati autobiografici (quando da bambino mi portavano in vacanza in montagna, mi ci divertivo più che al mare); nel caso dei giudizi morali, considerazioni del genere sarebbero una giustificazione inadeguata e rischierebbero anzi di suonare incongrue. Benissimo. Ma da ciò segue forse che il nichilista, per il fatto di sostenere che anche l'adesione ai valori morali è determinata, in fondo, dalla nostra costituzione psico-fisica e dalla nostra storia personale, «abolisce la dimensione morale dell'esistenza e svuota il vocabolario dell'etica»? Non necessariamente. La tesi del nichilista è, in realtà, compatibile con il riconoscimento della specificità e irriducibilità del linguaggio morale e del sistema concettuale che lo sottende.
Per chiarire i termini della questione, torna buono l'esperimento mentale seguente. Immaginiamo una comunità i cui membri siano abituati a fare riferimento a due elenchi - A e B, diciamo - che includono ciascuno cose assai disparate: animali, piante, oggetti, alimenti, luoghi, attività, stati in cui un individuo può occasionalmente trovarsi, ecc. Le cose nell'elenco A sono dette "pure", quelle nell'elenco B "impure". Questa classificazione ha conseguenze importanti per la vita della comunità: essa induce a forme di comportamento anche molto complesse che rispecchiano, parlando in generale, un atteggiamento positivo nei confronti delle cose che figurano nel primo elenco, e un atteggiamento negativo nei confronti di quelle che figurano nel secondo. Peraltro, i membri della comunità non sanno spiegare in modo articolato che cos'è che rende puro ciò che è puro e impuro ciò che è impuro, non sono in grado di fornire, per queste due nozioni, qualcosa che somigli a una definizione. Negherebbero che "puro" e "impuro" significhino rispettivamente attraente e disgustoso, sebbene l'elenco A includa molte cose che i più trovano attraenti e l'elenco B molte cose per le quali i più provano disgusto; negherebbero che significhino rispettivamente salubre e insalubre, sebbene molte cose classificate come pure siano davvero salubri e molte classificate come impure insalubri; negherebbero che significhino rispettivamente consentito e vietato dai libri sacri, sebbene i libri sacri dicano in forma esplicita di molte cose pure che sono consentite e di molte cose impure che sono vietate; ecc. Gli elenchi A e B sono aperti, soggetti ad ampliamento e talvolta a rettifica. Di tanto i tanto i sapienti della comunità si chiedono se sia pura o impura una cosa non ancora classificata o la cui classificazione sia stata messa in dubbio; dal modo in cui affrontano la questione si capisce che si tratta secondo loro di stabilire una verità di fatto, non di prendere una decisione arbitraria; dopo una lunga discussione trovano un accordo ed esprimono un parere; e la loro autorevolezza fa sì che tale parere sia accettato dagli altri.
Di fronte a una quadro come quello descritto, noi, osservatori esterni non partecipi delle credenze della comunità, ci domandiamo quali mai possano essere le proprietà designate dagli aggettivi "puro" e "impuro". Rileviamo alcune regolarità, facciamo alcune ipotesi; ma, nonostante i nostri sforzi, non ne veniamo a capo. Finiamo per concludere che i membri della comunità sono vittime di una illusione: non è vero che, quando usano questi due aggettivi, stiano parlando, come pensano, di due proprietà determinate; non è vero che, quando si interrogano sulla purità o impurità di qualcosa, si pongano una questione che ha un'unica risposta oggettivamente corretta; la progressiva costituzione degli elenchi A e B è determinata in realtà da fattori eterogenei e casuali. Insomma: finiamo per adottare un'analisi nichilistica del puro e dell'impuro. Si dovrà allora dire che questa nostra analisi abolisce quella che è, per i membri della comunità, una «dimensione dell'esistenza» e che ne «svuota il vocabolario»? In un certo senso sì, naturalmente; ma in un altro senso no: non nel senso che l'analisi tradisca la specificità e irriducibilità del modo di pensare e di esprimersi dei membri della comunità quando sono in gioco il puro e l'impuro. Siamo persuasi, poniamo, che i vermi e i cioccolatini sono stati classificati tra le cose impure gli uni perché provocano in molti un'istintiva ripugnanza, gli altri perché una volta un sommo sacerdote ne ha fatto indigestione: non per questo siamo costretti a dire che, nel linguaggio della comunità, "I vermi sono impuri" e "I cioccolatini sono impuri" equivalgono rispettivamente a "I vermi mi ripugnano" e a "Se uno mangia troppi cioccolatini, gli viene il mal di pancia". L'analisi nichilistica è perfettamente compatibile con il riconoscimento del fatto che i membri della comunità concepiscono e usano gli aggettivi "puro" e "impuro" come se designassero due proprietà oggettive non suscettibili di essere caratterizzate in modo compiuto con parole diverse. Inoltre, il nichilista può benissimo descrivere le conseguenze che la classificazione delle cose in pure e impure ha per la vita della comunità; può addirittura avere buone ragioni per sostenere che, sebbene fondata in definitiva su un'illusione, l'abitudine di classificare le cose in questo modo ha, all'interno della comunità, una funzione positiva.
2. Argomenti profani
Le tesi filosofiche hanno di rado implicazioni politiche dirette. Perciò ho cercato di evitare di aver l'aria di voler stabilire chi, tra il relativista e l'antirelativista, è il vero amico della democrazia liberale, il vero critico del potere, il vero avversario dell'autoritarismo e del totalitarismo, e al tempo stesso il più sicuro baluardo contro il terrorismo e le altre forme di violenza intollerante. Semplicemente non credo che nessuna di queste posizioni sia una diretta conseguenza di questa o quella forma di relativismo, o di negazione del relativismo .
In una situazione in cui le società e le culture non sono più protette dalla distanza, il confronto è inevitabile: la scelta è soltanto tra un confronto serio, fondato su conoscenze, e la chiacchiera multiculturale, basata su aneddoti, impressioni e pregiudizi .
Qualunque cosa si intenda per "serio", è indiscutibile che il confronto o è serio o non è serio. Personalmente, però, tra le cose non serie farei rientrare anche, oltre la «chiacchiera multiculturale», tutte le nefaste scempiaggini su identità, radici, conflitto tra civiltà, orgoglio dell'Occidente, ecc. per mezzo delle quali si è cercato e si cerca di coonestare scelte di politica internazionale che con la salvaguardia di grandi valori etici e culturali non hanno in realtà nulla a che fare.
«Il valore della tolleranza» è «considerato, non a torto, tipicamente europeo-occidentale» .Secondo Amartya Sen, «la tesi [...] dell'eccezionalismo occidentale in materia di tolleranza» è «frutto solo d'ignoranza». Ne so troppo poco per avere in proposito un'opinione personale (anche se i fatti menzionati da Sen mi colpiscono come significativi). Comunque, trattandosi di una tesi controversa e che per giunta, vera o falsa che sia, si presta a usi capziosi ("siccome noi siamo tolleranti e loro no, bombardiamoli" o, meno ferocemente, "siccome noi siamo tolleranti e loro no, vietiamogli di costruire moschee"), è forse inopportuno asserirla senza addurre evidenza a suo sostegno.
Naturalmente, che ci sia scarso consenso intorno alle giustificazioni che vengono proposte per questa o quella credenza religiosa o etica non abolisce il diritto di ciascuno di presentare quelle credenze come giustificate: si tratterà di vedere caso per caso, come sempre, se le giustificazioni proposte siano accettabili. [...] Nel dibattito pubblico non si accredita una tesi presentandola come oggetto di fede, né la si scredita in nome della laicità. Chi rifiutasse di dar ragione delle proprie tesi meriterebbe davvero il titolo di 'dogmatico', che invece non spetta automaticamente a chi, semplicemente, propone tesi minoritarie che sono, mettiamo, parte integrante di una visione religiosa delle cose. Le autorità religiose o anche i semplici credenti, che intervengono nel dibattito pubblico proponendo tesi coerenti con la loro visione religiosa ma sostenendole con argomenti «profani» sono spesso sospettati di mistificazione: in realtà, si dice, sostengono quelle tesi perché le fanno derivare dalla loro fede, e i loro argomenti sono un puro orpello retorico:
Si crea spesso l'equivoco per cui gli esponenti della religione-di-Chiesa dichiarano di voler difendere posizioni secondo "ragione" puramente umana e laica, mentre in realtà la forza del loro argomentare poggia (in modo non detto) su postulati religiosi o di dottrina teologica o metafisica, che sono di fatto sottratti alla discussione pubblica corrente e alla presunta incompetenza dei laici. Le obiezioni di questo genere, a me pare, sono irrilevanti. Le argomentazioni vanno sempre prese al loro valore facciale: se sono cattive argomentazioni, vanno respinte perché sono cattive; se sono buone, vanno accolte quali che siano le ragioni profonde e nascoste che hanno indotto a metterle in campo. [...] Processi alle intenzioni e denunce di secondi fini sono scorciatoie che lasciano il tempo che trovano [...], e tendono a spostare il confronto dal piano della discussione a quello dell'insulto .
Tre punti a mo' di commento.
Primo. Direi anch'io che ciascuno ha il diritto di «presentare [le proprie] credenze come giustificate»; anzi, direi semplicemente che ciascuno ha il diritto di presentare le proprie credenze. Marconi afferma: «nel dibattito pubblico non si accredita una tesi presentandola come oggetto di fede». Non mi è chiaro che cosa significhi "accreditare nel dibattito pubblico"; comunque, se qualcuno dichiara pubblicamente di credere qualcosa per fede, io non mi scandalizzo: magari lo sto persino a sentire e magari trovo quello che dice interessante.
Secondo. «Le argomentazioni vanno sempre prese al loro valore facciale: se sono cattive argomentazioni, vanno respinte perché sono cattive; se sono buone, vanno accolte». Sottoscrivo. E nel caso specifico delle argomentazioni addotte dalle autorità cattoliche a sostegno dei loro decreti in campo etico - perché di questo appunto si sta parlando -, ritengo che siano perlopiù argomentazioni cattive, anzi pessime: sovente «meri orpelli retorici». Quando si deve valutare la bontà di una (presunta) argomentazione, il dire che si tratta di un mero orpello retorico non è affatto un'«obiezione irrilevante»; al contrario, è un'obiezione sostanziale.
Terzo. Un conto sono le argomentazioni, un altro l'argomentare e il discutere. Dovendo decidere se impegnarmi in una discussione, o se perseverare in una discussione già avviata, non posso non tenere conto dell'atteggiamento e dei fini dei miei interlocutori. Le ragioni (profonde e nascoste o magari alla luce del sole) che inducono qualcuno a mettere in campo certe argomentazioni non hanno il potere di trasformare un'argomentazione buona in una cattiva o viceversa, ma rendono più o meno sensato, a seconda dei casi, il mio discutere con lui.
Fermiamoci su questo punto.  «Chi rifiutasse di dar ragione delle proprie tesi meriterebbe davvero il titolo di 'dogmatico', che invece non spetta automaticamente a chi propone tesi minoritarie che sono parte di una visione religiosa delle cose». In realtà, l'essere o no dogmatici non ha molto a che fare con il dare o non dare ragione delle proprie tesi, almeno se per "dare ragione" si intende il sostenere per mezzo di argomentazioni. Da un lato, al livello delle scelte etiche fondamentali la possibilità di argomentare è in generale assai più ridotta  per usare le semplici parole di Hume, «la morale è più sentita che giudicata». Dall'altro, si può essere dispostissimi a dare ragione delle proprie tesi ed essere ciò nonostante dei dogmatici. Dogmatico è colui il quale - indipendentemente dal fatto che possa e voglia sostenere il proprio punto di vista con argomentazioni esplicite e articolate - esclude a priori la possibilità di riconoscersi in errore, di cambiare idea, di uscire mai da una discussione ammettendo che chi la pensava diversamente da lui lo ha convinto. Inutile aggiungere che questo è l'atteggiamento tipico delle autorità ecclesiastiche quando emettono i loro pronunciamenti in campo etico. Molti di noi credono di sapere un sacco di cose su come è fatto il mondo; al tempo stesso, si rendono conto che l'errore è sempre in agguato e che la fiducia nella propria capacità di distinguere il vero dal falso è tanto più fondata quanto più si è pronti a sottoporre i propri convincimenti alla prova della logica e dell'esperienza, modificandoli se necessario. Analogamente, possiamo accettare certi principi morali e, al tempo stesso, essere aperti a una loro revisione, se a ciò dovesse indurci qualche argomentazione persuasiva o, più verosimilmente, qualche esperienza personale o magari l'esposizione a condizioni, forme di vita, mentalità diverse dalle nostre. Ma un atteggiamento aperto di questo genere è, ovviamente, quanto di più remoto si possa immaginare dalla rigidezza dottrinale - dogmatica, appunto - propria della gerarchia della Chiesa cattolica.
Ho detto sopra che discutere con qualcuno è più o meno sensato a seconda del suo atteggiamento e dei suoi fini. Ha senso una discussione con il dogmatico? Perché no? Per esempio, può avere il senso di una pubblica tenzone: so che il mio interlocutore non ammetterà mai di avere torto, ma chi assiste al nostro confronto potrà giudicare liberamente se sono migliori le sue argomentazioni o le mie. Nel caso della discussione relativa ai temi etici su cui insiste la Chiesa, però, ci sono varie complicazioni, tra cui quelle derivanti dal fatto che la Chiesa pretende spesso di far valere i suoi decreti anche per chi non li condivide, chiedendo che le leggi dello Stato si conformino a essi. Nel tentativo di legittimare una tale pretesa, la Chiesa ricorre a ciò che Marconi chiama «argomenti profani». E' la famosa storia della "morale naturale": per giustificare questa o quella norma etica - si sostiene - è sufficiente ricorrere a principi che
(i)          sono accessibili anche all'intelligenza non illuminata dalla fede e
(ii)         sono vincolanti per tutti, credenti e non credenti. Il laico che, senza mettere in questione una siffatta impostazione, si impegni a discutere gli argomenti della Chiesa relativi a un qualche tema specifico, rischia di trovarsi irretito in una situazione dialettica ambigua.
L'idea che ci siano principi etici che soddisfano le condizioni (i) e (ii) - principi che possono essere conosciuti senza bisogno di dedurli da qualche presunta verità di fede e che hanno validità universale - è un'idea in sé rispettabile e, per così dire, innocua. Il problema sta in un paio di assunzioni ulteriori che conferiscono alla nozione di morale naturale come la Chiesa l'intende un carattere tutto speciale. Dicendo che ci sono principi etici la cui conoscibilità non dipende dalla previa accettazione di una qualche "verità rivelata", si suggerisce che all'identificazione di tali principi possano concorrere tutti tramite il libero confronto delle rispettive opinioni e che nessuno abbia a priori più autorità di chiunque altro in materia. Può perciò sorgere l'illusione che la Chiesa, menzionando principi di cui afferma che soddisfano la condizione (i), attenui il proprio dogmatismo e accondiscenda a dialogare con il non credente su un piede di parità. In realtà, si tratta appunto di un'illusione. Per la Chiesa, i principi della morale naturale non hanno bisogno di essere dedotti da verità di fede; ma solo la luce della fede consente di discernerli in modo chiaro e certo; e quindi, poiché le gerarchie ecclesiastiche si considerano depositarie e uniche interpreti autorizzate della rivelazione, ritengono che anche i loro verdetti nel campo della morale naturale debbano essere accolti come definitivi e insindacabili («il papa è voce della ragione etica dell'umanità» . Questa è la prima assunzione. La seconda riguarda l'interpretazione della condizione (ii). Dire che una norma etica vale per tutti senza eccezioni non significa necessariamente che si debba costringere a rispettarla anche chi non vuole. Supponiamo, per esempio, che sia sempre e comunque immorale suicidarsi; non ne segue affatto che tu debba impedire a un malato terminale di porre fine alle sue sofferenze togliendosi la vita; magari c'è un'altra norma, perfettamente compatibile con la precedente e altrettanto fondamentale, che in un caso del genere ti obbliga a lasciare agire un individuo in conformità alla sua libera scelta, aiutandolo anzi a farlo con dignità. Per la Chiesa, invece, l'attribuzione a una norma etica del carattere di validità universale autorizza proprio a imporne l'osservanza anche a chi non la riconosce. E' solo in virtù di queste assunzioni ulteriori - che, ripeto, non sono affatto conseguenze necessarie di (i) e (ii) - che la nozione di morale naturale può essere invocata dalla Chiesa per cercare di giustificare la propria intromissione nelle scelte dei non cattolici.  Il sillogismo delle autorità ecclesiastiche è, in sintesi, il seguente: siccome i principi della morale naturale valgono per tutti indistintamente, bisogna costringere tutti a conformarvisi; ma siamo noi a sapere quali sono i principi della morale naturale; dunque, tutti devono conformarsi a ciò che diciamo noi.
Spero sia chiaro, a questo punto, in che senso rischia di trovarsi in una situazione dialettica ambigua il laico che controbatta gli «argomenti profani» della Chiesa a proposito di questa o quella questione specifica, senza però contestare ciò che la Chiesa, più o meno tacitamente, presuppone e che costituisce lo sfondo su cui il dibattito si svolge. In una discussione, ciò che è presupposto dal mio interlocutore e non è da me esplicitamente respinto, conta come se fosse da me accettato. Il laico dovrebbe quindi avere, in cima alla sua agenda, non la questione della fecondazione assistita o dell'aborto o delle coppie di fatto o qualsiasi altra questione particolare, ma piuttosto la rivendicazione di questi due principi: nel campo della morale non ci sono autorità assolute; qualora, su materie del tipo di quelle di cui si sta parlando, non ci sia unanimità, ciascuno è libero di comportarsi come meglio crede. «Processi alle intenzioni e denunce di secondi fini -  sono scorciatoie che lasciano il tempo che trovano, e tendono a spostare il confronto dal piano della discussione a quello dell'insulto». In realtà, è spesso la discussione a lasciare il tempo che trova: e quando questo accade, quando la discussione lascia ognuno della propria opinione, l'unica alternativa alla tolleranza reciproca è non già l'insulto, che sarebbe poco male, ma il reciproco tentativo di sopraffazione.
L'idea che il tentativo della gerarchia ecclesiastica di influenzare il processo legislativo in materia di etica della convivenza e della procreazione costituisca una inammissibile interferenza viene giustificata - appellandosi al principio generale secondo cui «ciascuno è libero di praticare le proprie convinzioni morali e anche di propagandarle, ma non dovrebbe volerle imporre ad altri per legge» .
Lo Stato italiano ha leggi che rispecchiano convinzioni morali largamente diffuse ma non unanimi: si pensi, ad esempio, alle norme sulla tutela del paesaggio. Si dirà che il paesaggio è ovviamente un bene collettivo, e quindi spetta alla collettività normare il suo uso mentre, ad esempio, il corpo di ciascuno è soltanto suo e quindi ciascuno ne fa quello che vuole. Tuttavia, non è così in tutti i casi: il nostro Codice Civile proibisce ad esempio l'automutilazione [...]. Oppure, si pensi alle norme contro la crudeltà sugli animali: in questo caso sono state [....] imposte a tutti certe convinzioni morali che, almeno nel nostro paese, non sono certo unanimi; eppure gli animali non sono un bene collettivo, nella maggior parte dei casi sono proprietà privata di qualcuno .
Il mero fatto che lo Stato italiano abbia certe leggi  non significa assolutamente nulla in un contesto in cui la questione è come debbano essere le leggi. Ma non insisterò su questo punto perché il punto cruciale è un altro. Sarebbe certo difficile negare che possano essere accettabili «leggi che rispecchiano convinzioni morali largamente diffuse ma non unanimi»: siccome l'unanimità piena è rara, chi negasse una cosa del genere sarebbe costretto a sostenere che non si ha quasi mai il diritto di legiferare. Per conto mio, auspico leggi che, prima ancora di tutelare il paesaggio o vietare l'automutilazione, rispecchino certi ideali di uguaglianza e solidarietà che, appunto, sono largamente diffusi ma non unanimemente condivisi. Al tempo stesso, però, tutti coloro che non sono fautori del totalitarismo - ammettono che c'è una sfera di libertà individuali che le leggi non devono violare. Il problema è allora semplicemente se a questa sfera appartenga un'ampia gamma di comportamenti rispetto ai quali la gerarchia ecclesiastica manifesta invece una ossessiva volontà di controllo. Io credo di sì.
Da un punto di vista laico, i vescovi sono cittadini italiani come gli altri [...] e hanno diritto di costituire una lobby che si propone di influenzare l'opinione pubblica e il processo legislativo, tanto quanto hanno il diritto di farlo gli industriali del tabacco e del petrolio. I vescovi italiani si comportano, di fatto, proprio come una lobby, cercando di influenzare i parlamentari di cui sono in grado di condizionare l'elezione. Che questo possa non piacere a un cattolico, si capisce; ma un cittadino qualsiasi non dovrebbe avere in questo caso particolare, obiezioni diverse da quelle che può avere all'azione delle lobby in generale. [...] Le lobby possono non piacere, ma, a quanto pare, sono un aspetto inevitabile dei sistemi di democrazia parlamentare; e questi sistemi, si sa, sono i peggiori eccettuati tutti gli altri .
In realtà, grazie al Concordato, i vescovi sono cittadini italiani un po' diversi non solo da me, ma persino dagli industriali del tabacco e del petrolio. E in un paese come il nostro, in cui l'invadenza proterva della Chiesa si estende a tutti i settori della vita civile e politica, parlare di lobby dei vescovi ha quasi il sapore dell'eufemismo.  La democrazia si dà per gradi. Sebbene una democrazia perfetta sia un ideale irrealizzabile, chi apprezza la democrazia e ritiene che abbia ancora senso perseguirla non può non guardare con inquietudine a tutti quei casi - li si chiami casi di lobbismo o come si vuole - in cui un gruppo cerca di imporre certe scelte alla collettività agendo al di fuori dei canali attraverso i quali i cittadini possono normalmente esprimere la loro volontà ed esercitare il loro controllo: ogni situazione del genere, infatti, corrisponde a un meno di democrazia. Non è che le lobby possono non piacere; a chi crede davvero nella democrazia, non possono piacere. E chi crede davvero nella democrazia vorrà che il fenomeno sia contenuto e regolato il più possibile. Per ciò che riguarda specificamente l'influenza sul potere politico dalla gerarchia ecclesiastica, si può osservare che in altri paesi a democrazia parlamentare - anche paesi con una forte tradizione cattolica - essa è molto minore che da noi: quindi, sia vero o falso in generale che «le lobby sono un aspetto inevitabile dei sistemi di democrazia parlamentare», non c'è motivo di ritenere che le intrusioni indebite della Chiesa debbano essere subite come una necessità storica ineluttabile.
Verità, pluralismo e realismo
Una modesta difesa del relativismo
Le  dicotomie - tra verità e giustificazione e tra conoscenza e certezza - che sono all'origine di un certo numero di fraintendimenti nella discussione accademica non meno che nel discorso pubblico.  Che l'uso del predicato "vero" appaia governato da un'ipoteca realista, soprattutto quando in gioco sono asserzioni intorno al mondo esterno, è una tesi generalmente accettata anche da coloro che non accolgono una concezione realista della verità: quando diciamo che un enunciato che descrive il mondo esterno è vero, assumiamo tacitamente che esso ci riporti 'le cose come stanno', in definitiva, che esso corrisponda alla realtà. Quella della corrispondenza è un'intuizione comune - Crispin Wright parla a questo proposito di "Platitude"  - che nessun teorico serio si sognerebbe di negare. Il problema è che una cosa è l'intuizione della corrispondenza, un'altra una teoria compiuta che chiarisca in che senso un'asserzione può corrispondere a uno stato di cose nel mondo. Infatti, all'atto pratico, la teoria della corrispondenza, per quanto venerabile, non ha convinto tutti, proprio per la difficoltà di chiarire in cosa esattamente la supposta corrispondenza consista.  Da qui l'emersione di teorie alternative: coerentiste, pragmatiste, deflazioniste, pluraliste, ecc. Non che queste ulteriori teorie non abbiano i loro problemi: anzi, un problema evidente per le teorie epistemiche della verità, vale a dire per quelle teorie che cercano di ricostruire la nozione di verità a partire da quelle pratiche - in primo luogo l'attività di fornire giustificazioni per le proprie credenze - con le quali identifichiamo alcune asserzioni come vere, è rappresentato proprio dalla distinzione tra verità e giustificazione. Infatti, nella misura in cui la nozione di giustificazione è autonoma - anche se non intelligibile separatamente - dal concetto di verità, le teorie epistemiche della verità sembrano destinate al fallimento.
Ciò non implica che A sia vera per X ma non per Y; a meno di non aderire a una concezione epistemica della verità, che identifica verità e giustificatezza. Ma abbiamo visto che ci sono buone ragioni per ritenere che verità e giustificatezza siano concetti diversi e distinti anche nell'estensione.
Sembra, a giudicare da queste righe, che le teorie epistemiche della verità si riducano all'equazione tra verità e giustificatezza e siano pertanto definitivamente confutate dagli argomenti che dimostrano che verità e giustificazione sono cose distinte. Ma questa conclusione è, come minimo, affrettata. Intanto, la stessa terminologia "teorie epistemiche della verità" merita qualche chiarimento. Con questa etichetta ci si riferisce generalmente alle teorie pragmatiste della verità, sviluppate da Peirce nel diciannovesimo secolo e da Putnam alla fine del secolo scorso. Secondo tali teorie - ci sono ovviamente differenze tra la versione di Peirce e quella di Putnam, ma in questa sede non sono rilevanti - la verità corrisponde a una versione idealizzata dell'asseribilità: sono vere quelle proposizioni che una comunità che operasse in condizioni epistemiche ideali riterrebbe giustificate. È chiaro, anche solo da questa definizione, che la semplice distinzione tra verità e giustificazione non basta a minacciare le teorie dell'asseribilità idealizzata, proprio perché tali teorie chiamano in causa una forma ideale di giustificazione. Nella nostra pratica quotidiana - potrebbe replicare il teorico pragmatista - verità e giustificatezza sono chiaramente distinte, ma ciò non mi impedisce di identificare la verità con l'asseribilità, cioè con la giustificatezza, in condizioni epistemiche ideali - che, per definizione, non incontreremo mai. Vero è che le teorie pragmatiste della verità incontrano comunque difficoltà notevoli: uno degli autori che più ha contribuito a esporre questi problemi è il già citato Crispin Wright. Wright ha sviluppato una batteria di argomenti - che non è possibile riportare in questa sede - che rendono quantomeno molto dubbie le teorie pragmatiste. Tali argomenti vanno ben oltre la distinzione tra verità e giustificazione e non possono dirsi, comunque, definitivi. Ma l'aspetto più rilevante per la discussione attuale è che in ogni caso Wright non ne trae la conclusione che l'unica concezione accettabile di verità è quella realista. Tutt'altro: Wright critica l'antirealismo di Putnam per sostituire a esso una diversa e più sofisticata forma di antirealismo, incentrata sul concetto di superasseribilità e capace di rendere conto, sia della distinzione tra verità e giustificazione che dell'intuizione comune della verità come corrispondenza.
L'esempio di Wright è indicativo della piega assunta dal dibattito corrente intorno alla verità. Mi sembra che si possa convenire che la posizione realista intorno alla verità appare oggi largamente minoritaria. D'altra parte, non si può dire che l'obbiettivo principale della riflessione di Marconi sia quello di difendere una concezione realista della verità. Il primo capitolo di Per la verità si limita a ribadire la centralità di alcune intuizioni realiste riguardo agli enunciati che descrivono il mondo esterno, lasciando in sospeso se queste intuizioni valgono anche in domini del discorso diversi come gli enunciati matematici o quelli che riguardano il gusto o la morale
Per il relativismo epistemico le conoscenze dipendono da criteri di accettabilità che variano presso diverse comunità umane. Inoltre, non esistono metacriteri capaci di individuare i criteri di accettabilità corretti. Il relativismo epistemico rappresenta,  una posizione filosofica ragionevole. Non implica, però, il relativismo sulla verità, perché dal fatto che una proposizione p sia giustificata per X ma non per Y non segue che p sia vero per X e non vero per Y, a meno di non aderire a una concezione epistemica della verità . Ciò significa che, secondo Marconi, il relativista epistemico potrebbe sostenere che X e Y hanno credenze diverse relativamente alla accettabilità di p, che il loro dissenso non è risolvibile, perché essi incorporano criteri di giustificazione diversi, nessuno dei quali è superiore all'altro, ma che, nondimeno, p è oggettivamente vera o falsa. Questa conclusione mi sembra insostenibile, poiché implica che un enunciato può essere oggettivamente vero anche se i criteri in base ai quali viene giudicato non accettabile sono non criticabili. Di conseguenza, sancisce l'indipendenza tra verità e giustificazione: la verità non si identifica con la giustificatezza poiché un enunciato può essere giustificato senza essere vero; tuttavia, in quest'ultimo caso, l'intuizione comune ci dice che qualcosa è andato storto nel processo attraverso il quale abbiamo acquisito la giustificazione per esso o nei criteri di giustificazione impiegati. Adesso, la conclusione secondo la quale un enunciato può essere giustificato e falso, senza che i criteri in base ai quali si è giudicato della sua verità siano criticabili e senza alcun altro cognitive shortcoming, rompe un nesso implicito tra verità e giustificazione - l'idea, cioè che la giustificazione sia preordinata alla verità - che anche Marconi, nel primo capitolo, sembra accettare. Nessuna meraviglia, dunque, che i sostenitori del relativismo epistemico rigettino la concezione realista della verità, come fa Wittgenstein.) Meno male, allora, che le concezioni epistemiche non sono così poco plausibili come Marconi sembra ritenere, altrimenti il relativismo epistemico perderebbe molta della sua efficacia.
Un problema analogo si presenta in rapporto al relativismo concettuale. Si tratta di quelle posizioni che relativizzano l'ontologia al sistema di riferimento concettuale proprio di un'epoca o di una determinata cultura. Se il sale non era cloruro di sodio prima dell'invenzione della chimica allora che cos'era? Era solo una sostanza presente nel mare e in certe formazioni rocciose usata per insaporire e conservare i cibi? E qual era la composizione delle sue molecole? Oppure, non era composta da molecole? Posto di fronte a queste domande - sostiene Marconi -, il relativista concettuale non possiede risposte chiare e convincenti. Per questo motivo risulta più semplice tenere ferma la verità dell'enunciato 'il sale è cloruro di sodio', relativizzando non il valore di verità delle asserzioni ma la loro accessibilità. Secondo quest'ultimo punto di vista, un greco dell'epoca omerica non aveva accesso alla proposizione che il sale è cloruro di sodio, perché il suo schema concettuale non disponeva delle risorse necessarie per afferrarla. La proposizione in sé, però, era vera ottocento anni prima della nascita di Cristo, come lo è adesso.. Il problema principale è che questo modo di porre il problema rappresenta una petizione di principio contro il relativista. Posso assumere che l'enunciato 'il sale è cloruro di sodio' sia vero anche prima dell'invenzione della chimica solo se non prendo sul serio il relativismo ontologico: ritenere che l'enunciato 'il sale è cloruro di sodio' fosse vero anche tremila anni fa significa assumere che la 'vera ontologia', quella rispetto alla quale si calcola il valore di verità degli enunciati che descrivono il mondo esterno, contempli, fra i suoi costituenti, quelle molecole che rendono vera l'asserzione che il sale è cloruro di sodio. Questo approccio rinuncia all'idea che un enunciato come 'il sale è cloruro di sodio' rappresenti un modo peculiare, in mezzo a molti altri, di parlare del sale. Secondo questo punto di vista l'enunciato 'il sale è cloruro di sodio' rappresenta piuttosto un tentativo di identificazione dell'essenza del sale. In altre parole, ritenere che gli enunciati che descrivono il mondo mantengano inalterato il loro valore di verità significa adottare un atteggiamento ontologico incompatibile con l'idea relativista secondo la quale non esiste un'ontologia privilegiata, ma ogni sistema di riferimento concettuale elabora la propria ontologia, che non è migliore né peggiore - in termini assoluti - di qualsiasi altra. Si rivela, in questo modo, quella che mi sembra essere l'assunzione di sfondo del realismo di Marconi. Il realismo sulla verità  sottende un corrispondente realismo metafisico. Esista un insieme di proposizioni assolutamente e oggettivamente vere che definisce la struttura immutabile del mondo esterno, perciò aderisce a una variante della dottrina nota come "realismo metafisico". E se non è completamente chiaro cosa il realismo metafisico implichi veramente, è sicuro che si tratti di una posizione incompatibile con il relativismo concettuale.
Secondo Putnam il realismo metafisico consiste della congiunzione delle seguenti tre tesi:
i.           il mondo consiste di un insieme di oggetti indipendenti dalla nostra mente;
ii.          esiste esattamente una sola descrizione vera e completa del mondo;
iii.         la verità comporta una relazione di corrispondenza tra le parole, o i segni del pensiero da un lato, e gli insiemi di cose esterne dall'altro.
Che il realismo metafisico,  sia incompatibile con il relativismo concettuale dovrebbe essere abbastanza chiaro. Del resto, dalla tesi dell'esistenza di una descrizione ideale e vera - anche se non completa - del mondo segue che il mondo è articolato in oggetti - generi naturali -, proprio quanto il relativista concettuale nega espressamente. È importante sottolineare come una delle motivazioni principali del relativismo concettuale sia quella di reagire alle strettoie del realismo metafisico. Il realismo metafisico è non solo una posizione problematica. È anche fortemente controintuitivo. Principalmente perché il realismo metafisico sembra inseparabile da una forma di essenzialismo. L'idea di una descrizione ideale che coglie oggettivamente un aspetto del mondo richiede che le cose nel mondo possano essere suddivise in generi naturali corredati di proprietà essenziali e che gli uni e le altre risultino cognitivamente accessibili: ammettere la possibilità di una rappresentazione vera in senso corrispondentistico implica non solo la credenza in una predeterminazione dell'articolazione naturale della realtà - dal momento che la verità di una descrizione viene intesa come corrispondenza dei predicati che entrano in quella descrizione con articolazioni del mondo e proprietà oggettivamente esistenti - ma anche l'ulteriore convinzione che questa predeterminazione sia, in un certo modo, trasparente rispetto alla nostra osservazione. Tuttavia, questa tesi appare discutibile, se non altro per la sua componente antropocentrica. Il problema non consiste tanto nell'ammettere o meno che il mondo noumenico possieda una sorta di organizzazione indipendente dall'attività della nostra mente: che la realtà sia in qualche modo 'strutturata' appare del resto difficilmente negabile, alla luce della relativa regolarità delle nostre esperienze; inoltre, ritenere che le nostre ipotesi ontologiche trovino una base nell'organizzazione noumenica del mondo non introduce il tipo di oggettività - oggettività come corrispondenza di articolazioni concettuali e metafisiche - che è richiesto dalla tesi realista. Il problema consiste piuttosto nel fatto che l'essenzialismo presupposto dal realismo metafisico richiede di postulare una sorta di omogeneità tra il 'formato' dell'organizzazione metafisica del mondo e quello dei generi naturali elaborati dalla nostra mente. In questo senso, l'idea che il mondo sia intrinsecamente razionale, che l'essenza della sua struttura profonda sia un'articolazione concettualmente e linguisticamente rappresentabile da parte della mente umana, sembra piuttosto difficile da accettare, quasi il residuo di una forma di razionalismo e di antropocentrismo tipicamente premoderni.
Per questi motivi, credo che il relativismo vada difeso dagli argomenti fanno leva sul carattere oggettivo della verità. A questo punto, però, il compito si complica. Perché, come viene riconosciuto almeno da Platone in poi, il relativismo rappresenta una posizione contraddittoria. Come è noto, infatti, sin dal Teeteto il relativismo è stato criticato perché autoconfutante. Nella sua forma più semplice questo tipo di argomento si rivolge contro le tesi relativiste che sostengono che la verità dei nostri enunciati è relativa rispetto a qualche fattore differenziante (prospettive, schemi concettuali, 'sensazioni' nel caso di Protagora criticato da Socrate/Platone). Il relativista - così si svolge la prova di contraddittorietà - nel momento in cui sostiene che la verità è relativa, automaticamente si contraddice, perché si vincola all'affermazione assoluta dell'enunciato 'la verità è relativa'. Dunque, siccome per poter affermare il relativismo è necessario che il relativismo sia falso, secondo la legge della consequentia mirabilis, il relativismo va respinto. A questa accusa il relativista potrebbe replicare sostenendo che anche la tesi relativista è vera solo relativamente, dunque la sua enunciazione non comporta una contraddizione esplicita. Ma questa mossa innesca un regresso all'infinito, perché se l'enunciato 'la verità è relativa' è vero solo relativamente, dunque, diciamo, vero per il relativista e falso per il suo oppositore, si genera un nuovo enunciato, "l'enunciato 'la verità è relativa' è vero per il relativista e falso per il suo oppositore", appunto, che a sua volta deve essere considerato vero solo relativamente; e così via, in una fuga inarrestabile di metarelativismi. Argomenti analoghi possono essere agevolmente sviluppati a partire da altre concezioni relativistiche. Data una definizione sufficientemente generale di relativismo, non è difficile nemmeno elaborare una corrispondente versione dell'argomento del regresso all'infinito. Ciò che gli argomenti sul regresso all'infinito ci mostrano è il "carattere abissale dell'interpretazione" (p. 72). Personalmente, infatti, ritengo che questo modo di prospettare il carattere problematico delle concezioni relativiste ne illumini, al contempo, i punti di forza rispetto alle dottrine realiste alle quali si oppongono. Per esplorare più da vicino questa possibilità cerchiamo di calarci in un contesto più concreto. A questo scopo immaginiamo uno scienziato sociale, un antropologo oppure un sociologo dei processi culturali. Il suo intento è quello di sostenere che le culture non esistono 'realmente' ma rappresentano una sorta di costruzione che riproduce certi assetti di potere politico ed economico. L'idea del nostro scienziato sociale può essere ben motivata: egli può sostenere che l'opzione per una concezione non reificata delle culture si giustifica a partire da certe considerazioni intorno al carattere flessibile, intrinsecamente mutevole, aperto di quegli aggregati di simboli, tradizioni, schemi di comportamento che chiamiamo culture. Che la nozione tradizionale di cultura sembra implicare la possibilità, totalmente irrealistica, di una partizione dei soggetti in insiemi disgiunti. Che il concetto di cultura, infine, ha spesso avuto una genesi coloniale o postcoloniale. È chiaro altresì che questo tentativo di spiegazione sia etichettabile come tipicamente antirealista. La manovra dello scienziato sociale che aspira a 'decostruire' la nozione di cultura per metterne in luce l'origine segnata da influenze eterogenee è facilmente inscrivibile nel contesto di una strategia complessiva di relativizzazione dei nostri tentativi di descrizione a un certo quadro concettuale di sfondo.
Tuttavia, l'idea, di per sé pienamente intelligibile, deve fare i conti con una conseguenza spiacevole. Si tratta del fatto che sostenere che la costruzione delle culture riproduce certe strutture di potere preesistenti sembra implicare, in luogo della reificazione delle culture che si vuole screditare, una corrispondente reificazione delle strutture di potere, cui la differenza culturale viene relativizzata. E chiaramente decostruire le culture per sostituire al loro posto una presunta realtà di assetti di potere politico-economico non sembra un esito accettabile. Resta aperta anche in questo caso la possibilità di iterare la strategia già seguita, relativizzando le strutture di potere a qualche fattore ulteriore, ma evidentemente questa manovra non fa che spostare il problema. In conclusione, sembra quindi che anche in questo caso una pregevole e, a prima vista, condivisibile intuizione rischi di arenarsi contro la barriera di un inevitabile regresso all'infinito.
A questo punto si aprono, credo, due strade: una consiste nell'immaginare qualche tipo di circolarità all'interno della catena dei fattori relativizzanti. Non c'è niente in via di principio che possa impedirci di riconoscere la validità di uno schema esplicativo che ammetta la presenza di qualche forma di circolarità. Per esempio, si potrebbe immaginare che il tentativo di decostruzione del concetto di cultura abbozzato in precedenza proseguisse con il riconoscimento che le strutture di potere politico ed economico che determinano la costruzione della differenza culturale, costituiscono una proiezione, a loro volta, di certe assunzioni antropologiche di base, che d'altra parte si possono ragionevolmente ritenere plasmate da un preciso background storico-culturale. Un resoconto di questo tipo non cessa di essere esplicativo per il fatto di essere circolare. Può sembrare tuttavia che una spiegazione che presenti questo tipo di circolarità violi qualche principio implicito di carattere formale, come nel caso di una dimostrazione che impiegasse l'assunto da provare nel corso dell'argomento stesso. A questa osservazione si può rispondere agevolmente osservando che in questo caso la circolarità è di un genere completamente diverso. Per individuarlo con più precisione può essere utile riprodurre graficamente le relazioni che sono state utilizzate nel ragionamento precedente.
Il grafo in fig. 1 riproduce schematicamente il percorso dell'ipotesi argomentativa discussa in precedenza. Al livello più basso si collocano le (due, per comodità di rappresentazione) forme culturali, C1 e C2 di cui il nostro scienziato sociale vuol sostenere la derivazione da un certo assetto di potere, simboleggiato da S1. Ma siccome anche le strutture di potere sono relativizzate ad un fattore sovrastante, diciamo un certo insieme di assunzioni antropologiche, ecco che il nodo S1 è connesso con un nodo superiore, A1, dal quale si dirama anche la possibilità di immaginare una struttura di potere differente, S2. Infine, dato che abbiamo assunto che le assunzioni antropologiche siano in qualche modo influenzate dal contesto culturale, ecco che A1 è direttamente connesso con C1.
Dalla rappresentazione grafica è evidente quale tipo di circolarità sia introdotta dal nostro discorso. Se facciamo corrispondere le frecce nel grafo alla relazione di appartenenza insiemistica, diventa immediatamente possibile tradurre il grafo precedente in un sistema di insiemi che possiede una caratteristica particolare: A1: {S1, S2}, S1: {C1, C2}, C1: {A1}. La caratteristica che distingue l'insieme A1 è quella di possedere un membro, S1, che ha propria volta ha come elemento un insieme, C1, che contiene A1 stesso. In teoria degli insiemi un insieme di questo tipo viene detto un insieme "non ben fondato". Ora, gli insiemi non ben fondati violano una tradizionale assioma della teoria degli insiemi, l'assioma di fondazione appunto. Tuttavia, la loro esistenza non è in nessun modo contraddittoria: si è compreso infatti, soprattutto dopo il lavoro di Peter Aczel, che la rimozione dell'assioma di fondazione dà luogo a una teoria degli insiemi alternativa a quella tradizionale ma perfettamente coerente. E d'altra parte non mancano gli studi che tentano di utilizzare insiemi di questo tipo per studiare certi fenomeni caratterizzati dalla presenza di forme di circolarità. Dunque, dalla rilevazione dell'esistenza di una circolarità di questo tipo non dovrebbe essere possibile passare all'affermazione dell'inammissibilità del modello esplicativo che a essa faceva ricorso.
D'altra parte, se l'introduzione di insiemi non ben fondati sembra rendere più tollerabile la situazione che si definisce a partire dalla relativizzazione delle descrizioni del mondo alle concettualizzazioni, è anche vero che per un altro verso questo passaggio non segna una vittoria del principio antirealista su quello realista. In effetti, sostenere che la professione di antirealismo è resa accettabile dal fatto di immaginare la struttura delle nostre concettualizzazioni come un sistema di insiemi non ben fondati, ci forza a riconoscere implicitamente che esiste dopo tutto una rappresentazione oggettiva della struttura che il nostro sistema di concettualizzazioni configura. Quindi, se per un verso l'approccio antirealista sembra risultare legittimato dal ricorso agli insiemi non ben fondati, su un altro piano è il presupposto realista che ancora una volta appare governare la possibilità di immaginare forme di antirealismo.
La seconda soluzione entra in gioco proprio per reagire a questa nuova impasse. Essa consiste, banalmente, nell'accettazione del carattere abissale, irriducibile dell'interpretazione. È una prerogativa dell'attività razionale che, dato un qualunque discorso, sia possibile guardare dall'esterno ai presupposti ontologici da cui esso muove (si tratta grossomodo di quella che Quine chiamava "ascesa semantica"). Il meccanismo di messa in distanza delle nostre rappresentazioni e di interrogazione riguardo ai loro presupposti ontologici mette capo a un regresso che non ha mai termine. Questo meccanismo fonda la possibilità di relativizzare le nostre descrizioni del mondo alla ricerca di sempre nuove ontologie di sfondo. Se si postula, come fa il realista metafisico, l'esistenza di un livello di discorso privilegiato, entro il quale è possibile rappresentare oggettivamente stati di cose nel mondo, possiamo immaginare che ci siano alcune descrizioni linguistiche che non possono essere relativizzate. Viceversa, se si rifiuta questa possibilità, come fa il relativista, ci ritroviamo con un'esplosione potenzialmente infinita dei nostri discorsi, dato che ciascuna rappresentazione della 'realtà' non attinge un livello più fondamentale di qualunque altra e, di conseguenza, può essere messa in discussione per rivelarne le assunzioni implicite.
È chiaro, d'altra parte, che ciascun discorso conserva, nonostante la propria infondatezza, un'aspirazione all'oggettività. Sembra una caratteristica inevitabile della nostra attività di rappresentazione imperfetta del mondo che i prodotti di questo agire si propongano come descrizioni obbiettive di 'ciò che vi è'. Questa caratteristica è stata analizzata come accostamento implicito della conoscenza a un vedere spersonalizzato e oggettivo . A questa prerogativa non si sottrae, ovviamente, neppure il discorso con il quale si asserisce la relatività delle nostre rappresentazioni del mondo, quindi, da questo punto di vista, si ritrova il vizio di incoerenza di cui il relativismo viene tradizionalmente fatto segno. Ma si tratta, vorrei sostenere, di un'incoerenza più tollerabile dell'implausibilità complessiva di una posizione per il resto coerente come il realismo metafisico. Questo non significa, però, riabilitare la tesi relativista in una forma generale che proponga una nuova identificazione di un insieme di fattori relativizzanti - del genere di quella operata, per esempio, dal relativismo concettuale con la categoria di schema concettuale -, in quanto il fatto di riconoscere che la negazione relativista dell'oggettività delle rappresentazioni è incoerente nella misura in cui contesta un codice espressivo realista, non legittima comunque ad assumere una tesi più forte della negazione del realismo metafisico. In altre parole: se si riconosce che il problema del relativismo è un problema inerente alla possibilità di negare il carattere oggettivo delle nostre rappresentazioni, allora dalla constatazione dell'implausibilità del realismo metafisico si può dedurre unicamente la legittimità della negazione del realismo metafisico. Ne segue che l'unica forma di relativismo sostenibile coincide con una forma di relativismo minimalmente oggettivo equivalente alla negazione del realismo metafisico. Nuovamente, ciò non vuol dire assumere che il mondo sia una specie di 'blob' completamente indeterminato, ma più semplicemente - e più modestamente - immaginare che la 'struttura' del mondo non sia cognitivamente accessibile o quantomeno non si rifletta nelle categorie che usiamo abitualmente nelle nostre rappresentazioni.
In che modo il rifiuto relativista del realismo metafisico e l'assunzione del carattere abissale dell'interpretazione si riflettono sul pluralismo specificamente sociale e politico? In un modo abbastanza diretto Permane un altro tipo di collegamento tra pluralismo e relativismo . Cerco di spiegarmi. L'obbiettivo di Marconi è discutere il pluralismo come proiezione del relativismo morale, cioè di una posizione che assume l'indifferenza fra le opzioni di valore. Criticare questo genere di relativismo è sin troppo semplice e Marconi ha buon gioco nel mostrare l'implausibilità di quei generi di pluralismo che, come il pluralismo dell'equivalenza, si alimentano all'idea secondo la quale le opzioni di valore si collocano tutte su uno stesso piano.  L'aspirazione dei valori all'oggettività costituisce solo un aspetto dei valori stessi. Perché anche i valori, prima di essere messi a confronto, devono essere ricostruiti e interpretati. Ed ecco che da questo versante si affaccia il collegamento tra relativismo e pluralismo. Mi riferisco al fatto che se si riabilita il carattere irrimediabilmente relativo delle rappresentazioni del mondo, emerge un problema non facilmente risolvibile attinente alla possibilità di presupporre che i 'nostri' valori siano intelligibili da parte dei nostri interlocutori.
Questa difficoltà rappresenta, a mio avviso, 'il' problema centrale del pluralismo contemporaneo. Non tanto quanto o quale pluralismo è accettabile ma: dove comincia il pluralismo? Dove finiscono i nostri valori e inizia la contrapposizione con i valori degli altri? Anche in questo caso un esempio può forse contribuire a rendere tutta la discussione meno astratta. Nessuno dubita che i diritti umani costituiscano un valore riconosciuto all'interno dei nostri ordinamenti - se non all'interno delle nostre società. L'art. 2 della Costituzione italiana si apre al riconoscimento di diritti iscritti in documenti ulteriori rispetto al testo costituzionale stesso. La Dichiarazione universale del 1948, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e i Patti Onu sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali - in mezzo a molti altri trattati e convenzioni su temi più specifici  - definiscono i confini di dei diritti che hanno cittadinanza nel nostro ordinamento. Eppure, questi diritti, per produrre effetti concreti di natura giuridica o politica, richiedono di essere interpretati. Attraverso l'interpretazione si apre un campo di ridefinizione del contenuto dei diritti stessi che può condurre dall'estremo della contrapposizione, del muro contro muro, a quello della parziale riconciliazione fra tradizioni giuridiche e politiche diverse. L'interpretazione, nel caso dei diritti, dovrebbe attivare in primo luogo un'interrogazione retrospettiva intorno al contenuto che certe categorie giuridiche assumevano nel contesto dell'Europa premoderna: questa interrogazione, svelando che il moderno individualismo dei diritti poggia su un'originaria concezione comunitaria dei diritti stessi, potrebbe evidenziare punti di contatto fra il linguaggio contemporaneo dei diritti e le manifestazioni di ethos comunitario che caratterizzano ancora le culture extraeuropee. Più ancora: non solo l'operazione di ridefinizione della propria identità assiologica è importante per noi, nella misura in cui ci consente di presentare un profilo più aperto e tollerante ai nostri interlocutori; è importante anche perché promette di innescare un processo analogo nei nostri interlocutori, che conduca a una conciliazione più soddisfacente e più effettiva fra tradizioni e sensibilità normative diverse.
Prendiamo, per esempio, il caso dell'escissione femminile. Da una parte, il confronto realista tra valori, invocando il diritto a non subire lesioni della propria integrità fisica, esigerebbe forse che queste tradizioni fossero represse, anche attraverso l'applicazione delle norme del diritto penale e la punizione esemplare dei responsabili. Il rischio implicito in questo atteggiamento è quello di contemplare in un'ottica unilateralmente assimilazionista le identità culturali dei soggetti, attivi e passivi, di queste pratiche. In questa prospettiva, le donne sono viste come assoggettate a una logica di dominio maschile che si esprime anche attraverso il segno sui corpi. Probabilmente, questa lettura non coglie la specificità simbolica di questo genere di mutilazioni e la portata di integrazione sociale connessa al perpetuarsi dei rituali. Da questo punto di vista, una riflessione più pacata potrebbe forse procedere dalla constatazione che forme di sottomissione analoghe - anche se meno cruente - non sono estranee neppure al passato recente delle società occidentali, per suggerire poi che il rigore dei diritti, in un contesto premoderno, troverebbe un valido bilanciamento nell'attribuzione di significato a un certo insieme di pratiche. Con questo, non si vuole proporre una completa rimozione della sofferenza ingiustificata inflitta alle giovanissime destinatarie di questi comportamenti. Si tratta, più modestamente, di operare in direzione di una 'fusione di orizzonti', per riprendere il lessico gadameriano, cercando di innescare un processo di comprensione reciproca e di autocomprensione, al termine del quale le contrapposizioni di valori e la repressione penale vengono sostituite da qualcosa d'altro. Mi sono soffermato brevemente sul problema dell'escissione femminile perché mi sembra emblematico del genere di questioni che l'attuale pluralismo delle società contemporanee ci presenta. Si tratta di un insieme di problematiche attinenti, non tanto a quali valori possiamo tollerare ma a come dobbiamo operare nella definizione dei profili assiologici e identitari, a come dobbiamo gestire il rapporto con le nostre identità passate e con i valori che ci vengono proposti dalle tradizioni. Nell'affrontare e nel tematizzare questi problemi non è possibile attenersi a un rigida osservanza delle intuizioni realiste e a una ricerca diretta della verità. Risulta più produttivo, forse, seguire il percorso inverso: immaginare possibili scenari dell'alterità e, sulla base di quegli scenari, costruire narratives persuasivi di realtà e di verità.
Relativismo, verità e ragioni morali
La questione del relativismo ha assunto negli ultimi anni una grande rilevanza nel dibattito pubblico. Molti fattori concorrono a generare questo rilievo, soprattutto sul piano culturale. Fra questi fattori vi sono: la diffusa tesi postmodernista secondo cui il mondo contemporaneo non dispone più di criteri oggettivi e universali a causa dell'autoconfutazione di tutti i tentativi, antichi e moderni, di individuare tali criteri; l'effetto di spaesamento generato dalle ondate migratorie e dalla compresenza di culture profondamente diverse in società complesse e multiculturali; la percezione di una proliferazione incontrollata dei punti di vista considerati non confutabili ma reciprocamente incompatibili, non solo nel mondo culturale ma anche in quello scientifico (geometrie non euclidee, teorema di Gödel, fisica quantistica ecc.); infine, ma non meno importante, il ripetuto richiamo da parte di autorità religiose e politiche circa i pericoli morali e sociali del relativismo, il quale viene spesso considerato una perniciosa deriva della modernità.
Anche nel dibattito filosofico la questione teorica del relativismo risente di questi fattori, in particolare sul terreno della morale e della politica. La filosofia approfondisce alcuni aspetti di un generale interesse per il valore della verità, che è evidentemente percepito come messo in discussione. Il tempo presente non si vive certamente come un tempo di certezze, se non proprio per reazione a un diffuso clima di incertezza sul sapere, sulla prassi e soprattutto sui valori. Si comprende, quindi, che il relativismo goda di un certo favore: esso è considerato da molti come un riflesso dell'esperienza quotidiana e, al tempo stesso, come un salutare antidoto alla fuga verso dogmatismi di varia natura. Questo tuttavia non significa che si tratti di una posizione teoricamente più solida del dogmatismo, né che si tratti di un rimedio efficace ai rischi generati da quello che potremmo chiamare «il bisogno di certezze nelle attuali condizioni di incertezza».

Anche il relativismo è una posizione afflitta da problemi teorici non facilmente superabili. Soprattutto, il relativismo non è, come invece molti ritengono, la necessaria premessa di un atteggiamento tollerante e democratico, bensì è una potenziale anticamera di pratiche di prevaricazione sistematica e di intolleranza.  «il relativismo morale non è soltanto una posizione teorica difficilmente difendibile, ma è moralmente riprovevole» .
Probabilmente, la ragione per cui il relativismo, specialmente in campo morale, appare a molti così attraente è che, concettualmente, esso sembra costituire l'alternativa naturale all'assolutismo. L'opposto di relativo è infatti assoluto, così come l'opposto di universale è particolare, l'oggettivo si contrappone al soggettivo, il collettivo all'individuale e così via.  Per molte persone, «chi crede che ci siano valori assoluti, impegnativi per tutti è un pericoloso dogmatico o, come si usa dire oggi, un 'fondamentalista': il suo diritto di parola dev'essere quanto meno contemperato con la sua oggettiva pericolosità» (pp. 83-84).
L'apprezzamento della pluralità dei valori non esige affatto l'ammissione della loro relatività o equivalenza.
Non c'è dubbio che l'assolutismo morale abbia una pessima fama e che in effetti non sia una concezione molto appetibile. Possiamo definirlo come la tesi secondo cui esiste un solo stile di vita accettabile, che tutti dovrebbero seguire e le deviazioni dal quale devono essere biasimate o addirittura impedite. Qualunque persona di spirito liberale e democratico non può che ritenere questa tesi difficilmente accettabile. Essa è infatti incompatibile con una pacifica convivenza civile, a meno di trovarsi in una società fortemente omogenea sotto il profilo morale. Anche in questo caso, per altro, affinché l'assolutismo morale appaia compatibile con la convivenza occorre che la società in questione sia costituita da niente meno che il mondo intero. Diversamente, infatti, l'assolutista morale si trova a constatare che altre società vivono altrimenti, cioè in modo sbagliato, e questo non può che essergli intollerabile, soprattutto se egli ha a cuore le sorti morali dell'umanità. Così ragionano i fondamentalisti, o più precisamente gli integralisti, cioè i sostenitori di una concezione «integrale» della verità, la quale è completamente nota a coloro che sanno e riguarda integralmente ogni aspetto della vita di tutte le persone. Costoro, però, non sono semplici sostenitori teorici dell'assolutismo morale: essi non si limitano a constatare che gli altri vivono immoralmente, ma si fanno carico di un ampio grado di proselitismo e non esitano a impiegare la forza per convertire gli immorali a migliori costumi. Il passo dall'assolutismo teorico all'integralismo pratico è comunque piuttosto breve. Dal momento, però, che non riesce affatto facile convincere chi ha costumi diversi dell'assoluta validità di uno stile di vita differente, appare chiaro che l'assolutismo rende realmente molto difficile la convivenza civile, a meno di accettare un elevatissimo livello di coercizione, controllo e repressione. Non sorprende quindi che gli individui democratici si tengano lontano da questa concezione.
Tuttavia, siamo certi che la reale alternativa a questo poco attraente modo di ragionare e agire sia abbracciare il relativismo?  I relativisti, al fine di opporsi all'assolutismo morale, ritengono di dover rinunciare del tutto alla nozione di verità e questo significa gettare il bambino con l'acqua sporca. Sotto il profilo pratico, l'errore consiste più precisamente nel ritenere che affermare l'esistenza della verità implichi necessariamente il pensiero che questa debba essere imposta a tutti con le buone o con le cattive. È evidente a chiunque che questo è un non sequitur. Per la prospettiva morale, questo è già sufficiente per squalificare la presunta implicazione fra pluralismo e relativismo: l'esistenza della verità non è di per sé un buon motivo per imporla ad altri. In altri termini, il paternalismo moralistico non è affatto un'implicazione logica del realismo circa la verità. Vi è però nel relativismo, sostiene Marconi, anche un errore teorico, che risiede nella confusione che questo comporta fra verità e certezza e, soprattutto, fra verità e giustificazione. Gli argomenti in proposito sono convincenti, ma il problema del rapporto fra verità e giustificazione, sul piano etico-politico, appare più complesso che sul piano teorico e su questo tornerò nell'ultima parte di questo intervento.
Precisiamo però prima che cosa comporti in etica sostenere che vi sono principi «assoluti» o «assolutamente validi». Nell'ambito pratico, l'assolutezza di una regola d'azione significa che essa non è radicalmente relativa alle circostanze o all'agente, ma vale ceteris paribus per chiunque si trovi ad agire in condizioni simili. Per questo, l'assolutezza morale di una regola coincide con l'assenza di eccezioni. Questa ineccepibilità della regola va però intesa con attenzione: non si tratta, come si potrebbe affrettatamente ritenere, di stabilire che un certo comportamento debba essere seguito uniformemente da tutti gli agenti in ogni circostanza. Si tratta di riconoscere che la regola vale per tutti gli agenti in circostanze simili per gli aspetti rilevanti. Il comportamento concreto che realizza la regola può essere piuttosto diverso a seconda dei dettagli della situazione e, soprattutto, la differenza nelle circostanze può rendere la regola inapplicabile. Sostenere che mentire sia di principio sbagliato non comporta affatto ritenere che Aldo Moro avesse il dovere morale di rivelare alle Brigate Rosse i segreti di Stato di cui era a conoscenza. Il fatto che i suoi carcerieri avessero rapito lui e ferocemente ucciso gli uomini della sua scorta e che intendessero sovvertire l'ordine democratico lo autorizzava a non ritenere giustificata la loro richiesta di verità.
L'assolutezza dei principi morali è però intesa per lo più nel senso della loro universale validità: chiunque dovrebbe riconoscerli e applicarli. Ora, il dibattito sugli «assoluti morali» ha una lunga storia ed è da sempre molto vivace. Tuttavia, da un rapido sguardo a questo dibattito si evince con chiarezza che ritenere che vi siano principi morali che, almeno ad un certo livello, possono essere ritenuti come «assolutamente validi» non comporta che si sostenga l'assolutismo morale come è stato definito più sopra. Così come, dal fatto che si affermi l'esistenza della verità non segue che si condivida una posizione dogmatica. Infatti, anche se non si tratta precisamente della stessa cosa (su questo tornerò più avanti), possiamo dire che la validità di un principio morale corrisponde alla sua verità.
Va ricordato che la tesi per cui alcuni principi morali siano autoevidenti e perciò non solo veri ma addirittura certi non è affatto appannaggio di etiche a fondamento metafisico o religioso. Certamente, il tomismo nelle sue differenti versioni ha sempre sostenuto l'esistenza di «assoluti morali», ovvero di principi etici la cui verità, essendo fondata sulla legge naturale, non è soggetta a variazioni né in base alle circostanze storiche né in base alle opinioni dell'agente (fatta però salva l'importante eccezione della «coscienza invincibilmente erronea», cui lo stesso Tommaso d'Aquino riconosceva la priorità sul piano dell'onestà morale). Tuttavia, anche teorie morali non sospettabili di connivenze metafisiche hanno sostenuto la validità assoluta di qualche principio morale. Ad esempio, Jeremy Bentham e John Stuart Mill ritenevano in sostanza che la validità del principio di utilità fosse immediatamente evidente a chiunque riflettesse sulla natura umana. Inoltre, è noto che l'utilitarismo, almeno nella versione nota come «utilitarismo dell'atto», riconosce validità al solo principio di utilità e che quindi quest'ultimo ha un valore assoluto: non ammette eccezioni, risolve tutti i conflitti e tutte le altre regole morali derivano da esso.
Un'altra tradizione che ha avuto un'ampia influenza nel dibattito del Novecento, vale a dire l'intuizionismo normativo, ritiene che vi siano un certo numero di principi morali la cui validità sia autoevidente. Così George Edward Moore, William David Ross e gli autori che oggi propongono una riedizione dell'intuizionismo normativo (Philip Stratton-Lake, Robert Audi e altri) ritengono che vi siano alcuni principi morali che chiunque può riconoscere come veri perché autoevidenti. Vi sono più principi di questo tipo, perciò questa teoria morale, a differenza dell'utilitarismo, sostiene il pluralismo normativo . Vi è però in questa tradizione anche uno dei più influenti, ragionevoli e bistrattati tentativi di rendere conto della validità senza eccezione di una pluralità di principi generali senza tuttavia precludere la possibilità che nelle circostanze concrete un principio prevalga sull'altro, pur senza cancellarlo. Si tratta dell'idea di doveri prima facie, cioè di doveri (o principi) la cui validità è assoluta finché si applicano da soli a una certa situazione, ma che non godono di una priorità gerarchica sistematica su altri principi nelle situazioni concrete. Il dovere di veridicità mi impone prima facie di dire la verità, tuttavia se questo dovere entra in conflitto con il dovere prima facie di non fare del male (come può capitare con una verità detta alla persona sbagliata o nel modo sbagliato o nel momento sbagliato) non esiste una regola a priori per stabilire quale dei due doveri debba prevalere. Ciò dipende dalle circostanze e, dice Ross, dal giudizio che si può dare nella situazione. Da questa tesi deriva, oggi, la posizione di coloro che, come Jonathan Dancy (5), professano il particolarismo morale, ovvero la tesi per cui non esistono principi morali generali (qualcosa cui invece Ross credeva ancora), bensì soltanto giudizi particolari, dettati dalla situazione e dalle sue caratteristiche moralmente salienti. Ora, come ripetutamente afferma Dancy, il particolarismo non è una teoria etica relativistica. Infatti, anche se i giudizi morali validi sono diversi per ogni circostanza, la loro validità è secondo i particolaristi assolutamente oggettiva: non dipende dalle opinioni del soggetto che il suo giudizio particolare sia o non sia corretto, ma dai caratteri della situazione in se stessa. Un giudizio morale particolare, secondo questa tesi, può applicarsi solo alla situazione in questione ma la sua validità o verità è assoluta.
Tanto per i particolaristi quanto per Ross l'obiettivo non è di favorire il relativismo quanto di mettere in chiaro che le circostanze possono giustificare oggettivamente giudizi morali diversi. Considerato che per Ross l'idea di doveri prima facie doveva garantire questo risultato pur mantenendo l'assoluta validità generale di alcuni doveri (per esempio: non mentire, mantenere le promesse, mostrare gratitudine, non fare il male, agire con giustizia), appare strano che alcuni oggi si appellino all'idea di principi prima facie per sostenere una forma di «relativismo morale» che consiste soprattutto nella critica alla valenza «assoluta» dei principi in questione. È evidente che non di relativismo si tratta, bensì di un richiamo alla valenza soltanto generale di principi la cui validità si ritiene però assoluta, certa e autoevidente. L'obiettivo è qui piuttosto quello di riconoscere la complessità della vita etica e la necessità di esercitare un costante discernimento nel cercare di agire con giustizia e per il bene, senza affatto negare a queste nozioni una valenza universale.
Come si vede, dunque, il relativismo non è né l'approccio proprio di chi non intende fondare l'etica sulla metafisica né la strategia obbligata di chi vuole riconoscere la complessità della vita morale. Anzi, queste due prospettive sono compatibili con una tesi assolutista circa la verità di alcuni principi o giudizi morali (qualunque cosa si pensi di tali principi o del modo di metterli in relazione fra di loro).
Non è però necessario ricorrere all'assolutezza di principi morali determinati come quelli elencati da Ross per garantire l'esistenza di un criterio di validazione delle massime morali che sia sottratto all'arbitrio e alla completa relatività. Anzi, secondo una tradizione che risale almeno a Kant, si può rintracciare un criterio di validità assoluta del volere che ha una valenza esclusivamente formale, come il principio di non contraddizione in logica. Si tratta del il principio di non contraddizione del volere, che per Kant si formula come imperativo categorico. Esso garantisce che i principi morali che si fanno valere non dipendano dall'arbitrio degli agenti mentre, al tempo stesso, la sua formalità lascia ampio spazio a una varietà di contenuti determinati. Questa tradizione kantiana può essere interpretata in chiave proceduralista, quindi con una premessa antirealista, come notoriamente fa John Rawls in quello che lui e i suoi allievi chiamano «costruttivismo etico» . In questa prospettiva, il criterio di validità dei principi morali (o almeno dei principi di giustizia, stante la limitazione politica che Rawls assegna alla sua teoria) è la conformità del procedimento che li determina alla regola dell'equilibrio riflessivo fra giudizi ponderati e principi generali. I principi così stabiliti secondo Rawls sono assoluti per qualunque società i cui membri abbiano come scopo la convivenza cooperativa. La teoria (morale o esclusivamente politica qui non importa) che si basa su criteri procedurali e formali si presenta come oggettiva e capace di includere tutti gli agenti interessati, in forza del suo appellarsi a un criterio, quello dell'approvazione razionale dei principi medesimi, valido per qualunque agente razionale. Si tratta quindi, anche nel caso della più nota e influente versione contemporanea della teoria liberale, di una posizione non relativista.
È quindi chiaro che la questione del pluralismo, è trattata in questo dibattito in modo da includere già il rifiuto dell'assolutismo morale senza ricorrere a nessuna forma di relativismo. Il relativismo morale è una posizione estrema e sostenuta da ben pochi teorici della morale e della politica. Lo stesso Bernard Williams, non sostiene in realtà il relativismo, bensì sottolinea la difficoltà di confutare in via definitiva le obiezioni scettiche circa la commensurabilità delle teorie morali. La tesi di Williams è che, data una distanza spaziale o temporale molto grande fra tradizioni e gruppi morali diversi, può essere teoricamente impossibile tradurre i valori di un gruppo in quelli di un altro e quindi accedere al significato appropriato che quei valori hanno in quella tradizione. In mancanza di questa comprensione non è legittimo giudicare negativamente i costumi altrui o tentare di modificarli per ragioni morali. Questo è quello che Williams chiama «relativismo della distanza» . Questa distanza però si riduce quando i gruppi vengono a contatto ed è evidente che essa è proporzionale alla possibilità di tradurre la lingua di un gruppo nella lingua dell'altro: aumentando la comprensione reciproca aumenta la possibilità di riconoscere l'accordo e il disaccordo morale e conseguentemente di ricercare una mediazione. Finché sono possibili le traduzioni, sono possibili anche gli accordi morali e non si è ancora verificato il caso che una lingua risultasse assolutamente e completamente intraducibile in un'altra. Mi pare che questo, di per sé, costituisca un potente argomento contro il relativismo circa la verità non meno che circa la morale.
Tuttavia, vi è un aspetto per cui la questione della verità, in etica, è meno rilevante e drammatica di quanto siamo abituati a pensare. È infatti vero che i «drammatizzatori della verità», come li chiama Marconi, hanno spesso come punto di riferimento i conflitti sociali e politici causati dalla pretesa di verità delle morali. Questo però deriva da una distorsione pervicace e antica (la cui origine sospetto si trovi in Platone) circa il rapporto del bene e del giusto con la verità. Cerco di esprimere questa idea molto sinteticamente: quando si tratta di agire, noi non intendiamo rispecchiare uno stato di cose. Piuttosto, miriamo a realizzare uno stato di cose che ci sembra giusto o buono. Ora, il criterio di validità di questa azione non ci deriva dall'osservazione del mondo così com'è. Quest'ultimo è certamente segnato da una forte presenza di ciò che ci appare come male, imperfezione, negatività. Pur tenendo conto dei limiti reali del nostro agire (per non essere degli illusi o delle anime belle), ciò che chiamiamo a giustificazione delle nostre azioni deriva più dall'idea di ciò che ci sembra giustificato fare che dall'idea di ciò che è vero. È vero che gli uomini sono spesso crudeli e per lo più poco virtuosi, ma questo non ci sembra una ragione che giustifichi la crudeltà e il vizio (tranne che per il poco nobile argomento per cui «così fan tutti»).
Inoltre, quando si discute di questioni morali raramente si accusa l'altro di sostenere una tesi falsa (se non su dati di fatto che si citano a sostegno della propria tesi morale): più spesso si dice che ciò l'altro intende fare è ingiusto o inaccettabile (nel senso che nessun agente potrebbe accettare quel comportamento). La «verità pratica», ammesso che - con Aristotele - si ritenga di poter dare un senso a questa espressione, non consiste nella descrizione di fatti, bensì nell'intenzione di realizzare un bene nei fatti. Ora, questa direzione di adeguazione della verità pratica (mondo-a-mente e non mente-a-mondo, come ricordava Elisabeth Anscombe) ci dice che il criterio di validità di cui possiamo disporre nell'ambito dell'agire sta più nella capacità di giustificare le nostre scelte che nella verità dei nostri enunciati. Possiamo non sapere quale sia la verità ultima sul bene e sul male, ma poiché dobbiamo agire avremo agito giustamente nella misura in cui avremo saputo basare la nostra decisione su buone ragioni, cioè ragioni in grado di giustificare le nostre azioni di fronte a qualunque agente razionale. Questo può non coincidere con la verità morale assoluta in merito al da farsi in quella circostanza, ma è tutto ciò che possiamo fare per agire in modo sensato. È vero che questo presuppone l'esistenza di una verità pratica e la sua distinzione dalla giustificazione, ma in termini pratici questa differenza autorizza solo non a imporre una verità morale a tutti bensì a richiedere adeguate giustificazioni per una presunta verità morale cui qualcuno si appella per i propri comportamenti. In assenza di una giustificazione comprensibile e tale da generare accordo fra gli agenti ragionevoli, si è autorizzati a pensare che la presunta verità morale non debba necessariamente essere seguita da tutti. Anzi, qualora quella presunta verità morale comporti la violazione di un'altra presunta verità morale sulle cui ragioni giustificative vi è un accordo fra agenti ragionevoli, non è ingiustificato vietarne o limitarne significativamente l'accettabilità. Per esempio, la pratica dell'infibulazione si basa su ragioni (la sottomissione della donna all'uomo e la convinzione che questa passi attraverso l'escissione degli organi sessuali) che violano ragioni morali ampiamente condivise (l'eguale dignità morale di uomini e donne, il diritto all'integrità fisica) che hanno mostrato di reggere a numerose critiche. Si può discutere sul fatto che quest'ultime siano ragioni indubitabilmente vere, ma si può concordare sul fatto che si tratti di ragioni in grado di giustificare il rifiuto di tale pratica.
In altri termini, sul piano dell'etica, e in particolare dell'etica pubblica, un criterio di accettazione delle posizioni morali individuali può essere quello per cui le posizioni ragionevoli, cioè giustificate2 nella terminologia di Marconi, sono accettabili anche se possono non essere vere. Questo livello di giustificazione può essere sufficiente per prendere una (fallibile) decisione morale e politica. La giustificazione come possibilità che una ragione sia «derivata in modo convincente da premesse plausibili»  è tutto ciò che si può esigere in una discussione morale. Non si può invece esigere che il senso di giustificazione necessario per accedere al dibattito pubblico sia la nozione di giustificazione3, cioè l'identità assoluta e sistematica di giustificato e vero, dal momento che questa nozione presuppone l'accessibilità universale di criteri assoluti di verità che non appaiono egualmente disponibili a tutti gli agenti. Perciò, anche se è plausibile ritenere che ogni concetto di giustificazione sia tributario del concetto di verità , ragion per cui non si può fare a meno di quest'ultimo, non è l'assoluta verità delle opinioni che si richiede in etica e politica, bensì la giustificatezza almeno nell'accezione di giustificato2, ovvero nell'accezione suggerita da Williams per cui c'è ragione di pensare che sia vera. Va da sé, per altro, che la certezza soggettiva di queste opinioni non costituisce da sola una prova della loro ragionevolezza. E che la loro incertezza oggettiva non costituisce una ragione sufficiente per assumere una posizione scettica. La fiducia che questa giustificatezza, che possiamo chiamare morale e politica, non sia un'illusione riposa sull'intuizione realista circa la verità, anche se non si pone sullo stesso livello di quest'ultima.
ELEMENTI DI BIOETICA
Etica medica – processo di Norimberga 1945/46
Bioetica – parola coniata dall’oncologo Potter nel 1970
Bioetica – 1978 viene definita come una metodologia multidisciplinare che studia la vita e la salute alla luce dei valori morali
1997 – pecora Dolly – primo mammifero clonato
Cognitivisti – i giudizi morali si fondano su basi oggettive e razionali
Non cognitivisti – le norme morali danno luogo a giudizi prescrittivi non dimostrabili
( alla base c’è la teoria di Hume della divisione fra fatti naturali e morali
Modello sociologico-naturalistico
Propone un’etica descrittiva, non è possibile stabilire un sistema di valori universali
Modello soggettivista – liberal radicale
Nasce con la Rivoluzione francese – alla base della morale può esserci soltanto una scelta soggettiva, l’unico limite è posto dal non invadere la sfera della libertà altrui.
Modello pragmatico – utilitarista
Soggettivismo della maggioranza
Piacevole – spiacevole
Costi – benefici
1 – massimizzare il piacere
2 – minimizzare il dolore
3 – ampliare la sfera delle libertà personali
Modello personalista
Si basa sul concetto di persona – uomo
Sacralità della vita
ETICA E TECNOLOGIA
a)          L’etica cristiana. È un’etica che si limita a considerare la correttezza della coscienza e la sua buona intenzione, per cui se le mie azioni hanno conseguenze disastrose, se non avevo coscienza o intenzione, non ho fatto nulla che mi sia moralmente imputabile. Esattamente come capitò un giorno a coloro che hanno messo in croce Gesù Cristo e che da Lui sono stati perdonati: «Perché non sanno quello che fanno» (Luca, 23, 24). È evidente che, anche se su questa etica è stato costruito l’ordine giuridico europeo che distingue, per esempio, tra un delitto intenzionale, non intenzionale, preterintenzionale, in un mondo dove agiscono le tecno-scienze, una morale di questo genere, che guarda solo alle intenzioni e non agli effetti delle azioni, è improponibile, perché, nell’età della tecnica, gli effetti potrebbero essere catastrofici e in molti casi addirittura irreversibili.
b) L’etica laica. Dopo aver messo sullo sfondo Dio, Kant formulò quel principio secondo cui: «L’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo». È questo un principio che ancora attende di essere attuato, se è vero che oggi le merci e i beni hanno una possibilità di circolazione ben superiore a quella degli uomini, e gli uomini sono accolti nei vari paesi solo se produttori di servizi, di beni e di merci. Ma anche se così non fosse e ogni uomo davvero fosse trattato come un fine, nelle società complesse e tecnologicamente avanzate questo principio già rivela tutta la sua insufficienza. Davvero nell’età della tecnica, a eccezione dell’uomo da trattare sempre come un fine, tutti gli enti di natura sono da considerare un semplice mezzo che noi possiamo utilizzare a piacimento? E qui il pensiero va alle piante, agli animali, alle foreste, all’aria, all’acqua, all’atmosfera. Non sono questi, nell’età della tecnica, altrettanti fini da salvaguardare, e non semplici mezzi da usare e da usurare? Sia l’etica cristiana sia l’etica laica sembra che si siano
limitate a regolare i rapporti tra gli uomini, senza mettere a disposizione alcuno strumento, né teorico né pratico, per farci assumere una qualche responsabilità nei confronti degli enti di natura, su cui oggi intervengono, per esempio, la fisica nucleare, la genetica e le biotecnologie.
c) L’etica della responsabilità. È stata formulata all’inizio del nostro secolo da Max Weber e recentemente
riproposta da Hans Jonas. Secondo Weber chi agisce non può ritenersi responsabile solo delle sue intenzioni, ma anche delle conseguenze delle sue azioni. Se non che, subito dopo, Weber aggiunge opportunamente: «Fin dove le conseguenze sono prevedibili». Quest’ultima considerazione, peraltro corretta, relativa alla prevedibilità, ci riporta a capo della questione, perché è proprio della fisica nucleare, della genetica e delle biotecnologie avviare ricerche e promuovere azioni i cui esiti finali non sono prevedibili. E di fronte all’imprevedibilità non c’è responsabilità che tenga.
Lo scenario dell’imprevedibile, dischiuso dalla tecno-scienza, non è infatti imputabile, come nell’antichità, a un difetto di conoscenza dei fenomeni naturali, ma a un eccesso del nostro potere di fare enormemente maggiore al nostro potere di prevedere e quindi di valutare e giudicare. L’imprevedibilità delle conseguenze che possono scaturire dai processi nucleari o biotecnologici rende quindi non solo l’etica dell’intenzione (il cristianesimo e Kant) ma anche l’etica della responsabilità (Weber e Jonas) assolutamente inefficaci, perché la loro capacità di ordinamento è enormemente inferiore all’ordine di grandezza di ciò che si vorrebbe ordinare.
L’etica del viandante
Oggi che la tecnica non ci consente di pensare la storia iscritta in un fine, l’unica etica possibile è quella che si fa carico della pura processualità, che, come il percorso del viandante, non ha in vista una meta. L’imperativo etico non può essere dedotto da una normatività ideale, come è sempre stato dai tempi di Platone alle soglie dell’età della tecnica, ma da quella incessante e sempre rinnovantesi  fattualità che sono gli effetti del fare tecnico.
Non più il «dovere» che prescrive il «fare», ma il «dovere» che deve inseguire e fare i conti con gli effetti già prodotti dal «fare». Ancora una volta è l’etica a dover rincorrere la tecnica, e a doversi confrontare con la propria impotenza prescrittiva. Il fatto che la tecnica non sia ancora totalitaria, il fatto che quattro quinti dell’umanità viva di prodotti tecnici, ma non ancora di mentalità tecnica, non deve confortarci, perché il passo decisivo verso l’«assoluto tecnico», verso la «macchina mondiale» l’abbiamo già fatto, anche se la nostra condizione psicologica non ha ancora interiorizzato questo fatto, quindi non ne è all’altezza.
Quel che è certo è che l’universo tecnico, cancellando ogni meta e quindi ogni visualizzazione del mondo a partire da un senso ultimo, non sta al gioco della stabilità e delle definitività, e perciò libera il mondo come assoluta e continua novità, perché non c’è evento già iscritto in una trama di sensatezza che ne pregiudichi l’immotivato accadere.
Dal disincanto del mondo e dall’instabilità di tutti quanti i princìpi che prima lo definivano, nasce un paesaggio insolito, simile allo spaesamento, in cui si annuncia una libertà diversa, non più quella del sovrano che domina il suo regno, ma quella del viandante che al limite non domina neppure la sua via.
Gli anni che stiamo vivendo hanno visto, infatti, lo sfaldarsi di un dominio, e insieme hanno accennato a quel processo migratorio che confonderà i confini dei territori su cui si orientava la nostra geografia.
Usi e costumi si contaminano e, se «etica» vuol dire «costume», è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche, fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine, a favore di un’etica che, dissolvendo recinti e certezze, va configurandosi come «etica del viandante» che non si appella al diritto, ma all’esperienza.
Infatti, a differenza dell’uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante non può vivere senza elaborare la diversità dell’esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava nel «cielo stellato» e nella «legge morale», che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la sua vita in tensione. Senza meta e senza punti di partenza e di arrivo, che non siano punti occasionali, il viandante, con la sua etica, può essere il punto di riferimento dell’umanità a venire, se appena la storia accelera i processi di recente avviati, che sono nel segno della de-territorializzazione.
Fine dell’uomo giuridico a cui la legge fornisce gli argini della sua intrinseca debolezza, e nascita dell’uomo sempre meno soggetto alle leggi del paese e sempre più costretto a fare appello ai valori che trascendono la garanzia del legalismo. Il prossimo, sempre meno specchio di me e sempre più «altro», obbligherà tutti a fare i conti con la differenza, come un giorno, ormai lontano nel tempo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la proprietà.
La diversità sarà il terreno sui cui far crescere le decisioni etiche, mentre le leggi del territorio si attorciglieranno come i rami secchi di un albero inaridito. Fine del legalismo e quindi dell’uomo come l’abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della proprietà, del confine e della legge, e nascita dell’uomo più difficile da collocare, perché viandante inarrestabile, in uno spazio che non è garantito neppure dall’aristotelico «cielo delle stelle fisse», perché anche questo cielo è tramontato per noi.
Diventa allora quanto mai indispensabile una ripresa della virtù antica che invitava l’uomo a non oltrepassare il limite.
Certo ai Greci non possiamo tornare, ma l’invito che essi rivolgevano all’uomo di dare una misura a se stesso (katàmétron) oggi diventa non solo attuale, ma addirittura urgente.
Si tratta di una misura che non va cercata nei princìpi formulati quando la natura era immodificabile, ma in
quell’indicazione aristotelica che, in assenza di princìpi generali, consente di prendere decisioni esaminando caso per caso. Aristotele chiama questa capacità phrónesis, che noi siamo soliti tradurre con «saggezza», «prudenza», e la eleva a principio regolativo della prassi dove:
Non si ha a che fare con ciò che accade sempre (aei), come nella matematica o nella geometria, ma con ciò che accade per lo più (hos epí tò polú), con ciò che fa la sua comparsa di volta in volta, in modo imprevisto e in tutti quei casi in cui non è chiaro come andranno a finire le cose, e quelli in cui la conclusione è del tutto indeterminata.
Una sorta di etica del «viandante » che, non disponendo di mappe, affronta le difficoltà del percorso per come di volta in volta esse si presentano e con i mezzi al momento a sua disposizione.
Questo è il nostro limite, e in questo limite dobbiamo decidere. Per quanto drammatica possa sembrare la scelta, non dimentichiamo che la decisione etica è una decisione che fonda, senza possedere altro fondamento al di fuori di sé. In questo senso è evento assoluto e quindi realtà tragica. Non è l’assoluto pacificato dell’idea, ma l’assoluto della scelta in ordine agli eventi che si presentano. In caso diverso
sarebbe inutile la discussione tra gli uomini, sarebbe sufficiente la deduzione dai princìpi.
L’etica del viandante avvia a questi pensieri. Sono pensieri ancora tutti da pensare. Ma il paesaggio da essi
dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria e inconsaputa dimora.
MODERNITA’ – POSTMODERNITA’ – MORALE
Max Weber
Weber rifiuta l’assolutismo etico e si muove all’interno di una filosofia
dei valori i cui presupposti sono la distinzione tra essere e dover
essere e il riconoscimento di una pluralità di sfere dei valori.
Il politeismo dei valori si declina nell’etica sotto forma del dualismo
tra l’etica dei principi, anche detta etica delle intenzioni o delle
convinzioni, e l’etica della responsabilità.
«Ogni agire in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente
diverse e inconciliabilmente opposte, può essere cioè orientato
secondo l’etica dell’intenzione oppure secondo l’etica della
responsabilità. Non che l’etica dell’intenzione coincida con la mancanza
di responsabilità, e l’etica della responsabilità coincida con la
mancanza di buone intenzioni. Non si vuol certo dire questo. Ma
c’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima
dell’etica dell’intenzione, la quale – in termini religiosi – suona: “Il
cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio” e agire
secondo la massima dell'etica della responsabilità, secondo la quale
bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie
azioni».WEBER
«Lo Stato moderno… si sforzò di conquistare un rigido controllo
di tutti quegli aspetti della vita umana che i poteri del passato avevano
lasciato alla discrezione delle comunità locali. Reclamò il diritto
di interferire – e studiò i mezzi per farlo – in aree dalle quali i poteri passati, per quanto oppressivi e sfruttatori, si tenevano alla larga.
In particolare si adoperò per smantellare les pouvoirs intermédiaires,
vale a dire tutte le forme di autonomia locale, autoaffermazione
comunitaria e autogoverno.»BAUMAN
Nella prospettiva postmoderna, i fondamentali contrassegni della
condizione morale sono:
1. L’affermazione dell’ambivalenza morale degli uomini. Non sono
corrette né l’idea della bontà intrinseca dell’uomo, né quella della
sua insuperabile malvagità. Ne consegue che la condotta morale
non può essere garantita né da una migliore progettazione dei
contesti per l’agire umano, né da una migliore formulazione dei
suoi motivi; occorre imparare a vivere in un quadro di frammentazione,
flessibilità e precarietà.
2. L’idea che i fenomeni morali siano intrinsecamente non razionali.
La postmodernità concepisce i fenomeni morali come non prevedibili
e non esauribili in un codice etico. L’etica moderna aveva
seguito essenzialmente il modello della legge: si prefiggeva di offrire
definizioni esaurienti, senza zone grigie di molteplice interpretazione;
essa agiva in base al presupposto che in ogni situazione
di vita esiste una sola scelta positiva che si separa
nettamente dalle opzioni cattive. Per la postmodernità, invece,
questo quadro ignora ciò che è propriamente morale: sposta i fenomeni
morali dalla sfera dell’autonomia personale
all’eteronomia, sostituisce la conoscenza delle regole all’io morale,
costituito dalla responsabilità. La morale, per la sensibilità postmoderna
è destinata a restare irrazionale. L’autonomia dell’io
morale è vista, dalla tradizione moderna, come un pericolo dal
punto di vita del controllo sociale; gli impulsi morali sono certamente
colti anche nei loro aspetti positivi ma devono essere controllati,
anche se non banditi. La gestione sociale della morale è
un’operazione complessa che produce spesso più ambivalenza
di quanta non riesca ad eliminare. La realtà umana è, dunque,
ambigua e le decisioni morali sarebbero, diversamente dai principi
etici astratti.
3. L’idea che la morale è essenzialmente aporetica. La maggior
parte delle scelte morali è compiuta tra impulsi contraddittori; l’io
morale si muove, sente e agisce nel contesto dell’ambivalenza ed
è lacerato dall’incertezza, una situazione morale priva di ambiguità
esiste unicamente come utopia, come stimolo.
4. L’idea che la morale non è universalizzabile, cioè che l’etica non
possa esprimere principi e norme valide per ogni luogo, o cultura,
o popolo, o situazione.
5. L’idea che i fenomeni morali, nella prospettiva postmoderna, non
comportano necessariamente un relativismo morale a causa della
possibile implicazione piena dell’umanità dell’uomo nel fatto
morale. In altre parole, il serio coinvolgimento del singolo nella situazione
morale costituisce una garanzia, anche se parziale, della serietà della soluzione che non è più assicurata da un codice
eteronomo che la precede.
«...essere morali significa sapere che le cose possono essere buone
o cattive. Ma non significa sapere, né tanto meno sapere per
certo, quali cose siano buone e quali cattive. Essere morali significa
essere destinati a fare delle scelte in condizioni di profonda e
dolorosa incertezza.»BAUMAN
«... un’azione, per essere detta
“morale”, non deve ridursi a un atto o ad una serie di atti conformi a una regola, a
una legge, o a un valore. Ogni azione morale –è vero– implica un rapporto con la
realtà nella quale si effettua, e un rapporto con il codice cui si riferisce; ma implica
un certo rapporto con se stesso: il che non significa soltanto “coscienza di sé”, ma
costituzione di sé come “soggetto morale”, in cui l’individuo circoscrive la parte di se
stesso che costituisce l’oggetto di quella pratica morale, definisce la sua posizione
in rapporto al precetto che segue, si prefigge un certo modo di essere che gli servirà
come compimento morale di se stesso; e, per far questo, agisce su se stesso,
comincia a conoscersi, si controlla, si mette alla prova, si perfeziona, si trasforma.
Non c’è azione morale specifica che non si riferisca all’unità di una condotta morale;
non c’è condotta morale che non chiami in causa la costituzione di se stesso come
soggetto morale.» FOUCAULT
«Nietzsche, infatti, concepisce l’uomo moderno e il suo tempo
come una fine, la fine del movimento morale e spirituale di più di
duemila anni, la fine della metafisica e del cristianesimo, la fine di
ogni giudizio di valore… Per Nietzsche l’epoca finisce perché non
crede più in ciò che l’aveva promossa e per secoli animata.»GALIMBERTI
«Poiché la nozione di verità non sussiste più, e il fondamento
non funziona più, dato che non è alcun fondamento per credere al
fondamento, e cioè al fatto che il pensiero debba “fondare”, dalla
modernità non si uscirà mediante un superamento critico, che sarebbe
un passo ancora tutto interno alla modernità stessa... E’
questo il momento che si può chiamare la nascita della postmodernità
in filosofia.»VATTIMO
Il principio religioso.
Difficilmente il principio religioso può essere
considerato atto a fondare un’etica; questa, infatti, nella sua essenza,
non è religiosa perché si ordina secondo ragione. Il fondamento
dell’etica non dovrebbe dunque essere religioso.
Il principio della forza affermativa.
Tale principio designa una fonte
di potenza, una facoltà attiva, dinamica, creatrice,
un’affermazione della vita. Abbiamo qui la sensibilità etica di Spinoza.
La forza vitale ed il desiderio producono la gioia, un sentimento
sostanziale e attivo. Nietzsche parla della volontà di potenza
come di una facoltà creatrice capace di riempire l’anima e
di colmarne il vuoto.
Il principio di realtà.
La coscienza che il desiderio e la gioia sono
sempre in pericolo e contigui al dolore ed alla precarietà tende a
estirpare ogni ingenua credenza nella felicità. Qui interviene quello
che chiameremo il principio di realtà, fondato su ciò che esiste
effettivamente, sulle condizioni stesse della vita e dell’esistenza.
Occorre capire il reale ed accettarlo. Arthur Schopenhauer (1788-
1860) è stato il maestro di questo realismo.
Il principio di responsabilità.
Sentire responsabilità significa rispondere
dei propri atti. E’ un principio che governa l’etica classica
e che si ritrova oggi trasformato, esso, infatti, non riguarda più
soltanto il presente o il futuro immediato ma, soprattutto con Jonas,
si estende e si radica in un futuro lontano.
Il principio di libertà.
Nella sensibilità contemporanea non si enfatizza
la libertà metafisica, ma quella del poter agire, di esprimersi
liberamente, di godere dei propri beni sotto la protezione delle
leggi e senza subire costrizioni altrui.
Il principio di differenza.
Consiste nell’idea secondo cui è necessario
accettare le disuguaglianze sociali ed economiche a condizione
che esse siano regolate a beneficio dei più svantaggiati e
che assicurino a questi una condizione di vita soddisfacente; le
disuguaglianze saranno distribuite nell’interesse di ognuno.
Il principio della coltivazione estetica del sé.
E’ un’eredità dell'antica
civiltà ellenica che ispirava la morale greca, che faceva coincidere
etica ed estetica. In questo quadro la bella forma è promessa
di moralità, il bello annuncia il buono. L’idea di applicare i
valori estetici alla vita, pressoché assente nel Medio Evo, si ritrova
nel Rinascimento da cui parte una linea che si protrae, espandendosi,
fino a oggi. Foucault  pone il principio della
coltivazione estetica di sé come uno dei fondamenti dell’etica postmoderna.
I principi dell’autodeterminazione e del rispetto per la vita.
Sono i fondamenti della moderna bioetica che devono forzatamente trovare
nuove formulazioni linguistiche e di merito di fronte alle acquisizioni
della scienza applicata alla vita umana.
Il principio dell’attività comunicativa.
Grazie soprattutto a Habermas, troviamo un principio, basato sul concetto di comunicazione.
Secondo diversi studiosi,la stessa parabola storica dell’umanità può essere suddivisa in
fasi corrispondenti ai principali mezzi comunicativi.
LEVINAS
«Il povero, lo straniero si presenta come eguale… La sua uguaglianza
in questa povertà essenziale consiste nel riferirsi al terzo.
Così presente all’incontro e che, nella sua miseria, è già servito da
Altri… Egli si unisce a me… Ogni relazione sociale, al pari di una
derivata, risale alla presentazione dell’Altro al Medesimo, senza
nessuna mediazione di immagini o di segni… Il fatto che gli uomini
siano fratelli non è spiegato dalla loro somiglianza, né da una causa
comune di cui sarebbero l’effetto come succede per le medaglie
che rinviano allo stesso conio che le ha battute… La paternità non
si riconduce ad una causalità cui gli individui parteciperebbero misteriosamente
e che determinerebbe, in base ad un effetto non
meno misterioso, un fenomeno di solidarietà… Il fatto originario
della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un
volto che mi guarda come assolutamente estraneo. E l’epifania del
volto coincide con questi due momenti. O l’uguaglianza si produce
laddove l’Altro comanda il Medesimo e gli si rivela nella responsabilità,
o l’uguaglianza non è che un’idea astratta e una parola.»
JONAS
«la comunità umana si trova a dover fronteggiare una situazione in
cui il potenziale distruttivo equivaleva alle possibilità di raggiungere
nuovi livelli di creatività e di dignità umana. La strada da seguire
sarebbe stata decisa dalle generazioni a venire. In ultima analisi, la
scelta non sarebbe stata determinata né dall’intervento divino, né
dalle forze arbitrarie della natura. E quella decisione avrebbe avuto
un effetto duraturo, ben al di là dell’arco di vita di coloro che erano
destinati ad assumerla. In effetti avrebbe determinato quali forme di
vita avrebbero continuato a sopravvivere.»PAWLIKOWSKI
«Prima sia il sapere, sia il potere erano troppo limitati perché si
includesse nelle previsioni anche il futuro più lontano e nella coscienza della propria causalità tutta la terra. Solo la tecnica moderna
con la ricchezza senza confronti delle sue imprese apre questi
orizzonti nello spazio e nel tempo.»JONAS
«Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano
compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra...
Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano
la possibilità futura di tale vita... Non mettere in pericolo
le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra...
Includi nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come
oggetto della tua volontà.»JONAS
«...Jonas offre tuttavia un’interpretazione troppo cauta del ruolo e
della funzione della responsabilità. Per lui ogni intervento di qualche
magnitudine sulla società e sulla natura è pericoloso e destabilizzante...
Facendo prevalere la paura e minimizzando i rischi, Jonas
invita al contrario a inibire la propensione al possibile, in
quanto fondata, a suo avviso, su pretese esorbitanti e su desideri
immodesti.»BODEI
FOUCAULT
«l’uomo è allora un insieme di strutture, che egli è, certo, in grado
di pensare e di descrivere, ma di cui non è il soggetto sovrano. Di
conseguenza, anche la morale viene svincolata dall’uomo e ridotta
alla politica, che a sua volta riesce a determinare il funzionamento
ottimale della società senza avere bisogno di richiamarsi all’uomo,
essendole sufficiente il riferirsi a determinati rapporti che legano fra
loro l’aumento della popolazione, il consumo, la libertà individuale e
la possibilità della felicità per tutti.»FOUCAULT
RAWLS
Due sono i principi di giustizia cui attenersi:
1. il primo esige una pari attribuzione dei diritti e dei doveri di base;
ogni persona ha lo stesso diritto di godere delle libertà fondamentali;
2. il secondo riconosce che le disuguaglianze socio-economiche
sono giuste se producono dei vantaggi per ciascuno e, in particolare,
se favoriscono gli individui meno fortunati.
Tra tali principi esiste un ordine gerarchico, il primo prevale sul
secondo: non si può barattare la libertà con miglioramenti materiali.
ARENDT
«…la politica, liberata dalla tirannia della filosofia e della teoria, non
sarebbe più una necessità di ordine negativo, ma la risposta umana
più elevata al fatto che “non l’Uomo, ma gli uomini” al plurale
nascono, vivono, abitano il mondo e muoiono. Natalità e mortalità
costituirebbero, allora, la duplice fonte dell’azione politica»,
e ancora:
«Il fatto decisivo che determina l’uomo come essere consapevolmente
rammemorante è la nascita o natalità, il fatto che siamo entrati
nel mondo attraverso la nascita; mentre il fatto decisivo che
determina l’uomo come essere deliberante è la morte o mortalità, il
fatto che abbandoneremo il mondo con la morte…»
Per la Arendt,Il modello per eccellenza è quello della polis greca, in cui lo spazio
pubblico è occupato dalla parola, che rappresenta lo stare insieme;
per i greci, la famiglia costituiva lo spazio privato, dominato dalla
necessità, mentre la polis costituiva quello pubblico, dominio della
libertà.
Nella modernità l’uomo laborans ha soppiantato l’homo faber, facendo
dell’attività lavorativa continua e ripetuta l’espressione massima
del suo essere.
MOLTMANN
«...se Il fine del progresso e della globalizzazione del potere umano
non consiste nel dominare e possedere la terra bensì nell’abitarla,
dovremo abbandonare il “complesso di Dio” tipico dell’uomo moderno,
occidentale, convinto… di essere padrone e possessore
della natura, La terra può vivere senza il genere umano, come del
resto è vissuta per milioni di anni. L’umanità, invece, non può esistere
senza la terra, da cui essa proviene.»
«Soltanto gli stranieri saccheggiano la natura, disboscano le foreste,
svuotano i mari e poi, come nomadi, trasmigrano altrove. Chi
invece abita sul posto, dove intende continuare a starci, è interessato
a conservare le stesse condizioni di vita e a non compromettere
la vitalità della natura che lo circonda. Egli risponderà ad ogni attacco
sferrato contro la natura e farà di tutto per ristabilire gli
equilibri compromessi… Il potenziale scientifico e tecnologico di cui
l’umanità dispone e che attende di essere sviluppato non va impiegato
nella lotta distruttiva per l’acquisizione di potere, ma per rendere
sempre più abitabile questo nostro pianeta.»
RIFLESSIONI ETICHE
«La metafisica non ci lascia completamente orfani: la sua dissoluzione
(se si vuole, la morte di Dio di cui parlava Nietzsche) si mostra
come un processo dotato di una propria logica a cui si possono
attingere anche elementi per una ricostruzione. (Sto parlando di
ciò che Nietzsche chiamava nichilismo: che non è solo il nichilismo
della dissoluzione di tutti i principi e valori, ma è anche, come nichilismo
“attivo”, la chance di iniziare una storia diversa).»VATTIMO
«Il sentimento morale non ha la sua sede nella ragione, non ci
arriva dal cielo inviato da chissà chi, non c’è bisogno di riferirlo ad
un Dio come non è necessario un diavolo per spiegare l’amore di
sé. Si tratta in entrambi i casi di un istinto, istinto potentissimo che
è quello di sopravvivere.»SCALFARI
«Il progresso è concepito come un’immensa marea il cui flusso
ineluttabile lascia indietro vestigia commoventi... Tutto in questa ipotesi
viene a confermare l’ingenua speranza dell’uomo bianco. Il
negro è un “grande bambino”, ricordo dei balbettii dell’umanità; il
rosso è anch’egli un bimbo avido di ‘acqua di fuoco’, di cianfrusaglie
e di lunghe carabine; il giallo è un vecchio addormentato
dall’oppio, perduto nei sogni del passato.»SERVIER
«...lo scopo della globalizzazione, economicamente e culturalmente,
è la replicazione di se stessa… L’antropologia implicita era che
l’essere umano era al servizio della globalizzazione come produttore
e consumatore; gli esseri umani dovevano alimentare il motore
della mostruosa macchina della globalizzazione.»SCHREITER
«“Sono pronto a morire per l’Altro” è un’affermazione morale.
“Lui dovrebbe essere pronto a morire per me” palesemente non lo
è... La disponibilità al sacrificio per il bene dell’altro mi investe di
una responsabilità che è morale precisamente perché accetto che
il comando di compiere un sacrificio sia diretto a me e a me soltanto...
Essere una persona morale significa che io sono il custode di
mio fratello… sia che mio fratello abbia o no la consapevolezza dei
suoi doveri fraterni così come l’ho io.»BAUMAN
«Ciò che è accarezzato non è semplicemente toccato. La carezza
non ricerca la vellutatezza o la tiepidezza nel contatto con
una certa mano. E’ questa ricerca della carezza che ne costituisce
l’essenza, per il fatto che la carezza non sa quello che cerca. Questo
non sapere, questo disordine fondamentale ne è l’essenziale…
La carezza è l’attesa di questo avvenire puro senza contenuto.»LEVINAS
«La tenerezza rifiuta sia il narcisismo (che riduce a sé l’alterità)
sia la violenza (che distrugge il sé dell’alterità); essa dà senso umano
al desiderio e orienta all’incontro con l’altro/a, come dono, distanza,
trascendenza… La sessualità appartiene infatti all’essere
relazionale della persona; come tale, essa manifesta un’insopprimibile
richiamo all’altro da sé e, in ultima analisi, all’Infinito».ROCCHETTA
«Noi non possiamo obbligarci ad amare qualcuno... La nostra
ragione, invece, è capace di concepire, come necessario, il dovere.
Se manca la spontaneità dello slancio d’amore, la morale resta ancora possibile, perché c’è il dovere. Il dovere subentra, per così dire,
al vuoto lasciato dall’amore... Poiché non posso contare
sull’amore, che è un sentimento spontaneo, prenderò il suo equivalente
volontario, ciò che ha le stesse conseguenze pratiche. La morale
ci impone di agire come se amassimo. Il dovere è un “come
se” dell’amore.»ALBERONI-VECA
«L’amore punta sempre all’irrevocabilità, ma nel momento del
trionfo subisce la sua sconfitta definitiva. L’amore si sforza costantemente
di eliminare la proprie fonti di precarietà e apprensione,
ma qualora ci riesca inizia rapidamente ad avvizzire, e svanisce…
Fusione o sopraffazione appaiono le uniche cure per il tormento
che ne consegue. E non c’è che un tenue confine, fin troppo facile
da dimenticare, tra una morbida e gentile carezza e una morsa
d’acciaio inesorabile. Eros non può essere fedele a se stesso senza
dispensare l’una, ma non può farlo senza rischiare di infliggere
l’altra. Eros tende una mano verso l’altra, ma la stessa mano che
accarezza può anche stringere e stritolare… Finché dura, l’amore è
in bilico sull’orlo della sconfitta.»BAUMAN
«I suoi intenti sono modesti… Chiedi di meno, ti accontenti di
meno, e quindi l’ipoteca da pagare è minore e anche la sua durata
atterrisce di meno… La convivenza è a causa di, non al fine di…
Convivere può significare condividere la barca, il desco e le cuccette.
Può significare navigare insieme e condividere le gioie e le fatiche
del viaggio. Ma non comporta il passaggio da una sponda
all’altra.»BAUMAN
«L’estraneità degli stranieri significa esattamente la nostra sensazione
di smarrimento, il non sapere che cosa fare e che cosa aspettarci,
e la conseguente non disponibilità ad impegnarci. Evitare
il contatto è la sola salvezza, ma anche evitarlo completamente, se
ciò fosse possibile, non ci salverebbe da un certo grado di ansia e
di disagio provocati da una situazione che presenta sempre il pericolo
di passi falsi ed errori gravidi di conseguenze.»BAUMAN
«La tecnologia non avanza mai in direzione di qualcosa se non
perché viene spinta da dietro. I tecnici non conoscono il motivo per
cui lavorano, e generalmente non se ne preoccupano. Essi lavorano
perché dispongono degli strumenti che consentono loro di eseguire
un certo compito, di condurre a termine con successo una
nuova operazione... Non c’è alcuna aspirazione a uno scopo; c’è la
spinta di un motore collocato alle proprie spalle e che non ammette
alcuna sosta delle macchine... Dato che possiamo sbarcare sulla
luna, che cosa potremo fare lì e a quale scopo?... Quando i tecnici
hanno raggiunto un certo livello di competenza nel settore delle
comunicazioni, dell’energia, dei materiali, dell’elettronica, della cibernetica,
ecc., tutti questi elementi si sono combinati e hanno mostrato
che avremmo potuto esplorare il cosmo ecc. Ciò è stato fatto
perché poteva essere fatto. E questo è tutto.»ELLUL
«...la nostra epoca ha visto così l’anima umana rimanere come paralizzata,
e mancarle le forze successivamente in tre campi. Il primo
è stato quello della tecnica. Inventata per servire all’uomo che
lavora, è finita per asservirlo. Le macchine non sono più, come
l’utensile, un prolungamento del braccio umano: l’uomo è diventato
un prolungamento di quelle, un’articolazione meccanica periferica
che apporta e porta via.»BUBER
«… la vera novità è che un numero sempre crescente di persone,
per un motivo o per l’altro, vive una vita nomade. Ci sono, ad esempio,
i nuovi nomadi ricchi… che, per piacere o per lavoro, viaggiano
dappertutto sul pianeta bardati di cellulari, carte di credito e
computer portatili. All’estremo opposto, due o tre miliardi di persone
si muovono di continuo per sopravvivere… Tra questi due estremi,
c’è poi una vasta categoria di persone che, sebbene siano ancora
sedentarie, vivono tutte le forme del nomadismo virtuale attraverso
la televisione, i videogiochi, le nuove tecnologie. Senza dimenticare,
inoltre, che la mondializzazione spinge verso nuove forme di
nomadismo economico: tutto si muove, il lavoro come il capitale »ATTALI
«Dall’affermazione del carattere particolare dei sistemi di valori
alla rinuncia all’idea dell’unità del mondo, dell’umanità e della storia
il passo è breve. Si arriva così a sostenere la tesi secondo cui il
mondo è diviso in culture, l’umanità in popoli e la storia in storie, e
che perciò non esistono norme e valori universali. Basandosi sul
presupposto della pluralità delle norme, ogni tentativo di dichiarare
universali determinate norme o determinati valori è etichettato come
etnocentrico... Tuttavia, dietro il congedo giocoso dai valori universali
si nasconde un valore che a sua volta è presentato come
universale, cioè quello dell’individualità. Gli altri sistemi di valori e le
altre forme sociali devono essere riconosciuti in base al valore superiore
dell’autorealizzazione individuale... Considerando la libertà
dell’individuo il bene supremo e universale, si pone tuttavia un problema:
è pensabile una convivenza fra individui liberi che non degeneri
in concorrenza e in conflitto?»ROHLS
«Per l’ebreo che vede nell’al di qua il luogo della creazione, della
giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo eminente il signore
della storia e quindi “Auschwitz”, per il credente, rimette in questione
il concetto stesso di Dio che la tradizione ha tramandato.
Auschwitz rappresenta quindi per l’esperienza ebraica della storia
una realtà assolutamente nuova e inedita, che non può essere
compresa e pensata con le categorie teologiche tradizionali. Quindi
che non intende rinunciare sic et simpliciter al concetto di Dio deve
pensare questo concetto in modo del tutto nuovo e cercare una
nuova risposta all’antico interrogativo di Giobbe. Ove decidesse di
farlo, dovrebbe anche lasciar cadere l’antica concezione di Dio signore
della storia: perciò, quale Dio ha permesso che ciò accadesse?»JONAS
RIFLESSIONI SUL FUTURO
“Sempre più viviamo in ambienti tecnobioculturali strutturati dalle nuove forme di scienza e tecnologia, che sono pertanto diventate aree cruciali per la creazione culturale del mondo attuale.”
Eleonora Fiorani, La nuova condizione di vita, Lupetti, 2003
“… la continua mutevolezza, il cambiamento di forma, la leggerezza e l’assenza di peso, reale o immaginario che esso sia, la relazione con il tempo invece che con lo spazio: ciò che conta è il flusso temporale”
Eleonora Fiorani, La nuova condizione di vita, Lupetti, 2003
“La rivoluzione informatica e della New Economy ha investito anche la Old Economy, l’economia tradizionale, che utilizza le stesse tecniche informatiche ed elettroniche per rinnovare i processi
aziendali: dal codice a barre, che identifica le merci, al computer che guida le attività.”
Eleonora Fiorani, La nuova condizione di vita, Lupetti, 2003
“Noi disponiamo ora di plastici informatici che sono, in realtà, molto più malleabili e manipolativi di quelli del passato in quanto consentono una interazione più ricca e più controllare tra utente e modello.”
Tomàs Maldonado, Reale e Virtuale Feltrinelli, 2007
“Il cyber corpo è un sistema aperto, in transizione, che si pone oltre l’individuo, pronto ad accogliere l’alterità animale o tecnologica, a metamorfosarsi in qualcosa d’altro. Ospitare ed essere ospitato nell’alterità diviene il campo di dialogo tra questo corpo e il mondo esterno. Stelark, a sua volta, evoca la figura del corpo cavo, aperto a ricevere nuovi organi artificiali.”
Eleonora Fiorani, La nuova condizione di vita, Lupetti, 2003
“Con il virtuale il mondo sta sperimentando un atteggiamento diverso rispetto alla materia, al corpo delle cose e dell’uomo. Il virtuale rende il corpo un elemento sempre più esterno alla sua natura di forma fisica. E assume i corpi come oggetto di manipolazioni e progettazioni multiple, a cominciare
dall’ampliamento e dall’artificializzazione delle sensorialità per giungere alla loro riconfigurazione fisica.”
Eleonora Fiorani, La nuova condizione di vita, Lupetti, 2003
“Semplicità significa sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo.”
John Maeda, Le leggi della semplicità, Bruno Mondadori, 2006
“Semplicità = serenità
La tecnologia ha reso le nostre vite più piene, ma allo stesso tempo siamo diventati spiacevolmente pieni.”
John Maeda, Le leggi della semplicità, Bruno Mondadori, 2006
ETICA RELIGIOSA E ETICA LAICA
Possiamo definire come morale religiosa quell’insieme di norme di
giudizio e di comportamento che s’ispirano al credo di una tradizione
religiosa; la morale laica tende, al contrario, a fondarsi soltanto sui
dati della ragione.
La storia dell’etica moderna è un tentativo di fondare un’etica oggettiva,
razionale, empirica, cioè laica
1. Il giusnaturalismo moderno fondato da Grozio, secondo cui la natura dell’uomo
è la ragione. Dalla natura deriva ogni legge; un’azione è morale se si accorda
con la natura razionale dell’uomo. Le leggi positive devono regolare i comportamenti.
Il limite più evidente di tale visione sta nel fatto che resta da dimostrare
che tutto ciò che è naturale sia buono. Ci si basa sull’idea che la natura sia
l’emanazione di una volontà buona, ma così si reintroduce un argomento teologico
e fideistico.
2. L’etica induttiva il cui argomento fondamentale per dare oggettività ai giudizi di
valore è il consensus umani generis, cioè la constatazione che una certa regola
di condotta è comune a tutte le genti. Due obiezioni appaiono però significative:
vi sono realmente leggi universali? Inoltre vi sono leggi che sono state in vigore
per secoli senza che per questo possano essere serenamente accettate come
morali.
3. La teoria kantiana
4. L’utilitarismo. Il dato oggettivo su cui si fonda sono le sensazioni di dolore e di
piacere; da cui la tesi per cui il criterio per distinguere il bene dal male è rispettivamente
la quantità di piacere e di dolore che un’azione procura. Le difficoltà
sono diverse e ciò ha spinto verso il cosiddetto utilitarismo della regola secondo
cui il problema non è più quale azione ma quale norma sia più utile.
Nessuna delle più comuni teorie della morale laica, fondata sulla
ragione, è esente da critiche; di fronte a questo, si sono presentate
ultimamente tre possibili soluzioni:
1. L’appello all’evidenza (o intuizionismo etico). Scavalca la ragione
(ultrarazionale).
2. Il relativismo assoluto secondo cui i giudizi di valore sono espressioni
di emozioni, sentimenti, preferenze, opzioni, tra loro equivalenti.
Deprime la ragione (infrarazionale).
3. L’affermazione che la sfera dei giudizi morali sia quella del non
razionale, ma del ragionevole in cui valgono gli argomenti propri
della retorica, o arte del persuadere, distinta dalla logica, o arte
della dimostrazione. Limita la ragione (quasi-razionale).
L’etica religiosa si sviluppa lungo due direzioni opposte:
Il volontarismo teologico, secondo cui è giusto ciò che è comandato
da Dio ed ingiusto quello che è da Lui proibito.
La tesi secondo cui Dio comanda ciò che è giusto e quindi il criterio
morale non è la volontà di Dio, ma la sua natura che essendo
buona non può comandare azioni ingiuste
L’etica laica
«nel corso del XX secolo si è andata sviluppando una linea di pensiero
secondo cui non solo non è vero che senza Dio non può darsi
l’etica, ma anzi è solo mettendo da parte Dio che si può realmente
avere una vita morale. Solo colui che è agnostico o ateo può effettivamente
porre al centro della sua esistenza le richieste
dell’etica… l’ateismo è la cornice concettuale più favorevole
all’affermarsi di una moralità.» LECALDANO
«...l’orizzonte per le nostre decisioni etiche dovranno essere i sentimenti,
le reali esigenze degli altri esseri umani… il non credente
non ha bisogno di risalire a Dio, né sperare in un’altra vita in cui la
sua condotta morale trovi il giusto premio. Egli può far ricorso semplicemente
alle proprie emozioni, ai propri sentimenti, alla ragione e
alle pratiche riflessive che gli sono abituali. Il premio per la sua
condotta morale deriverà principalmente dalla consapevolezza di
avere fatto ciò che è bene, giusto e doveroso.» LECALDANO
L’etica religiosa
«Il mondo ne ha avuto esperienza evidente e recente: gli orrori
del secolo appena terminato sono stati perpetrati da una dittatura
pagana come il nazismo ed atea come il comunismo. Questo non
vuole dire ovviamente che in nome di Dio non siano state commesse
delle mostruosità: è lunga la lista dei credenti che si sono macchiati
di infamie. Tuttavia l’assenza programmatica di un Dio, o
quanto meno l’illusione di combatterne la presenza, porta sistematicamente
all’orrore.» WIESEL
«...solo i credenti sarebbero capaci di “senso della vita". La vita eterna
promessa da Dio ai suoi fedeli dà un significato alla loro vita
mortale. Se tutto si consuma quaggiù, senza premi e punizioni lassù,
allora una cosa vale l’altra… Ecco allora il relativismo,
l’indifferentismo, l’egoismo, il puro calcolo di utilità, la sopraffazione,
la disperazione, il non-senso della vita: in breve, l’impossibilità
di una morale esistenziale e, dunque, di una vita rivolta al bene
piuttosto che al male.» ZEGREBELSKY
«...se la certezza e l’assolutezza di tali valori discendono direttamente
da Dio e dalla natura, allora diventa ovvio per coloro che sostengono
questa idea richiedere con forza e senza tregua che non
solo la vita privata delle persone sia ispirata a tali valori discrezionalmente,
ma che siano le leggi dello Stato a imporli a tutti i cittadini.
» LECALDANO
«...non ha difficoltà a convincersi che tutto ciò che ne fa parte deve
essere imposto a tutti, anche a coloro che non credono nel suo Dio
o in generale in Dio… l’atteggiamento di chi crede che la propria
morale derivi da Dio non può che essere impositivo e intollerante e
numerose sono le situazioni del passato che documentano la ricaduta
pubblica di tale concezione.» LECALDANO
«...per ragioni storiche e di memoria comune, laici e cristiani dovrebbero
invece tentare insieme nuove aperture e insieme inventare
“vie di senso”, dando spazio –per usare un’espressione di Paul
Ricoeur– alla “ospitalità delle convizioni”. Sì, uomini di “buona volontà”
(come si diceva nell’ora del Concilio), “uomini pensosi” (come
si preferisce dire oggi), credenti e laici devono insieme cercare
cosa significa essere responsabili del mondo, della terra, della storia;
devono sapersi interrogare reciprocamente, restando esigenti
gli uni verso gli altri contro l’irrazionalità, la superstizione, la magia
e i sincretismi melliflui; devono insieme smascherare quelle saggezze
esotiche che vorrebbero salvare l’uomo dissolvendolo, e insieme
denunciare ogni voracità religiosa e quel fondamentalismo di
cui a volte è tentata di rivestirsi la “parola forte” che trascende
l’uomo; devono praticare la vita interiore come approfondimento
dell’uomo e come mezzo per leggere la propria e l’altrui esistenza;
devono insieme cercare la giustizia e la pace e “saper ascoltare il
grido di tanti popoli poveri del mondo”…» BIANCHI
«l’etica laica, che è tale proprio perché non si fida molto della provvidenza di Dio, dovrebbe farsi carico anche di quei problemi che l’etica religiosa affida alla provvidenza e non abdicare» GALIMBERTI
IL CONFLITTO FRA STATO E CHIESA
«...siamo di fronte ad un modo di essere della Chiesa che si presenta
e si organizza in forme ritenute necessarie per salvaguardare
valori che lo Stato non sarebbe più in grado di garantire. La contrapposizione è frontale, la strategia è quella propria di un soggetto politico.» RODOTA’
Comunemente si intende come legge di natura quella che viene
scoperta dalla ragione umana; per i credenti, la ragione per giungere
a tale scopo deve essere illuminata da Dio.
«forse la struttura mentale originaria, che
condiziona il rapporto tra noi e il mondo, è la contrapposizione tra
ciò che è naturale e sta fuori di noi, e ciò che è artificiale e procede
da dentro di noi». Zagrebelsky
Per un certo periodo l’idea di legge naturale è caduta in disuso,
oggi la Chiesa cattolica l’ha fortemente recuperata e la propone come
grande rassicuratrice atta a dispensare forti certezze etiche.
«...il diritto naturale è indubbiamente una risorsa che appaga il bisogno
di sicurezza. Di fronte a veri o presunti arbitrii e, perfino, ai
veri e propri delitti compiuti con l’avallo della legge fatta dagli uomini,
che cosa è più rassicurante di una legge obbiettiva, sempre uguale e valida per tutti, la legge della natura appunto, che gli uomini non possono alterare e corrompere a loro piacimento?» ZEGREBELSKY
Il diritto naturale in realtà non appare come un luogo di consenso
universale, al contrario appare un terreno di conflitti, prima di
tutto perché non c’è un accordo su cosa sia la natura
«Ecco come la natura può diventare una maschera della sopraffazione:
che è privo di fede e grazia sarà considerato un errante,
un reprobo, un contro-natura o, nella migliore delle ipotesi, uno da
convertire con l’aiuto di Dio misericordioso; in ogni caso, non uno al
quale si possa riconoscere un valore da prendere in considerazione.
» ZEGREBELSKY
ETICA E GENERE
Gli studi di genere (Gender Studies)
Gli studi di genere nascono in Nord America a cavallo tra gli anni ’70 e ‘80
nell’ambito degli studi culturali. Si sviluppano a partire dalla riflessione
femminista, gay e lesbica, e si nutrono di alcune fondamentali posizioni del
poststrutturalismo di Derrida e Foucault.
I Gender Studies non focalizzano la loro attenzione esclusivamente sulla
storia delle donne bensì sulla costruzione sociale e culturale di entrambi i
generi, femminile e maschile, e sulle relazioni che intercorrono tra loro.
La ricerca di genere è interdisciplinare, abbraccia vari campi del sapere
e, trasversalmente, ha contaminato ed arricchito la riflessione
contemporanea dall’etica alla politica, dalla scienza alla filosofia, dalla
psicologia alla sociologia agli studi sul linguaggio.
Il contributo più importante è quello di aver posto l’attenzione sulla
corporeità, non solo come dato biologico, ma come differenza di genere,
carica, in modo cosciente e consapevole, di tutte le sue implicazioni dal punto
di vista sociale, storico, scientifico, culturale ecc.
Il pensiero della differenza
Movimento di pensiero affermatosi a partire dalla fine dalla fine
degli anni ’60 del ‘900, caratterizzato da una specifica riflessione
sulle tematiche della donna ad opera delle donne stesse.
Il pensiero della differenza non considera la differenza
sessuale in negativo o in termini puramente emancipazionisti (per
rivendicare un’uguaglianza tra uomo e donna), ma positivamente,
come una differenza da valorizzare, da cui ripartire per affermare la
specificita’ e l’autonomia della donna.
Le prime autrici a cui si fa riferimento sono Luce Irigaray
(Speculum, l’altra donna, 1974), Helene Cixous e Julia Kristeva che
partirono dalla riflessione sul linguaggio per smascherare il
predominio della cultura maschilista al di sotto di una presunta
neutralità ed universalità linguistica.
Sesso e genere
Gli studi di genere propongono un’importante puntualizzazione su
quelli che, secondo la loro ottica, sono due diversi e separati aspetti
dell’identità:
Sex: il sesso riguardo tutto ciò che di un individuo è connesso alla
biologia, al corredo genetico che manifesta le differenze anatomiche
e fisiologiche tra uomo e donna.
Gender: rappresenta una costruzione culturale, cioè il sesso
calato nella società con tutto quello che ne consegue in termini di
sovrastrutture e divisioni di ruolo.
Sesso e genere non costituiscono due posizioni contrapposte, ma
interdipendenti: sul sesso si innesta il genere, il genere è un
carattere appreso, il sesso è innato.
Maschi e femmine si nasce, uomini e donne si diventa.
Sfondo teorico del pensiero della
differenza:
M. Heidegger: il filosofo tedesco lega l’essere (che da sempre la tradizone
filosofica occidentale aveva reso atemporale, immobile, eterno, incorrutibile) al
tempo.
L’essere è l’orizzonte nel quale l’uomo ritaglia porzioni per dare definizioni.
L’esistenza è un progetto, un essere lanciato verso l’avvenire, l’uomo stesso non
è tutto in sé, ma si trascende continuamente (identità e differenza).
E. Levinas: per il filosofo lituano il riconoscimento della frattura tra sé e l’altro
porta alla separazione che è il primo principio dell’etica della differenza.
L’esistente acquista significato solo nel riconoscimento dell’altro che non è
riconducibile a sé, ma rimane un mistero.
Il femminile rappresenta l’origine del concetto di alterità che non si lascia
neutralizzare nella relazione, la differenza di sesso non è dualità di due
termini complementari.
Il post strutturalismo
Il post strutturalismo, nella seconda metà del ‘900, mette in discussione il potere e
l'unitarietà del soggetto.
Per Foucault la critica al potere si esplica nella critica al linguaggio e al discorso
di cui il potere si serve. Soggetto, follia, sessualità, si rivelano tra le costruzioni
discorsive più potenti, messe a punto dal potere (dalla sua microfisica), in un preciso
momento della nostra storia, per disciplinare e controllare in senso economico e
produttivo il corpo sociale. Egli afferma che ӏ possibile pensare soltanto entro il
vuoto dell'uomo scomparso".
Deleuze affermava che ӏ necessario dire qualcosa di nuovo per creare qualcosa di
nuovo", la ricerca filosofica si presenta come liberazione del pensiero dalle strettoie
logico-linguistiche che impediscono il movimento dei concetti e dei corpi, diviene
individuazione di modi di vivere e di pensare un essere che dà spazio ad un'infinità
pluralità di differenze.
Derrida interroga la tradizione filosofica attraverso il metodo della decostruzione
che permette di evidenziare il carattere dinamico della differenza: l’identità non è
qualcosa di dato, si determina in relazione ad altro, nel differire da sé, non esiste
identità (quindi presenza) se non nella differenza.
L’etica femminista
L’etica femminsta si propone di decostruire i valori di fatto
esistenti e costruire criticamente nuovi valori condivisi in cui la
differenza di genere sia il punto di partenza.
Vi è una costante critica nei confronti dell’etica di stampo
kantiano o utilitaristico perché entrambe propongono un soggetto
astratto (né uomo, né donna), come pure nei confronti delle etiche
individualistiche (si rivolgono ai singoli e non considerano
l’interpersonalità dell’agire etico).
Un soggetto etico femminile non è né neutro, né universale, è
differente dal soggetto maschile.
L’etica della cura (1)
Gli studi di Carol Gilligan, esposti nel suo libro In a different voice (1982),
si incentrano sulla nascita del pensiero morale nei soggetti maschili e
femminili. La psicologa femminista americana arriva ad affermare che essi
propongono due diversi approcci all’agire morale: i primi parlano di equità,
diritti, libertà (l’etica della giustizia); le donne invece parlano di
responsabilità, relazione, affetti, risposte ai bisogni (l’etica della cura).
Interessante è la posizione di Catharine MacKinnon per la quale il diritto
è strumento di oppressione maschile sulle donne. Il femminismo deve
spostare l’attenzione dalla differenza all’oppressione. La sessualità
induce relazioni di potere e di subordinazione del femminile.
In deontologia professionale, soprattuto quella medica, per quanto
riguarda l’etica della cura si profilano due posizioni: la prima richiede un
distacco tra chi cura e chi è curato per garantire il primo da implicazioni
emotive; la seconda sviluppa invece empatia e parte dal presupposto che
entrambi siano implicati nella relazione di cura.
L’etica della cura (2)
Joan Tronto: si propone di liberare l'etica della cura dal suo tradizionale nesso
con la moralità femminile, doppiamente controproducente sia perché induce a
trattare natalità, mortalità e cura come questioni “da donne” (quindi secondarie),
sia perché incatena le donne alla funzione materna. Nel suo libro, Confini morali,
critica la posizione della Gilligan, colpevole di adottare la strategia della different voice
tipica delle donne. Tale posizione è conservatrice, in quanto mantiene i ruoli di genere
e le frontiere morali fra giustizia e cura, senza rendersi conto che la differenza fra
giustizia e cura non descrive solo il divario fra uomini e donne, ma in generale quello
fra privilegiati e marginali. Mettere in discussione i confini fra giustizia e cura
significa riconoscere che, se la filosofia morale riguarda il bene della vita umana,
allora la cura deve avere un ruolo importante. Per questo, essa deve essere liberata
dall'associazione con la femminilità e la naturalità (materna) e valorizzata nel
giusto contesto politico, come motore di cambiamento strutturale.
Susan Moller Okin: fa un’analisi della giustizia a partire dal contributo del
femminismo di avere reso “politico il privato”. La sua critica parte dalla considerazione
che la famiglia non deve essere considerata come “privato”; fino a che la famiglia
sarà esclusa dalle trattazioni sulla giustizia permarrà una dicotomia tra pubblico e
privato responsabile di una distribuzione dei ruoli non equa tra uomo e donna.

Dall’etica alla politica
Il problema della giustizia
posizione di J. Rawls: la società si fonda, non sul bene, ma sulla giustizia
che deve garantire un’equa distribuzione dei beni, ma spartizioni diseguali ed
ineguaglianze economiche sono ammissibili per il beneficio dei meno
avvantaggiati (principio di riparazione e principio della differenza).
posizione di R. Nozick: in polemica con Rawls, Nozick parte dalla difesa dei
diritti individuali anche contro lo Stato, anzi lui ipotizza una minimizzazione
della Stato (lo Stato minimo, una sorta di “guardiano notturno”). La centralità è
del mercato capitalistico (liberismo libertario), ma questo deve sempre
difendere i diritti individuali, anche quelli degli omosessuali e delle minoranze.
posizione di A. Sen: il filosofo bengalese si interroga su liberalismo e
giustizia sociale. La libertà deve essere messa in relazione con l’uguaglianza.
Parte dalla constatazione che gli individui sono diseguali. L’uguaglianza in
una società dipende dal suo grado di idoneità a garantire la capacità (capability)
di star bene (functioning).
Corpi che contano.
I contributi degli studi di genere
nell’etica e nella politica
Gli studi di genere hanno messo in rilievo che il soggetto dell’etica
e della politica non è universale e astratto, ma è posizionato e situato,
è capace di sentire dolore ed è il risultato di una determinata società.
Tali studi propongono una dimensione etica e politica che fa perno su
una concezione di giustizia capace di farsi carico delle differenze e di
accettare anche “spartizioni diseguali”.
Il femminismo pone l’accento sulla ricerca creativa di valori
condivisi non su un astratto universalismo.
La riflessione normativa nasce quando si ode un grido di dolore o
disagio, o quando si prova uno stato di dolore o disagio. (Marion Young)
Prospettive multiple. I contributi degli studi di
genere nell’epistemologia
La differenza porta ai saperi situati e locali. La scienza, per i tanti e forti interessi
che coinvolge in molti campi, è sempre stata la roccaforte dell’universalismo,
dell’obiettività, dell’astrazione e del pensiero maschilista. Il contributo
dell’epistemologia femminista alla teoria della conoscenza è stato quello di aver
sottolineato che “la neutralità non accresce l’obiettività” (Harding) e che l’obiettività non
sempre è un valore sopra ogni cosa.
Con la teoria del posizionamento l’epistemologia femminista rivaluta la positiva
parzialità del punto di vista ed introduce nella scienza il bisogno di “una rete di
rapporti che copra il mondo, ed includa l’abilità di tradurre parzialmente conoscenze tra
comunità molto differenti e differenziate in termini di poteri. Abbiamo bisogno del potere
delle moderne teorie critiche su come i significati ed i corpi vengono costruiti, non a
scopo di negare significati e corpi, ma per costruire significati e corpi che abbiano un
futuro.” (Haraway). Essere coscienti della propria parzialità conduce al soggetto
nomade (Braidotti), un soggetto che occupa uno spazio fluttuante e marginale che per
questa sua natura apre nuove possibilità e nuove forme di resistenza.
Ultime riflessioni sulla corporeità
Oltre il corpo
Cloni, cyborg, “mostri”, queer sono figure contestate di cui una parte del più
recente (ma anche più criticato) filone di voce anglofona dei Gender Studies si serve
per reinterpretare la realtà attraverso un superamento dialettico del genere, ma
sempre a partire dalla sua consapevolezza e coscienza.
La sfida utopica di un mondo “mostruoso” senza genere è rilanciata da autrici
importanti tra cui Donna Haraway che afferma:
Un mondo senza genere è un mondo senza genesi, ma può anche essere un mondo
senza fine. (Haraway)
Judith Buttler, una tra le voci statunitensi più autorevoli del pensiero lesbico,
afferma che l’elemento centrale contro cui combattere è il paradigma eterosessuale.
In un contesto postmoderno le identità si contaminano e divengono multiple. La
stessa critica che il pensiero femminista ha applicato al genere deve essere applicata
anche al sesso.
Nel pensiero postmoderno si tenta di superare una visione dicotomica (tra i due
sessi) per una differenza multipla (tra molti).
La filosofia del tao.
Oltre la separazione
“Un essere umano è parte di un tutto che chiamano “universo” [...] L’illusione (della
separazione) è una sorta di prigione per noi [...] Il nostro compito deve essere quello di
liberarci da questa prigione, ampliando il nostro cerchio di compassione per abbracciare
le creature viventi e la natura tutta nella sua bellezza.” (A. Einstein)
La filosofia occidentale ha elaborato molte delle sue teorie sulla divisione tra
mente e corpo.
La filosofia orientale invece considera il fisico e lo spirituale come parti
inscindibili di un’unica unità. Ogni elemento dell’universo è costituito dal continuo
alternarsi di due polarità: la positiva e la negativa, lo yin e lo yang, il maschile e
femminile, il progetto e la realizzazione. L’equilibrio dinamico che si instaura tra
queste due qualità energetiche presiede alla vita, la separazione ha senso solo come
momento dialettico, ma la ricerca autentica deve portare allo svelamento dell’unità
empatica ed olistica del tutto.
LA FANTASCIENZA COME RIFLESSIONE SULL’ETICA FUTURA
DEFINIRE LA FANTASCIENZA
•           Science + fiction, ma:
–           Il rapporto tra scienza e narrativa è ambiguo, non scontato come potrebbe sembrare.
•           Fantascienza:
–           Fantasia + scienza; può essere scientifica una fantasia?
OCCORRE COMPRENDERE A FONDO IL RUOLO DELLA FANTASIA, DELL’IMMAGINAZIONE
“Ogni storia di science fiction parte da un novum, un’invenzione postulata sulla base del metodo scientifico. La presenza di questa ipotesi genera conseguenze sviluppate coerentemente sulla base delle nostre conoscenze “
D. Suvin, Le metamorfosi della fantascienza
tutti i progressi della conoscenza scientifica, ad ogni livello, cominciano con un’avventura speculativa, una preconcezione immaginativa di ciò che potrebbe essere vero, una preconcezione che sempre va un po’ oltre (e talvolta molto oltre) tutto quanto di cui abbiamo un’evidenza logica e fattuale. È l’invenzione di un mondo possibile, o di una minuscola frazione di tale mondo”
Peter Brian Medawar, premio Nobel per la medicina, L’immaginazione dello scienziato
“la science fiction non è, come molti credono, scienza vestita di fantasia ma esattamente il contrario, cioè fantasia pura ricoperta dei veli di una elaborazione razionale, non importa se dispiegata paradossalmente”
L. Aldani, La fantascienza
Concezione di H. Bruce Franklin
•           Ogni narrazione, di qualunque genere, intende descrivere la realtà: le narrazioni di tipo differente si distinguono quindi per i punti di vista adottati:
–           Narrazioni realistiche (realistic fiction): descrizioni della realtà presente attraverso la produzione di una sua simulazione (counterfeit)
–           Narrazioni storiche (historical fiction): descrizioni della realtà presente attraverso la produzione di una simulazione della sua storia
–           Fantascienza (science fiction): descrizione della realtà presente attraverso l’estrapolazione di un suo ipotetico futuro costruito a partire da un’ipotesi immaginativa
–           Narrazione fantastica (fantasy): descrizione della realtà presente tramite un’alternativa impossibile
Future perfect
Concezine di Asimov
•           Distingue tre tipi di fantascienza:
–           Avventurosa: vicina al Fantasy (Flash Gordon, Star Wars)
–           Tecnologica: la tecnologia emerge come valore primario non come mezzo per ottenere uno scopo (La macchina del tempo)
–           Sociale: è qui che emerge la valenza culturale e filosofica della fantascienza che, in questa accezione, si occupa di evidenziare le conseguenze del progresso tecnologico per la società (Asimov, Dick, Ballard, Vonnegut
La fantascienza filosofica
•           In questa quarta accezione l’esposizione di temi, problemi e concezioni filosofiche, nonché la loro investigazione, diviene lo scopo principale della narrazione (Dick, Stapledon, Lem, Matrix)
“tutti gli uomini per natura tendono al sapere”
Aristotele, Metafisica I, 1, 980 a
“gli uomini, sia ora sia in principio, cominciarono a cercare il sapere a causa della meraviglia”
Ivi, 2, 982 b
È proprio del filosofo quello che tu provi, di essere pieno di meraviglia, né altro cominciamento ha il filosofare che questo, e chi disse che Iride fu generata da Taumante non sbagliò, mi sembra, nella genealogia”
Platone, Teeteto, 155 d
le due questioni che più mi affascinano sono: che cosa è la realtà? - e - Che cosa caratterizza l’autentico essere umano? Sono ormai più di ventisette anni che pubblico romanzi e racconti, e non ho smesso mai di indagare su tali questioni, profondamente legate tra loro. Le considero estremamente importanti”
Philip K. Dick, Mutazioni
FILOSOFIA E FANTASCIENZA:
UNA MEDESIMA RADICE
•           Tanto la filosofia quanto la fantascienza nascono dalla capacità umana di provare meraviglia.
•           Il bisogno di colmare l’ignoranza umana può sfociare sia nell’indagine razionale che nella narrazione mitica.
•           La fantascienza è una delle forme in cui si sostanzia la narrazione mitica nell’età contemporanea.
LA FILOSOFIA NEL CINEMA DI FANTASCIENZA
PROBLEMI E TEMI
•           Il problema dell’identità personale (Blade Runner, Dark City, Atto di forza, Frankenstein)
•           Il problema mente-corpo (Matrix)
•           Tecnologia ed etica (Io Robot)
•           Paradossi del viaggio nel tempo (L’esercito delle dodici scimmie)
•           L’intelligenza artificiale (2001 Odissea nello spazio, A. I.)
•           La realtà virtuale (Matrix)
•           Il non-umano, il postumano e l’altro (Ultimatum alla terra, L’uomo bicentenario, Bad Taste)
•           Utopia e distopia (1984, Farenheit 451)
•           Il mito e il viaggio escatologico dell’eroe (Mad Max)
•          
MATRIX
Trama
In un indeterminato e lontano futuro la razza umana è controllata e sfruttata dalle macchine.  Queste sopravvivono sfruttando l’energia tratta dai corpi degli uomini che vengono tenuti in vita, in una sorta di sogno virtuale, collegati a dei supercomputer.
Poche migliaia di umani sono liberi dal controllo delle macchine. "Matrix" è il nome del sistema di controllo cerebrale che imprigiona i loro simili: un sistema di impulsi elettrici inviati al cervello umano che lo convincono di vivere in un mondo che, ormai, non esiste più da centinaia di anni.
All'interno di Matrix la gente vive senza accorgersi minimamente della sua vera condizione; soltanto pochissime persone si rendono conto che "qualcosa non va”. Una di queste persone è Thomas Anderson, conosciuto nell'ambiente degli Hacker come "Neo". Convinti che Neo sia "l'eletto" (in grado di restituire la libertà alla razza umana), un gruppo di umani della Resistenza, fra cui spicca la figura di Morpheus, il capitano della nave Nabucodonosor, lo contatta, convincendolo ad uscire dalla matrice per guidare la lotta degli uomini contro il dominio delle macchine.
Principali temi filosofici del film
1) Il tema dell’autonomia e dell’autosufficienza dell’artificiale e quindi del confine tra artificiale e naturale
2) Il tema del rapporto tra mente e corpo
3) Il tema della distinzione tra realtà e sogno
4) Strettamente connesso al precedente, il tema della realtà virtuale
Matrix immagina che le macchine, superintelligenti e autonome, si siano rese anche autosufficienti, sfruttando l’energia che ricavano allevando bambini umani. L’angoscia per la ribellione dell’artificiale si raddoppia grazie all’inversione della relazione strumentale; non solo l’artefatto ribelle è diventato autosufficiente, ma lo è diventato trasformando gli uomini in suoi strumenti. Sono gli uomini, ora, ad essere artefatti delle macchine.
“Che vuol dire reale? Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, allora il reale si riduce semplicemente a segnali elettrici interpretati dal cervello”
Morpheus
Materialismo riduzionista: gli stati mentali possono essere ridotti a stati fisici, cerebrali
Materialismo eliminativista: la mente è totalmente ricondotta al corpo, o meglio, non esiste se non come un prodotto del linguaggio della psicologia popolare. I coniugi Churchland negano ad esempio che esista la coscienza come fenomeno generale che accomuna la veglia, la consapevolezza di trovarsi in una certa situazioni e il coordinamento senso-motorio, e sostengono invece che questi ultimi sono fenomeni distinti, ciascuno dei quali è riducibile a un proprio processo cerebrale.
“Immaginate che un essere umano (potete immaginare di essere voi) sia stato sottoposto ad un’operazione da parte di uno scienziato malvagio. Il cervello di quella persona (il vostro cervello) è stato rimosso dal corpo e messo in un’ampolla piena di sostanze chimiche che lo tengono in vita. Le terminazioni nervose sono state connesse ad un computer superscientifico che fa sì che la persona a cui appartiene il cervello abbia l’illusione che tutto sia perfettamente normale. Sembra che ci siano persone, oggetti, il cielo ecc., ma in realtà l’esperienza della persona (la vostra esperienza) è in tutto e per tutto il risultato degli impulsi elettronici che viaggiano dal computer alle terminazioni nervose. Il computer è così abile che se la persona cerca di alzare il braccio la risposta del computer farà sì che "veda" e "senta" il braccio che si alza. Inoltre, variando il programma lo scienziato malvagio può far sì che la vittima "esperisca" (ovvero allucini) qualsiasi situazione o ambiente lo scienziato voglia. Può anche offuscare il ricordo dell’operazione al cervello, in modo che la vittima abbia l’impressione di essere sempre stata in quell’ambiente.[...]
Potremmo anche immaginare che tutti gli esseri umani ... siano cervelli in un’ampolla. Naturalmente lo scienziato malvagio dovrebbe trovarsi al di fuori. Dovrebbe? Magari non esiste nessuno scienziato malvagio; magari l’universo ... consiste solo di macchinari automatici che badano a un’ampolla piena di cervelli. Supponiamo che il macchinario automatico sia programmato per dare a tutti noi un’allucinazione collettiva ... Quando sembra a me di star parlando a voi, sembra a voi di star ascoltando le mie parole. Naturalmente le mie parole non giungono per davvero alle vostre orecchie, dato che non avete (vere) orecchie, né io ho una vera bocca e una vera lingua. Invece, quando produco le mie parole quel che succede è che gli impulsi efferenti viaggiano dal mio cervello al computer, che fa sì che io ‘senta’ la mia stessa voce che dice quelle parole e ‘senta’ la lingua muoversi, ecc., e anche che voi ‘udiate’ le mie parole, mi ‘vediate’ parlare, ecc. In questo caso, in un certo senso io e voi siamo davvero in comunicazione. Io non mi inganno sulla vostra esistenza reale, ma solo sull’esistenza del vostro corpo e del mondo esterno, cervelli esclusi”.
H. Putnam, Cervelli in una vasca
Due obiezioni alla possibilità che tutto sia un sogno
1.          L’idea di un sogno da cui non ci si può svegliare è contraddittoria perché lo stesso concetto di sogno presuppone la veglia
2.          L’idea di una realtà “apparente” si può fondare solo sulla possibilità di accedere a una realtà da contrapporre all’illusione stessa
Rapporto con il mondo
Virtuale perfetto - Matrix
•           Immersione
•           Integrazione
•           Condivisione
•           Coerenza (rispetto delle leggi di natura) Perfezione (uniformità con i ricordi)
REALTA’ . MEMORIA
2001 ODISSEA NELLO SPAZIO
Trama
Il film comincia nell'Africa di tre milioni di anni fa. Un giorno, improvvisamente, davanti alla grotta di un gruppo di ominidi compare un misterioso monolito nero; la sua influenza sembra spingere gli ominidi a evolversi attraverso l’uso delle ossa come strumenti per uccidere i propri rivali.
La seconda parte del film si svolge nel 2001: il dott. Heywood Floyd è chiamato in missione su una base lunare dove è stato scoperto un grande monolito nero sotterrato ad arte in tempi remoti. Proprio mentre Floyd sta visionando il monolito, il primo raggio di sole del giorno lunare illumina il grande blocco di pietra il quale, immediatamente, emette un forte segnale in direzione di Giove.
Nella terza parte del film un gruppo di cinque astronauti, di cui tre in stato di ibernazione, sono in volo verso Giove a bordo dell'astronave Discovery , governata da un supercomputer HAL 9000, dotato di una sofisticata intelligenza artificiale. Ad HAL è stato chiesto di tenere nascosti i veri obiettivi della missione ai compagni di viaggio, i due astronauti di turno, David Bowman e Frank Poole. Ma quest'ordine genera un conflitto interiore nel calcolatore il quale è stato anche "programmato" per collaborare con gli esseri umani nel modo più efficace.
Le conseguenze del conflitto si manifestano tragicamente in prossimità dell'arrivo su Giove. Inizialmente HAL interrompe il collegamento radio con la terra simulando un guasto inesistente poi, quando questo tentativo fallisce ed anzi insospettisce gli umani, non trova altra soluzione che cercare di ucciderli tutti per evitare, semplicemente, il momento della verità. Risolto il conflitto, in un modo o nell'altro, avrebbe poi proseguito da solo la missione.
Il piano di HAL tuttavia fallisce: David Bowman riesce a sopravvivere ed a riprendere il controllo disabilitando le funzioni superiori del calcolatore. Al termine di questa sorta di "lobotomia", inaspettatamente HAL avvia la riproduzione di un filmato pre-registrato, nel quale il dr. Floyd rivela i veri scopi della missione all'equipaggio: esplorare la zona dove si è indirizzato il segnale radio che il monolito lunare aveva emesso.
Nell'ultima parte Bowman arriva in orbita intorno a Giove e vi trova un terzo monolito nero, vi si avvicina con la sua capsula e ne viene profondamente condizionato. Il monolito spedisce Bowman in un viaggio al di là dei confini  dello spazio e del tempo. Bowman si ritrova in un appartamento dal decoro settecentesco dove vede se stesso invecchiare rapidamente. Ormai decrepito muore davanti a una nuova apparizione del monolito nero e
Principali temi filosofici del film
•           •Frammentarietà narrativa, relativismo, lo shock come stimolo alla coscienza per individuare un orizzonte di senso (Benjamin) Lo stato di natura, la prima arma, la lotta per l’esistenza come radice dell’evoluzionismo
•           Il viaggio
•           I limiti dell’intelligenza e della tecnica
•           Dispersione esistenziale e superuomo
“ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico e allegorico di 2001 odissea nello spazio. Io ho cercato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio.”
Stanley Kubrick
L’apparizione del monolito ha segnato un passaggio fondamentale: l’uomo si è evoluto. Il primo segno di questa trasformazione è un’intuizione, una nuova associazione mentale che gli ha fatto scoprire l’uso dello strumenti. Grazie a questi può uccidere più facilmente, essere cioè vincente nella lotta per la sopravvivenza.
l’immagine della conquista della sorgente d’acqua si conclude in un gesto di trionfo, il capo clan lancia in aria l’osso. L’immagine viene però sostituita improvvisamente; al suo posto vediamo un veicolo spaziale di forma allungata fluttuare nello spazio. L’evoluzione, sembra dirci Kubrick, non si è mai arrestata: l’intelligenza ha permesso all’uomo di affermare il suo predominio tecnico sulle altre specie dell’universo.
L’imperialismo dell’intelligenza si è però tradotto nella rimozione totale delle emozioni, degli istinti, delle passioni. L’intelligenza è asetticamente autonoma, slegata dall’uomo, dalla sua stessa corporeità. L’intelligenza, il trionfo della razionalità è, paradossalmente, il compimento di una profonda deumanizzazione.
Il mondo di 2001 è pronto a morire, come sottolinea la musica intensamente malinconica di Kachaturian che accompagna l’esistenza monotona e vuota dei cosmonauti all’interno del Discovery.
Con il viaggio dell’astronauta verso Giove il cinema compie la sua opera di salvezza, l’arte dona all’uomo la coscienza della propria situazione di completa alienazione. La fantascienza sorge paradossalmente dalle ceneri della pretesa onnicomprensiva della scienza stessa. Il monolito è il continuo invito a considerare il dionisiaco.
BLADE RUNNER
Trama
Terra, anno 2019.
Fiamme, fumo, ombre. Un conflitto mondiale ha provocato immani disastri, intere specie animali sono andate perdute, l'uomo è fuggito nelle colonie extramondo. Una coltre di polvere oscura il cielo. Nebbia, pioggia e ancora buio.
Los Angeles, anno 2019.
L'ingegneria genetica, meraviglia della Tyrell Corporation, è progredita al punto da creare i replicanti, simulacri perfetti dell'uomo, più intelligenti e più abili, ma meno longevi. Sono poco più che schiavi, impiegati in lavori di colonizzazione che l'uomo non potrebbe mai sopportare. Non hanno passato né futuro. I loro ricordi sono un mero innesto, memoria di persone che non conoscono. Per motivi biologici hanno solo pochi anni di vita. Sono artificiali, e alcuni non sanno nemmeno di esserlo.
Un gruppo di replicanti si impossessa di uno shuttle, fugge da una colonia e torna sulla Terra. Vogliono solo capire, vogliono più vita. L'ex-poliziotto Rick Deckard si mette sulle loro tracce: una pista difficile da seguire, quasi priva di indizi, pericolosa anche per un veterano come lui: deve eliminare quattro replicanti capitanati con astuzia e determinazione dal leader Roy Batty . Questa non era chiamata esecuzione, era chiamato ritiro.
Cosa significa essere umani?
Il ruolo della memoria è centrale, in Blade Runner, per definire l’identità. Non però la memoria cognitiva ma quella emotiva. Sono le emozioni a strutturare l’identità di un essere umano (ecco perché la Tyrrel fa vivere i replicanti per soli quattro anni)
“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi balenare nel buio vicino alle porte di TannhŠuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire”.
Roy
“Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta […] un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato e né inteso perderassi”.
Leopardi, Cantico del gallo silvestre
Biodiritto
Le lezioni di Michel Foucault al Collège de France del 1978-1979 intitolate, Nascita della biopolitica, risentono dell’influenza del dibattito avviato al seminario che contemporaneamente il filosofo francese teneva con i suoi collaboratori sulla storia del pensiero giuridico del XIX secolo. In effetti gli interventi e le puntualizzazioni durante le lezioni intorno al diritto sono numerosi e pregnanti.
Anziché discutere della biopolitica, cioè del modo con cui il potere si organizza intorno alla vita dei cittadini e della popolazione attraverso una serie di tattiche e strategie provenienti da quell’arte di governo pastorale cristiana che si riordina intorno alle nuove problematiche sociali del XVII e XVIII secolo, Foucault si avvede che deve affrontare preliminarmente la questione del liberalismo. È infatti questa nuova concezione, affacciatasi per la prima volta nel XVII che sembra riorganizzare i tempi, gli spazi e il potere dell’Occidente. Il liberalismo dunque per Foucault non è tanto una dottrina filosofica ma è proprio la forma principale della pratica governamentale.
Foucault tenta di dimostrare che, intorno al liberalismo, si sviluppa enormemente l’apparato giuridico, non tanto indipendentemente dal tipo di società che si andava costituendo ma proprio come risposta o conseguenza dei nuovi rapporti economici. Ciò non significa presupporre che il pensiero giuridico nasca dal pensiero liberale, semmai, sostiene Foucault, siamo alla presenza di due concezioni solo apparentemente alternative. La prima regolava i rapporti tra sovrano e popolo, ed esprime una visione legalista in cui si tenta di chiarire i rapporti tra governati e governanti. Con Hobbes e poi con Bentham e Beccaria ci si chiede come deve essere la legge, quale la sua forma “più economica per punire le persone”, che Foucault chiama la concezione dell’Homo penalis. La seconda, che corre parallelamente alla prima, sviluppa un’idea tipica dell’homo oeconomicus secondo la quale il soggetto può, almeno in prima istanza, fare a meno della legge, perché questa interviene, semmai, per ripristinare qualcosa di già accaduto. In questo caso “la struttura giuridica del potere arriva sempre dopo, a cose fatte, a posteriori” . Come si vede, già tra i primi utilitaristi era presente una forma mentale di tipo economicistico: vi è un’idea collegata ai costi e ai benefici, un’idea che misura le pene secondo una razionalità economica. Tuttavia il calcolo utilitario si colloca ancora entro una cornice e una struttura giuridica: “L’utilità che prende forma all’interno del diritto – sostiene Foucault – e il diritto che si edifica interamente a partire da un calcolo di utilità. Ma la storia del diritto penale ha dimostrato che tale adeguazione non poteva essere realizzata. Diventerà allora necessario conservare il problema dell’homo oeconomicus, senza aspirare tuttavia a tradurre immediatamente tale problematica nei termini e nelle forme di una struttura giuridica” .
Infatti, ad un certo punto il liberalismo si affranca, per così dire, dal bisogno di riconoscere nell’uomo un centro di istanze e di bisogni antropologici, un soggetto di diritti naturali limitati dalla libertà degli altri, una sorta di antropologia negativa di cui Hobbes sarebbe l’ispiratore, e si sostiene invece che l’individuo è soprattutto un centro di interessi sì egoistici ma in competizione con l’altro. L’individuo diviene esso stesso un’impresa il cui agire determinerebbe sempre benefici. Locke, Hume, Smith e Ferguson indicano la strada al liberalismo. Lo Stato e la sovranità allora non appaiono più i depositari di un potere e di una legge tesi a regolare i rapporti tra cittadini. Lo Stato diviene solo un mero regolatore della vita economica. Scrive Foucault:
L’analisi degli economisti finirà per collimare con il tema del soggetto d’interesse… non si domanderà mai di rinunciare al proprio interesse… anzi si realizzerà un profitto proprio grazie alla massimizzazione dell’interesse di ciascuno… siamo così lontanissimi dalla dialettica della rinuncia, della trascendenza del legame volontario, che troviamo nella teoria giuridica del contratto. Il mercato e il contratto funzionano in modo del tutto opposto .
Si avrà così, almeno a partire dal XVIII secolo, la figura dell’homo oeconomicus assolutamente eterogenea rispetto alla figura dell’homo legalis.
Nella visione liberistica si fa avanti l’idea che l’individuo non debba porsi l’obiettivo di pianificare e di migliorare la società per almeno due ordini di ragioni: innanzi tutto perché non si può pretendere di conoscere e controllare tutte le variabili che influenzano il mercato; in secondo luogo perché il mercato ha una forza immanente che lo spinge, è la famosa mano invisibile di Smith, verso il miglioramento complessivo. Pertanto lo Stato non può ostacolare gli interessi degli individui, che sono anche i suoi interessi, perché danneggerebbe questo movimento ‘naturale’, ‘spontaneo’. Inoltre lo Stato non può intervenire perché non sarebbe capace di scegliere la migliore soluzione possibile proprio per la variabilità e la complessità che regolano il mercato stesso. Vi è, in effetti, all’interno del liberalismo, l’idea che si possa fare a meno dello Stato. “L’economia sottrae alla forma giuridica del sovrano… proprio ciò che sta cominciando ad apparire come l’essenziale della vita di una società, vale a dire i processi economici… Il mondo politico giuridico e il mondo economico, infatti a partire dal XVIII secolo, appaiono del tutto eterogenei e incompatibili. L’idea di una scienza economico-giuridica è impossibile…” .
Cosa può fare il governo? Se la teoria giuridica non può intervenire; se “l’arte di governare giuridicamente” è opposta “all’arte di governare economicamente” allora che fare? Secondo Foucault l’idea di società civile nasce proprio per risolvere questa impasse. Ferguson, amico di Smith, tenta di definire una comunità politica entro quello spazio in cui si devono muovere i nuovi soggetti economici. Nella sua Storia della società civile, Ferguson prova a confutare le teorie contrattualistiche. La società, si sostiene, è sempre esistita, pertanto non si rinuncia ad alcun diritto, non si firma alcun patto, non si costituisce nessuna sovranità. Da sempre invece le merci circolano, si scambiano, da sempre esiste una società civile che è il supporto, il veicolo, il mezzo entro cui si muovono gli scambi commerciali. Anche il potere, per Ferguson, sorge spontaneamente come dato naturale: anch’esso è sempre esistito. In ogni luogo e in ogni tempo vi è un leader al quale gli altri si sottomettono volentieri per essere guidati. Stante tutto questo come si porrà lo Stato di fronte alla società civile? Lo Stato si pone come mediatore di controversie, come produttore di leggi tese a regolare a posteriori la vita economica dei cittadini.
Se, come avevano anche sostenuto Weber ed Elias, alla fine del XVII secolo, alcuni sovrani erano riusciti a formare degli Stati nazionali o almeno “erano riusciti un po’ alla volta a limitare e ridurre i complessi giochi dei potere feudali… e la pratica giudiziaria aveva funzionato da moltiplicatore del potere regio” ora, si sviluppa una nuova razionalità di governo che dovrà limitare la ragione di Stato prendendo corpo in uno stato di polizia. Il diritto assolverà a questa funzione. È come se, sostiene Foucault, “la teoria del diritto e le istituzioni giudiziarie non fungeranno più da moltiplicatore, ma da sottrattore del potere del re” . Si assiste, in altre parole, in tutta Europa ad un fermento delle teorie giuridiche: teoria del contratto, teoria del diritto naturale che servono da contrappeso e da limite alla ragion di Stato. Contemporaneamente si sviluppa nel cuore stesso delle pratiche di governo una nuova razionalità politica, volta a calcolare le spese, la gestione della popolazione, la nuova organizzazione delle tasse e delle imposte, l’investimento delle ricchezze, ecc. Foucault definisce tale nuova pratica di governo come: economia politica. Prima, il mercato medievale era regolato strettamente dal sovrano così tanto che si poteva definire il mercato come “il luogo di giurisdizione”. Ora il mercato prende sempre di più una sua forma che si distacca progressivamente dal sovrano anche se si tenta di imbrigliarlo e regolarlo.  Ma il mercato esprime e diventa esso stesso “un luogo di veridizione”. Ciò non significa che la nascita di un’economia politica sostituisca il diritto pubblico. Semmai si assiste ad una sovrapposizione: “dopotutto i primi economisti erano anche dei giuristi”. Ciò che però l’economia politica esprime, almeno da un punto di vista filosofico, è una concezione utilitaristica. Che cosa è utile fare per il governo? Quali devono essere i suoi limiti? Quali sono i suoi interessi? “L’utilitarismo mostra di essere tutt’altro che una filosofia o un’ideologia, costituendo invece una tecnologia di governo” .
La via utilitarista, che poi sarà la via intrapresa dal liberalismo, sosterrà “l’indipendenza dei governati dai governanti”, un tipo di libertà diversa da quella del diritto pubblico che concepisce la libertà come un diritto. Il liberalismo produce libertà, ha bisogno della libertà per la sua stessa sopravvivenza, innanzi tutto libertà di commercio e di comunicazione, ma anche avrà il problema pratico di stabilire dei limiti a questa libertà, dei controlli, delle obbligazioni, ecc. Fin da subito quindi il liberalismo dovrà contraddirsi spesso con tariffe doganali protezionistiche per tutelare la stessa libertà di commercio come successe negli Stati Uniti per difendersi dall’egemonia britannica. O con interventi interni per creare acquirenti di una legislazione anti-monopolio o una legislazione in cui si diano sufficienti lavoratori competenti e qualificati. Dunque, conclude Foucault, la libertà nel liberalismo si scontra con la sicurezza. Essa “è il criterio per calcolare il costo di produzione della libertà”. La sicurezza si rende necessaria proprio per controbilanciare il liberalismo che fa del pericolo il suo motto: vivi pericolosamente. “Non c’è liberalismo senza cultura del pericolo”.  Allora la sicurezza è un po’ il recto verso o la conseguenza del pericolo e del rischio.  
Anche, non si può comprendere il liberalismo se non ci si rende conto dell’idea di progresso che con esso ha a che fare. “Con la concezione dei fisiocrati e di Adam Smith si esce definitivamente da un’idea del gioco economico come gioco a somma zero”. La libertà del mercato deve assicurare l’arricchimento reciproco. Il liberalismo fin da subito è improntato ad una visione globale e ‘naturale’ del mercato. È un’idea che si ritrova anche in Kant: è la natura a garantire la buona regolazione del mercato. È naturale che l’uomo tenda a possedere in quanto la natura è prodiga. È naturale che ci sia progresso. Insomma, sostiene Foucault, “è un naturalismo quello che vediamo apparire alla metà del XVIII secolo, molto più che un liberalismo” . Certo è un naturalismo, come Foucault ci aveva indicato in altri scritti, di un naturalismo razionalistico, dove natura, libertà e ragione sono quasi sinonimici. È un giusnaturalismo.
Tutto ciò ci porta, seguendo la lezione genealogica, a comprendere l’attualità. Cosa succede oggi? Foucault analizza gli Stati europei contemporanei. Cosa si scopre? Che gli Stati, appunto, intervengono solo per regolare la vita economica ormai egemone, anzi spesso è l’economico che investe e decide di autocontrollarsi utilizzando pragmaticamente gli apparati statali. Lo Stato è svuotato del potere di intervenire se non su richiesta della tecnologia economica: “l’economia è creatrice di diritto pubblico” . Se prima c’era uno Stato legittimo che limitava la necessaria libertà economica, dopo la seconda guerra mondiale si dovrà “risolvere il problema opposto: dato uno Stato che non esiste, in che modo farlo esistere a partire da quello spazio non statale che è quello della libertà economica?”
Non si tratta più di analizzare il capitale nei termini in cui Marx lo poneva per mostrare “la logica contraddittoria del capitale”. Si tratta piuttosto di affrontare il liberalismo con gli strumenti che ci ha offerto Weber e “del problema della razionalità irrazionale della società capitalistica” .  Sarebbe proprio da Weber, sostiene Foucault, che si sono dipartiti due degli indirizzi di pensiero più importanti e attenti alla questione liberistica, paralleli ma opposti: da una parte la Scuola di Friburgo, ovvero gli ordoliberali e dall’altra la Scuola di Francoforte. Entrambi gli indirizzi hanno preso sul serio la questione posta da Weber in merito al capitalismo.  Per i francofortesi si trattava di ridefinire una nuova razionalità sociale tale “da annullare l’irrazionalità economica”. Per la Scuola di Friburgo si trattava invece di ritrovare “una razionalità economica che consenta di annullare l’irrazionalità sociale del capitalismo”. Questo perché il liberalismo in fondo è una concezione tipica inglese per la sua peculiare configurazione geografica e marittima . Alla Germania, invece, “le occorre una politica economica protezionistica”.
La Scuola di Friburgo e i neoliberali in generale analizzano il nazismo nei termini di una regressione ed un ritorno alla statalizzazione, laddove per la Scuola di Francoforte e per Foucault il nazismo segna l’avvento di una risposta del liberalismo allo statalismo socialista. (Hobbes, per inciso, non è né il teorico del totalitarismo né il teorico del liberalismo come pretende Hannah Arendt . Hobbes è invece il teorico della sovranità basata sulla constatazione della penuria e sull’importanza di costruire la pace).  Il nazismo non è tanto la concentrazione del potere in uno Stato, quanto in un partito e in un Fürer, anzi si assiste con il nazismo ad uno smantellamento di molti apparati burocratici statali. In questo senso Agamben  non coglie nel segno quando considera la nuda vita una rappresentazione della biopolitica foucaultiana. Ciò che ha in mente Foucault non è tanto la nuda vita, ma una vita organizzata dalla logica del mercato e delle grandi imprese. Foucault, quando parla di biopolitica e biodiritto, non si riferisce tanto al nazismo, ma proprio al liberalismo. In questo senso Foucault è esplicito:
“Il nazismo ha solamente spinto sino al parossismo il gioco tra il diritto sovrano di uccidere e i meccanismi del bio-potere. Ma questo gioco è iscritto effettivamente nel funzionamento di tutti gli stati, di tutti gli stati moderni, di tutti gli stati capitalisti. E non solo di questi” .
Ciò non significa pensare che il nazismo non abbia voluto creare una serie di diritti e di leggi per controllare meglio la vita degli individui. Al contrario. Proprio come il liberalismo il nazismo ha dovuto instaurare una serie di leggi che divenissero norme. La macchina tecno-scientifica di un Kelsen di una ragione autoregolativa funzionava perfettamente anche per l’impresa nazista. A proposito Esposito nota che “contro la convinzione comune che i nazisti si limitassero a distruggere la legge, va invece detto che essi estesero fino a comprendere al suo interno anche ciò che palesemente la accedeva. Affermando di desumerla dalla sfera della biologia, essi consegnavano al comando della norma l’intero ambito della vita. Se il campo di concentramento non è certamente il luogo della legge, non è neanche quello del semplice arbitrio” .
Certo, i neoliberali vogliono dimostrare che dopo la seconda guerra mondiale occorreva “uno Stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello Stato” . Tuttavia gli ordoliberali rompono con la tradizione del liberismo classifico. Essi riconoscono che il principio di concorrenza come forma organizzatrice del mercato non può essere visto come un dato naturale. Essi, riprendendo Husserl, sostengono che “la concorrenza è un’essenza”, un principio di formalizzazione. “La concorrenza è dunque un obiettivo storico dell’arte di governo, non un dato di natura da rispettare” .
Ecco perché neoliberismo e ordoliberismo hanno bisogno di qualcosa o qualcuno che svolga la funzione di arbitro e che intervenga spesso e vigili sulle regole del gioco.  “A questo proposito i neoliberali hanno posto tutta una serie di problemi più storici e istituzionali che non propriamente economici” . Il diritto interviene per dirimere le questioni. È per questo che in fin dei conti “tra una società orientata verso la forma dell’impresa e una società il cui principale servizio pubblico è l’istituzione giudiziaria, esiste un legame privilegiato. Più moltiplicherete l’impresa… più moltiplicate le occasioni di contenzioso, più moltiplicherete la necessità di un arbitrato giuridico. Società di impresa e società giudiziaria, società orientata verso l’impresa e società inquadrata da una molteplicità di istituzioni giudiziarie, sono le due facce di uno stesso fenomeno” . In questo senso le tecniche disciplinari che si incaricano di governare gli individui agiscono in funzione del liberalismo. Bentham lo riconosce fin da subito: “il panopticon è la formula stessa di un governo liberale”.
Il regime liberale non è più solo e soltanto il risultato di un ordine naturale spontaneo ma anche il risultato di un ordine legale, qualcosa che presuppone l’intervento giuridico dello Stato. “Il giuridico dà forma all’economico”: un ordine economico-giuridico. Non tanto perché il giuridico debba intervenire e dire al piano economico come comportarsi, ma piuttosto occorre pensare l’economia come se fosse un gioco, e l’istituzione giuridica fornisce le regole di questo gioco. Ecco perché, almeno a partire dal XVIII secolo, secondo Foucault, il quadro giuridico (ma anche quello giudiziario) si è rafforzato. È necessario che si moltiplichino le istanze giudiziarie e di arbitrato. La burocratizzazione analizzata da Weber e l’avvento di uno stato di polizia, – che è anche uno stato di diritto e di un’arte del governo che intervengono sempre più massicciamente nella vita dei cittadini, – si collegano anche a questa stimolazione da parte delle imprese. Non tanto per legarli ad un lavoro o alla terra, anzi una certa mobilità assicura migliore produttività. Occorre piuttosto garantire una certa forma di libertà e di scelta, non tanto all’individuo quanto all’impresa, nel campo del lavoro e dell’economia investendo piuttosto su meccanismi come quello della sicurezza sociale, attraverso un sistema di assicurazioni che impediscano all’impresa di non correre troppi rischi. Si tratta insomma di governare la vita degli individui sui tempi dell’impresa. Sostiene più chiaramente Foucault:
Bisogna che la vita dell’individuo non si inscriva come vita individuale nel quadro di una grande impresa costituita dall’azienda o al limite dello stato, ma piuttosto che possa inscriversi nel quadro di una molteplicità di imprese diverse e concatenate e intrecciate tra loro… Infine, bisogna che la vita stessa dell’individuo – ad esempio il suo rapporto con la proprietà privata, con la famiglia, con la sua conduzione, con i sistemi assicurativi e con la pensione – faccia di lui e della sua vita una sorta di impresa permanente e multipla .
Si tratta, in altre parole, di farsi carico dell’individuo, di proteggerlo, di ancorarlo intorno al suo ambiente naturale, di regolare la sua vita in modo razionale, calcolabile, utile inserendolo nel meccanismo economico: una politica della vita. Ecco perché il diritto si occupa ormai di tutto, della vita stessa degli individui. Interviene per regolare, negoziare qualsiasi tipo di relazione sociale. Il diritto non è più e soltanto norma intesa come regola formale, ma diventa piuttosto, normalizzazione, un potere che interviene per far vivere e di lasciar morire… per controllarne gli accidenti, i rischi, le deficienze, è, in ultima analisi, nella società capitalistica avanzata, bio-diritto: un diritto che pur partendo da una diversa concezione, quella contrattualistica, è stato costretto a rincorrere le problematiche costituitesi dalla concorrenza delle imprese e dal tentativo di controllare gli individui in competizione. In conclusione “il bio-potere è stato, senza dubbio, uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo; questo non ha potuto consolidarsi che a prezzo dell’inserimento controllato dei corpi dell’apparato di produzione, e grazie ad un adattamento dei fenomeni di popolazione ai processi economici” .
Il liberalismo e il capitalismo sono  pratiche che si sviluppano  a partire dal XVII secolo insieme all’arte di governare della Police e dello Stato, sono  pratiche che mirano a potenziare il controllo del potere sulla massa di popolazione che sempre più numerosa si riproduceva e la cui mano d’opera era essenziale per aumentare la ricchezza dei nobili e dei borghesi. Tali pratiche si innestano sul potere pastorale cristiano, cattolico e protestante che già, di fatto, controllava la popolazione. Le scienze sociali, la demografia, la medicina, la psicologia ecc, non sono, per Foucault, che delle forme di sapere-potere che assistono e collaborano per la sanità della popolazione affinché l’individuo-massa possa essere funzionale al meccanismo economico.
Walter Fratticci
Le domande dell'etica
1. Una semplice questione (in apparenza) 
In filosofia è sempre insidioso giocherellare con le questioni, magari aggirandosi attorno ad esse con atteggiamento di affettata pensosità. A trattarle alla stregua di uno scontato e retorico esercizio di pensiero, si ottiene solo di aumentare l'insofferenza per le pretese della filosofia; ed il rischio di andare incontro ad impreviste smentite si fa tanto più grande, quanto maggiore è la (apparente) semplicità di quell'ingenuo darsi da fare. Per molti versi sembra inevitabile ed anche naturale seguire questa strada; argomenti più volte usati, problematiche note, temi da sempre oggetto di studio paiono non offrire più molto da pensare; mentre il loro stesso continuo ricorrere induce una sorta di assuefazione, che si traduce sovente in pazienti appropriazioni e monotone ripetizioni, per quanto diversamente confezionate. Molto dell'attuale dibattito culturale risente di un siffatto sorvolo a debita distanza dal cuore di essenziali questioni; in tutto questo talora si manifesta, è vero, solo un deficit di riflessione. Eppure, che siffatte questioni risorgano e si ripropongano sempre di nuovo, a dispetto di ogni presunta definitiva loro risoluzione, è segno inequivocabile di una permanente vitalità, che si esprime proprio nella spinta che danno all'incedere del pensiero. Il ritorno ad esse diventa allora occasione propizia di assoluta concentrazione sull'essenziale, sul nucleo sorgivo ed autentico che articola ed orienta la nostra umana condizione di nomadi ricercatori di un senso, che ci trascende pur essendo a noi quanto mai vicino. Questo richiama a sé la nostra distratta attenzione nascondendosi dietro forme all'apparenza normali; che invece, se accolte nella loro piena risonanza, giocano più propriamente come vere pietre di inciampo, sulle quali il pensiero è costretto a soffermarsi, per poter procedere lungo la via infinita dell'avvicinamento alla verità. A queste dinamiche non sfugge neanche una riflessione che intenda tornare a riflettere su le domande dell'etica, come suona il titolo assegnato a questo contributo.
Un titolo nel quale di primo acchito risuona un che di paradossale. Nella opinione comune l'etica infatti è classificata come quella disciplina filosofica che si propone tanto come fattore di descrizione del comportamento dell'uomo quanto anche, e soprattutto, come ambiente teorico di definizione delle modalità e finalità del suo agire. Ad essa ci si interessa dunque al fine di ricavare indicazioni di criteri e direttive necessari allorché si tratti di affrontare situazioni dilemmatiche, nelle quali le opzioni possibili sono plurime e impregiudicati i loro esiti. È quando mi chiedo "cosa fare? ", che l'etica si rivela strumento prezioso e guida indispensabile verso una risposta adeguata. Sembra dunque che, kantianamente, l'unica domanda rilevante per la riflessione etica -- una domanda che peraltro precede tale riflessione, attivandola -- sarebbe quella appena declinata. Perché allora occuparsi delle domande dell'etica? Quali altre domande si danno? Non dovremmo piuttosto prendere in considerazione le differenti interpretazioni e risposte che sono state e ancora di nuovo vengono suggerite per motivare e rafforzare l'agire umano? Non sbagliamo forse approccio ad affrontare la questione etica dal lato della domanda?
Il paradosso è forse la prima manifestazione del vero; va tenuto per questo nella massima considerazione, dal momento che esso si dà a vedere nello squarcio prodotto nella tela ormai consumata dell'interpretazione del reale. Quando infatti a riproporsi è la domanda, quando la ricerca torna nuovamente a scavare attorno agli elementi costitutivi che la sostanziano, questo è perché la strada finora battuta comincia a mostrarsi faticosa ed incerta. Allora al filosofo si richiede di prendere sul serio e svolgere fino in fondo la domanda che origina la sua ricerca, chiamando direttamente in causa gli snodi cruciali che articolano e sostanziano la cosa stessa di cui va occupandosi. Questo è quello che questo contributo si ripromette di fare. In tal modo il suo percorso è per buona parte già segnato. Esso deve, per non ridursi a presentare risposte che è proprio la riproposizione della domanda a segnalare come inadeguate, assumere decisamente il senso profondo di questo domandare. Le domande dell'etica, dunque.
In effetti il tema, con cui questo contributo si confronta, acquista il suo vero senso sullo sfondo di un più ampio domandare, cui la ricerca filosofica ai nostri giorni non può assolutamente sottrarsi. Qualcosa infatti è tornato ad essere nuovamente problematico. Le domande etiche, che l'attuale contesto culturale, che forse sta perdendo in profondità quanto guadagna in ampiezza, pone al filosofo, lasciano infatti intravvedere nella modalità del loro stesso porsi l'assottigliarsi consistente di quel fondo comune condiviso, entro il quale la pluralità dei percorsi viene a costituire un intreccio di opzioni in dialogo reciproco e non un mero elenco incoerente di affermazioni autoreferenziali. Tutto sembra essersi messo in rapido movimento. Il riferimento vacilla, come pure l'orizzonte generale a lungo considerato come lo stabile sostegno di ogni procedere discorsivo. Siamo diventati tutti, come sostiene Engelhardt, degli «stranieri morali». Le strade che attraversano la regione etica non conducono più tutte a Roma. L'immagine, anch'essa proposta dal filosofo statunitense autore del Manuale di bioetica, rappresenta con grande efficacia la situazione contemporanea e le difficoltà che in essa la riflessione etica incontra. Quella metafora lascia infatti intendere che non solo, come è legittimo ed anche auspicabile, il punto di partenza dei percorsi dell'azione personale, nonché i percorsi stessi, siano differenziati; ma, anche, che non più coincidente sia neppure la meta. Ci si mette in cammino, insomma, senza grande preoccupazione per il luogo verso cui tende il movimento. Anzi, di più, il viaggiare medesimo viene a configurarsi come fine sufficiente a giustificare il viaggio, che diventa perciò un viaggio senza meta. Rendendo esplicito il ragionamento, esso constata la dissoluzione e frammentazione contemporanea del riferimento orientativo al bene, un riferimento che, per quanto diversamente declinato, ha nondimeno pervaso l'ethos dell'Occidente, venendo altresì riconosciuto come elemento gerarchicamente impegnativo per l'agire umano. In un altro momento riprenderemo in maniera più analitica il discorso. Qui per il momento interessa solamente mettere in evidenza come entro la tradizione europea si siano prodotte smagliature, che non consentono più di ritenere omogeneo ed immediatamente condivisibile il discorso etico, a partire dai suoi essenziali presupposti.
Con ogni evidenza, infatti, non è la sola riflessione etica ad essere messa in discussione dai grandi sommovimenti epocali che caratterizzano il nostro tempo. Anzi il fattore primario di crisi deve essere individuato piuttosto nella fragilità degli attuali assetti metafisici ed antropologici, con i quali la dimensione etica dell'esistenza è strettamente intrecciata e dai quali essenzialmente dipende; assetti che, per usare la nota metafora proposta da Zygmunt Bauman, sono segnati dalla liquidità, vera configurazione categoriale caratterizzante il nostro tempo. La società liquida è quella che non ha forma propria, ma si adatta facilmente ad ogni nuovo contorno che lo spirito dei tempi assuma; e che però, con la stessa facilità, corre il rischio di disperdersi e sfaldarsi, allorché il movimento si fa repentino e i cambi di direzione frequenti. E così diventa sempre più difficile identificare dei riferimenti univoci a partire dai quali costruire un profilo antropologico che riesca ad interpretare la pluralità delle esperienze umane. Il fatto è che la liquidità non tollera solidificazioni di alcun genere o livello, mentre le istanze, anche le più estreme e reciprocamente contraddittorie, rivendicano identico spessore e validità. Non è un caso perciò che la questione antropologica stia nuovamente bussando con prepotenza alle porte della riflessione contemporanea. Questa condizione dello spirito ha un evidente risvolto nell'etica, che soffre più di tutto la crisi e si sente messa in questione, dall'interno e dall'esterno, nella sua pretesa di interpretare e motivare l'agire dell'uomo.
Occorre perciò nuovamente assumere il compito del pensare, cercando di recuperare quanto con colpevole indifferenza la cultura contemporanea ha messo da parte. Non si tratta, va detto subito per evitare sul nascere ogni possibile equivoco, di invocare uno scongelamento comunque problematico di proposte conservate nel freezer della cultura, quasi che bastasse spostare indietro le lancette dell'orologio per tornare ad ipotizzare scenari di condivisa normalità. Occorre molto di più. Occorre disporsi a riprendere in mano con rinnovata energia le grandi questioni che da sempre l'uomo ha sentito come inevitabili ed insieme indispensabili per dar senso e reale pienezza alla sua condizione mondana.
2. L'etica in questione 
Una cosa sembra infatti attestata con sufficiente certezza: l'etica ai giorni nostri si trova in un "ginepraio di contraddizioni" simile a quello denunciato da Kant per la metafisica del suo tempo. Serrati confronti su opzioni etiche reciprocamente contrastanti; condotte radicalmente differenziate, ricavate da petizioni di princìpi solo nominalmente identici; interferenze ideologiche che fanno sentire tutto il loro peso nella definizione dei programmi di vita: entro un tale scenario frastagliato l'uomo contemporaneo è chiamato ad affrontare la ricerca di un filo di coerenza, che dia valore al proprio agire senza consegnarlo all'evanescenza di decisioni arbitrarie, perché fondamentalmente incapaci di rispondere di sé. E poi, con più esplicita e convinta consapevolezza, ripetuti appelli a favore di un'etica condivisa, che persone di buon senso di tanto in tanto lanciano. Abbiamo un bisogno quasi disperato di trovare riferimenti comuni che ci consentano ancora di nuovo di delineare lo spazio di una convivenza ordinata.
Eppure la situazione continua a restare problematica. Il fatto è che questi appelli si mostrano radicalmente dissonanti o, forse ancor più, non coerenti con lo sfondo nichilistico della tarda modernità, uno sfondo che per un verso dà voce, per l'altro invece legittima il dissenso generalizzato verso ogni affermazione che intenda rivendicare per sé una intrinseca caratura, che dunque avanzi pretese rispetto alle quali l'individuo umano possa sentirsi subordinato e in qualche misura anche essenzialmente vincolato. Di ogni affermazione dell'etica, in relazione alla quale si sostenga una pretesa di normatività trascendente il contesto concreto cui essa possa comunque riferirsi, si avanza il sospetto di umana condizionatezza. Delegittimata in tal modo la pretesa universalizzante dell'etica, il singolo attore individuale della scena pratica proclama perciò se stesso come fondamento esclusivo di legittimità dell'azione. Su questo assunto, esplicitamente o meno convergono le più significative tendenze della modernità: condizionato dalla cultura, dalla religione, dalla vita sociale, dall'educazione, dall'economia -- e come potrebbe essere diversamente, essendo l'uomo ontologicamente dipendente e determinato fin dall'atto che lo pone in essere? -- l'individuo è invitato a sottrarsi a simili legami al fine di poter affermare se stesso nella sua più ampia libertà. L'uomo, che utilizza la norma etica, vuole esserne anche il creatore. Poche cose sono così radicate nella cultura contemporanea quanto il valore insuperabile della soggettività della coscienza. In qualunque modo si faccia richiamo ad un valore soprastante quest'ultima, la reazione che si genera è quella di ribellione ad un fatto percepito come intollerabile sopruso ed inammissibile violenza. Ma così l'etica ha ancora un senso, o non viene piuttosto destabilizzata fin nelle sue più profonde radici? Può l'etica abdicare al compito di fornire una norma fondamentale generale, che non sia plasmata od anche derivata solamente a partire da circostanze determinate ed assolutamente contingenti? Può l'etica convivere con l'affermazione di una autonomia totale della coscienza individuale, che viene a determinarsi meglio come autoreferenzialità assoluta e che il tratto frammentato dell'esistenza contemporanea traduce in fondo come anomia, ovvero negazione della norma stessa? L'etica non si riduce allora ad essere mera tecnica di comportamento, etologia -- approccio che rivendica con essa una qualche forma di parentela, come la comune derivazione etimologica inequivocabilmente mostra? Con queste domande siamo così già entrati nel cuore della riflessione che ci occupa. La questione, che ci si va infatti proponendo, è quella del fondamento della norma etica, sul quale ci sentiamo particolarmente scoperti ed in grave debito di riflessione. Perché le difficoltà, cui si faceva prima riferimento, sorgono in definitiva proprio dal non poter più contare su un principio che possa essere riconosciuto immediatamente come assolutamente valido. Non sono dunque le singole valutazioni morali, pure spesso oggetto di accesa discussione e forte divisione, quelle che anzitutto ostacolano il dialogo e la possibilità di un incontro sull'etica, quanto piuttosto i principi che fungono da fondamento, di cui quelle valutazioni sono in definitiva deduzioni più o meno coerenti.
Questo genere di considerazioni non ci sono del tutto nuove. A porre l'attenzione su di esse ci ha abituato Kant con la sua riflessione critica trascendentale; richiamarne perciò l'ambientazione assieme storica e teoretica può aiutarci ad avanzare nella nostra riflessione. Non potendo più contare sull'immediata evidenza dei princìpi della tradizionale dottrina morale, che la scienza newtoniana da un lato, le trasformazioni sociali e culturali prodotte dal progresso della civiltà dei lumi dall'altro, stavano velocemente erodendo, Kant si è mosso alla ricerca di un nuovo approccio che consentisse di salvaguardare il diritto e la possibilità stessa per la coscienza morale di un'azione moralmente adeguata. Dobbiamo riconoscere che a più di duecento anni dalla sua morte, le questioni che nel campo etico ci si parano dinanzi non sono poi così molto differenti. Non diversamente per noi, è ancor nuovamente con la retroazione che le risultanze scientifiche -- oggi della biologia, più che della fisica -- esercitano sulla riflessione etica che dobbiamo confrontarci; mentre, per altro verso, va delineandosi un nuovo senso morale, che affida alla valutazione suprema dell'individuo, in verità più autoreferenziale che autonomo, il tono etico dell'agire. Vengono ad evidenziarsi in tal modo due nodi problematici e fondamentalmente aporetici, che vogliamo anzitutto dibattere, rinviando ad un secondo tempo la definizione di una prospettiva di ricerca di un principio condiviso: la questione della libertà e/o determinismo nell'etica, ed in secondo luogo l'opposizione di universalità e/o relatività della norma morale. Entrambe le questioni investono la riflessione etica con una forza radicale che mette in gioco non solo la plausibilità dei sistemi etici, ma in definitiva la possibilità stessa della sussistenza di un pensiero e di una prassi che voglia e possa qualificarsi come etica. Diventa perciò essenziale misurarsi con esse.
3. Universalità vs. relativismo della norma 
L'opposizione di universalità e relativismo della norma etica, dalla quale prendiamo le mosse, affronta la questione del fondamento di validità della norma stessa dal suo lato formale. Quella che in tal modo si pone è la questione relativa all'estensione dell'ambito di validità della norma. In relazione a quali eventi, situazioni, decisioni la norma etica può far valere la sua istanza?
In prima battuta, un tale interrogativo sembra solo articolare il ventaglio di possibilità cui la norma medesima si riveli applicabile; agli estremi troviamo il caso della norma che tutti riconoscono, almeno astrattamente, come impegnativa, ad esempio il divieto di uccidere, e dall'altro quello del principio di azione che invece interessa propriamente solo il singolo individuo. Tra questi poli si genera una tensione dialettica che può facilmente scivolare in una radicalizzazione esaltante in maniera esclusiva uno solo dei due estremi, come nel caso delle concezioni che potremmo definire dogmatico-oggettive che fanno della norma nella sua oggettività data un valore assoluto immediatamente applicabile ad ogni singolo caso ed al quale la coscienza individuale può solo mettersi passivamente al servizio; o, dall'altro lato, delle opzioni scettiche e individualistiche che, al contrario, ritengono che la determinatezza sempre particolare del contesto pratico, unita alla insopprimibile differenza dei singoli soggetti agenti, renda di fatto impossibile il ricorso alla mediazione di una fonte normativa univocamente determinata. Il peso specifico di entrambi i principi, che le posizioni filosofiche, qui sopra per sommi capi richiamate, pretendono di salvaguardare mediante la riduzione di valore del termine correlativo, chiede di essere apertamente riconosciuto. Norma morale e coscienza singola sono evidentemente legate in una relazione di equilibrio dinamico, sempre da ricercare e continuamente da ricostituire. Eppure su questo punto di equilibrio, e proprio per la sua dinamica costituzione, si concentrano alcune delle maggiori perplessità che affaticano la ricerca etica contemporanea. È conveniente affrontare la questione dal lato dell'universalità della norma. La domanda che ci poniamo è dunque la seguente: qual è il bisogno di sostenere l'affermazione di una validità universale del principio etico?
Il dato storiografico evidenzia con grande evidenza che la tradizione filosofica ha sostenuto in maniera pressoché costante come premessa fondamentale della possibilità stessa di una considerazione etica la validità della norma per la generalità delle situazioni. Questa impostazione può essere osservata già nella riflessione del primo Platone. La sua riprovazione della decisione dei giudici ateniesi che hanno condannato Socrate e, per converso, la difesa della correttezza dell'operato del suo maestro, è giustificata proprio mediante il confronto delle rispettive condotte con un paradigma unico cui l'agire singolo deve essere commisurato ed ancorato e dal quale solo dipende la correttezza del giudizio e la virtuosità dell'agire. Soltanto in questo modo infatti, a giudizio di Platone, la valutazione del bene può essere sottratta alla definizione del singolo, inevitabilmente parziale e dunque sostanzialmente arbitraria. E se, in altri momenti della storia della cultura, con atteggiamento ispirato a maggiore flessibilità il sentire comune ha aperto uno squarcio nella inflessibilità della legge morale concedendo la legittimità dell'eccezione, quest'ultima nondimeno non veniva ritenuta tale da inficiare la validità potenzialmente universale della legge. La norma etica era ritenuta capace di orientare la prassi in ogni situazione.
Anche affrontando la questione dal versante più propriamente teorico, il carattere di universalità delle sue affermazioni sembrerebbe proprio dell'etica. Che sia il bene o il giusto, la felicità o l'utile il principio che giustifica ed orienta l'azione, questo non può non avere un tratto universale; il principio morale cioè avanza la pretesa di valere non solo per il singolo individuo, in quanto ottiene la legittimazione più vera e forte dal fatto che quanto è affermato avere valore per il singolo è ritenuto potersi estendere anche, almeno di principio, a tutti gli uomini. È senz'altro Kant il pensatore che più di ogni altro ha sostenuto la necessità dell'universalità del giudizio morale, al punto da far valere come giustificazione dello stesso formalismo dell'etica l'insuperabile parzialità connessa ad ogni determinazione materiale della legge morale; questa risulta inevitabilmente condizionata proprio nel merito del comando dalla particolarità delle circostanze contingenti, che la rendono irrimediabilmente puntuale e ne impediscono la possibile estensione ad altre situazioni. La formula dell'imperativo categorico esprime questa preoccupazione kantiana in maniera esplicita: «Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale». In questa sorta di riedizione della regola aurea, che fa di quanto si desidera ricevere da altri il criterio di condotta verso gli altri, in effetti l'obbligazione del giudizio morale trova nell'affermazione di universalità la propria validità, ovvero la sua riconosciuta conformità al dettato della ragione. Solo nella misura in cui il principio della mia azione potrebbe essere accolto ed applicato anche da altri, ben oltre le contingenze del contesto originario -- il che in altri termini equivale a dire la sua natura universale -- solo in questo caso infatti l'agire del singolo individuo potrebbe rivendicare l'esatta corrispondenza all'obbligazione morale e proclamarsi moralmente corretto, escludendo ogni arbitrarietà del giudizio pratico.
Ma anche nel caso di un approccio etico differente, maggiormente attento ai risvolti empirico-concreti dell'agire umano, trova spazio l'appello a principi di riconosciuta portata universale, vale a dire da considerare da parte di ciascuno come imprescindibili ed assolutamente validi, benché diversamente declinabili nel concreto da soggetti differenti. Tutti gli uomini tendono alla felicità, «il più elevato dei beni realizzabili attraverso l'azione» e fine di queste ultime, sostiene Aristotele nell'Etica Nicomachea. E per quanto la concreta individuazione del contenuto della felicità possa dar luogo ad esiti differenti, che mostrano il diverso grado di educazione e raffinatezza dell'anima, nondimeno è verso di essa che muovono tutte le azioni umane; ne è come la forza attrattiva ultima. Lo stesso si può dire per il principio di utilità, affermato da Hume come criterio di valutazione etica: l'utilità «è la sola fonte dell'approvazione morale che si tributa alla fedeltà, alla giustizia, alla veracità, all'integrità e alle altre qualità e principi utili e degni di stima». Le differenti opzioni teoriche si dividono dunque nella definizione dei caratteri essenziali del principio etico, non nel riconoscimento della sua validità. Ad esso, comunque definito, deve far ricorso il soggetto agente.
Quello che la tradizione filosofica esprime, in buona sostanza, è che la riflessione etica richiede che quanto essa propone possa valere al di là del caso specifico che l'ha attivata. Diversamente rimarrebbe solo il bisogno individuale o la pervicacia della volontà propria a fornire all'azione la determinazione etica essenziale. Con il che, però, la forza del principio che giustifica la dichiarazione etica sarebbe di molto limitata nel suo valore. Affermata solo relativamente al caso specifico, la norma si rivela incoerente e contraddittoria rispetto alla sua pretesa di orientare il comportamento in genere. Certamente la norma universalmente accolta non può escludere, ma anzi necessariamente include l'appello alla coscienza singola, che della condotta conforme a tale norma è esclusivamente responsabile. L'universalità della norma perciò non può essere contrapposta al diritto della coscienza. Ma proprio perché fra le due non si dà opposizione ma integrazione, la coscienza individuale deve riconoscere la valenza in qualche misura obbligante del principio universale.
Certo, ipotesi teoriche del genere manifestano una chiara intenzionalità prescrittiva del giudizio etico, tendono cioè a delineare orizzonti significativi per la prassi. Ma la questione non cambia di molto se, rifiutato per l'etica il riconoscimento di prescrittività, si concede ad essa solo una funzione descrittiva dell'agire umano. Anche in questo caso infatti non è difficile notare come l'iscrizione della proposizione oggetto di analisi al campo dell'etica sia consentita solo mediante il riferimento previo ad un paradigma condiviso del "marcatore" etico. Evidentemente buono o giusto sono termini il cui significato deve essere già presupposto e riconosciuto come valido dagli interlocutori che fanno uso di proposizioni del linguaggio etico. Diversamente non si disporrebbe di nessun elemento per delimitare il registro etico da quello afferente ad altri campi e quindi verrebbe meno la stessa possibilità di definizione della proposizione etica.
E tuttavia la questione non può dirsi chiusa in modo così facile. La forma attuale dell'alternativa etica solo approssimativamente suona identica alla articolazione che ne ha finora data la filosofia morale. A marcare la distanza, infatti, una seconda distinzione, che fa perno attorno alla affermazione della centralità assoluta ed invalicabile dell'esistere proprio di ciascuno, si sovrappone alla questione intrecciandosi con essa e producendo risonanze impreviste che finiscono per disarticolare anche l'equilibrio appena affermato della riflessione etica. Il dibattito interno all'etica, relativo alla migliore modalità di incarnare l'ideale universale che la costituisce nell'intimo, è scavalcato da una nuova posizione della domanda, dove messa in questione è esattamente la pretesa della legge morale di avere un qualche valore vincolante l'agire immediato. Per conseguenza delegittimato in radice è il richiamo ad un confronto della prassi con un quadro di riferimenti etici aventi forza di principio, di cui non si vede neanche il bisogno. Quale diritto può dunque vantare l'universalità della norma nel pretendere di subordinare a sé la volontà individuale del soggetto agente? Perché mai dovrei limitare lo spazio ed il potere della mia volontà libera assoggettando quest'ultima ad un principio che mi trascende, che non ho contribuito io a definire, che io sento comunque vincolante e restrittivo?
Domande come queste sono destrutturanti l'impianto etico tradizionale. Esse mettono in gioco infatti non tanto l'estensione dell'orizzonte etico, l'ampiezza inclusiva del principio cui l'agire singolo deve far riferimento, quanto piuttosto l'intensità dello stesso, la sua pretesa di trascendenza etica ovvero di apriorità nel processo pratico che lo costituisce gerarchicamente sovraordinato al soggetto agente. L'universalità della norma viene in qualche modo ancora riconosciuta; ma si tratta oramai di una universalità solo condizionale, affermata solo relativamente ed anche funzionalmente al diritto delle esigenze individuali, che esigono rispetto assoluto. La possibile estensione del criterio normativo particolare non viene pertanto esclusa di principio, ma se si dà è solo per un dato di fatto assolutamente non riconducibile ad uno schema di ragionamento di tipo universalizzante. Quello che sembra far problema alla coscienza contemporanea, insomma, è il primato che la norma morale rivendica per sé. Ecco che, rispetto a questa diversa formulazione della domanda etica, la lode kantiana al dovere, «nome sublime e grande» che «chiedi la sottomissione» e che «esponi soltanto una legge che da sé trova adito nell'animo e anche contro la volontà si acquista venerazione», mostra tutta la sua inefficacia. Altre sono le coordinate del problema.
Il fatto è che l'affermazione dell'individuo, vera e propria cifra della modernità, confligge con il riconoscimento della trascendenza della norma e si oppone radicalmente alla pretesa di universalità di questa. Per un motivo di interna coerenza la modernità, costituitasi attorno alla centralità del soggetto, non è disposta a rinunciare al principio di autodeterminazione individuale. Ma lo sviluppo dialettico di questo principio conduce ad esiti clamorosi, per quanto del tutto consequenziali. Autodeterminazione non significa più solo, kantianamente, che il principio della legge morale non può venirmi imposto in modo eteronomo, costituendo esso l'essenza stessa della ragion pratica; autodeterminazione in realtà sta a dire la rivendicazione di assoluta disponibilità di ogni principio, non solo materiale ma anche formale, da parte del soggetto agente. C'è un detto di Nietzsche su cui dobbiamo soffermare la riflessione. «Posto che si dia la verità, perché non, piuttosto, la non verità?» Della radicalità dell'attacco nietzscheano alla tradizione culturale che ha sorretto l'Europa (preferisco parlare di Europa piuttosto che di Occidente, come fa Nietzsche con una identificazione che andrebbe almeno ridiscussa. Europa non è la terra del tramonto.) solo ai nostri giorni cominciamo a prender coscienza. Minacciosa per la possibilità stessa dell'etica non è la contestazione della morale cristiana come morale degli schiavi, ma lo sconquasso operato sul sistema dei riferimenti in nome dell'assoluta volontà dello Übermensch, l'uomo che ha oltrepassato lo stadio umano di vita per collocarsi nel luogo dell'oltre, dove la sua volontà, che è volontà di potenza, domina sovrana senza più alcuna censura o remora. Non si dà infatti motivo alcuno, che non sia la volontà dell'uomo creatore, che possa attribuire un senso ed anche un valore a cose ed eventi. Nulla è già definito: non la verità, non la non verità. «Se esistessero ancora gli dei, come potrei tollerare di non essere io -- un dio?», si lamenta Zarathustra. Eccola l'etica a-morale di Nietzsche, che abbatte ogni dato trascendente e reclama assoluta onnipotenza per la volontà vogliosa dell'uomo dell'Umanità superiore. Più nessun dio, sia pure nella forma di un valore secolarizzato, può ormai contrastare l'autoaffermazione dell'individuo che si afferma sul gregge degli uomini restati tali.
Non sorprende perciò che per molti di noi, nipotini non sempre consapevoli di Nietzsche, ogni rimando a principi universali, che avanzino una pretesa di validità intrinseca ed antecedente la libera scelta degli stessi da parte dell'individuo protagonista assoluto dell'agire, venga percepita come una minaccia ed anche una limitazione insopportabile al principio medesimo di libertà. E così il disaccordo etico ha preso il posto dell'accordo, la trasgressione e l'estraneità morale quello della condivisione, il relativismo etico quello dell'universalità della norma morale. L'ambito di validità di questa sembra restringersi agli orizzonti omogenei di senso e di valore di cui ciascuno, individuo o gruppo sociale, è nei fatti portatore. L'appartenenza ereditata dalla nascita o la consapevole adesione a differenti tradizioni culturali risulta costituire ostacolo insuperabile all'individuazione di una norma condivisa da tutti. Sicché ogni tentativo di accreditare una qualche validità a priori della norma viene considerato un ostacolo alla possibilità stessa dell'agire libero dell'uomo. Qui si tratta di più che della semplice enfatizzazione di esigenze individuali che non vogliono cedere ad un principio sovraindividuale, di cui pure si ammette la possibilità; in realtà quello che viene sostenuto è il riferimento delle scelte pratiche ad un soggetto che non riconosce vincoli estranei a quelli che lui stesso ritiene di autoimporsi. Al kantiano "tu puoi perché devi" si è sostituito il nichilistico "tu devi perché puoi". Una prassi del genere trova sul terreno etico la sua più compiuta teorizzazione nel relativismo; questo restringe il campo di indagine etico alla circostanza fattuale nella sua più concreta immediatezza, dove solo il soggetto agente individuale è protagonista; dove pertanto non si danno altre istanze cui commisurare la propria condotta. E così l'etica dell'individuo razionale si rovescia nella prassi a-morale dell'imposizione inevitabilmente violenta del forte sul debole, del ricco sul povero, dell'incluso sull'escluso, del sano sul malato.
Ovviamente il relativismo è solo il portato finale di un processo che si muove molto più in profondità, ad investire i gradi preliminari su cui la riflessione etica si basa, quali l'antropologia e la stessa metafisica. Il riferimento a Nietzsche deve essere letto in questo senso. A considerare la cosa nel suo complesso, possiamo dire che giunge qui a compimento un processo plurisecolare di emancipazione, che ha liberato l'uomo dalle pastoie di oggettivazioni dogmatiche che finivano per negare quella dignità antropologica al cui servizio pure erano state elaborate. Una morale oggettivata ed al tempo stesso sclerotizzata in forme che pretendevano avere una vitalità ed una sostanza per sé stanti, pensate al tempo stesso più come gabbie entro cui comprimere la vita che come supporti per una vita buona, ha generato una reazione di ribellione. Il rifiuto di tali forme, che fanno dell'uomo niente più che un luogo della realizzazione di istanze esterne in cui la coscienza non ha parte attiva, ha però prodotto la versione semplificata, ed altrettanto estremizzata, di una prassi dove sono quelle istanze a non avere più parte alcuna. Il processo va ovviamente compreso nella totalità delle sue manifestazioni dinamiche, che qui possono essere solo alluse. Non serve a nulla la sua demonizzazione, così come conta poco osservare che il relativismo è in verità un assolutismo mascherato, dove la prospettiva individuale del soggetto agente viene totalizzata e proposta come prassi assolutamente giustificata dalla volontà stessa di chi opera. Resta che lo scardinamento dell'etica, nella sua stessa possibilità, è violento.
La segmentazione del principio etico nei rivoli di una soggettività affermante la propria assoluta ed incondizionata autonomia, che non risponde che a se stessa dei propri comportamenti, lungi dal valere come elemento di rinforzo della fondazione etica, ne mina in realtà le radici profonde. Perché un'etica possa darsi, occorre infatti almeno condividere un perimetro minimale di riflessione, che salvi dall'illusione dell'arbitrio e renda possibile il confronto. Aristotele questo lo dice della filosofia in genere. Noi limitiamoci ad affermarlo per la riflessione etica. Ed il motivo di ciò sta nel fatto che l'etica è chiamata ad intervenire non propriamente sui meccanismi dell'azione umana, quanto piuttosto sulle dinamiche che la stessa azione attiva nel contesto umano sociale. Già Hume osservava che non ci sarebbe bisogno della virtù della giustizia se l'uomo vivesse isolato da ogni contatto con il suo simile. Se l'uomo è essere-in-relazione, persona, l'agire umano, su cui l'etica afferma la competenza, non può non tener conto della presenza di altri e non può non essere oggetto di considerazione ed analisi da parte di altri; dal momento che le azioni e i loro effetti modificano strutturalmente la relazione umana, di cui tutti sono egualmente protagonisti e spettatori. Soltanto nell'ipotesi astratta ed irrealistica di un essere umano, individuo solitario ed isolato da ogni contatto con i suoi simili, si potrebbe sostenere a ragione la non necessità di un riferimento etico fondamentale previo ed indipendente rispetto all'azione data nel concreto. Ma poi forse, a ben vedere, nemmeno in questa ipotesi il singolo individuo potrebbe fare a meno di confrontare i diversi momenti del suo agire e cercare di tenerli assieme costruendo una condotta coerente capace di dare orientamento alle sue azioni.
Ecco dunque che l'elevazione dell'autonomia individuale a principio normativo esclusivo dell'agire, se può ancora valere in riferimento all'individuo singolarmente preso, diventa estremamente problematica quando pretenda di porsi come criterio di determinazione della condotta di singoli in relazione umana tra di loro. È evidente che in questo caso nessun motivo razionale può essere addotto a giustificare la modalità di gestione e di composizione del conflitto, che si genera inevitabilmente ogni qualvolta non si produce una concordanza immediata degli interessi individuali. A questo livello l'etica non potrà essere che espressione dell'interesse del singolo individuo concretamente impegnato nell'azione. E, a meno di non far ricorso all'ipotesi veramente metafisica, nonché sottilmente totalitaria, di un soggetto astratto, quale ad esempio l'umanità la società o lo stato, è allo stesso modo inevitabile che l'interesse del soggetto individuale sia un interesse limitato: a sé, ai suoi, al suo gruppo sociale. E che ne è allora degli altri? degli estranei al nostro ambiente sociale? degli stranieri?
Un caso che ha occupato tempo addietro le pagine dei giornali, quello dei "respingimenti" presso i paesi di partenza degli immigrati clandestini che cercavano di sbarcare sulle coste italiane, può essere un interessante esempio delle nuove difficoltà che un approccio etico di tipo relativistico pone. Esso dimostra che qualora l'utile nazionale richieda l'adozione di misure di contrasto lesive dei diritti elementari del "popolo dei barconi", che sfugge alla guerra e alla fame, il primo fa premio sul secondo e questa priorità viene a giustificare eticamente l'azione. La relativizzazione della norma morale, fatta dipendere dalle esigenze del soggetto (individuale o collettivo) protagonista dell'agire, rende non appellabile il riferimento al principio universalmente riconosciuto dei diritti dell'uomo. Se l'individuo è legislatore a se stesso senza che niente e nessuno possa contestargli il suo diritto primario a definire il contenuto della norma che egli riconosce come prioritariamente valida, non si vede per quale motivo questo stesso individuo che definisce assolutamente giusto il comportamento di tutela dei propri beni e territorio debba sottostare ad imperativi etici come quello della promozione della pace o del rispetto della salute o della dignità dell'altro uomo non appartenente allo stesso gruppo identitario. Nel contesto relativistico, il discorso può essere perfettamente coerente. Ma andiamo provocatoriamente fino in fondo. Gli italiani che lavorano sul territorio africano per conto di imprese italiane o gli escursionisti di safari in Africa non sono, dal punto di vista degli indigeni, altrettanti stranieri che operano illegittimamente in territorio altrui? non hanno pertanto pieno diritto i ribelli della Nigeria o i pirati del Corno d'Africa a far valere le norme della loro etica individuale (di gruppo)? e dunque "respingere" (che in questo caso equivale a rapire) questi stranieri, immigrati da loro non autorizzati? Non vorrei essere frainteso. Non intendo affatto giustificare tali comportamenti, che ritengo moralmente inaccettabili; sto solo cercando di rendere evidente come il riferimento alle esigenze individuali, che ognuno è nel pieno diritto di rivendicare -- a meno di non introdurre una razzistica differenziazione tra uomo e uomo -- non sia poi sufficiente a sostenere il minimo di decenza etica necessario a garantire la sopravvivenza delle relazioni umane. Mi sembra che l'esempio mostri bene come basti cambiare prospettiva, spostare il centro del sistema, e quello che prima sembrava anche tollerabile se non anche accettabile, diventa improvvisamente crudele e illecito. La logica del ragionamento rimane la stessa: l'affermazione di una prassi di cui il soggetto agente è anche il fondamento di legittimità. Con quale coerenza di ragionamento allora sostenere la colpevolezza e la disumanità di quei comportamenti? Una volta ammesso il criterio di ricondurre ogni decisione al punto di vista del soggetto agente, si potrà poi distinguere tra soggetto e soggetto? Pare perciò che non resti altro che la forza del vincitore ad attribuire apprezzamenti e biasimo. Perversa è dunque questa logica.
Perversa perché apre le porte alle giustificazioni più incredibili e alle legittimazioni più arroganti che nessun appello alla ragione potrà scardinare. Di fronte ad essa persino il richiamo ai diritti fondamentali dell'uomo, che pure valeva come ultimo contrappeso all'arbitrio di una soggettività esasperata, si rivela un'arma spuntata. Chiuso nel suo bozzolo dove egli è legge a se stesso, il relativista non si lascia scalfire dall'appello ad un fondo comune di dignità umana. Egli esalta il politeismo dei valori della società multietnica e multiculturale, dove ognuno può scegliere in tutta libertà e senza obbligo di giustificazione il suo idolo. Ma, e qui sta tutta la questione, questo politeismo ha scalzato il fondamento stesso che poteva sostenere e finora aveva sostenuto la ricerca del punto mediano di equilibrio, ha relativizzato persino quei diritti. Tra soggetto e sue maschere, l'immagine dell'uomo è andata in frantumi. La ricerca etica scopre così uno dei suoi lati deboli, ovvero il lato antropologico. Chi è infatti il soggetto dell'agire etico? Un individuo autoreferenziale, in grado di determinare assolutamente se stesso e pertanto estraneo ad ogni interpellanza di responsabilità verso altri, o una persona, essere in relazione con altri cui deve in qualche modo rispondere di sé e del suo operare? Dalla risposta a questa domanda dipende la possibilità di continuare nella nostra riflessione.
La conclusione è pertanto aporetica. L'etica sembra come bloccata in una situazione di stallo, nella quale le domande risuonano con maggiore intensità.
4. Libertà vs. determinismo 
Lo scenario non si fa di certo più nitido se affrontiamo il secondo dei nodi sopra individuati come centrali per l'attuale ricerca etica, nodo che aggredisce la possibilità dell'etica in una maniera che si rivela speculare al primo. Se infatti l'alternativa tra universalità e relativismo metteva sotto scacco l'etica dal versante della norma, la quale si trova ad essere relativizzata in nome del diritto sovrano della coscienza di comporre i criteri del suo agire, adesso nella sfida che il determinismo lancia nei confronti della libertà è invece la coscienza morale ad essere sottoposta ad attacco frontale, dal momento che l'operare umano viene ricondotto a dinamiche biologiche pensate come determinanti la stessa coscienza nel suo efficace intervento pratico. E mentre nel caso precedentemente esaminato il naufragio della norma porta con sé la disarticolazione della comunità etica e la conseguente perdita di potere della ragion pratica a vantaggio dell'immediatezza del sentire e del desiderio, in questo caso il tentativo riduzionista dello scientismo più agguerrito finisce per rendere niente affatto scontato persino il semplice parlare di etica. È necessario perciò prendere nota anzitutto dello stato della questione.
L'esperienza della libertà propria è per l'uomo esperienza di un'evidenza palmare. Sembra perciò difficile revocarla in dubbio. E tuttavia nel passaggio dall'esperienza della libertà alla presa di coscienza di essa la semplicità di quell'esperienza originaria si carica di fattori di forte tensione problematica. Sentita come valore irrinunciabile e caratterizzante l'essere umano nella sua essenza, la libertà nondimeno risulta spiazzante ed insieme conturbante per lo stesso uomo, che scopre se medesimo e l'altro dotati di un potere sfuggente ad ogni predeterminazione. Come in epoca moderna ha notato Kierkegaard, la libertà dell'esistenza è fattore di possibilizzazione estrema, che sottrae l'uomo al ciclo biologico naturalisticamente determinato del semplice vivente e lo costituisce sovrano di se stesso. A lui solo tra tutti i viventi è dato di poter modellare se stesso e l'ambiente in cui vive secondo modalità non naturali. La necessità della natura non è per lui limite assolutamente insuperabile.
Ma al tempo stesso ed in virtù degli stessi motivi la libertà sconvolge anche ogni sicurezza che l'uomo può aver costruito per sé, lasciandolo privo di ogni garanzia di futuro; proiettato verso il futuro del suo esistere, egli sa che nulla di questo futuro gli è garantito, proprio perché niente è per lui predeterminato. Connotata da un tratto così ambivalente, la libertà costituisce la sfida sovrana che l'uomo gioca con se stesso nel suo progetto, che è al tempo stesso il suo destino, di umanizzazione. L'umanità dell'uomo è infatti qualcosa di più di un dato organico fissato una volta per tutte; è realizzazione di sé, secondo un progetto di esistenza che prende corpo solo quando ciascuno, costruendolo come se fosse dato per la prima volta, lo assume per sé e su di sé. In questo modo si pone per l'uomo la condizione di un agire consapevole e responsabile; è dunque la libertà del suo essere che fa di un uomo un soggetto morale. Solo allorché questi può assumere responsabilmente su di sé la decisione ed anche gli effetti del suo agire, in quanto deliberatamente voluti e non semplicemente imposti, si danno le condizioni per un discorso etico. La libertà, come ha sottolineato Kant, è perciò come la ratio essendi della moralità. Dovesse venir meno, il comportamento umano perderebbe immancabilmente il suo tono etico e dovrebbe ricercare altrove il suo motore e la sua spiegazione.
Ma proprio questo sigillo di umanità che l'uomo porta con sé iscritto nella radice del suo essere confligge clamorosamente con un altro grande fattore che qualifica in maniera altrettanto essenziale e forse anche più riconoscibile l'essere umano, vale a dire l'intelligenza. Il raffinato esercizio di questa è lo strumento con cui l'uomo trova le modalità per elevarsi al di là del dato della propria posizione naturale e si mette in grado di gestire il progetto di libertà che lo individua. L'uomo è dunque altrettanto intelligenza, logos, ragione; e benché questi termini non siano del tutto sinonimi, sottolineando sfumature differenti che non possono essere soppresse, nondimeno essi tutti convergono verso un medesimo fuoco, quello di rendere possibile la comprensione del mondo ed organizzare in modo conveniente l'ambiente in cui l'uomo è inserito; la qual cosa costituisce fuori d'ogni dubbio uno degli impulsi originari dell'esistere umano. Realizzazione di sé e conoscenza del mondo, dunque: questa potrebbe essere la formula della relazione di libertà e ragione. Ma non è lungo la direzione interno-esterno che si gioca la difficile partita della coesistenza della libertà con la ragione, quanto piuttosto nella radicale opposizione delle dinamiche che rispettivamente le ispirano.
La dinamica della libertà ha la sua peculiare connotazione nella flessibilità del processo che la chiama in gioco. Esperienza di libertà si dà veramente solo laddove si presenta una pluralità di alternative, tutte egualmente possibili, tra le quali il soggetto dell'azione può esercitare la sua scelta. Essa suppone e richiede pertanto l'indeterminatezza del contesto operativo; una strutturazione già prestabilita di quest'ultimo, tale da rendere inevitabile la scelta della soluzione finale, avrebbe solo la parvenza di libertà, la renderebbe evanescente e fittizia. Libertà è pertanto rottura dell'ordine della necessità che governa inflessibilmente l'ordine naturale degli eventi. Ora proprio l'individuazione, comprensione, costruzione e ricostruzione della catena della necessità costituisce invece l'importante contributo che la ragione apporta all'esistere dell'uomo. Considerato sotto quest'ultimo punto di vista, il mondo appare governato da una ferrea legge, che la ragione sa scoprire nelle cose stesse. E così quello che ha l'aspetto di un assembramento caotico di enti casualmente disposti diventa un cosmo ben ordinato di eventi, nel quale l'uomo può trovare il suo posto ed interagire produttivamente; appropriandosi dell'ordine nascosto, all'uomo poi riesce anche di modificare con la potenza della sua tecnica il mondo. In questo modo, e tanto più quanto maggiore è il successo del suo intervento, l'uomo fa esperienza della legge di necessità cui il mondo della natura è sottoposto, principio che non ammette la possibilità di alternative, eccezioni, distorsioni, che non siano governate dalla necessità medesima. Nulla avviene per caso, nel mondo della natura, perché nella natura non si dà alcuna libertà. Qui ricava tutta la sua forza la costruzione razionale con la quale l'uomo spiega i fenomeni naturali, vale a dire la scienza. Che pertanto non può far posto ad alcuna ammissione di libertà.
La differenza delle prospettive è evidente. Su di essa aveva già attirato l'attenzione Kant, con la celebre affermazione su «il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me». Meno pacifica è invece la possibilità di coesistenza di questi due mondi, fisico e morale; dato che libertà e necessità non possono coabitare nello stesso orizzonte -- e qui l'orizzonte è il medesimo, l'uomo. Ma pur essendo il medesimo il soggetto di riferimento, da questa univocità del riferimento non consegue assolutamente che unico debba anche essere l'approccio ad esso. La proposta kantiana si distingue esattamente per il rifiuto di ogni ipotesi di riduzionismo, troppo facile soluzione che risolve questioni complesse col riportare semplicemente al contesto proprio di senso quanto a questo contesto sfugga; lasciando così però che, ciò che resta eccedente, non è veramente interpretato ma solo rimosso. L'insegnamento del filosofo tedesco rimane dunque ancora una volta decisivo, proprio perché presta attenzione alla complessità e globalità dell'esistenza dell'uomo, contrastando tanto il pigro allentamento dell'ordine inflessibile della natura nel nome di superiori diritti di libertà, quanto lo stritolamento della libertà nelle maglie di una necessità richiesta e sostenuta dalla conoscenza scientifica. Le differenti esigenza dell'etica e della scienza possono venire entrambe salvaguardate limitando le pretese colonizzatrici, che entrambe intimamente coltivano allorché si affidano ad una medesima struttura, quella della razionalità epistemica che si vuole esattamente ed assolutamente in grado di determinare l'oggetto, teorico o pratico che sia. Non dunque l'universo unidimensionale del sistema gerarchico della razionalità scientifica, dove metafisica del trascendente o dello spirito e scienza dell'immanente o della materia si contendono il primato del sapere inconfutabile dell'episteme, ma la possibilità di un universo plurale, dove il riconoscimento della coappartenenza reciproca dei due mondi renda legittimo, accanto all'approccio apodittico della conoscenza scientifica, anche quello non necessario né necessitante, ma non per questo inutile od incerto, di un'etica della libertà consapevole e responsabile. Facendo una volta ancora ricorso alle parole di Kant, questa volta prese dalla prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, il sapere della scienza deve «far posto alla fede» della ragion pratica.
E tuttavia, come la storia del postkantismo insegna, l'equilibrio kantiano si rivela troppo fragile e difficilmente condivisibile da parte di una scienza impegnata a raggiungere l'obiettivo di un sistema di conoscenze che possa dirsi assolutamente garantito perché assolutamente necessario. La dialettica interna alla scienza, che mira a raggiungere il grado assoluto di episteme, non può accettare il vincolo fenomenico invalicabile che Kant poneva alla ragione teoretica. Il modello dell'episteme in effetti non ammette limiti all'avanzamento della conoscenza in tutte le regioni dell'essere; una scienza o è assoluta o non è. Dietro la cosiddetta cortina del tempio, osserva Hegel, non c'è nulla da vedere; in altre parole per l'episteme, filosofica o scientifica che sia, non si dà realtà noumenica che non possa manifestarsi, almeno di principio se non anche di fatto. L'appello alla dignità e all'interiorità dell'uomo, il richiamo alla nobiltà della sua coscienza, lo stesso immediato sentimento di libertà, cose tutte che sfuggono alla manifestazione oggettivante, devono perciò trovare una nuova e più adeguata riformulazione nei termini neutrali e (apparentemente) wertfrei della scienza. Laddove la necessità governi sovrana, termini come interiorità, coscienza ed altri dello stesso genere, valgono solo come parole ambigue che attendono una più precisa chiarificazione e definizione da parte della ricerca scientifica stessa. Anche l'etica ed il suo mondo non possono sottrarsi alla medesima esigenza. E così, è stato sufficiente attendere che il potenziamento degli apparati tecnici consentisse più raffinate e specialistiche indagini dei processi della vita dell'uomo, perché ne seguisse con grande naturalezza l'annuncio sempre più trionfale che tutte o quasi le questioni, che hanno finora animato il dibattito etico, trovino la loro precisa soluzione nel quadro della ricerca scientifica e tecnica. Le sensazionali scoperte, rilanciate con grande clamore dai massmedia, di "geni dell'amore", della felicità, della religione e così via fanno il resto, contribuendo a plasmare il modo di pensare di un'opinione pubblica sempre più confusa e disorientata.
Il fatto è che ad una scienza sperimentale non è dato accesso a quanto di principio non può essere oggetto di osservazione. È questa una considerazione quasi tautologica e forse, proprio per questo, spesso premessa di conclusioni improprie. Perché è senz'altro vero che dell'agire umano, eticamente significativo, la scienza può cogliere esclusivamente il momento esteriore misurabile sperimentalmente, vale a dire il comportamento di un certo individuo che fa in un certo modo certe operazioni. Tutto il processo di libertà che precede l'agire, la valutazione della conformità a valori come pure la deliberazione circa la convenienza dell'azione con il progetto di esistenza che l'uomo coltiva, per non dire della costruzione di questo medesimo progetto, tutto questo dibattito interiore si sottrae alla osservazione ed alla analisi della scienza. Essa non può che dichiararlo estraneo al suo ambito di ricerca e quindi non attinente le sue indagini. Ma una tale dichiarazione di estraneità non porta affatto né richiede l'assimilazione dell'elemento estraneo e la sua riduzione all'orizzonte familiare dell'oggettività. Mentre è proprio questo che accade, allorché in nome dei diritti della conoscenza l'approccio scientifico si impossessa del mondo della libertà e ne ritraduce nei termini della necessità ad esso propri ciò che invece a questa necessità precisamente si sottrae. Ciò che rimane sul tavolo quindi sono soltanto le metodiche di comportamento oggetto di osservazione. Non più etica perciò ma, come dicevamo all'inizio, etologia, scienza del comportamento dell'animale della specie homo sapiens.
A dire il vero, però, più che risultato della scienza, queste sono solo le affermazioni che lo scientismo, pessima metafisica travestita di scienza, si incarica di promuovere e sostenere. È soltanto con la rielaborazione teorica delle risultanze della ricerca scientifica da parte di costrutti di interpretazione globale, ricavati non sempre con consapevolezza da implicite assunzioni filosofiche di senso, che si produce quella totalizzazione della conoscenza scientifica che pretende di valere come assoluta ed in ogni caso tale da rendere improponibili altre modalità di ricerca. Lo spazio dell'etica viene in tal modo confiscato; come ha scritto Nicholas Wade, un giornalista scientifico collaboratore della sezione scientifica del The New York Times, «fu il biologo Edward O. Wilson, oltre trent'anni fa, il primo a suggerire che "è giunto il momento di togliere temporaneamente l'etica dalla sfera di pertinenza dei filosofi per passarla ai biologi"» (La Repubblica, 22 marzo 2007).
5. Una conclusione provvisoria 
Questa conclusione inattesa e per certi versi anche conturbante, che chiede comunque di essere pensata, mostra con grande plasticità come l'empasse contemporanea dell'etica sia qualcosa di più di una tempesta di superficie. L'evoluzione del contesto culturale contemporaneo mette in discussione l'etica nel cuore della sua pretesa di valere come riferimento significativo per l'agire dell'uomo. Espropriata dapprima del diritto di poter dare orientamenti per l'azione che fungano da criteri per la valutazione dell'azione medesima e non si limitino invece alla semplice registrazione del fatto, comunque benedetto in quanto opera non discutibile di una coscienza assolutamente sovrana, essa si è trovata da ultimo delegittimata persino nella sua semplice possibilità di sussistenza ad opera di una ideologizzazione dogmatica della scienza, che si affida in definitiva al successo pragmatico ed effettuale per tacitare del tutto il richiamo alla coscienza, ultima spiaggia dell'etica. Allo stesso modo dell'osservazione critica di Pascal verso il dio cartesiano, l'etica oggi sembra inutile dunque ed incerta.
Eppure il comune sentire si ribella ad una simile conclusione. Sentiamo che senza un quadro di riferimento che ci fornisca prospettive valide per l'azione, alle quali far ricorso nel tessuto vitale delle relazioni umane, il nostro stesso agire resterebbe estremamente volubile e privo di efficaci motivazioni. Accade così che, orfana di una matura riflessione etica, l'umanità contemporanea sia poi costretta ad andare alla ricerca di surrogati che non reggono veramente il peso del confronto e dell'essenziale compito cui sono chiamati. Non si può far veramente a meno di un orizzonte etico. Sempre meglio ci rendiamo conto di come a gestire le relazioni umane poi resterebbe solo il primato della forza; che non tarda a mostrare il suo volto violento e disumano. È la muta ed inquietante Bia, compagna di Kratos del prologo del Prometeo incatenato di Eschilo, inquietante proprio perché muta, cioè estranea al territorio comunicativo della parola, che dà conto di sé e forma così la trama di una relazione razionale che è alla base della comunità etica. Sono le enormi violenze che il potere, comunque definito, ha inflitto e continua ad infliggere oggi con gli smisurati mezzi della tecnica sull'umanità indifesa, inerme, umiliata di quanti non possono in qualche modo opporre un qualche contropotere. Ma la resistenza etica delle coscienze, che si rifiuta di riconoscere giustizia e concedere legittimazione etica al potere brutale della forza -- force n'est pas droit, come la borghesia illuminata gridava contro l'Ancien Régime -- mostra come l'istanza etica sia sempre risorgente, a dispetto di ogni preteso comando di esilio più o meno dorato. Un compito pertanto ci attende e ci riguarda tutti, ed è quello di tessere nuovamente la trama di una riflessione pensante che sappia articolare e dar forma attuale al bisogno di etica. Le sfide culturali provenienti dalla stagione che stiamo vivendo, una stagione confusa ma insieme anche ricca di promettenti aperture, lo richiede in maniera inderogabile. Definire con maggiore precisione la domanda etica, precisarne i suoi mutevoli e problematici contorni è stato quindi il primo essenziale passo, propedeutico ad ogni risposta, che qui abbiamo cercato di percorrere. In attesa di riformulare le coordinate di un'etica per il nostro tempo.
Emanuele Antonelli
Lo spazio sociale come spazio del contagio
Il vischioso è l'agonia dell'acqua
-- Jean-Paul Sartre, L'essere e il nulla.
Traiamo la tesi che vorremo discutere in questo saggio da una schiera di autori di diversa provenienza disciplinare che hanno cercato, negli ultimi lustri, di descrivere la natura delle relazioni intersoggettive facendo ricorso ad un lessico appartenente alla costellazione semantica del contagio. Secondo questa lignée sociologica e filosofica, le relazioni intersoggettive e lo spazio in cui queste hanno luogo, possono essere riconosciute e pensate come condizione di esposizione al contagio.
La percezione dell'esposizione al rischio del contagio -- termine usato in parte metaforicamente e in parte secondo analogia con il settore disciplinare cui pertiene -- può essere considerata come una delle esperienze fenomenologicamente originarie nella definizione delle qualità dello spazio vissuto; l'opzione sulla spinta della quale presentiamo questo saggio è che la concezione dello spazio della modernità possa essere considerata come una pratica di immunizzazione.
Per discutere la tesi appena accennata vorremo fare riferimento ad alcuni autori che nel corso della seconda metà del XX secolo hanno affrontato tematiche e problemi che in qualche modo possono essere utili a determinare una fenomenologia dell'esposizione.
1. Le fasi della globalizzazione 
Peter Sloterdijk, nella trilogia Sphären, elabora, nelle parole del traduttore francese Olivier Mannoni, «niente di meno che una storia filosofica dell'umanità attraverso il prisma di una forma fondamentale: la sfera e tre delle sue declinazioni, la bolla, il globo, l'alveolo di schiuma», offrendo una sorta di grande narrazione a partire da un presupposto polemico indirizzato contro tutte le retoriche della globalizzazione. Secondo Sloterdijk il mondo è sempre stato globalizzato; nell'ultimo secolo avremmo semplicemente assistito ad alcuni, per altro significativi, cambiamenti di forma.
La sferologia di Sloterdijk cerca di proporre una cronistoria delle globalizzazioni elaborate dall'umanità, sulla base di una tesi fondamentale che vorremmo fare nostra e discutere in questo articolo. L'indagine sferologica prende a proprio oggetto gli spazi di coesistenza all'interno dei quali l'uomo interpreta e definisce se stesso: le sfere, i globi e la schiuma sarebbero, dunque, la diacronia evolutiva dei contenitori simbolici e immunitari attraverso i quali l'uomo pensa se stesso nel mondo e trova la propria protezione dai pericoli esterni.
Le epoche della globalizzazione sono tre, la globalizzazione celeste, la globalizzazione terrestre e la globalizzazione attuale, elettronica.
La globalizzazione celeste, elaborata nel mondo greco, si realizza nella perfezione sferica del cosmo antico, dove il tratto immunitario è costituito dalla perfezione dell'ordine della sfera dei cieli aristotelica. In questa formulazione sferologica, la Terra risultava protetta dalla confezione celeste posta a tutela degli uomini;1 una sfera protettiva invisibile che durò fino al Medio Evo, almeno fino a Dante, entrando in crisi ai primi albori della modernità. In questo caso la segmentazione storiografica fornita della scoperta dell'America, diffusa anche se discussa, offre un comodo riscontro. La fine della globalizzazione celeste coincide con le grandi avventure dei navigatori e dei cartografi che, al loro ritorno, offrono per la prima volta la visione empirica della sfericità della globo terraqueo (Sloterdijk 2005: 56ss). La rottura epocale della globalizzazione celeste, che verrà portata a termine nel corso della modernità, attraverso l'opera dei cartografi, di Galileo e, per finire, di Nietzsche, comporta un radicale cambiamento prospettico. Il geocentrismo della globalizzazione celeste comportava una prospettiva analitica verticale e offriva una localizzazione precisa e rassicurante -- anche se non così lusinghiera, stando all'assiologia spaziale aristotelica -- agli abitanti della Terra. La rottura di questa prima fase epistemica comporta un clamoroso stravolgimento immunitario. Gli uomini non sono e soprattutto non possono più sentirsi protetti dalla sfericità celeste e si trovano invece svelati, scoperti, esposti addirittura scorticati, spellati.
Il processo di modernizzazione prende piede in modo consistente nel momento in cui si iniziano ad elaborare delle soluzioni immunitarie alternative a quella andata in frantumi; secondo Sloterdijk, lo stato nazionale costituisce un tentativo, per larghi tratti riuscito e con una tenuta temporale rilevante, di ricostituire una forma di radicamento territoriale, regionale e patrio che potesse offrire un sostegno orientativo.
Un tratto molto interessante -- su cui torneremo in seguito -- di questa analitica spaziale di Sloterdijk2 è che al termine di questo processo, lo spazio della vita degli uomini cambia completamente le proprie qualità primarie. I luoghi perdono le loro caratteristiche specifiche, smettono di essere localizzazioni, perdono le loro determinazioni di terre natie e protettive e vengono meno al loro ruolo di garanzia identitaria. Nel corso della globalizzazione terrestre i luoghi diventano ubicazioni, caratterizzazioni spaziali determinate dalle coordinate, dalla distanza relativa.
In questa prospettiva, Sloterdijk esercita la sua vis polemista contro un'altra delle chiavi classiche dell'interpretazione del postmoderno, ovvero la retorica della perdita del centro. Secondo il nostro autore, questa idea risale ad un fraintendimento delle conseguenze della rottura della globalizzazione celeste, la quale offriva senz'altro una precisa e solida centralità al globo terrestre. Il vero cambiamento epocale non consiste tanto nella perdita del centro in quanto tale: il concetto di centralità è evidentemente relativo alla determinazione degli spazi periferici. Essendo il centro il luogo a partire dal quale noi organizziamo la nostra percezione spaziale, secondo Sloterdijk, non è questo ad essere andato perso nel corso della modernizzazione quanto, piuttosto, la cintura di sicurezza semiotica e immunitaria garantita dalle periferie.3
A livello concettuale una delle conseguenze più significative di questo evento simbolico rappresentato dal ritorno dei cartografi dalle grandi esplorazioni pre-Rinascimentali, è la rottura del;4 nella fattispecie, si assiste alla comparsa del fuori, non previsto nella cosmologia aristotelica.5 All'abisso scoperchiato dalla rottura della logica cosmica corrisponde o comunque si associa, nel corso della modernizzazione, un secondo abisso, rappresentato dalle culture altre. In questa prospettiva è molto interessante ripercorrere per sommi capi l'evoluzione dei rapporti con l'alterità culturale, spesso fraintesi nella retorica del multiculturalismo.
La molteplicità delle culture è un dato antico quanto il mondo e la coscienza di questa stessa molteplicità smise di fare notizia già al tempo dei sofisti. Ciò che si rende invece significativo, andando a costituire una novità ed un problema ancora in via di definizione prima che di soluzione, è la presenza di una molteplicità di culture all'interno di una comunità determinata, nella fattispecie, nello stato nazionale. In questa prospettiva, il sentimento di paura immunologica deriva dalla possibilità di essere sempre raggiunti e toccati, in una società dalle pareti sottili. 6 Il multiculturalismo è un problema di contatto, coatto, delle varie culture che hanno perso le loro periferie e si può porre logicamente solo all'interno di una medesima comunità,7 segnatamente all'interno dello stato nazionale liberal democratico, punto di arrivo del percorso di modernizzazione. Nel valutare le considerazioni formulate a proposito del tema dell'esposizione sull'astro degli svelati, è senz'altro importante ricordare che Sloterdijk ha compiuto in Germania un lavoro ermeneutico molto significativo, sdoganando la lettura di Heidegger e Nietzsche a sinistra, riuscendo a superare i pregiudizi ideologici che li avevano tenuto distanti dalla teoria critica, l'alveo in cui lo stesso Sloterdijk è cresciuto. In questo senso, l'elaborazione della categoria dell'esposizione è in grande misura debitrice dell'analitica esistenziale heideggeriana. L'astro degli svelati è per l'appunto il mondo sul quale il Dasein è gettato, un mondo inesorabilmente esterno, privo di coperture cosmologiche rassicuranti.8
2. Ordine e purezza 
La sensazione di esposizione di cui ci parla Sloterdijk è compatibile con l'esperienza fenomenologica del contagio che stiamo cercando di determinare in queste pagine? Le ragioni che ci portano a proporre questa relazione poggiano sugli scritti di Mary Douglas, in particolare sul saggio del 1966, Purity and danger. La tesi principale di questo testo consiste nel sostenere che le categorie dell'ordine di una cultura siano un'estensione ed un'applicazione al mondo naturale e sociale di una metafisica teologica la cui ragione d'essere è esattamente una funzione di discretizzazione del mondo. La relazione che intercorre tra i due autori sin qui richiamati guadagna in chiarezza nel momento in cui la si istituisca su un piano diacronico, orientato secondo una filosofia della storia che accetti, almeno per adesso in modo irriflesso, il paradigma del nichilismo.
L'opzione della Douglas consiste, sulla scia del citato e di poco precedente Finitudine e colpa, nel considerare sotto il medesimo rispetto le pratiche religiose delle culture primitive e le pratiche igieniche connesse alla categoria della contaminazione. In questi termini, la domanda fondamentale posta dalla Douglas concerne la relazione logica tra le categorie dello sporco, dell'impuro e del disordine: lo sporco genera il disordine, o viceversa? Cosa viene prima? Qual è lo statuto ontologico dello sporco?
La tesi del saggio del 1966 è che lo sporco esista solo in relazione ad un contesto che ha una precedenza logica e ontologica. Lo sporco esiste solo come traduzione, o meglio come percezione del disordine, il quale a sua volta si dà solo in relazione all'ordine che viene a negare. Sulla base di tale prospettiva, gli abominî del Levitico, il libro in cui vengono definite le regole della cultura alimentare kosher, possono venire ricondotti ad una pratica di sistematizzazione e discretizzazione metafisica volta a regolare e rendere possibile -- oltreché tollerabile -- l'interazione con il mondo naturale e sociale. L'identificazione dello sporco è uno strumento di organizzazione e ancora prima di indagine dell'ambiente circostante. Le categorie dell'ordine di una cultura assumono così la caratteristica di poter essere le chiavi interpretative attraverso cui comprendere la Weltanschauung di un dato sistema culturale. È interessante d'altronde notare che in tal modo la rimozione dello sporco e del disordine non si presenta come pratica negativa, quanto come costruzione di strutture categoriali, in primo luogo sociali. A tal proposito, e in accordo con l'intima progettualità di questo scritto, vorremmo concentrare la nostra attenzione proprio sugli aspetti sociali del problema del contagio.
Come accennato in precedenza, secondo Sloterdijk, il processo di modernizzazione prende piede con la prima ondata di ritorni dei cartografi dalle grandi avventure di esplorazione del globo del XV secolo. Il tratto simbolico del superamento di questa fase, con l'accesso agli albori del capitalismo, viene ravvisato nel ritorno dei capitali dalle grandi missioni di circumnavigazione del globo. Dobbiamo ora valutare la relazione tra il movimento dei capitali e la dimensione dell'estraneità sociale, in rapporto alla categoria di ordine e disordine.
La figura dello straniero è una determinazione moderna; nel passato, specialmente nel caso della Grecia antica, senz'altro il più noto, lo straniero non esisteva, non aveva l'occasione di presentarsi in quanto tale all'interno di una comunità; anzi, lo straniero è una di quelle categorie sociali in cui si fa più evidente il dispositivo della sacralizzazione immunizzante. Le pratiche religiose connesse alla figura dell'ospite avevano esattamente la funzione di fornirgli -- ed anzitutto istituire -- un posto adatto all'interno della comunità. Lo straniero in quanto tale non esiste perché è sempre comunque già inserito in un contesto definito, che se ne facesse un ospite sacro o una vittima espiatoria, che lo si rendesse schiavo o semplicemente lo si uccidesse. Nella cronistoria sferologica di Sloterdijk la comparsa e la diffusione -- l'urbanizzazione -- della figura dello straniero nelle comunità occidentali ha una stretta relazione genetica con la circolazione del capitale: l'epoca dello straniero è l'epoca del capitalismo. Ma come si costituisce lo straniero e quali sono le modalità di interazione che provoca?
A tal proposito tornano solidali le riflessioni di Alfred Schütz contenute ne La fenomenologia del mondo sociale. Secondo Schütz, il capitalismo come epoca dello straniero immette nelle comunità occidentali una condizione di fluidità foriera di ansia e insicurezza che induce i gruppi residenziali a compattarsi attraverso l'istituzione di livelli di immunità che forniscano una rassicurazione soddisfacente. Il dispositivo sotteso a questo compito è la reciprocità di prospettiva. 9 Per essere rassicurante il comportamento dell'altro deve avere un certo grado di prevedibilità, deve essere un comportamento che evochi e provochi una certa forma di immedesimazione. Lo straniero è colui con il quale non è praticabile il dispositivo dell'immedesimazione reciproca. Questo carattere di non rispondenza alla reciprocità di prospettiva è ciò che definisce lo sporco, l'impuro, il contaminante. Il vero problema di questo dispositivo è la sua intrinseca sommarietà, è un dispositivo vuoto e costantemente esposto alle contraddizioni: è un prefabbricato di comunità.
L'effetto di contaminazione prodotto dall'incontro con lo straniero è una forma di aggressione del vuoto sé del noi comunitario. Lo straniero è colui con il quale non ci si può immedesimare ma allo stesso tempo è colui il quale rende vistosa la gratuità, la fragilità, la debolezza del proprio argomento costituente. Lo straniero rende illegittima la propria opzione identitaria, andando a minarne le fondamenta irriflesse e aggredendone la sommaria coerenza. La re (l) azione sociale provocata dallo straniero è del tutto coerente e convergente con la dinamica del contagio; la metastabilità del sistema identitario di riferimento viene aggredita da un agente patogeno che ne mina la solidità apparente. La reazione di una comunità culturalmente debole è un riflusso nel feticcio identitario del noi, un fatto culturalmente vuoto, un dispositivo senza contenuti che vela la ricerca di un a priori infondato.
È bene notare che dalle operazioni di legittimazione della politica imperiale di Augusto sino ai kilt scozzesi, geniale -- a giudicare dal successo e dalla resistenza dimostrata -- operazione di marketing tardo ottocentesca, le tradizioni di riferimento sono sempre state inventate, acconciando un passato (ri) costruito ad uso del progetto di futuro in vendita, dell'identità preconfezionata esposta in vetrina.10 Secondo un autore come Bauman però, nella postmodernità dei molti e sempre nuovi inizi, la costruzione del passato su cui innestare l'identità del noi, diventa sempre più estemporanea, generando un pomerio sfrangiato, il cui fragile perimetro di purezza si oppone senza speranze alla contagiosa impurità dell'esterno.
3. Identità mimetica 
Le considerazioni appena esposte, sulla scia delle categorie di Alfred Schütz, ci permettono di chiamare in causa un autore strettamente coinvolto nelle riflessioni di matrice immunologica, vale a dire René Girard. Girard ha iniziato la sua brillante carriera accademica con un saggio di critica letteraria, dedicato ad alcuni grandi classici della tradizione occidentale, da Cervantes a Dostoevskij, da Stendhal a Proust, ravvisando come tratto comune e costitutivo una fenomenologia del desiderio mimetico.11 Ciascuno di questi autori a suo modo e con diversi livelli di autocoscienza, avrebbe descritto con una precisione ed una fedeltà sconosciute a qualsiasi ricerca sociologica o filosofica la più intima delle caratteristiche dell'essere umano, ovvero la natura mimetica dell'identità. La riflessione di Girard ha prodotto altri significativi risultati sul tema, andando a fare della teoria mimetica una vera e propria antropologia di base, con interessanti effetti nei campi dell'etnologia, della psicanalisi e della filosofia.
L'osservazione che ci preme considerare in questo contesto è quella costitutiva, il cuore della teoria mimetica: il desiderio umano non è un investimento pulsionale diretto sull'oggetto di interesse e soprattutto non è motivato, almeno non in prima istanza, dalle caratteristiche specifiche dell'oggetto. I desideri oggettuali sono invece sempre indirizzati da una mediazione imitativa pre-oggettiva e pre-soggettiva. La mimesi, in termini genetici, è una categoria ontologica che precede la determinazione dell'oggetto di interesse e dello stesso soggetto che dovrebbe nutrire questo interesse.
Ciò significa che, stando a questo paradigma teorico, la costituzione intersoggettiva dell'identità individuale va presa in modo radicale. I desideri, le preferenze, i criteri di selezione, l'assiologia fondamentale, in questa prospettiva, sono sempre frutto di un'assunzione mimetica irriflessa e di una sorta di sedimentazione genetica.
René Girard, nel corso degli anni '70 ha applicato la teoria mimetica a ricerche di stampo etno-antropologico, andando a ravvisare nella mimesi non solo un carattere fondamentale dell'antropologia di base ma anche una chiave di lettura e di decostruzione dei principali miti, riti e istituzioni culturali delle società arcaiche. In ponderosi volumi come La violenza e il sacro e Delle cose nascoste sin dall'origine del mondo, Girard ricostruisce la genealogia della cultura occidentale attraverso il meccanismo vittimario, risposta naturale ai pericoli creati dall'essenza mimetica dell'essere umano. Senza scendere in dettagli non strettamente inerenti, anche se utili alla comprensione di quanto si sta cercando di sostenere in queste pagine, vista la natura mimetica dei desideri umani, ad ogni livello di evoluzione o di sviluppo, è sempre molto facile che la mediazione interna12 scateni dei conflitti. I conflitti a loro volta possono facilmente degenerare in faide e diffondere la violenza, come una pandemia, all'interno della comunità. A questo punto i possibili scenari seguenti all'esplosione della faida e all'escalation della violenza non sono numerosi. Secondo Girard, uno di questi, originario e fondativo, è la risoluzione vittimaria. In piena crisi di indifferenziazione, quando tutti i sistemi differenziali elaborati in seno alla cultura di riferimento -- i primi dei quali sono quelli protetti dai tabù fondamentali dell'incesto e del parricidio -- vengono meno, la mimesi si sprigiona in tutta la sua pervasività; tutte le rivalità particolari, attraverso l'inesorabile progressione mimetica, confluiscono nell'unico conflitto del «tutti contro uno». L'indifferenziazione mimetica polarizza l'intera comunità contro una sola vittima, ritenuta l'unica responsabile della catastrofe che la violenza diffusa ha nel frattempo provocato.
Il meccanismo vittimario si mette in funzione non appena le rivalità mimetiche raggiungono il picco più alto di intensità; mentre il desiderio di uno stesso oggetto divide, l'odio per un nemico comune riconcilia gli individui appartenenti alla comunità.13 Nei saggi degli anni '70, Girard mette a punto lo strumento decostruttivo con cui riesce a fornire alcune brillanti interpretazioni di miti e riti, a partire dal più celebre caso di Edipo.
Ciò che qui ci interessa accennare, seppure brevemente, è quanto emerge in un saggio come L'origine della cultura e fine della storia,14 nel quale Girard propone alcune rilevanti considerazioni sulla relazione di derivazione dei sistemi culturali dai fenomeni vittimari. In questa prospettiva, i sistemi culturali vengono ridotti a estensioni progressive delle strutture differenziali elementari scaturite dalle risoluzioni vittimarie delle crisi di indifferenziazione.
A partire dal saggio del '78, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Girard ha iniziato a condurre una strenua battaglia per sostenere la propria ermeneutica biblica. L'innovativa, ancorché perfettamente coerente con la tradizione, lettura delle Sacre Scritture proposta da Girard poggia sull'intuizione strutturale dell'analogia tra i riti vittimari di un enorme numero di religioni arcaiche e la vicenda narrata nei Vangeli, mettendo però in mostra una significativa differenza. I Vangeli, come per altro l'Antico Testamento, raccontano, come i miti precedenti o extraperimetrali, una risoluzione vittimaria, ma assumendo la prospettiva della vittima e ripartendo in maniera perfettamente opposta le responsabilità degli avvenimenti narrati. Così, se il mito greco attribuisce ad Edipo la responsabilità della peste, riconoscendolo colpevole della violazione dei due più antichi tabù, il Vangelo riconosce l'innocenza di Giuseppe, e di Gesù Cristo.
Secondo Girard, l'evento e la diffusione della narrazione evangelica compiono lo svelamento del meccanismo vittimario, sotteso ad ogni altra religione umana e, soprattutto, ad ogni struttura sociale e culturale. Una volta svelato, il meccanismo mimetico-vittimario perde gran parte della sua efficienza, costitutivamente fondata sul misconoscimento,15 e smette di offrire un solido strumento risolutivo alle reiterate ed inevitabili crisi di indifferenziazione scatenate dai conflitti mimetici.
La conseguenza che ci interessa trarre da quanto sommariamente ricordato sin qui è che nel corso dell'evo cristiano la diffusione del messaggio disvelante e la conseguente rottura del meccanismo vittimario -- testimoniata brillantemente dalla diffusione del concetto di capro espiatorio, assolutamente autoevidente alla maggior parte degli occidentali ma del tutto assente in culture come quella giapponese, dove in assenza di un termine indigeno, il concetto è stato introdotto mediante un calco dall'inglese (Girard 1978: 131) -- si pone a giustificazione della retorica che descrive la modernità e, come abbiamo visto in Bauman la postmodernità in misura maggiore, come epoca di crisi reiterate e dei molti inizi.
Nel paradigma aperto da Girard, le crisi di indifferenziazione, conseguenza diretta della mimesi dell'antagonista, non hanno più mezzi irriflessi di risoluzione. I molti inizi e le crisi reiterate nella metastabilità occidentale hanno progressivamente dissolto le strutture consolidate dei sistemi differenziali di riferimento. Questi fenomeni si sono resi percepibili in maniera sempre più evidente nel corso del XX secolo dando luogo a descrizioni e spiegazioni variegate ma con forti tratti comuni, a partire dalle riflessioni sull'anomia, in Émile Durkheim sino alle considerazioni sul tema del nichilismo elaborate da Gianni Vattimo.
In questi termini gli effetti del contagio mimetico hanno progressivamente perso non solo il meccanismo vittimario, a cui si è per millenni demandata la risoluzione delle crisi di indifferenziazione,16 ma hanno soprattutto corroso le strutture sociali e categoriali che ne limitavano la possibile diffusione. Nella prospettiva girardiana i sistemi differenziali avevano il merito di ridurre i possibili focolai della mimesi dell'antagonista, andando a costituire le condizioni necessarie per favorire lo sviluppo di mediazioni mimetiche esterne. La mimesi si configura come contagio sia dal punto di vista individuale che sociale. È mimetica e contagiosa, la diffusione della violenza nelle crisi di indifferenziazione, così come è mimetica e contagiosa la modalità che pone capo alla risoluzione vittimaria. Come si accennava poco sopra è però, ed anzi soprattutto, mimetica anche la stessa identità, definita per via di sedimentazioni progressive di effetti di contagio. Ad ogni momento dato la soggettività è esposta e le sole modalità di profilassi sono i sistemi differenziali emersi dalle risoluzioni vittimarie di riferimento, strutture di ordine infondate ed illegittime, vuote anche se performative. Nel momento in cui ogni differenza sociale, gerarchica o generazionale viene erosa, i sistemi di gestione dell'ordine lasciano sempre più spazio e libertà al contagio mimetico.
4. Mimesis e immunità 
A tal proposito vorremmo qui ricordare alcuni passi di un lettore italiano di Girard, Roberto Esposito che, in collaborazione con Jean-Luc Nancy, ci offre una sponda utile a consolidare, al di là dell'analisi antropologica, le riflessioni sul tema della mimesi in una fertile convergenza con il tema del contagio.
In primo luogo vorremmo prendere brevemente in esame il saggio Communitas, le cui tesi fondamentali ci paiono solidali e convergenti al programma analitico in via di definizione in questo articolo. Il saggio del 199817 si apre con un'introduzione programmatica nella quale Esposito fornisce una prospettiva analitica sul tema della comunità in patente ed esplicita rottura con la tradizione, andando a superare il dibattito tra comunitaristi e individualisti. L'intima natura della comunità non ha nulla da fare con la proprietà: non si tratta di «appropriar [si] del nostro comune (per comunismi e comunitarismi), o comunicare il nostro proprio (per le etiche comunicative) (Esposito 2006: IX)». Esposito elabora la sua tesi con una netta presa di distanza dalla dialettica del proprium, ravvisando gli estremi per capovolgere completamente le retoriche novecentesche sul tema.
La prima sponda da cui Esposito trae le proprie opzioni ermeneutiche è fornita da un'indagine sorprendentemente originale del lessico. 'Communitas'risulta a ben vedere una parola trasparente, la cui radice etimologica ha molto da dire: cum-munus. In nessun modo si può ritrovare nel significato originario del termine una qualsivoglia ragione per sostenere le retoriche della proprietà. Il munus è l'onere, l'ufficio, il dono da restituire a fronte di un donum ricevuto, in ogni caso, appartiene alla semantica del dovere e quindi è più vicino alla mancanza che alla proprietà; «il senso antico, e presumibilmente originario, di communis doveva essere «colui che condivide un carico (una carica, un incarico)». Ne risulta che communitas è l'insieme di persone unite non da una 'proprietà', ma, appunto, da un dovere o da un debito (Ivi: XIII)». È qui che il discorso di Esposito acquisisce sempre maggiore pregnanza per la nostra indagine. In questi termini emerge che i soggetti uniti dall'appartenenza alla comunità sono uniti da un dovere, da qualcosa che li «rende non interamente padroni di se stessi», che li «espropria [...] della loro stessa soggettività»; dall'ipotesi di Esposito emerge, inoltre, il fatto che l'esposizione del soggetto al dovere della retribuzione del donum ricevuto non è indolore per il soggetto che la sperimenta. «Ciò che ciascuno teme, nel munus [...] è la perdita violenta dei confini che, conferendogli identità, gli assicurano la sussistenza (Ivi: XV)».
Su che basi stabilire la convergenza tra quanto brevemente accennato delle tesi di Esposito e ciò che abbiamo sin qui detto in merito al tema del contagio? Come tradurre i concetti formulati dal filosofo napoletano nella costellazione semantica del nostro intervento?
Ci pare necessario distanziarci moderatamente da alcune considerazioni contenute nel saggio in questione, in merito ai racconti del delitto fondatore: Esposito ritiene di poter ricondurre questi contenuti narrativi ad una valenza simbolica a nostro avviso esasperata. Così nel testo: «tutti i racconti sul delitto fondatore -- crimine collettivo, assassinio rituale, sacrificio vittimario -- che accompagnano come un oscuro controcanto la storia della civilizzazione non fanno che richiamare in forma metaforica il delinquere -- nel senso tecnico di 'mancare', 'difettare' -- che ci tiene insieme. La falla, il trauma, la lacuna da cui proveniamo (Ivi: XVI)». Queste parole, il cui assunto implicito è decostruttivo, ci paiono imporre una sorta di ipertestualismo contraddetto in qualche misura poche pagine dopo, nel momento in cui lo stesso Esposito, venendo a patti con Hobbes, riconosce nell'«uccidibilità generalizzata» ciò che gli uomini hanno in comune, ciò che li assimila più di qualsiasi altra proprietà.
Cercando allora di far convergere le tesi di Esposito con la teoria mimetica-vittimaria di René Girard, già in parte ricordata, ci pare legittimo e in qualche modo corretto, ricondurre alla retorica vittimaria l'intima realtà della comunità. Il donum da cui ogni membro della comunità è in qualche modo tenuto in ostaggio, è esattamente il «trauma» da cui proveniamo; altrimenti detto, per usare la terminologia girardiana, ciò di cui ogni membro deve essere costantemente grato e verso cui ognuno è debitore è la risoluzione vittimaria di una crisi di indifferenziazione. Il munus che lega e accomuna i soggetti di una comunità è allora un debito potenziale, ovvero l'esposizione al rischio di essere vittimizzati a propria volta, l'esposizione all'incarico farmaceutico. 18
Secondo questa linea argomentativa ci pare ancora più evidente la relazione che Esposito instaura tra la communitas e l'immunitas. Ristabilendo la strutturale contraddizione tra questi due termini -- mediata con ogni evidenza dalla comune radice -- , Esposito ravvisa nel processo di immunizzazione la «chiave esplicativa dell'intero paradigma moderno: accanto e più di altri modelli ermeneutici, quali quelli espressi nei lemmi di 'secolarizzazione', 'legittimazione', 'razionalizzazione'che ne appannano, o attenuano, la pregnanza lessicale (Ivi: XX)». Le pratiche di immunizzazione corrispondono, secondo Esposito, a pratiche di costituzione dell'individuo moderno, il quale diviene davvero tale -- «cioè perfettamente individuo, individuo 'assoluto', circondato da un confine che a un tempo lo isola e lo protegge (Ivi: XXI)» -- nel momento in cui si libera dal debito che lo vincola ad ognuno degli altri membri della comunità. In qualche misura inoltre, ci pare più chiaro ravvisare nell'esposizione al rischio farmaceutico il munus da cui, in ottemperanza al processo di secolarizzazione -- in questi termini perfettamente parallelo al processo di immunizzazione -- , l'individuo moderno si difende.
La strada intrapresa da Esposito lo conduce per altre vie che, in qualche misura, si prestano a riscontrare un'ulteriore piano di convergenza con la teoria mimetica. Distaccandosi dall'analisi più specificamente politica, in cui, come detto, nel munus comunitario, ravvisa un dono di morte, Esposito si avvicina ad una sorta di analitica esistenziale, fortemente ispirata dall'opera di Jean Luc Nancy. La pratica politica approda alla distruzione della comunità: «se la comunità comporta delitto, l'unica possibilità di sopravvivenza individuale sta nel delitto della comunità (Ivi: XXIII)». La componente etimologica messa al centro di questa seconda fase analitica è il cum; il delitto della comunità è il sacrificio del cum, della relazione tra gli uomini. L'appendice aggiunta nell'edizione ampliata del 2006, testimonia questa svolta ontologica, nella quale della comunità non ne è più niente. Le analisi etimologiche e politiche vengono messe a frutto in un'ontologia politica che stabilisce lo statuto della comunità: essa non è un ente, «né un soggetto collettivo né un insieme di soggetti. Ma la relazione che non li fa essere più tali19 -- soggetti individuali -- perché interrompe la loro identità con una barra che li attraversa alterandoli: il 'con', il 'fra', la soglia su cui essi s'incrociano in un contatto che li rapporta agli altri nella misura in cui li separa da se stessi (Ivi: 149)». Seguendo questa linea Esposito matura una forma di ambiguità. Da un lato, nel momento in cui la relazione comunitaria viene presentata come spersonalizzante ed aggressiva, si ha l'impressione che la comunità sia ben lontana dal produrre effetti di comunione. Dall'altro, le conclusioni del saggio vertenti sulla convergenza tra immunizzazione e nichilismo vanno a innestarsi sull'ontologia singolare plurale di Nancy che fa del legame, dell'apertura alla relazione con l'altro, del Mitsein, del con-essere, il nucleo originario dell'esistenza umana. Sulla scia del riferimento a Nancy, Esposito può sostenere che nel delitto del cum gli uomini «sono paradossalmente sacrificati alla loro sopravvivenza (Ivi: XXIII)», ravvisando nell'immunizzazione, operata dal e nel processo di modernizzazione, una cauterizzazione dell'apertura esistenziale al con-essere: una vera e propria catastrofe autoimmunitaria.
Ci pare che proprio in un'adeguata considerazione della teoria mimetica si possa trovare una via di fuga a questa ambiguità oltre a segnare un punto fermo nella determinazione del problema del contagio. I due versanti dell'ambiguità che ci è parso di poter ravvisare nelle argomentazioni di Esposito possono essere ricondotti ad unità ridistribuendoli nei due cotés della teoria di Girard. Come già accennato, infatti, ci pare legittimo ravvisare proprio nell'esposizione al rischio di essere presi nel meccanismo vittimario una verosimile traduzione del debito comunitario. D'altro canto, un secondo livello di convergenza si può istituire associando il tratto mimetico -- strutturalmente bicipite -- dell'antropologia fondamentale girardiana alla descrizione degli effetti di appartenenza ma al tempo stesso di aggressione prodotti dalla relazione comunitaria sul soggetto membro. Come accennato, e senza scendere nel dettaglio, la mimesi, nella teoria girardiana, si configura come relazione ontologicamente prioritaria, in perfetta analogia a quanto detto a proposito del Mitsein nell'analitica esistenziale di Jean-Luc Nancy.20
In una prospettiva statica dunque, la mimesi non può che risultare come una forza spersonalizzante, un'aggressione alla struttura identitaria del soggetto che ne mina equilibrio e stabilità. La mimesi si presenta al soggetto che ne sperimenta gli effetti come una agente patogeno, come veicolo di un contagio attraverso cui si diffondono desideri, assiologie e violenza. D'altro canto, secondo una prospettiva diacronica e genetica, la mimesi si presenta come il tratto costitutivo dello stesso essere umano, della sua evoluzione e di ciascuna delle sue pratiche di apprendimento.
Secondo Girard la mimesi è da un punto di vista ontologico la principale caratteristica dell'essere umano. É una proprietà alla pari dei cinque sensi e non può né è mai stata eliminata; nel corso dei millenni di evoluzione culturale precedenti allo svelamento giudeo-cristiano, le comunità umane avrebbero solo imparato a controllarla o quanto meno a ridurne gli effetti più catastrofici. Come si accennava in precedenza, i sistemi culturali e sociali, in quanto sistemi differenziali, avrebbero avuto il merito di ridurre lo spazio di azione delle tensioni mimetiche, riducendo con ciò stesso le possibilità di conflitto e di contagio violento.
Facendo convergere le considerazioni di Esposito sul processo di immunizzazione operato dalla modernità con la filosofia della storia elaborata da Girard, si ha il legittimo sospetto che la progressiva cauterizzazione dell'apertura al con-essere, ovvero l'isolamento protettivo degli esseri umani, si configuri come una forma di protezione dalle tensioni mimetiche piuttosto che dal munus, inteso come dono di morte. Il soggetto moderno, assolutamente individuato, è costruito attraverso la negazione di una relazione che travalica ogni possibile decisione. Questa operazione di immunizzazione, ovvero di esasperazione dell'individualità, è correlata alla progressiva erosione dei sistemi differenziali descritta nelle molte e note diagnosi del nichilismo. In questo scenario, la relazione sociale si presta ad essere percepita come contagiosa perché, venuta meno la solidità delle strutture identitaria culturali e sociali -- la cui sostanziale illegittimità è stata progressivamente scoperta, in secoli di filosofia del sospetto -- la mimesi ha nuovamente lo spazio di azione che le culture arcaiche avevano cercato di sottrarle. Ciò che è fondamentale mettere in luce è il rischio autoimmunitario che si corre nel mettere in atto le pratiche immunitarie descritte da Esposito. Una cauterizzazione dell'apertura alla relazione, essendo la relazione il luogo di costituzione della struttura identitaria, non solo non riduce lo spazio di libertà delle tensioni mimetiche, ma anzi, impedendo ogni processo di definizione del sé per via differenziale, a ben vedere alimenta o quanto meno favorisce la progressiva diffusione di doppi indifferenziati.
In questo aspetto ci pare di poter cogliere innanzitutto un luogo di possibile confronto delle tesi sin qui elaborate con le sociologie del conformismo e in secondo luogo, di riconoscere un tratto caratteristico delle fasi concitate delle crisi vittimarie descritte da Girard.21
5. Luoghi antropologici e accelerazione 
Marc Augé, in uno dei suoi saggi più celebri, pubblicato agli inizi degli anni '90, fornisce un'introduzione ad una antropologia della surmodernità, attraverso una categoria ispirata dalle riflessioni di Michel de Certeau: il nonluogo.
La categoria del nonluogo è elaborata in opposizione alla categoria del luogo antropologico, a cui l'autore dedica un capitolo ricco di descrizioni rilevanti per i nostri fini (Augé 1992: 43-69).
Il luogo comune dell'etnologo, e di tutti coloro di cui parla, è appunto un luogo: quello occupato dagli indigeni che vi vivono, vi lavorano, lo difendono, ne segnano i punti importanti, ne sorvegliano le frontiere, reperendovi allo stesso tempo la traccia delle potenze ctonie o celesti, degli antenati o degli spiriti che ne popolano e ne animano la geografia intima, come se il piccolo segmento di umanità che in questo luogo indirizza loro offerte e sacrifici ne fosse anche la quintessenza, come se non ci fosse umanità degna di questo nome se non nel luogo stesso del culto che viene loro consacrato. E L'etnologo, dal canto suo, si vanta di poter decrittare attraverso l'organizzazione del luogo [...] un ordine così vincolante, e comunque evidente, che la sua trascrizione nello spazio si presenta come una seconda natura. (Ivi: 43-44, corsivo nostro).
Il luogo, come nozione sociologica o antropologica, per definizione associato ad un cultura collocata nel tempo e nello spazio (Ivi: 36) è un dispositivo spaziale di garanzia identitaria del gruppo ed «è ciò che il gruppo deve difendere contro le minacce esterne ed interne perché il linguaggio dell'identità conservi un senso (Ivi: 45)». Secondo Augé un luogo antropologico, per essere tale, deve avere tre caratteristiche: deve essere identitario, relazionale e storico.
Un tratto rilevante di quanto emerge dalle analisi di Augé è che le spazializzazioni di una cultura, dai reami del Benin alla Francia, si fondano su un dispositivo di costituzione del centro, che sia il re immobilizzato, al centro del villaggio, o i simboli del potere temporale e spirituale nelle piazze delle città, o Parigi, vero e proprio centro dell'intera nazione (Ivi: 59-63) e di definizione oltre che difesa dei confini, delle frontiere, delle soglie tra interno ed esterno.22
Uno spazio che non possa definirsi né identitario, né relazionale, né storico definirà un nonluogo (Ivi: 73). La tesi nota di Augé è che la surmodernità, categoria elaborata in relazione alle retoriche del postmoderno e che rappresenta «il diritto di una medaglia di cui il postmoderno ci ha presentato solo il rovescio (Ivi: 32)», produca nonluoghi. I tratti caratteristici della surmodernità sono riassumibili nella categoria dell'eccesso: secondo l'autore si tratta di un'accelerazione temporale, di un mutamento di scala nel rapporto alle dimensioni spaziali e di un'esasperazione dell'individualità, a cui è in qualche modo consegnata la responsabilità della produzione di senso (Ivi: 32-38). I nonluoghi, idealtipica polarità opposta al luogo antropologico, sono lo spazio della surmodernità. Una figura molto suggestiva con cui Augé determina l'evoluzione verificatasi nel passaggio dalla modernità alla surmodernità, e che in qualche modo converge esplicitamente con quanto detto sin qui, è la descrizione dello sviluppo delle carte geografiche: «dalle carte medievali, costituite essenzialmente dal tracciato di percorsi e itinerari, fino alle mappe più recenti dalle quali è sparita «la descrizione disparata» (Ivi: 76).
Il luogo identitario, relazionale e storico offre, così come le mappe medievali, un «insieme di possibilità, di prescrizioni e di interdetti il cui contenuto è allo stesso tempo spaziale e sociale (Ivi: 52)», mentre il nonluogo, così come le «mappe più recenti» riduce al massimo ogni provocazione. Il luogo antropologico è «uno spazio simbolizzato», uno spazio che detta un uso, coerente con una cultura ed una struttura sociale, il nonluogo è uno spazio astratto, dequalificato e non simbolizzato. La nostra tesi, in questo contesto, è che quanto Augé riconduce alla surmodernità, sia in realtà altrettanto se non maggiormente riconducibile al processo di immunizzazione di cui stiamo cercando di definire i confini. A tal proposito è infatti perfetta la convergenza con quanto detto da Sloterdijk a proposito della trasformazione dei luoghi identitari in ubicazioni relative. I nonluoghi caratteristici evocati da Augé sono «le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti «mezzi di trasporto» (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre (Ivi: 74)». Augé non usa mai il lessico del contagio né quello dell'immunologia nell'affrontare il tema della proliferazione dei nonluoghi eppure ci pare che proprio il processo di immunizzazione dagli effetti di provocazione all'interazione sedimentati nei cosiddetti luoghi antropologici possa essere la chiave di lettura genetica di questo fenomeno. Aggiungerei inoltre una considerazione sull'ennesimo tratto di convergenza con il nostro progetto ravvisabile nelle tesi espresse nel saggio del 2008, Che fine ha fatto il futuro? , in merito, precisamente, alla scomparsa delle soglie, delle discontinuità all'interno del cosiddetto mondocittà (Augé 2008: 41-43).
I luoghi che Augé vede proliferare nelle modalità del nonluogo sono gli spazi della standardizzazione, sono gli spazi del minimo comune multiplo delle culture di provenienza dei potenziali clienti del servizio offerto. Sono spazi asettici le cui affordances sono strumentalmente ridotte ai minimi termini. Una stanza di albergo non deve riportare nessun tratto culturale specifico, per non risultare estranea a nessuno dei clienti, e i centri commerciali non devono distrarre dal fine per cui sono costruiti né richiedere alcuno sforzo ermeneutico supplementare. I nonluoghi sono prodotti di una progettualità ben definita volta a liberare gli individui dalla sensazione del contagio prodotta dall'interazione con i luoghi e con le cose. Ci pare che in qualche modo Augé, proprio nell'affrontare il problema della relazione di provocazione dei luoghi antropologici e della sua evoluzione negli asettici nonluoghi compia una rovesciamento. È lucido nell'intuire che le «interpellanze» provenienti dai nonluoghi «mirano simultaneamente, indifferentemente, a ciascuno di noi [...]; non importa chi di noi, esse fabbricano «l'uomo medio», definito come utente (Ivi: 92)» ma presenta l'effetto di alleggerimento dalle provocazioni di interazione come una fortuita conseguenza. Insomma, ci pare che non avendo assunto il paradigma della modernizzazione come immunizzazione e soprattutto, non avendo di conseguenza colto il rischio strutturale della catastrofe autoimmunitaria, Augé non raccolga quanto era possibile dalla sua intuizione antropologica schiacciando le une sulle altre le intenzioni procedurali di immunizzazione e le conseguenze perverse autoimmunitarie.
Le descrizioni dell'effetto conformistico e parcellizzante dei nonluoghi porta Augé a formulare il problema in termini che ci permettono di accostarlo ancora una volta al paradigma dell'immunizzazione storica fornito da Esposito. Secondo Augé «solo, ma simile agli altri, l'utente del nonluogo si trova con esso (o con le potenze che lo governano) in una relazione contrattuale. [...] Il passeggero conquista dunque il proprio anonimato solo dopo aver fornito la prova della sua identità, solo dopo aver, in qualche modo, controfirmato il contratto (Ivi: 93)».23 In qualche misura dunque, la relazione impostata ed imposta dal nonluogo è una relazione documentale e asettica, ma ciò che ci preme rilevare è proprio il parallelo tra questa dimensione relazionale su base contrattuale e le considerazioni elaborate da Esposito nel fare i conti con i grandi filosofi politici del contrattualismo. Come si diceva, l'interpretazione su base politica della comunità ne evidenzia il tratto mortifero:
la comunità porta dentro un dono di morte. [...] Dal momento che l'origine comune minaccia di risucchiare nel suo vortice tutti coloro che ne sono attratti, l'unica via certa si salvezza è quella di rompere seccamente con essa. [...] Ciò che va sciolto è il legame con la dimensione originaria -- Hobbes dice «naturale» -- del vivere comune attraverso l'istituzione di un'altra origine artificiale, coincidente con la figura, giuridicamente 'privatistica'e logicamente 'privativa', del contratto (Esposito 2006: XXII).
Il fatto che Augé possa descrivere i nonluoghi come spazi tipici della surmodernità appare ora non solo un'intuizione poetica o una descrizione antropologica ma la logica conseguenza di un processo, quello di immunizzazione definito da Esposito, che ha di fatto costruito la modernità e che, nei suoi eccessi, sta determinando la surmodernità. In questa prospettiva Esposito e Augé, raccolti nel medesimo paradigma, dimostrano una certa analogia nel descrivere i risultati autoimmunitari delle pratiche immunitarie politica e architettonica. In entrambi i casi, infatti, le conseguenze della corsa all'immunizzazione preventiva dalla relazione producono aberrazioni identitarie. Su questo punto si può richiamare un autore che ha dimostrato una straordinaria sensibilità nel valutare la natura di una specifica tipologia di luogo antropologico, assurto nella sua analisi, a luogo antropologico per antonomasia: il giardino. L'autore a cui ci riferiamo non è Foucault che pure nella conferenza Des espaces autres del marzo 1967 aveva trattato anche di giardini, ma Robert Pogue Harrison. In Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, Harrison assume il giardino a luogo esistenziale antonomasico, fornendoci così numerosi appigli nella nostra indagine. Innanzitutto, come è noto, non esiste giardino propriamente detto che non sia la messa in opera di una metafisica, che non sia la manifestazione di un'idea di ordine e di armonia.24
Il tratto specifico del testo a cui vogliamo fare riferimento è il tema della cura,25 preso in esame e assunto come linea guida del saggio. In effetti, il giardino, oltre ad avere le caratteristiche brevemente ricordate introduce il giardiniere, ovvero colui che se ne prende cura, in una relazione particolare. Il giardiniere coltiva il giardino e coltivando il giardino coltiva se stesso. La propria identità è costituita nella relazione di continuo differimento di sé, progettuale e mnestico, prodotto dall'imposizione della propria idea al giardino. La relazione di assoggettamento è biunivoca ed è, a ben vedere, il vero soggetto della questione. É la relazione di cura che lega il giardiniere e il giardino a costituire, nel progressivo andirivieni identitario, i due poli. Questo aspetto è fondamentale: non può esistere infatti un giardino in cui l'imposizione sia a senso unico. Non esiste giardino laddove l'azione dell'essere umano non tenga conto della vita. Harrison ci mostra così il ruolo di costituzione identitaria della relazione della cura nei confronti di un luogo antropologico, relazione che ovviamente viene a mancare nei nonluoghi. In qualche modo, ancora una volta, ci pare che il nonluogo, che certamente rappresenta la messa in opera di un sistema di ordine, nell'eccesso di difesa immunitaria si trasformi in una perversa catastrofe autoimmunitaria, la cui conseguenza è la distruzione -- o semplicemente l'impedimento alla costituzione26 -- di una struttura identitaria.
Vorrei ora tornare ancora un istante alle caratteristiche dei nonluoghi valutandone l'ergonomia asettica: per far emergere il contrasto tra luoghi antropologici e nonluoghi nel paradigma immunitario, ci pare che, in parallelo all'evocazione di Baudelaire, a cui Augé si richiama per valutare la differenza tra l'accumulazione storica della modernità e l'accelerazione esasperata della surmodernità, si potrebbe ricorrere all'evocazione di Balzac che nel Pére Goriot offre una prova esemplare del suo realismo, a cui ci sentiremmo di apporre l'etichetta del contagio.
Le pagine iniziali sono dedicate ad una minuziosa descrizione della maison Vauquer, la pensione dove alloggia, tra gli altri, Eugène de Rastignac; a partire dalla rue Neuve-Sainte-Geneviève, passando per la facciata dell'edificio, sino ai ninnoli che addobbano il caminetto, Balzac costruisce una rete di riferimenti identitari la cui aggressività sull'identità dei personaggi è manifestata in un gioco di corrispondenze. Mme Vauquer è lo specchio della pensione che dirige, in un tale numero di dettagli che Balzac ci induce a dubitare che si tratti di un particolare gusto per l'arredamento ad aver generato questa identità e che sia invece l'ambiente, con i suoi dettagli un po'miseri e un po'meschini, con la sua atmosfera stantia e chiusa, ad aver alla lunga determinato il carattere dei pensionanti tutti, da Mme Vauquer27 allo stesso Pére Goriot.
A sostenere ulteriormente queste impressioni che tendono a fare della relazione con l'alterità una minaccia di contagio, vorrei ancora proporre un riferimento alle ultime pagine dell'Essere e il nulla, nella quali Sartre affronta la categoria ontologica del vischioso, il cui interesse, oltre al valore intrinseco delle pagine, è connesso, mediante isteresi, alla categoria baumaniana della liquidità e al filosofema marxiano ad essa sotteso.
Pur come categoria ontologica specifica, il vischioso ci pare una magnifica simbologia per una fenomenologia del contagio: il vischioso dà, in prima istanza, «l'impressione di un essere che si può possedere (Sartre 1943: 689)», è un'impressione invitante, amichevole, di un essere che si presta al progetto; diversamente dall'acqua, «incomprimibile» e inesorabilmente distante, fredda, il vischioso pare disporsi all'uso, «il vischioso è docile», ma, dice Sartre:
solamente, nel momento stesso in cui credo di possederlo, ecco che per un curioso rovesciamento, è lui che mi possiede. Appunto qui appare il suo carattere essenziale: la sua mollezza fa da ventosa. L'oggetto che tengo in mano, se è solido, posso lasciarlo quando mi pare; la sua inerzia simbolizza per me la mia intera potenza: [...] è il per-sé che assorbe l'in-sé. In altre parole il possesso afferma la preminenza del per-sé nell'essere sintetico «in-sé-per-sé». Ma ecco che il vischioso rovescia i termini: il per-sé è improvvisamente compromesso; [...] la sua maniera di essere non è né l'inerzia rassicurante del solido né un dinamismo come quello dell'acqua, che consiste nel fuggirmi. [...] Il vischioso è la rivincita dell'in-sé (Ivi: 690).
Il vischioso in Sartre è la condizione fenomenologica in cui l'oggetto, l'in-sé, sopraffà la coscienza, il per-sé, e la ingloba. In questo senso descrive perfettamente la sensazione del contagio, una condizione in cui la distanza tra oggetto e coscienza viene meno, in cui l'oggetto aggredisce i confini della coscienza, confondendosi con le sue frontiere e annullando la differenza tra interno ed esterno. «Il simbolo si scopre bruscamente: ci sono dei possessi velenosi; c'è la possibilità che l'in-sé assorba il per-sé: cioè che un essere si costituisca alla rovescia di «in-sé-per-sé», in cui l'in-sé attirerebbe il per-sé nella sua contingenza, nella sua esteriorità di indifferenza, nella sua esistenza senza fondamento (Ibidem)». In questo passo Sartre attribuisce all'esperienza del vischioso tutti i tratti che abbiamo cercato di ricondurre all'esposizione al contagio.
Tornando al testo di Augé vorremmo proporre ora una considerazione su di un'ulteriore convergenza ravvisabile tra quanto l'autore dice a proposito della surmodernità e quanto viene detto da un sagace commentatore e allievo di Rene Girard. Secondo Augé il tratto caratteristico della surmodernità, attraverso il quale vuole in qualche modo mettere in dubbio, o quanto meno ridurre la legittimità delle retoriche del postmoderno, è la tesi dell'accelerazione, tesi a cui ha recentemente dedicato un secondo volume in cui, riprendendo i temi trattati nei Nonluoghi, affronta la questione del nontempo (Augé: 2008).
L'accelerazione del tempo, come detto, viene indicata come tratto caratteristico della surmodernità, ma la nostra tesi, prendendo a sostegno un articolo di Mark Anspach, attraverso il quale tirare le fila dei questo intervento, è che l'accelerazione non sia tanto un tratto caratteristico della surmodernità quanto una sorta di ricaduta ad una temporalizzazione arcaica. Anspach ha scritto un breve articolo frutto di ricerche portate avanti presso l'Association Recherches Mimétiques28 nel quale discute, attraverso l'applicazione della teoria mimetica, la piéce teatrale di Jean Giraudoux, La guerre de Troie n'aura pas lieu,29 ispirata all'Iliade. Anspach cita un verso di quest'opera, pronunciato da Cassandra, che ci offre una solidale convergenza. Prima di arrivare al verso specifico, è necessario introdurre brevemente lo scambio di battute precedente. La scena si apre con un dialogo tra Andromaca a Cassandra. La prima è convinta, riponendo la propria fiducia nel buon senso dei propri compagni troiani e nella presenza di spirito del marito Ettore, che la guerra di Troia non avrà luogo mentre Cassandra è pronta a scommettere il contrario.30 Nella piéce di Giraudoux, Ettore e Ulisse mostrano una certa sensibilità mimetica nei confronti dei temibili effetti della simmetria indifferenziata e cercano in qualche modo di intervenire affinché la guerra possa essere scongiurata: per evitare lo scoppio di una guerra suicida, Ettore cerca di persuadere Ulisse a riprendere con sé Elena, lasciando correre l'offesa subita da Menelao. Lo scambio di battute tra i due eroi è illuminante in merito al tema del destino, richiamato in causa come forza superiore e inappellabile. Questo è il momento in cui Giraudoux offre un esempio di rara poesia: cosa significa la parola destino? «Je ne sais pas ce qu'est le destin», protesta Andromaca. «Je vais te le dire», risponde Cassandra. Il destino, «c'est simplement la forme accélérée du temps (Giraudoux 1935: 56; Anspach 2006: 3, corsivo nostro)». Naturalmente, come tutti sanno, alla fine Cassandra avrà ragione, a causa di un turbinio di eventi in rapida successione che faranno cadere lo stesso Ettore nella spirale della violenza destinata ad espandersi -- per contagio -- sino a esplodere nella grande guerra di Troia.
Ciò che emerge da questo passo è che l'accelerazione è una sorta di ritorno alle origine della temporalizzazione, e quindi non andrebbe forse descritto nei termini positivi dell'accelerazione quanto nei termini di una negazione o corruzione del differimento. Nella prospettiva girardiana infatti, la socialità umana si rende possibile solo a seguito dell'attivazione di processi di differimento della reciprocità.31 In qualche modo ci pare dunque che la sensibilità disciplinare di Augé ci fornisca un ulteriore indizio della bontà della nostra ipotesi. L'accelerazione del tempo, come caratteristica del processo produttivo dei nonluoghi, una volta stabilita la mediazione del paradigma teorico inaugurato da Girard, converge perfettamente con un fenomenologia del contagio, o dell'esposizione; un'accelerazione del tempo è semplicemente una resa alla reciprocità mimetica, così come il differimento ne è un vincolo.
6. Conclusione 
Per avviarci alla conclusione vorremmo ancora chiamare in causa un testo di Richard Sennett, il quale ci offre una prospettiva ancora diversa e ancora convergente con la nostra tesi in merito alle conseguenze autoimmunitarie seguite all'esasperazione delle pratiche immunitarie dovuta alla progressiva estensione della modernizzazione. Il testo in questione è L'uomo flessibile,32 saggio nel quale Sennett affronta gli effetti delle capitalismo sulla vita personale. L'intuizione fondamentale è quella di mettere a confronto desideri e aspettative delle generazioni nate dopo la II Guerra Mondiale con quelle dei loro padri. Lo spunto consiste nel descrivere le conseguenze inattese della soddisfazione delle pretese di questa generazione, il cui desiderio di potersi muovere con meno vincoli (Sennett 1999: 15), una volta realizzatosi, ha prodotto delle catastrofi identitarie. Ancora una volta torna fondamentale la temporalizzazione delle esperienze e delle relazioni sociali. La frenesia degli spostamenti imposti da professioni sempre più dinamiche distrugge i tessuti connettivi dei quartieri residenziali; le relazioni di vicinato si frantumano, i luoghi perdono la loro determinazione identitaria, il «lungo termine» scompare (Ivi: 20). Naturalmente il dinamismo delle professioni legate ai cicli innovativi del capitalismo ha delle evidenti ragioni immunitarie che vanno però a difendere esclusivamente il sé lavorativo, disgregando le relazioni sociali e riducendo ogni processo di determinazione dell'identità a lungo termine: «è la dimensione temporale del nuovo capitalismo [...] a influenzare in modo più diretto le vite emotive delle persone anche fuori dal luogo di lavoro. Trasposto nell'ambito familiare, il «basta col lungo termine» significa continuare a muoversi, non dedicarsi in profondità a qualcosa e non fare sacrifici (Ivi: 23)». La catastrofe autoimmunitaria prodotta dalla temporalizzazione frammentata e iperdinamica imposta dai ritmi del nuovo capitalismo è chiaramente descritta in questo domanda: «come può un essere umano sviluppare un'autonarrazione di identità e una storia della propria vita in una società composta di episodi e frammenti? (Ivi: 24)».
La riflessione di Sennett cerca di evidenziare le conseguenze inaspettate prodotte dall'erosione di ogni forma di ostacolo alla libertà dell'individuo per mettere in luce il ruolo determinante dei vincoli nella creazione di narrazioni identitarie. L'immunizzazione moderna ha cercato di emancipare gli individui da ogni forma di contatto coatto, simbolico, fisico, sociale per garantire loro la massima libertà ma ha confuso un piano di descrizione statico, in cui le progressive erosioni potevano senz'altro produrre effetti benefici, con il piano genetico, non rendendosi conto che i vincoli di cui ci si è frettolosamente liberati sono necessari per la costituzione di un'identità solida e coerente. In questi termini, la difesa immunitaria -- aggressiva33 -- da ogni invasione del sé, da ogni forma di vischiosità sociale e simbolica, ha prodotto una catastrofe autoimmunitaria. «Immaginare una vita di impulsi momentanei, di azioni a breve termine, priva di routine sostenibili, una vita senza abitudine, è più o meno come immaginare un'esistenza priva di senso (Ivi: 43-44)».
La conclusione che vorremmo trarre da quanto detto sin qui è che la condizione postmoderna descritta dagli autori chiamati a convegno in questo intervento, si può a ragione definire come contagiosa. Il tratto innovativo che ci pare di poter dare a questo paradigma sta nel ravvisare in questa condizione non tanto una novità specificamente post o surmoderna quanto invece la condizione originaria della relazione sociale.
Note
1.          P. Sloterdijk, Il mondo dentro al capitale, Roma 2006, pp. 36. 
2.          L'autore della trilogia in questione ritenne sin dalle prime fasi della stesura dell'opera di aver concepito il libro che Heidegger avrebbe dovuto scrivere, una sorta di compagno di Essere e tempo, il cui sottotitolo intenzionale avrebbe potuto suonare Essere e spazio. 
3.          Sotto questo profilo le riflessioni di Augé suonano solidali e ci tornerà utile in seguito tenere in considerazione quella sorta di coppia formale costituita dai saggi Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano 1993 e Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Milano 2009. 
4.          A tal proposito è sempre di grande suggestione rilevare il fatto che in una lingua come il russo, la parola kocmoc significa semplicemente spazio. 
5.          Cfr. Aristotele, Fisica, 212b. 
6.          P. Sloterdijk, L'ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Roma 2002, pp. 169-175. 
7.          A questo proposito sono molto interessanti le considerazioni storico-antropologiche-filosofiche di Alfred Schütz sullo straniero e quelle di Bernard Waldenfels sull'estraneità. 
8.          In questa prospettiva, il mondo smette le vesti di ordine e pulizie che gli aveva garantito la denominazione e si presta alla definizione heideggeriana di «astro errante», che compare in M. Heidegger, «L'epoca delle immagini del mondo», in Sentieri interrotti, Firenze 1985, p. 64. 
9.          A. Schutz, Collected Papers. I. The Problem of Social Reality, The Hague, Martinus Nijhoff, 1962, pp. 207-259. 
10.        Cfr. Z. Bauman, L'arte della vita, Roma-Bari 2009 e Id., Intervista sull'identità, Roma-Bari 2003. 
11.        R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano 1965. 
12.        Girard opera una distinzione tra mediazione interna e mediazione esterna per chiarire il ruolo della figura del mediatore. Il modello da cui presoggettivamente si prende ispirazioni nella determinazione dei propri desideri può dunque essere esterno al nostro mondo, vuoi perché troppo lontano, nel tempo e nello spazio, vuoi perché inesistente o interno, e quindi raggiungibile. Per rimanere agli esempi di matrice letteraria, nel primo caso si può citare Amaldigi di Gaula, modello ispiratore del Don Quijote, per quanto riguarda il secondo, si potrebbe fare riferimento alla vicende che legano Monsieur de Rênal, sindaco di Verrières e Valenod nelle prime pagine de Le rouge et le noir di Stendhal. 
13.        Questa distinzione analitica viene elaborata nel torno di anni che va dalla pubblicazione del '72, in cui la mimesi di appropriazione è già chiaramente esposta, all'opera del '78, in cui viene definita la mimesi dell'antagonista. 
14.        R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e João Cezar de Castro, Milano 2003. 
15.        J.-P. Dupuy, Ordini e disordini, Firenze 1986, p. 128. 
16.        Secondo Girard il meccanismo vittimario si colloca alle origine dell'umano da numerosi punti di vista e per numerose ragioni, una delle quali è che rappresenta una risoluzione dei fenomeni di faida che altrimenti, in assenza di tale meccanismo, potrebbero facilmente condurre all'autodistruzione delle comunità in cui prendevano piede. 
17.        Riedito in versione ampliata nel 2006. 
18.        Il riferimento è non solo e non tanto a La farmacia di Platone di Derrida, quanto alla figura del pharmakos ateniese, vero e proprio capro espiatorio usa-e-getta. 
19.        Il corsivo, nostro, è volto a sottolineare una sottile incoerenza. Nelle prime pagine del testo Esposito si sofferma con molta decisione sull'errore commesso da tutta la tradizione filosofica e politica che prima di lui ha affrontato il tema: la comunità non va intesa «come un legame collettivo venuto ad un certo punto a connettere individui prima separati (Esposito 1998: XV)» eppure in questo passo sembra confondersi su quale sia il soggetto a cui attribuire priorità logica e ontologica. 
20.        Cfr. Nancy J.-L., Essere singolare plurale, Torino 2001, pp. 37-41. 
21.        A tal proposito mi permetto di ricordare l'ermeneutica mitica applicata ne La violenza e il sacro a certi elementi simbolici strutturali, a certi mitologemi diffusi come la catastrofe pandemica. La peste tebana, la cui responsabilità sarà fatta cadere sulle spalle di Edipo, è un caso simbolico in cui indifferenziazione e contagio sono perfettamente saldati. 
22.        A tal proposito, per esempio, si pensi al pomerio di Roma ed al fatto che il gesto fondativo compiuto da Romolo non sia tanto l'istituzione di un centro quanto di una soglia. 
23.        A tal proposito cfr. anche Augé 2008, p. 49. 
24.        Un aspetto interessante della questione, per altro già evidente nella sua convergenza con le tesi di Mary Douglas è il riferimento spontaneo ai tappeti, e nella fattispecie all'uso rituale che ne viene fatto nell'Islam. Il tappeto-giardino ammette, o meglio accoglie, il fedele in preghiera in uno spazio puro, perché ordinato e separato. 
25.        Ovviamente le risonanze heideggeriane del tema sono presenti all'autore ma non è qui il caso di addentrarci nella questione se non per valutare il carattere intrinsecamente relazionale degli esistenziali heideggariani, in questo come in altro, profondamente debitore delle indagini sull'intenzionalità e sulla categoria della relazione nella fenomenologia husserliana. 
26.        Le analogie con il lessico immunologico svelano ancora più di quanto non sia stato sin qui accennato. Un tema di fondamentale interesse in questa analogia è quello che emerge da un confronto con le teorie del sé immunologico e con i dibattiti a cui si assistette all'inizio del XIX. L'aspetto specifico di questi dibattiti, che non possiamo qui considerare, è lo scontro che oppose Metchnikoff e Ehrlich, rappresentanti di due scuole di pensiero opposte (rispettivamente cellularisti e umoralisti): nella continua interazione con l'esterno -- e con l'interno -- il sistema immunitario, una vera e propria soglia, si limita a proteggere l'integrità del sé o partecipa attivamente alla continua e progressiva determinazione dell'identità? Cfr. A.I. Tauber, The Immune Self: Theory Or Metaphor? Cambridge University Press, 1994, pp. 6, 26 e 38. 
27.        Cfr. H.de Balzac, Papà Goriot, Milano 1992, p. 10: «tutta la sua persona infine spiega [explique] la pensione, come la pensione implica [implique] la persona». Si considerino le influenze che Balzac subì da parte delle teorie proto-evoluzioniste di Geoffroy Saint-Hilaire a proposito dell'effetto di determinazione che l'ambiente di sviluppo di un animale, compreso l'uomo -- visto il principio di unità di composizione postulato -- aveva sull'individuo. A ben vedere lo stesso si potrebbe dire del realismo di Zola in cui il ruolo del milieu è determinante nella definizione dell'identità dell'individuo; in questo caso Zola, come altri suoi contemporanei naturalisti, per esempio Bourget e Maupassant, fu grandemente influenzato dall'astro del determinismo naturalistico dell'epoca, vale a dire Hippolyte Taine. 
28.        M. R. Anspach, Pourquoi la guerre de Troie aura-t-elle lieu? Du mythe grec à Giraudoux, enquête sur un conflit mimétique, <http://www.arm.asso.fr/offres/file_inline_src/57/57_P_3235_1.pdf>, 2006. 
29.        Jean Giraudoux, La guerre de Troie n'aura pas lieu [1935], Paris, 1991. 
30.        Andromaque: La guerre de Troie n'aura pas lieu, Cassandre! / Cassandre : Je te tiens un pari, Andromaque. / Andromaque : Cet envoyé des Grecs a raison. On va bien le recevoir. On va bien lui envelopper sa petite Hélène, et on la lui rendra. / Cassandre : On va le recevoir grossièrement. On ne lui rendra pas Hélène. Et la guerre de Troie aura lieu. / Andromaque : Oui, si Hector n'était pas là !... Mais il arrive, Cassandre, il arrive ! [...] Quand il est parti, voilà trois mois, il m'a juré que cette guerre était la dernière. Cfr. J. Giraudoux, op. cit. p. 55 (Acte I, scène 1), citato in M.R. Anspach., op. cit. p. 2. 
31.        Cfr. anche M. R. Anspach, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato, Torino 2007. 
32.        R. Sennett, L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano 1999. 
33.        Cfr. A. I. Tauber, op. cit., p. 38, in cui si rende conto del primato di Metchnikoff nel determinare l'azione del sistema immunitario come una «active response to a pathogen», allontanandosi dalla considerazione del «host's immune status as due to passive factors». 
Sivio Spiri
Le domande della bioetica
1. Introduzione 
Le scoperte neuroscientifiche degli ultimi decenni, le loro molteplici applicazioni e le conoscenze acquisite sul DNA presuppongono l'introduzione dell'alta tecnologia nella vita umana e nella medicina. Basti pensare alle tecnologie biomediche (fMRI o risonanza magnetica funzionale, la PET o tomografia ad emissione di positroni, ecc.) e alle biotecnologie. La ricerca genetica, la farmacogenetica e la farmacogenomica, la ricerca con esseri umani, gli sviluppi della biochimica e della biologia molecolare sono espressione del progresso medico e scientifico, ma destano anche numerosi interrogativi bioetici sulla vita umana. Chi è persona? Come «definire» la persona? Quali sono i suoi caratteri distintivi e originari? Che cosa significa rispettare la dignità dell'uomo? Qual è l'ordine dell'essere e degli enti? Le domande etiche, amplificate dai mezzi di comunicazione, esigono altrettante risposte, soprattutto sul piano clinico. La bioetica è certamente il luogo in cui si condensano conflitti radicali che rispecchiano diverse concezioni sul senso profondo da attribuire all'esistenza, alla libertà umana, ai limiti e alle finalità della scienza medica.
Da ciò deriva la consapevolezza dell'importanza del confronto interdisciplinare, finalizzato alla comprensione critica della realtà ed orientato al rispetto della dignità e della verità integrale dell'uomo. La fragilità e la vulnerabilità della condizione umana è il segno dell'esposizione originaria del nostro essere relazionale e della sua apertura al mondo della vita, ma può anche tradursi in varie forme di strumentalizzazione e prevaricazione che il più forte esercita sempre a danno del più debole. Ciò vale anche, e non solo, nella scienza medica.
Di bioetica si occupano, a vario titolo, giuristi, politici, medici, filosofi morali e biologi. Nella prospettiva della «bioetica personalista», occorre riflettere innanzitutto sullo statuto ontologico della persona e sull'ordine intrinseco dell'essere e degli enti tutti, sempre da amare e rispettare in base al principio ontologico della giustizia.
Il carattere fondamentale della medicina nel terzo millennio è, senza dubbio, la tecnologia. Già per Heidegger la tecnica era il carattere principale dell'Occidente ed in essa la verità dell'essere obliata si rivelava come nascosto fondamento. La tecnica ha reso possibile il progresso della medicina, la quale non è una scienza monolitica, e non è neppure una scienza esatta, ma abbraccia molteplici e sempre nuove specializzazioni. La medicina si articola in un insieme complesso di scienze sperimentali, ma è anche l'arte del prendersi cura, che si pone al servizio della fragilità dell'homo patiens. La cura delle malattie, l'alleviamento delle sofferenze e l'estensione delle cure di base, in base al principio di equità e giustizia, a tutta l'umanità, sono i caratteri fondamentali della scienza e dell'arte medica. Da tale prospettiva deriva l'esigenza, da più parti invocata, di un'umanizzazione della medicina che anima e sostiene l'idea stessa del progresso scientifico e lo statuto della medicina, il cui fine è la persona. Molte divergenze nascono già nell'indicazione del momento iniziale della sua esistenza o anche nella definizione della morte di una persona o del momento in cui non ci sarebbe più persona, a causa del venir meno di alcune capacità. Ma è possibile ridurre la persona al possesso di alcune capacità, in base ad un presupposto di tipo razionalistico e funzionalistico?
La questione dell'identità personale si riflette nella relazione medico-paziente-famiglia, quale espressione emblematica della condizione umana segnata dalla vulnerabilità. Prima di indicare le domande fondamentali della bioetica, occorre definire la bioetica, delineando il suo statuto epistemologico, molto controverso e dai confini ancora labili, il suo metodo e il suo oggetto formale.
Il rapporto tra tecnica e medicina suppone la domanda sul bene integrale della persona, concepita nell'unitotalità della concreta «esistenza relazionale». Nel contesto personalistico, definito da un'ontologia relazionale, si comprende la ragione per cui tutto ciò che è tecnicamente possibile non è sempre eticamente lecito. Infatti, la tecnica è per l'uomo e non l'uomo per la tecnica. Il mezzo deve essere perciò specificato dal fine ulteriore verso il quale si indirizzano gli sforzi e le intenzionalità pratico-operative.
Una questione essenziale risiede nella capacità di cogliere l'unità antecedente la riflessione, vale a dire l'esperienza vissuta e vivente della persona, la cui integralità spirituale e psico-fisica, richiede sempre protezione, cure proporzionate, scelte politiche e sociali ispirate al principio di giustizia.
Se si riconosce l'istanza metafisica nel filosofare, si comprende che ogni essere umano è persona e che la convivenza ordinata al bene implica il rispetto dei diritti umani che sono fondati nella natura umana. Dalla concretezza fenomenologica dell'esistenza, è possibile riconoscere la dignità di ogni singola persona, in modo universale, cioè ad ogni latitudine e in qualsiasi condizione materiale o fisica si trovi. Da ciò deriva l'assunzione di responsabilità verso il proprio essere, ma anche nei confronti delle scelte e delle conseguenze che le decisioni e le azioni mediche sono in grado di provocare. In riferimento alle nuove e inedite emergenze bioetiche, unitamente alle sfide delle neuroscienze, non è sufficiente un'etica comunitaria a regime ristretto o localistico.
L'allargamento dello sguardo sul mondo può favorire, attraverso la coscienza critica dell'età tecnologica, una progressiva globalizzazione dei diritti, come quello alla vita, alla sussistenza, alla cura e alla tutela delle persone, la cui preziosità e bellezza trascende lo spazio angusto e austero del profitto individuale o degli individui.
2. La bioetica ed il suo statuto epistemologico 
Che cos'è la bioetica e qual è il suo stato epistemologico? Innanzitutto, «Bioetica» è un termine composto da due parole greche: bios (vita) ed ethica (etica), etica della vita. La semantica della vita è una questione molto complessa che non si può certo esaurire per mezzo di una definizione chiara e distinta, nel senso che la stessa vita umana trascende ed eccede ogni definizione del vivente. Possiamo però tentare di dire qualcosa senza sprofondare nello scetticismo relativistico o nella presunzione del razionalismo. La vita e la vita biologico-organica non sono nozioni equivalenti e, pertanto, il concetto di vita è di per sé analogo: esistono differenti livelli della vita. Il lessico della lingua italiana non aiuta a identificare la ricchezza della vita. Il termine italiano «vita» indica la vita animale, quella umana, quella oltreumana; applicato all'uomo, indica sia la vita organica, sia la vita spirituale che quella psichica. In greco ci sono tre termini per indicare lati diversi del fenomeno della vita: zoé, bios, psyché.1 Zoé indica la vita come fenomeno fisico, la vita mediante la quale viviamo (vita qua vivimus) , la vitalità, il principio della vita che si manifesta in tutti gli esseri organici. Il bios è la vita che viviamo (vita quam vivimus) e allude alle modalità, alle forme e alle condizioni della vita; è la vita, di qualsiasi genere, che ha un inizio e una fine. Bios è il vivente nella sua individualità e Bíoi sono perciò i singoli enti organici viventi che nascono e muoiono. Per descrivere le diverse modalità della vita, ad esempio la vita politica, la vita contemplativa, in greco si usa bios accompagnato da un aggettivo. Infine, Psyché indica il soffio vitale, l'anima e quindi la vita.
Nella seconda metà del Novecento, il pericolo rappresentato dalla proliferazione degli armamenti atomici nel periodo della «guerra fredda» -- ma che si può constatare ancor più nel terzo millennio -- , lo sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta, le sperimentazioni selvagge in USA, indussero l'oncologo Van Rensselaer Potter (1911-2001) ad affermare la necessità di una nuova disciplina capace di garantire la «sopravvivenza» della vita umana, dell'intero pianeta e di tutti i viventi. Per raggiungere questo scopo, secondo Potter era necessario «combinare la conoscenza biologica con la conoscenza del sistema dei valori umani».2 Solo così sarebbe stato possibile costruire un ponte verso il futuro Egli coniò così il termine «bioetica» che, fin dagli esordi, assunse una prospettiva globale.
Nella prima edizione del 1978 dell'Encyclopedia of Bioethics, pubblicata negli Stati Uniti, la bioetica è definita da Warren Thomas Reich come «studio sistematico della condotta umana nell'ambito delle scienze della vita e della salute, (condotta) esaminata alla luce di valori e di principi morali».3 Il principialismo è lo sfondo teorico in cui fu concepito il Rapporto Belmont da parte della Commissione USA costituita con il fine di presentare indicazioni valide ad evitare sperimentazioni su esseri umani inconsapevoli. Venne così affermato il principio del rispetto per le persone, il principio di beneficialità e non-maleficenza e, infine, il principio di giustizia. Tali assunzioni caratterizzarono la prima definizione A seguito della denuncia di crimini compiuti contro da alcuni medici, non solo durante il nazismo, ma anche negli anni '60 e '70 in USA, la bioetica sorse con l'intento di impedire nuove forme di sperimentazione selvaggia sugli esseri umani e con il fine di denunciare i rischi della manipolazione genetica.
Nell'edizione dell'Encyclopedia of Bioethics del 1995 compare la seguente definizione, ripresa anche nel 2004: «La bioetica può essere definita come lo studio sistematico delle dimensioni morali -- incluse la visione morale, le decisioni, la condotta, la politiche -- delle scienze della vita e della salute, con l'impiego di una varietà di metodologie etiche con un'impostazione interdisciplinare».4 In questa definizione è evidente il passaggio dal principialismo al nuovo paradigma dell'esperienza, basato sull'etica delle virtù. In questo contesto, le domande della bioetica vengono riformulate; non è più sufficiente chiedersi «che cosa dovremmo fare (etica del dovere), ma che tipo di persone dovremmo essere (etica delle virtù e del carattere)».5 La prospettiva teorica assunta tende a superare la teoria filosofica del principialismo, che caratterizzò la bioetica americana per almeno trent'anni.
Tenendo conto dell'imprescindibilità della questione antropologica e della necessità della riflessione etica a cui rinviano le questioni cliniche, in quanto la scienza e la ricerca sono azioni specifiche dell'uomo in cui è in gioco la felicità e il bene da farsi e il male da evitarsi, possiamo affermare che la bioetica è «la coscienza critica della civiltà tecnologica [...] Il termine «coscienza critica» indica il livello di chiarificazione e di valutazione morale dello specifico contenuto pratico e teorico introdotto dalle tecno scienze: non tutti pertanto i problemi dell'etica medica rientrano nella bioetica, poiché non tutta le medicina è ad alto contenuto tecnologico. Da questo punto di vista la bioetica si configura come un'attività filosofica [...] poiché le domande (l'oggetto formale) che investono le tecnoscienze (l'oggetto materiale) sono di natura filosofica e riguardano il significato della costruzione dell'identità umana all'interno della azione tecnologica»6.
Inoltre, la bioetica esige e presuppone un approccio interdisciplinare: 1) lo studio e l'analisi del fatto biomedico (momento epistemologico) è il compito delle scienza medica; 2) l'individuazione dell'antropologica e delle implicazioni sociali è il momento antropologico/sociale; 3) le risposte etiche, giuridiche costituiscono il momento applicativo.
La bioetica è nata con lo scopo di fornire risposte o almeno indicazioni concrete, valide per la prassi clinica e per la ricerca biomedica. Del resto, l'innovazione tecnica in campo medico, la sperimentazione e la ricerca con esseri umani non cessa di destare inquietanti e laceranti domande su ciò che è giusto e su ciò che è bene. Nel contesto culturale in cui viviamo convivono diverse prospettive e concezioni della vita; perciò, le domande della bioetica non possono non essere pubbliche nel senso che ogni posizione deve possedere un'adeguata argomentazione per sostenere una discussione pubblica. Ciò non implica la ricerca di un consenso a tutti i costi, ma almeno la ricerca paziente di mediazioni ragionevoli che non sacrifichino mai la vita umana. La spettacolarizzazione della sofferenza altrui, su cui si erigono bandiere ideologiche, le generalizzazioni astratte dai contesti esistenziali concreti, sembrano contravvenire al rispetto dovuto ad ogni persona che soffre.
Le domande della bioetica ruotano attorno a tre questioni fondamentali: il rapporto fra la medicina, la tecnica e la dignità dell'uomo ed il problema ecologico, e la bioetica animale, che affronta i problemi legati alla sperimentazione, alla vivisezione, agli xenotrapianti. In questo contributo, è cercherò di individuare le domande bioetiche che concernono la prima questione.
L'etica della vita umana concerne le questioni di inizio e fine vita, le quali si situano nel contesto antropologico della famiglia. La domanda fondamentale in bioetica è una domanda antropologica che sorge in relazione alla situazioni concrete di malattia o di sofferenza: qual è il significato della vita umana e della morte? Chi sono i pazienti in stato vegetativo, in coma o locked-in e in minima coscienza? Qual è il limite tra le cure necessarie per la vita e l'accanimento terapeutico? Qual è la dignità dell'embrione? Inoltre, la sperimentazione con esseri umani solleva numerose questioni etiche che riguardano il rispetto che si deve alle persone e la possibilità di esprimere un consenso libero e informato. L'Etica della vita abbraccia anche le questioni di giustizia sociale, il problema dell'allocazione delle risorse sanitarie. La questione della giustizia sociale e della responsabilità si declina non solo nelle dichiarazioni di principi, pure importanti e imprescindibili, come l'importante affermazione dei diritti inviolabili di ogni persona, ma esige una prospettiva globale che affronti il dramma di milioni di esseri umani che muoiono a causa della fame e della mancanza di acqua, il problema della mancanza delle cure mediche essenziali e i gravi problemi etici legati alla sperimentazione di nuove terapie in Paesi in via di sviluppo, dove non sempre vige un controllo indipendente e una regolamentazione codificata. Queste sono solo alcune «emergenze» radicali che interrogano la coscienza morale.
3. Il significato di un'azione biomedica 
Dal punto di vista morale, occorre chiedersi: qual è il senso, cioè il significato oggettivo intenzionale dell'azione? In quali circostanze viene attuato un intervento medico, cioè con quali finalità, con quali mezzi e con quali intenzioni? Alcune distinzioni sono utili per decifrare il senso di un'azione. L'oggetto dell'azione é il finis operis. Il motivo che spinge l'agente a compiere quell'azione, lo scopo del soggetto agente è il finis operantis. Bisogna poi considerare anche le circostanze dell'azione. Il contenuto intenzionale di base dell'azione (finis operis) caratterizza la bontà o malizia dell'azione. In altri termini, non basta chiedere cosa faccio? ma occorre anche domandare a che pro lo sto facendo? per cogliere il fine prossimo e immediato dell'azione deliberata, il significato oggettivo dell'azione. Se l'oggetto dell'atto è un bene morale, l'atto è buono; se invece è un male morale, l'atto è cattivo.
Il finis operantis è il fine principale o fine intermedio nel quale il finis operis acquista il suo pieno significato. I fini superiori e principali comportano un atto proprio della volontà, cioè l'intenzione del soggetto. Le circostanze in cui un atto è posto concorrono, insieme alle intenzioni, a definire la moralità di un atto, possono aumentare, diminuire, cambiare in male la bontà oggettiva dell'atto, possono aumentare, diminuire, ma non cambiare in bene la malizia oggettiva dell'azione. In sintesi, un'azione è buona quando si dà unità intenzionale tra l'esecuzione, la scelta, l'intenzione e le motivazioni dell'agire (ragioni, impulsi ed emozioni). Più precisamente: «la moralità dell'atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata [...] Per poter cogliere l'oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l'oggetto dell'atto del volere è un comportamento liberamente scelto. In quanto conforme all'ordine della ragione, esso è causa della bontà della volontà, ci perfeziona moralmente e ci dispone a riconoscere il nostro fine ultimo nel bene perfetto, l'amore originario. Per oggetto di un determinato atto morale non si può, dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, da valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore. Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l'atto del volere della persona che agisce. In tal senso ... vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale».7
4. Per un'antropologia dell'integralità 
Le domande etiche, alle quali corrispondono divergenti risposte e radicali contrapposizioni, soprattutto nel contesto multiculturale odierno, presuppongono la domanda fondamentale sull'essere umano e sul senso dell'essere dell'uomo. La bioetica deve offrire elementi di riflessione sulla dignità dell'uomo. Come definire la persona? Che cos'è la dignità umana? Le concezioni antropologiche di tipo razionalistico e funzionalistico identificano la dignità dell'uomo con la sua autocoscienza, ma non sono sufficienti a cogliere la complessità della sfida antropologica. Nella prospettiva della «bioetica personalista», che cerca di riflettere sull'integrità spirituale, psico-fisica e relazionale, lo statuto ontologico della persona include il riferimento il punto di partenza, non astratto, è l'unità sintetica originaria, che la riflessione non crea ma trova dinanzi e al di fuori di sé, ovvero l'unità corporeo-spirituale dell'essere umano, la sussistenza relazionale che ognuno di noi è. La dignità di ogni persona si giustifica nell'ordine dinamico dell'essere che la costituisce: la dimensione corporea, quale si dà nella concretezza individuale e somatica, la quale segue una legge ontogenetica di sviluppo, è manifestazione inerente alla persona. Inoltre, nell'apertura originaria della mente umana all'essere e al bene oggettivo, legge morale universale a cui ha accesso solo il mondo delle persone, si manifesta la natura trascendente della persona che è in grado di contemplare un ordine ontologico. Pertanto, la dignità umana risiede nell'atto integrale della persona. La «presenza» dell'essere umano si pone come domanda di essere. Per questa ragione l'essere della persona chiede, come atto di giustizia, il riconoscimento, l'accoglienza, l'ospitalità e la difesa della sua integrità. La dimensione trascendente e spirituale della persona ha la sua radice ultima nella verità della creazione dell'uomo, ente intelligente finito, che vive in una relazione con Dio di cui è immagine e somiglianza: «È proprio questa relazione con Dio che definisce gli esseri umani ed è fondamento del loro rapporto con le altre creature [...] il mistero dell'uomo può essere pienamente chiarito solo alla luce di Cristo, che è immagine perfetta del Padre e che ci introduce, attraverso lo Spirito Santo a una partecipazione al mistero di Dio uno e trino. È all'interno di questa comunione di amore che il mistero di ogni essere, abbracciato da Dio, trova il suo pieno significato».8 Su basi antropologiche, le religioni monoteiste, che esprimono visioni bioetiche, possono favorire un dialogo interreligioso proficuo per un autentico progresso umano e scientifico.
5. L'autonomia del paziente e la coscienza del medico 
La persona che si trova in una condizione di vulnerabilità e fragilità, veicola una domanda di senso, rivolge una richiesta di aiuto, cerca una risposta di amore, accoglienza e dedizione. Nella relazione con altri, la persona può ricercare il senso globale del suo essere e della stessa sofferenza che coinvolge e attraversa tutte le dimensioni, da quella fisica a quella psichica a quella spirituale. Ciò dimostra quanto sia grande la responsabilità del personale medico e paramedico a cui è richiesta una capacità di ascolto e di empatica comprensione nella comunicazione i cui pilastri sono la verità e l'amore. Solo intercettando le domande di senso, attraverso un approccio maieutico e dialogico, è possibile entrare in dialogo con l'altro: quando desideriamo qualcosa, che cosa realmente desideriamo? Nel rapporto medico-paziente, è importante allargare la beneficialità fondandola sulla fiducia (beneficence-in-trust), sulla base del modello proposto da Pellegrino e Thomasma9: alla fiducia nella persona del medico deve corrispondere la disposizione di quest'ultimo ad agire per il bene del paziente. L'obiettivo comune per il medico e il paziente è agire nel migliore interesse l'uno dell'altro. L'attenzione alla condizione globale del paziente impedisce di considerare la persona un puro e semplice caso. Più precisamente, il bene biomedico, che include tutti gli effetti degli interventi clinici sul decorso della malattia, si deve coniugare sia con l'idea che il paziente ha del proprio bene (il bene che il paziente percepisce) sia con il bene inteso come possibilità di esercitare la capacità di operare scelte condivise, informate, esplicite ed attuali. Infine, il bene particolare del paziente non può non relazionarsi al bene ontologico. Il medico ha il dovere di «prendersi cura» del paziente, di tutelarne la salute e la vita. Contro le forme di manipolazione dell'embrione umano o del suo patrimonio genetico, che rivelano finalità eugenetiche o selettive e configurano il dominio dell'uomo sull'altro uomo, è essenziale la prospettiva di «cura delle persone e di educazione alla cultura dell'accoglienza della vita umana nella sua concreta finitezza storica».10 La relazione o alleanza terapeutica tra il paziente, i medici e i familiari, presuppone il principio dell'inviolabilità e dell'indisponibilità della vita umana. Proprio sulla base della finalità umanistica della medicina si giustifica l'obiezione di coscienza.
Nel principio di autonomia si radica il diritto che ha il paziente all'informazione e al consenso libero e informato prima di sottoporsi ad una sperimentazione. Detto ciò, possiamo affermare che l'autodeterminazione del paziente è assoluta? Esiste davvero una libertà assoluta che include il «diritto di morire»? La libertà dell'uomo per essere moralmente connotata deve sempre declinarsi con la responsabilità. Pertanto, l'uomo gode di un'autonomia relazionale. Inoltre, l'etica della responsabilità ovvero lo sguardo della responsabilità che l'uomo assume su di sé e nei confronti dell'altro, implica il riferimento ad un bene morale oggettivo che l'ideologia libertaria e nichilista dominante nega risolutamente.
Sulla base di tali considerazioni, possiamo formulare alcune domande etiche concernenti lo stato vegetativo, l'inizio della umana nascente, la ricerca le cellule staminali embrionali e con le cellule somatiche, la clonazione e la fecondazione artificiale assistita, i criteri di accertamento della morte e le questioni di fine vita. Pur constatando l'esistenza di risposte divergenti, e spesso inconciliabili, ai problemi enunciati, vale la pena sottolineare che la dicotomia tra una bioetica cattolica e una bioetica laica è una distinzione approssimativa e per certi versi semplicistica, anche se può assumere una funzione pratica e politica. Innanzitutto, bisogna riconoscere che il Magistero della Chiesa in sé non è affatto contraddittorio nel riconoscere la sacralità della vita umana dal concepimento alla morte naturale. La difesa dell'embrione umano, il principio di proporzionalità dei trattamenti e delle terapie, hanno sempre ispirato i pronunciamenti del Magistero. Tali indicazioni consentono di evitare ogni forma di strumentalizzazione o manipolazione della vita umana e, al tempo stesso, l'accanimento terapeutico.
Inoltre, in riferimento alla dignità dell'embrione, alla manipolazione genetica, alla clonazione e alle cure da assicurare ai pazienti in stato vegetativo, si è verificata una sostanziale convergenza tra credenti e non credenti. La laicità, erroneamente assunta come sinonimo di laicismo, ci induce a pensare che il principio della sacralità della vita non elimina l'importanza del tema della qualità della vita. Di quest'ultima si indica il fondamento antropologico antecedente che in Dio ha la sua ragione d'essere.
6. L'etica della vita umana  
Tra le numerose questioni di bioetica, vi è quella relativa allo stato vegetativo, che non bisogna confondere con gli altri disordini di coscienza, vale a dire la minima coscienza, locked-in, il coma.11 I contrasti etici vertono sulla sospensione o somministrazione dell'alimentazione e dell'idratazione, che alcuni considerano sostegni vitali e altri terapie non obbligatorie.
Per affrontare tale problematica, bisogna prima di tutto chiedersi: che cosa significa essere in uno stato vegetativo? Come si differenzia dal coma? Chi è la persona in stato vegetativo o di minima coscienza? Di che cosa hanno bisogno? I pazienti in stato vegetativo possono percepire il dolore? Qual è il livello di comunicazione possibile con questi pazienti? Dal punto di vista medico-clinico, i pazienti in SV sono persone viventi, sia pure in una condizione di gravissima disabilità: «lo stato vegetativo è una condizione funzionale del cervello, che insorge subito dopo l'evento acuto che lo ha determinato, diventando riconoscibile solo quando finisce il coma che, sovrapponendosi, lo maschera (Plum e Poster, Jennett, Dolce e Sazbon). Lo SV è infatti uno dei possibili esiti del «coma», che è invece uno stato transitorio (qualche settimana) dal quale si può uscire in tre modi: 1) con la morte 2) ripercorrendo tutti i gradini del coma fino a uscirne -- con o senza danni; 3) passando in uno SV/SMC, situazione che può durare a lungo o per sempre. La persona in SV, dopo un lungo e impegnativo percorso sanitario, trascorso fra sale di rianimazione e reparti specializzati, si trova in una situazione personale clinica stabile, con funzioni vitali autonome: dorme e si sveglia con ritmi regolari, respira da sola, non è attaccata a nessuna macchina, ha una sua attività cerebrale. Talvolta riesce anche a deglutire, ma con difficoltà e lentezza, per cui spesso si preferisce nutrirla con sondino naso-gastrico, o con la PEG (Percutanea Enterogastrostomia), Queste persone non sono in uno stato «terminale», e anzi possono lentamente migliorare e, se accudite con attenzione, vivere a lungo».12
Il parametro della coscienza, che costituisce l'hard problem della neuroscienza, non è facilmente misurabile, così come le correlazioni tra le lesioni del cervello e la perdita di coscienza non sono immediatamente evidenti, perché non è possibile indicare la sede, dal punto di vista anatomico, della coscienza. Esistono ancora molte questioni da considerare con pi maggiore attenzione, ad esempio il problema delle diagnosi errate con cui si definiscono irreversibili situazioni che non si rivelano tali, i processi rigenerativi e di riorganizzazione plastica (rewiring) delle strutture cerebrali, la possibilità di una comunicare con questi pazienti, la percezione e la reazione psicofisica alle voci dei familiari, la presenza/assenza di coscienza e conseguentemente la percezione del dolore che i recenti studi stanno accertando e verificando in alcune situazioni cliniche oggetto di studio dei ricercatori. Recentemente alcuni ricercatori, utilizzando la risonanza magnetica funzionale per immagini, hanno verificato la possibilità di una «elementare interazione» con alcuni pazienti.13
Da ciò deriva il compito di ri-definire e migliorare i criteri nosografici dei disordini di coscienza e
della possibile evoluzione di una patologia. Per effettuare un'accurata diagnosi, bisogna adottare un metodo integrato che si avvalga della risonanza magnetica funzionale o di elettroencefalogrammi, test comportamentali, scale di misurazione.
Su queste basi sarà possibile elaborare un nuovo lessico. Infatti, si possono generare equivoci. Ad esempio, al di fuori di un contesto specialistico, l'aggettivo «vegetativo» spesso viene assunto come sinonimo di «vita vegetale» e quindi non umana.
La Multi Society Task Force14 nel 1997 propose alcuni criteri per distinguere lo stato vegetativo «permanente» e lo stato vegetativo «persistente». L'Aspen Consensus Group preferì evitare questi termini, poiché non era possibile stabilire con certezza l'irreversibilità o meno di una condizione, e suggerì di utilizzare l'espressione «stato vegetativo da ... x mesi/anni».
Altri neuroscienziati, riunitisi a Salerno per la terza Conferenza internazionale su Coma e Coscienza (4-7 Luglio 2010) hanno proposto di cambiare la definizione del 1994 di «Stato vegetativo persistente» in «Sindrome della veglia arelazionale», per evitare di assimilare lo «Stato vegetativo» delle persone che si trovano in questa condizione a dei vegetali. In verità, già nel 2003, l'Agenzia governativa australiana consigliava l'espressione «post-coma unresponsiveness».15 Come si vede, tale sindrome è ancora alla ricerca di un nome appropriato. Il principio di precauzione è quello più aderente alla realtà clinica di questi pazienti. Sulla base di tali considerazioni, l'idratazione e l'alimentazione, nella misura in cui garantiscono le condizioni fisiologiche di base per vivere (garantendo la sopravvivenza, togliendo i sintomi di fame e sete, riducendo i rischi di infezioni dovute a deficit nutrizionale e ad immobilità), costituiscono forme di assistenza ordinaria e proporzionata di sostegno vitale, di cura e assistenza. La sospensione di idratazione ed alimentazione configurerebbe una forma disumana di abbandono del malato (e in Italia ce ne sono circa 4000). Invece, nell'ipotesi in cui l'organismo non fosse più in grado di assimilare le sostanze fornite si impone la doverosità etica della sospensione della nutrizione.16
L'esperienza clinica, la testimonianza delle associazioni familiari e le nuove ricerche neuroscientifiche dimostrano che «un'evoluzione clinica può dipendere dal tipo di assistenza -- sanitaria, sociale, familiare ... un inserimento corretto della persona in SV nel suo ambiente familiare può dare veramente risposte inattese. Di pari importanza è il non isolamento di queste persone e la frequentazione di ambienti in cui si possano ritrovare con altre persone nella stessa condizione. Talvolta le capacità relazionali aumentano ...»17
Un'altra questione bioetica concerne le situazione-limite in cui si trovano i malati terminali. In senso proprio, la condizione «fine vita» è quella che corrisponde al malato terminale con prognosi infausta a breve termine (cioè, sta per morire). Dall'eutanasia -- che è moralmente illecita in quanto si tratta di un'azione o di un'omissione che procura intenzionalmente la morte del paziente allo scopo di eliminare ogni dolore -- bisogna distinguere il rifiuto dell'accanimento terapeutico, che consiste in una serie di interventi non adeguati alle reali condizioni del paziente. Perciò, «quando la morte si preannunzia imminente e inevitabile, si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi».18 Qual è il modo più umano per combattere la sofferenza e la solitudine si manifesta la solitudine esistenziale dell'uomo? La solitudine esistenziale della persona che soffre nel corpo e nello spirito interpella la responsabilità del personale medico e dei familiari. Si tratta di cogliere la richiesta di aiuto che proviene dalla persona che soffre e che si situa nel contesto di una relazione empatica. Nella richiesta di morte si manifesta la solitudine esistenziale.
L'eutanasia, il suicidio assistito, l'aborto, i tentativi di ibridazione in cui sono stati utilizzati ovociti animali per la riprogrammazione di nuclei di cellule somatiche umane, con il fine di estrarre staminali embrionali, costituiscono una palese violazione e negazione della dignità dell'essere umano.
Dal punto di vista clinico, è necessario precisare i criteri di accertamento della morte. Come si può constatare il decesso avvenuto di una persona? Quando è morto un essere umano? Quando si può sospendere il trattamento artificiale e/o intervenire sul suo corpo? La validità biologica e morale del criterio neurologico di accertamento della morte (morte cerebrale totale), con cui è possibile verificare un'irreversibile cessazione di tutte le funzioni dell'intero cervello, cioè degli emisferi e del tronco cerebrale, è riconosciuta da gran parte della comunità scientifica. Tuttavia, esistono anche altre motivazioni scientifiche e filosofiche (Hans Jonas, Joseph Seifert, Robert Spaemann, John M. Finnis, ma anche su basi diverse Peter Singer) che sostengono la validità dello standard tradizionale cardiocircolatorio (irreversibile cessazione delle funzioni circolatoria e respiratoria). In riferimento allo standard cardio-polmonare, bisogna sottolineare la necessità di adeguati tempi di accertamento che non possono essere ridotti a 2 o 5 minuti, ma devono protrarsi per 20 minuti, come stabilito in modo prudenziale dalla normativa italiana (L. 578/93). A tal proposito, bisogna considerare che la morte è una sola ed entrambi i criteri sono clinicamente validi.19
Un tema molto controverso riguarda lo statuto ontologico e giuridico dell'embrione umano. Qual è la dignità dell'embrione umano? Le tecniche di fecondazione assistita pongono una questione bioetica di grande rilevanza antropologica ed etica, per il fatto che esse implicano la produzione in laboratorio di una vita umana, la produzione di embrioni soprannumerari e il sacrificio degli embrioni sacrificati dalla tecnica. A seguito della stimolazione ormonale compiuta sul corpo delle donne, si compie in vitro la fecondazione.
Prima dell'approvazione della legge n. 40 («Norme in materia di procreazione medicalmente assistita», 18 febbraio 2004), sottoposta a consultazione referendaria, non tutti gli embrioni venivano impiantati, ma alcuni venivano crioconservati nel liquido di azoto, così da renderli disponibili per successivi tentativi di trasferimento in utero. La legge n. 40 imponeva l'impianto dei tre embrioni fecondati, limite massimo consentito dalla legge, al fine di salvaguardare la vita di tutti gli embrioni umani e di porre un argine al problema degli embrioni soprannumerari. Con la sentenza 8 maggio 2009 n. 151, la Corte Costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell'articolo 14, comma 2, della norma, nel punto in cui essa prevede che ci sia un "unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre embrioni». I giudici della Corte hanno così eliminato il limite di tre embrioni, preordinato a tutelare il diritto alla vita. Per effetto della pronuncia della Corte, l'art. 14 comma 2 l. 40/2004 risulta così riformulato: «Le tecniche di produzione degli embrioni, tenuto conto dell'evoluzione tecnicoscientifica e di quanto previsto dall'art. 7 comma 3 [in tema di Linee guida], non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario». Questo significa che in alcune situazioni si possono produrre più di tre embrioni e, inoltre, non c'è obbligo di trasferirli immediatamente e contemporaneamente. Sorge però un problema: se si producono più di tre embrioni, quale sarà la sorte ed il destino degli embrioni umani prodotti dalla tecnica e non immediatamente trasferiti? Più recentemente sono stati sollevati dubbi sulla legittimità costituzionale sulla parte della legge 40 che vieta la fecondazione eterologa. Di fronte all'invasione della tecnica, che promette di soddisfare i desideri di potenziali genitori, ci chiediamo: qual è il significato e il fine della procreazione umana e della generazione? Che cosa rimane delle relazioni umane e familiari? Che ne sarà della famiglia come comunità naturale di affetti? Qual è il senso che viene attribuito al valore della vita umana e quali sono le conseguenze (cliniche, psicologiche, sociali, culturali) di tali interventi che producono, «manipolano» embrioni umani viventi?
Alla luce delle conoscenze attuali dell'embriologia, della citologia e della genetica, ogni embrione umano vivente è tale fin dal suo atto primo di esistenza. Dalla fusione dei gameti inizia uno sviluppo coordinato, continuo e graduale. L'espressione essere umano è sinonimo di persona, nel senso che la persona è quell'esemplare unico della specie umana, dotato di individualità genetica, corporea e spirituale che sottende la relazionalità intrinseca del suo stesso porsi come individuo relazionale e relazione sostanziale. Sarebbe sufficiente tale constatazione per motivare un principio prudenziale di tutela della vita umana fin dal concepimento o fecondazione. Alla luce di tali considerazioni, l'aborto e la manipolazione degli embrioni, la ricerca che prevede o comporta la loro distruzione degli embrioni umani, la clonazione costituiscono gravi violazioni della vita umana che p un bene indisponibile e non strumentalizzabile.
Nelle tecniche di fecondazione extra-corporea si utilizza la diagnosi genetica preimpianto (PGD, Preimplantation Genetic Diagnosis) introdotta nel 1990. Essa consiste nell'analisi di una o due cellule prelevate dall'embrione al fine di verificare la presenza di anomali ed eliminare gli embrioni malati. Un'altra finalità è la selezione sociale del sesso o la selezionare di embrioni da utilizzare come possibili donatori di tessuti o di organi per i loro fratelli affetti da una qualche malattia. La mentalità eugenetica si manifesta nella ricerca di un «figlio perfetto e sano» e richiede la selezione degli embrioni. I rischi della genetica liberale sono stati denunciati anche da un filosofo contemporaneo post-metafisico della Scuola di Francoforte, J. Habermas.20 Diversamente dalla diagnosi genetica pre-impianto eseguita con finalità eugenetiche, la terapia fetale ha una finalità etica perché considera l'embrione ed il feto come un paziente di cui bisogna prendersi cura.
Un altro gruppo di domande di bioetica riguardano le cellule staminali: che cosa sono? A che cosa servono? È lecito usarle? Si tratta di cellule capostipiti e non differenziate che sono all'origine di tutte le altre cellule differenziate. Dal latino stamen/staminis = trama, ordito, filo. Tali cellule sono presenti negli embrioni, nel cordone ombelicale, nell'organismo adulto. Le cellule staminali hanno la capacità prolungata di riprodursi senza differenziarsi, dando così vita ad altre cellule staminali, oppure possono dare origine a cellule progenitrici di transito (con capacità proliferativa limitata) dalle quali discendono cellule altamente differenziate (nervose, muscolari, ematiche, ecc.).
Le cellule staminali embrionali (embryo stem cells) sono «totipotenti», possono cioè sviluppare tutte le linee cellulari dell'organismo. La loro preparazione implica un processo molto complesso: 1) la produzione di embrioni e/o l'utilizzazione di quelli soprannumerari da fecondazione in vitro o crioconservati; 2) il loro sviluppo fino allo stadio di iniziale blastociste; 3) il prelevamento delle cellule dell'embrioblasto o massa cellulare interna attraverso una tecnica invasiva che comporta la distruzione dell'embrione umano; 4) la messa in coltura di tali cellule che così si moltiplicano e formano colonie. Le cellule totipotenti, se immesse in un organismo, possono provocare l'insorgenza di tumori. La «clonazione terapeutica» ovvero la riproduzione asessuale e agamica di un organismo umano -- mediante trasferimento del nucleo di una cellula di un soggetto in un oocita umano enucleato -- , viene propugnata al fine di evitare i rischi tumorali delle cellule staminali embrionali e al fine di risolvere le patologie. In questo modo si creano embrioni per poi distruggerli. L'uomo viene così ridotto a strumento, cosa, oggetto da produrre e distruggere in base a presunti vantaggi che ne deriverebbero.
Le cellule staminali adulte o somatiche possono essere estratte dal midollo, dal cervello, dal fegato, dal tessuto adiposo; non sono totipotenti, ma pluripotenti (o multipotenti), in quanto sono in grado di dare origine solo ad alcuni tessuti. Anche se la rarità di queste cellule costituisce una difficoltà, bisogna riconoscere che le cellule staminali adulte provenienti da tessuti specifici, non ledono l'integrità del soggetto, presentano il vantaggio di essere differenziate, possiedono versatilità e plasticità, non comportano la distruzione di embrioni. Dal punto di vista terapeutico, le cellule staminali adulte stanno offrendo buoni risultati in quanto possono essere trapiantate e sono in grado di ricostruire il tessuto del ricevente. Le cellule staminali pluripotenti indotte (Induced pluripotent Stem cell -- IPS) derivano dalla riprogrammazione genetica di cellule adulte differenziate in cellule staminali pluripotenti. La tecnica estremamente innovativa, che ha consentito di riprogrammare cellule della pelle, è stata elaborata dal laboratorio di Biologia delle Cellule Staminali dell'Università di Kyoto, diretto dal prof. Shinya Yamanaka, e successivamente confermata da ricerche che si sono svolte in molti laboratori, sia in Italia che in USA. Le metodiche che si perfezionando sono molto importanti, anche se necessitano di controlli sperimentali accurati. Visto che la fase sperimentale è stata già avviata con successo e i risultati con le cellule staminali adulte sono molto promettenti, come dimostrano i risultati fin qui raggiunti, perché non investire nella ricerca con cellule staminali somatiche o adulte?
7. La ricerca con esseri umani 
Nella storia dell'etica della ricerca con esseri umani si registrano numerose violazioni della dignità umana. Nei campi di concentramento venne attuata tragicamente la sospensione del diritto e la violazione dei diritti umani da parte dei medici nazisti. Le sperimentazioni selvagge nei campi di concentramento furono compiute sui prigionieri e sulle persone internate (ebrei, polacchi, russi, cechi).21 Gli esperimenti di decompressione e di ipotermia a Dachau, gli esperimenti sull'ereditarietà dei caratteri che Menegele, il dottore del terzo Reich, fece sui fratelli gemelli, sono alcuni tragici esempi di come la dignità della persona possa essere violentata dalla «follia collettiva delle menti» di una presunta scienza che, ispirandosi all'ideologia suicida del nazismo, ha annientano l'uomo, riducendolo ad oggetto strumentale, a cavia. Così facendo, la scienza medica è stata degradata ed il suo progresso è stato «sospeso». Tali sperimentazioni disumane erano promosse sulla base della supremazia della scienza, in nome di una suprema ragion di stato, rappresentata dal nazismo. Tra il 1946 e il 1947 si svolse il processo indetto dal tribunale Militare Internazionale insediatosi a Norimberga, che doveva giudicare i responsabili dei crimini di guerra nazisti. Il primo di dodici processi, cosiddetti secondari, di Norimberga fu quello nei confronti di ventitré persone, dottori ed amministratori che avevano preso parte alle sperimentazioni su esseri umani nei campi di concentramento nazisti. Il testo della sentenza contro i medici nazisti, noto come Codice di Norimberga (1947) o Decalogo di Norimberga, fissò in 10 punti alcune linee guida fondamentali. Si sancì la necessità del consenso volontario (voluntary consent) delle persone sottoposte a sperimentazione. Proprio il consenso volontario e informato delle persone sottoposte a sperimentazioni mediche divenne il criterio etico-giuridico imprescindibile di ogni sperimentazione clinica. I principi enunciati nel Codice di Norimberga furono adottati dall'Associazione Medica Mondiale nell'Assemblea svoltasi a Ginevra nel 1948, ispirarono la Dichiarazione di Ginevra (Associazione Medica Mondiale, Dichiarazione di Ginevra, 1948) ed il Codice internazionale di etica medica, approvato a Londra (Associazione Medica Mondiale, Codice Internazionale di etica medica, 1949). Il 10 dicembre 1948, l'Assemblea delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione universale dei Diritti dell'uomo.
Nel giugno del 1964 la XVIII Assemblea della World Medical Assocation, dopo 3 anni di discussione, adottò una risoluzione sui principi base della ricerca, nota come Dichiarazione di Helsinki (1964). Si affermò la necessità di svolgere preventivi esami di laboratorio su animali, un'accurata valutazione dei rischi connessi alla sperimentazione sull'uomo; inoltre, la sperimentazione non terapeutica fu distinta dalla ricerca clinica connessa con l'attività sanitaria; per la sperimentazione non terapeutica si ribadì la necessità del libero consenso, preceduto da informazione, mentre per la sperimentazione terapeutica il libero consenso doveva essere richiesto solo se possibile, secondo la psicologia del paziente. Nonostante ciò, alcuni articoli denunciarono esperimenti non etici. Il Dr. Henry Knowles Beecher (1904-1976), professore di anestesia della Harvard Medical School, nel 1966 pubblicò sul «New England Journal of Medicine»22 un articolo descrisse 22 esempi di ricerche non etiche che misero a rischio la vita delle pazienti. Questo articolo e l'inchiesta congressuale che ne derive alla base della fondazione delle correnti guidelines sul consenso informato e sull'umana sperimentazione.
Inoltre, il libro di Maurice Henry Pappworth (1910-1994), Human Guinea pigs. Here and now. Experimentation on man (1967), mise in luce molti esperimenti in cui molti soggetti sani rischiavano la vita. Queste opere di denuncia erano nate dalla consapevolezza che ogni sperimentazione dovesse rispettare i principi affermati nella Dichiarazione di Helsinki.
Purtroppo la storia dell'etica delle sperimentazioni è contrassegnata da azioni illecite e disumane compiute anche dopo i processi di Norimberga.
Il caso più sconvolgente di sperimentazione selvaggia senza consenso informato è noto alle cronache come «Tuskegee syphilis study» (1932-1972). Questa sperimentazione disumana e razzista, durò ben quarant'anni e fu promossa dalle autorità governative americane. Lo studio fu rivelato dal «New York Times» nel 1972. Nel 1932 il Servizio Sanitario pubblico statunitense si propose di studiare la storia naturale della sifilide e gli effetti della malattia su una popolazione di colore che presentava un alto tasso di sifilide. Lo studio fu condotto nella città Tuskegee, nella contea di Macon dello stato dell'Alabama (USA). Vennero reclutati come cavie 600 braccianti e mezzadri di colore dell'Alabama (600 black man, mostly poor and uneducated): 399 avevano una diagnosi di sifilide e non vennero mai curati. Agli interessati non fu mai comunicata la diagnosi. I restanti 200 soggetti, non affetti da Sifilide, furono impiegati come gruppo di controllo.
I soggetti quindi non sapevano di avere la sifilide, ma fu detto loro di avere solo il «sangue cattivo» (Bad Blood), ragion per cui dovevano sottoporsi ad esami medici periodici, inclusa la puntura lombare. Ai soggetti fu promesso il trasporto gratuito in ospedale, cure mediche gratuite per tutte le patologie, un pasto caldo al giorno e, in caso di morte, un rimborso per la sepoltura.
Lo studio fu valutato più volte dai responsabili del Servizio di Sanità Pubblica dell'USA, ma si ritenne che la validità scientifica ne giustificava la continuazione. Quando lo studio si concluse, nel 1972, solo 74 persone erano ancora vive, 28 erano morte di sifilide, 100 erano morte a causa di complicazioni, 40 delle loro mogli erano state infettate e 19 dei loro figli erano nati con una sifilide congenita. I ricercatori non iniziarono alcun trattamento a favore dei pazienti, neanche quando divenne disponibile la penicillina, cioè verso la fine degli anni Quaranta. Questo studio rivela una mentalità razzista. La scoperta del «Tuskegee study» indusse il presidente degli Stati Uniti ad istituire nel 1974 di una Commissione che produsse il Rapporto Belmont (1978). Il documento affermò il principio del rispetto dell'autonomia delle persone coinvolte nella sperimentazione e, conseguentemente, l'obbligo del consenso informato. A ciò si aggiunse l'enunciazione del principio di beneficialità negli interventi sperimentali e il principio di giustizia. La commissione concluse che la società non poteva più permettere che l'equilibrio tra i diritti individuali e il progresso scientifico venisse unicamente determinato dalla comunità scientifica».
Un'altra sperimentazione non etica si svolse presso il Jewish Chronic Disease Hospital di Brooklyn di New York (1963-1964), dove il dottore Chester Sotuham dello Sloan-Kettering Institute for Cancer Research iniettò, con il permesso del direttore sanitario dell'ospedale, cellule epatiche tumorali eterologhe in 22 anziani istituzionalizzati, dementi e soli, per valutare gli effetti immunologici. I pazienti non ricevettero le informazioni eticamente corrette.
Presso il Willowbrook State School di New York (1956-1970), alcuni medici iniettarono il virus dell'epatite B attivo in 800 bambini orfani, istituzionalizzati e handicappati psichici, per studiare l'eziopatogenesi dell'epatite e per sviluppare un vaccino. Lo studio, condotto da un medico pediatra e infettivologo, iniziarono nel 1956 e si protrassero sino al 1970, quando emersero all'attenzione del pubblico. Il modulo del consenso era stato redatto in modo ingannevole. Se i genitori si fossero rifiutati di esprimere il consenso alla sperimentazione disumana, l'istituto di cura non avrebbe ammesso i loro figli. Il centro di ricerca fu in seguito chiuso, ma i responsabili non subirono alcuna condanna e non si aprì nessun iter giudiziario.
Questi fatti dimostrano quanto sia importante porre al centro dei protocolli di sperimentazione il bene integrale della persona, la cui dignità ontologica non può essere prevaricata da interessi economici o anche scientifici. Non esiste infatti una buona scienza ed un progresso scientifico autenticamente umano senza un'etica della vita umana. Quest'ultima non è solo il riflesso vincolante di un dovere morale, ma l'espressione dell'amore per l'uomo e per la sua dignità.
8. Conclusione 
Dalla medicina e dalla biologia sorgono molte domande. Tuttavia, la scienza non è sufficiente per fornire le risposte. Il ricorso diretto e indiretto alla tradizione filosofica (Tommaso, Rosmini, Kant, la filosofia della medicina contemporanea, le classiche distinzioni sul significato dell'azione, ecc.), non favorisce la conclusione che nella bioetica non ci sia nulla di nuovo o ancor peggio che la bioetica sia inutile. In primo luogo, vale la pena sottolineare che il fondamento della bioetica è la dignità ontologica dell'uomo e questa base è l'insegnamento perenne di una riflessione «metafisica integrale» di cui è possibile riscoprire la fecondità. Le questioni bioetiche qui evocate sono inedite ed esigono un ripensamento o meglio un approfondimento della questione antropologica, che deve consentire di superare l'autosufficienza delle competenze acquisite in uno spazio interdisciplinare per mezzo dello «sforzo edificante dell'integrazione». In questo progetto antropologico e sociale, a cu tutti siamo chiamati a partecipare, l'etica della vita umana si coniuga con l'etica sociale. La bioetica parte dunque dalla considerazione medico-scientifica, esprime un'istanza antropologica, come quella espressa dal personalismo ontologico qui riproposto, si declina nel diritto e nell'etica biomedica e sociale. La prospettiva integrale sulla persona richiede la considerazione della natura biologica dell'uomo, di cui oggi comprendiamo meglio alcuni aspetti, ma non propugna un naturalismo filosofico e non cade nella fallacia naturalistica. Tale fallacia si verifica solo in una prospettiva naturalistica, empiristica o anche in un approccio astratto all'essere e alla persona, ma non si verifica in una metafisica dell'integralità, dove non c'è un passaggio o un salto dal reale all'ideale normativo. Ogni forma dell'essere e ogni livello di realtà deve essere riconosciuto e integrato nell'ordine intrinseco dell'essere. Il riferimento alla trascendenza della verità si esprime nella ricerca di senso e nella globalità del senso a cui ogni uomo aspira e a cui il filosofo deve cercare di dare umilmente ascolto.
Note
1.          Per una trattazione approfondita rinviamo al testo: F. D'Agostino, Parole di Bioetica, Giappichelli, Torino 2003, pp. 27-34. 
2.          Potter V.R., Bioethics. Bridge to the future, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1971, p. 1. 
3.          Reich W.T. (ed.), «Bioethics», in Encyclopedia of Bioethics, 4 voll., The Free Press, New York 1978; Introduction, p. XIX. 
4.          Reich W.T. (ed.), Introduction, in id., Encyclopedia of Bioethics, 5 voll., MacMillan Simon & Schuster, New York 1995, p. XXI. 
5.          Reich W.T., La Bioetica negli Stati Uniti, in C. Viafora (a cura di), Vent'anni di Bioetica, Fondazione Lanza, Libreria Gregoriana Editrice, Padova-Roma 1990, p. 171 
6.          Pessina A., Bioetica. L'uomo sperimentale, Mondadori, Milano 2000. 
7.          Ioannes Paulus PP. II, Veritatis splendor (6 Agosto 1993), San Paolo, Milano 1993, par. 78. 
8.          Commissione Teologica Internazionale, Comunione e servizio. La persona umana creata a immagine di Dio, LEV, Città del Vaticano 2005, par. 95. 
9.          Cfr. Pellegrino E.D., Thomasma D.C., For the Patient's Good. The Restoration of Beneficence in Health Care, Oxford University Press, New York 1988. 
10.        Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Dignitas personae su alcune questioni di Bioetica, LEV, Città del Vaticano 2008, par. 27 
11.        Cfr. Martin M. Monti, Steven Laureys, Adrian M. Owen, The vegetative state, BMJ 2010; volume 341:c3765, pp. 292-296: «Coma is a condition of unresponsiveness in which patients lie with their eyes closed, do not respond to attempts to arouse them, and show no evidence of awareness of self or of their surroundings. Patients lack not only signs of awareness (similar to vegetative state) but also wakefulness (unlike vegetative state) regardless of how intensely they are stimulated. Patients typically either recover or progress to a vegetative state (that is, they show signs of wakefulness) within four weeks. Irreversible coma with absent brainstem reflexes indicates brain death, which is not the same as a vegetative state. The minimally conscious state is a condition in which patients appear not only to be wakeful (like vegetative state patients) but also to exhibit inconsistent (fluctuating) but reproducible signs of awareness (unlike patients with vegetative state). Like the vegetative state, the minimally conscious state may be transitory and precede recovery of communicative function or may last indefinitely. Locked-in syndrome(or pseudocoma), although not a disorder of consciousness, may be confused with vegetative state. Patients with locked-in syndrome are both awake and aware, yet they are entirely unable to produce any motor output or they have an extremely limited repertoire of behaviours (usually vertical eye movement or blinking)» (p. 293). 
12.        Ministero della Salute, Libro bianco sugli stati vegetativi. Il punto di vista delle associazioni che rappresentano i familiari. Le buone pratiche e le problematiche relative ai percorsi di cura e ai centri di riabilitazione. Dall'evento al domicilio attraverso un percorso sanitario e sociosanitario, 2010, p. 4. 
13.        Martin M. Monti, Audrey Vanhaudenhuyse, Martin R. Coleman, Melanie Boly, John D. Pickard, F. Med.Sci., Luaba Tshibanda, Adrian M. Owen, and Steven laureys, Willful Modulation of Brain Activity in Disorders of Consciousness, «The New England Journal of Medicine», 18 Feb 2010, volume 362, pp. 579-589. I ricercatori dell'università di Cambridge e dell'Università di Liège hanno reclutato 23 soggetti in SV e 31 in minima coscienza e hanno constatato che nel momento in cui i soggetti immaginavano di giocare a tennis o immaginavano di passeggiare in una stanza, si attivavano le aree cerebrali che presiedono al movimento. Alla fine dell`esperimento, quattro pazienti che inizialmente erano stati classificati in stato vegetativo si dimostrarono in grado di modulare la propria attività cerebrale attraverso l'immaginazione mentale. Inoltre, un paziente che aveva subito un incidente con conseguente trauma cerebrale, classificato come paziente in stato vegetativo, aveva risposto correttamente, con la propria attività cerebrale, a 5 delle 6 domande autobiografiche. Il soggetto doveva rispondere pensando ad un tipo di immagine in caso di risposta affermativa (immagine motoria o immagine spaziale) e all'altro tipo di immagine in caso di risposta negativa. 
14.        The Multi Society Task Torce on PVS, Medical Aspects of the Persistent Vegetative State: First of Two Parts, in «New England Journal of Medicine» 330/ 21, pp. 1499-1508; 1572-1579. 
15.        Australian Government National Health and Medical Research Council, Post-coma unresponsiveness (vegetative state). A clinical framework for diagnosis. An information paper (18.12.2003); Veronika Montiel Boehringer, Estado vegetative (post-coma unresponsiveness): una condición poco comprendida, in «Medicina e Morale», 2010/1, pp. 75-109. 
16.        Comitato Nazionale per la Bioetica, L'alimentazione e l'idratazione in stato vegetativo persistente, Parere del 30 Settembre 2005. 
17.        Ministero della Salute, Libro bianco sugli stati vegetativi... , p. 7. 
18.        Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. sull'eutanasia Iura et bona (5 maggio 1980), II: AAS 72 (1980), IV, l. c., 551; Ioannes Paulus PP. II, Evangelium vitae (25.03.1995), par. 65. 
19.        Comitato Nazionale della Bioetica, I criteri di accertamento della morte, Parere del 24 giugno 2010. 
20.        Habermas J., Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, a cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2002. 
21.        Lepicard E., Auschwitz nella prospettiva di Norimberga. Implicazioni mediche ed etiche, in E. Baccarini, Lucy Thorson (a cura di), Il bene e il male dopo Auschwitz. Implicazioni etico-teologiche per l'oggi, San Paolo, Milano 1998, pp. 205-223. 
Beecher H.K., Ethics and clinical research, in «The New England Journal of Medicine», 1966, 274, pp. 1354-1360.
Alessandro Cordelli
Complessità e mondo dell'uomo
1. Introduzione 
Gli ultimi decenni del secolo scorso sono stati testimoni di una epocale rivoluzione nel pensiero scientifico, una rivoluzione che per certi aspetti non si è ancora pienamente conclusa, e le cui avvisaglie erano già presenti molto tempo prima di quel giorno d'inverno del 1961 in cui la corretta interpretazione di un apparente errore computazionale aprì la strada ad un cammino irreversibile nella storia della scienza. A proposito di questa rivoluzione si è parlato di caos, nonlinearità, olismo, frattali, catastrofi e altro ancora, ma il concetto che meglio racchiude ed esprime il carattere della nuova linea di pensiero è quello di complessità. Nel giro di poco tempo abbiamo dovuto accettare una serie di cambiamenti nella tradizionale visione della natura che, pur nella varietà degli ambiti di applicazione esplorati, fanno comunque capo a due fondamentali principi: gli effetti non sono proporzionali alle cause, e il tutto è qualcosa in più rispetto alla somma delle parti. Non che questi principi non fossero presenti nella scienza anche in precedenza, ma venivano considerati come caratteristiche non essenziali della natura, contingenze che con opportune approssimazioni potevano essere eliminate senza pregiudicare la profonda comprensione dei fenomeni. Invece gli sviluppi della nuova scienza hanno mostrato come la natura, dal livello dei costituenti elementari a quello dei sistemi biologici più strutturati fino alla rete delle relazioni sociali ed economiche umane, sia intrinsecamente e irriducibilmente complessa, cosicché ogni approssimazione che riporti la descrizione dei sistemi ad un modello con interazioni lineari e che separi una parte dal resto è destinata a mancare l'obiettivo di una corretta spiegazione dei fenomeni.
Il paradigma della complessità, molto più di tante altre rivoluzioni scientifiche, ha avuto importanti ricadute anche al di fuori dell'ambito delle scienze naturali, influenzando il pensiero moderno dai livelli più alti fino al senso comune, e ha fornito nuovi strumenti interpretativi per tutta la realtà. Naturalmente la critica al riduzionismo non nasce con la teoria del caos, ma questa ha fornito nuovi potenti strumenti di analisi concettuale per muoversi in tale direzione.
Lo scopo del presente lavoro è quello di mettere in evidenza alcuni degli aspetti della scienza della complessità che meglio possono intervenire nella riflessione sull'uomo. La discussione non ha pretese di sistematicità (un interno trattato non sarebbe sufficiente), ma vuole piuttosto essere un volo d'aquila, un'incursione sui vastissimi panorami concettuali che si sono aperti con lo studio dei sistemi complessi, cogliendo ed evidenziando qua e là aspetti che, si spera, possano rappresentare interessanti spunti per il lettore. Dopo aver quindi cercato di focalizzare la nostra attenzione sul concetto di complessità come emerge dalle scienze della natura, passeremo a vedere in quale senso l'uomo e il suo mondo sono complessi, evidenziando due aspetti fondamentali. In primo luogo l'uomo come creatura complessa, non solo e non tanto come qualsiasi essere vivente, ma anche e soprattutto perché ciò che lo caratterizza e distingue dal resto dei viventi, gli aspetti immateriali del pensiero e della coscienza, ha sostanzialmente il carattere della complessità. Ma non solo l'uomo è complesso in sé, egli è anche creatore di complessità. Ogni sistema sociale e culturale ha in sé eminentemente la ricchezza e l'irripetibilità proprie della complessità. Ed è a questo punto che la riflessione, partita dal piano della filosofia naturale e passata poi su quello antropologico, approda a quello etico. La comprensione dei sistemi umani come sistemi complessi svela il profondo nichilismo delle molte operazioni a cui siamo quotidianamente costretti ad assistere, volte a omologare (con le buone o con le cattive) la totalità delle manifestazioni umane ad un unico modello culturale, politico ed economico.
2. L'orizzonte della complessità 
Contrariamente a quanto accade per molti dei concetti su cui si basano le teorie scientifiche, per la complessità esiste un serio problema di definizione. Uscendo poi dal recinto fisico matematico, la nebbia che sfuma i contorni dell'oggetto dell'indagine si fa ancora più fitta. Alla ricerca di un punto di partenza, un aggancio, un centro intorno a cui costruire la riflessione, facciamo quindi la cosa più ovvia (ma non per questo la meno opportuna) che di solito si fa in queste circostanze.
Complessità: s. f., modo di essere o di presentarsi (dovuto generalmente a profondità, minuziosità, disposizione o svolgimento necessariamente complicati) che rende difficile l'orientamento o la comprensione: la c. di un ragionamento, di una situazione.
È questa la definizione di complessità fornita da un dizionario della lingua italiana1 che dovrebbe riflettere il significato del termine nel linguaggio comune. Essa però non ci dice cosa è la complessità, ma solo quale è il nostro rapporto di soggetti conoscenti con essa: il complesso è ciò che indubitabilmente è, ma altrettanto indubitabilmente non si lascia afferrare totalmente; a seconda dei contesti sarà causa di sconforto, paura, preoccupazione, ma anche meraviglia e stupore.
I due termini 'semplice' e 'complesso' si appoggiano l'uno sull'altro. Pensiamo il semplice come opposto al complesso, ma anche il complesso può essere pensato a partire dal semplice. Non esiste una valenza di neutralità: il non semplice è complesso e il non complesso semplice. Semmai si tratta di un confine mobile. Ciò che per me appare semplice per un altro può essere complesso, e anche la stessa persona può giudicare in due diversi momenti esistenziali lo stesso dato o insieme di dati ora come semplice, ora come complesso. La complessità è quella regione dove la parte analitica del pensiero si smarrisce. Potremmo forse dire che è legata alla molteplicità delle relazioni e degli agenti, ma è facile riconoscere che esistono situazioni estremamente complesse con poche variabili. Addirittura, la complessità come scienza2 nasce con un sistema avente solo tre gradi di libertà.3 E tuttavia è sicuro che un sistema formato da un unico ente, senza alcuna relazione con null'altro, è semplice; lo è per la matematica e per la fisica come per la mentalità comune. Se allora l'unico, l'irrelato, è il semplice, la relazionalità è sicuramente una condizione di complessità: dove c'è complessità c'è relazione. Ma esiste l'unico, l'irrelato, il semplice, nella realtà? Da un punto di vista fenomenologico la domanda non ha senso: un tale ente, se pure esistesse, sfuggirebbe alla percezione, all'indagine scientifica, più in generale a qualsiasi possibilità di conoscibilità. Ogni ente infatti, deve necessariamente avere la capacità di interagire ad un qualsiasi piano dell'organizzazione del reale (materiale o immateriale) altrimenti la sua esistenza è un «per sé" completamente scorrelato dal resto dell'Universo. Quindi ogni ente è relazionale e strutturato, pertanto potenzialmente complesso (o almeno capace di partecipare alla complessità).
Si potrebbe pensare che passando dal piano generale ontico a quello più delimitato degli oggetti che cadono nel campo di indagine delle scienze positive la comprensione della complessità come concetto sia più agevole e si possa anche giungere a formularne una definizione soddisfacente ed esaustiva. In realtà questo non accade. E il fatto che sia così difficile definire la complessità utilizzando le categorie galileiane non dovrebbe poi stupirci più di tanto: infatti la scienza occidentale moderna si è sviluppata su una linea diametralmente opposta a quella della complessità, vale a dire seguendo il paradigma del riduzionismo. Da Galileo in poi, ridurre e separare è stato un procedimento che ha permesso di raggiungere grandissimi risultati: nel fenomeno naturale si individuano alcune variabili di interesse trascurando tutte le altre e si descrivono le loro relazioni reciproche mediante un modello matematico basato su equazioni possibilmente lineari (cioè tali che la risposta sia proporzionale alla sollecitazione). Dunque riduzione, separazione, linearizzazione: questi i canoni di un paradigma da cui emerge la semplicità più che come dato di realtà come operazione del pensiero (quindi non semplicità ma semplificazione). Così uno stesso sistema presenta un comportamento lineare se ci riferiamo a un sottoinsieme delle variabili che lo descrivono e sotto particolari condizioni al contorno, ma complesso se allarghiamo l'orizzonte della nostra indagine ad altri aspetti. Prendiamo ad esempio il problema classico della meccanica celeste. L'orbita di un pianeta attorno al Sole è ben descritta dalle equazioni di Newton per il problema dei due corpi4 che ne permettono una esatta e completa risoluzione. Se però andiamo a vedere il reale effettivo moto di un pianeta, osserviamo che la sua orbita è perturbata dalla vicinanza degli altri corpi celesti,5 in modo tale che deve essere considerata l'evoluzione del sistema solare come un tutto. Tale evoluzione presenta tutti i caratteri della complessità6 e non ammette quindi una descrizione matematica completa ed esaustiva. Per i primi quattro secoli della scienza occidentale moderna questa limitazione non ha rappresentato un grosso problema, anche perché tutti i sistemi studiati erano 'naturalmente' riducibili e separabili (nel senso che le variabili trascurate danno origine a effetti quantitativamente ridotti rispetto all'entità del fenomeno principale) e 'naturalmente' lineari (nel senso di essere governati da equazioni in cui il contributo dei termini non lineari è largamente inferiore a quello dei termini lineari). Poi, negli ultimi decenni del secolo appena conclusosi (ma con forti indizi già a partire dai pionieristici lavori di Poincaré7 a cavallo tra otto e novecento), l'indagine scientifica si è trovata di fronte ad una classe totalmente nuova di sistemi, intrinsecamente non riducibili, non separabili, non lineari. Sistemi la cui evoluzione è sostanzialmente non predicibile con i tradizionali strumenti matematici e che presentano fenomeni di emergenza di nuove proprietà e di organizzazione spontanea, gli stessi caratteri all'origine della vita. E la cosa veramente notevole è che tali sistemi non sono peculiari di una o l'altra delle tradizionali divisioni tassonomiche della scienza (chimica organica, fisica dei solidi, biologia molecolare, etc.) ma si ritrovano, legati da forti analogie strutturali, nei campi più disparati: dalla cosmologia8 ai modelli sociali,9 dalla biologia10 alla meteorologia,11 solo per citarne alcuni. Si può dunque affermare che con la nascita della scienza della complessità12 le categorie epistemologiche devono essere radicalmente ripensate. Con tutto questo, se da più parti si fanno tentativi e si cerca di muoversi nella direzione della ricerca di paradigmi qualitativamente nuovi13 e strumenti matematici alternativi,14 una buona parte della comunità scientifica è ancora convinta che la complessità vada comunque affrontata con l'approccio tradizionale del riduzionismo, in quanto la completa conoscenza dei costituenti elementari di un sistema è ciò che occorre e basta per risalire ad ogni comportamento o fenomeno che esso possa esibire.15
A partire dai primi pionieristici lavori di E. Lorenz16 sui semplici modelli non lineari meteorologici moltissimi sistemi fisici, biologici, sociali sono stati studiati sotto un'ottica non riduzionista, ma a tutt'oggi, una definizione chiara ed esaustiva del concetto di complessità non esiste;17 ciononostante le varie definizioni proposte tengono conto ora dell'uno ora dell'altro degli aspetti caratterizzanti i sistemi complessi.18 Fondamentale è la definizione di Kolmogorov19 della complessità di un oggetto come la minima quantità di informazione necessaria a programmare un calcolatore per produrre l'oggetto. Sebbene questa definizione sia strettamente applicabile solo ad enti matematici, essa può essere estesa anche ad oggetti naturali; ad esempio per un essere vivente tale informazione sarà rappresentata dal suo DNA.20 A partire da questa definizione molti studi sono stati effettuati per misurare la complessità di enti matematici e sistemi fisici,21 ma questo tipo di complessità 'algoritmica' presenta comunque un limite: sistemi completamente casuali (come il testo che si otterrebbe facendo battere una scimmia sui tasti di una macchina da scrivere) danno origine ad elevati valori della complessità misurata, mentre sistemi realmente complessi, come un fiocco di neve, ma che vengono generati da regole brevi e compatte risultano essere molto semplici. Il problema è in effetti quello di misurare il significato più che l'informazione. Anche se tentativi in questo senso sono stati fatti,22 una cornice teorica soddisfacente ancora manca. Una alternativa alla misura 'algoritmica' della complessità è la complessità 'descrittiva',23 cioè la quantità di informazione necessaria per descrivere la sua struttura apparente. Questa nozione è meno univoca della precedente, e anche se evita inconvenienti tipo quello del fiocco di neve, ne presenta altri, di cui il principale è la dipendenza da una particolare procedura descrittiva (che naturalmente, per essere oggettiva, non deve tuttavia ricadere nella descrizione del programma che genera l'oggetto su una macchina calcolatrice). Altre definizioni, poi, che potremmo chiamare complessità 'procedurale', utilizzano come misura la quantità di risorse (ad esempio la memoria di lavoro) utilizzate dal calcolatore durante l'esecuzione dell'algoritmo per la generazione dell'oggetto.24
Tutte le definizioni proposte per la misura della complessità, se colgono correttamente alcuni aspetti dei sistemi complessi, ne perdono altri, e inoltre misure diverse applicate allo stesso oggetto (ad esempio un filamento di DNA) possono dare risultati anche molto differenti tra loro. Tuttavia, il fatto che non sia stato ancora stabilito un metodo univoco per la misura della complessità non significa che non se ne siano capiti aspetti importanti; d'altra parte è proprio una delle caratteristiche dei sistemi complessi quella di sfuggire alla predittività matematica, quindi perché stupirsi se la complessità stessa è così refrattaria a farsi rinchiudere nella gabbia di una definizione quantitativa?
3. Uomo e complessità 
Le precedenti considerazioni non rappresentano una trattazione esaustiva delle problematiche riguardanti definizione e misura della complessità matematica, ma chiariscono i caratteri fondamentali del nuovo paradigma; chiarificazione indispensabile prima di affrontare una riflessione su come queste idee, inizialmente confinate all'ambito degli oggetti matematici e dei sistemi fisici, abbiano avuto un impatto dirompente sul pensiero degli ultimi decenni e ci costringano a rivedere le nostre prospettive sull'uomo e sul suo mondo. Ci sembra di poter indicare due fronti di rilevanza antropologica della complessità: uno interno che riguarda l'uomo come ente intrinsecamente ed essenzialmente complesso, l'altro esterno che riguarda il mondo dell'uomo: quella realtà di relazioni sociali, economiche, produttive, culturali, che ha tutti i caratteri della complessità (tanto che è proprio in questo ambito che si hanno alcune delle applicazioni più interessanti della nuova scienza). Spostiamo dunque la nostra attenzione sull'uomo e iniziamo a farlo dalla sua più profonda radice ontologica.
4. L'uomo come creatura complessa 
L'imprevedibilità, la gratuità, la ricchezza tipiche dei comportamenti dei sistemi complessi suggeriscono potenti analogie con il carattere essenzialmente non deterministico e libero dell'agire umano. Tuttavia, le tentazioni riduzionistiche in questo campo portano ad un duplice rischio, come ben evidenziato da Searle25 nei suoi studi sulla natura della coscienza; due posizioni diametralmente opposte che però, ad una più approfondita analisi, risultano essere le due facce della stessa medaglia: una non corretta interpretazione del cambiamento sostanziale e qualitativo che la scoperta dei sistemi complessi ha portato nella visione del mondo. Da una parte infatti, possiamo accogliere l'analogia fino al punto di accettare l'idea che i comportamenti liberi e coscienti siano totalmente compresi nell'alveo del sottostante livello biochimico e abbracciare così la visione materialista nelle varie direzioni in cui si è sviluppata.26 Portando coerentemente alle estreme conseguenze questa posizione si arriva a quella forma di materialismo 'evoluto' che è alla base dell'ipotesi dell'intelligenza artificiale forte,27 secondo cui la mente sta al cervello come il programma sta all'hardware (la conseguenza più notevole di tale ipotesi è che la coscienza e gli stati mentali di un uomo potrebbero essere trasferiti su qualsiasi sistema in grado di «eseguire il programma»). A parte argomenti di critica tecnicamente specifici che esulano dai fini della presente trattazione, osserviamo che comunque il fatto che la biochimica del cervello sia governata dalle leggi non deterministiche della fisica quantistica o che la dinamica neuronale sottostante sia non lineare non implica necessariamente la libertà e la coscienza. Tali aspetti, eminentemente umani, non sono causati dalla contingenza fisica, ma la precedono ontologicamente e la trascendono. Non è certo da classificare come libero il comportamento di un elettrone in un diodo solo perché non deterministico. La nostra esperienza quotidiana è ricca di dispositivi (si pensi al LASER o ai circuiti a semiconduttori) che fondano il loro funzionamento sui principi quantistici e tuttavia fanno esattamente quello per cui sono stati costruiti e programmati. L'agire umano appare invece ordinato e finalizzato a molteplici obiettivi che si dispiegano su orizzonti più o meno ampi.
Se dunque l'accettazione di una analogia troppo stretta tra indeterminismo delle leggi fisiche e libertà dell'uomo conduce al materialismo, dall'altra parte il rifiuto di considerare la genuina emergenza di nuovi livelli ontologici a partire da dinamiche sottostanti non lineari, ci fa ricadere nel dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa e nell'ipotesi di un principio immateriale completamente scorrelato dalla materialità della struttura. Questa visione, intrisa di un platonismo un po' ingenuo, non ha molte basi critiche su cui fondarsi; in particolare chi scrive non condivide la tendenza di alcuni autori a fondare dimostrazioni della necessità di un principio immateriale che sia alla base dell'agire libero a partire dalle stesse leggi della fisica.28 Più convincente appare allora la prospettiva di chi, come Searle,29 considera la coscienza come un fenomeno intrinsecamente non riducibile, una proprietà emergente, che ha un carattere nuovo e ontologicamente differente rispetto ai costituenti del sistema. È precisamente in questo senso che viene fuori una certa immaterialità, senza tuttavia richiedere l'intervento di entità di carattere extramateriale.
Ad ogni modo, quale che sia la posizione che si voglia abbracciare sul problema del rapporto mente-corpo, la complessità di cui è profondamente intrisa la natura umana è un dato incontestabile sul piano fenomenologico, cioè, secondo la celebre definizione di Husserl,30 una «visione originalmente offerente» che rappresenta «una sorgente legittima di conoscenza», ponendo naturalmente la massima attenzione al fatto che tale dato «è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà». Vediamo allora che, pur lasciando volutamente aperta la questione se la complessità possa essere pensiero, sicuramente potremo asserire che il pensiero richiede la complessità. Cioè la complessità è condizione di possibilità dell'agire umano: solo un sistema che abbia una reale facoltà di molteplici scelte, azioni, comunicazioni, può sostenere l'agire umano nel mondo, con tutta la immaterialità e spiritualità che lo caratterizza. Dunque, c'è un dato fenomenologico la cui evidenza si impone in maniera inconfutabile, ed è rappresentato da tutti quegli aspetti di immaterialità e spiritualità caratteristici dell'Uomo, immaterialità e spiritualità che richiedono un supporto materiale sufficientemente complesso per potersi esprimere, una sorta di materia nobile. L'essenza dell'uomo, superiore a tutto ciò che costituisce l'Universo sensibile, per attualizzarsi richiede una materia che non sia materia qualunque, ma materia complessa, sufficientemente complessa, complessa oltre una certa soglia che renda possibile un pensiero che si rapporti con lo spazio e il tempo, ma che da sola non è pensiero, non più di quanto lo sia la rete telefonica mondiale o il sistema globale di scambi economici e relazioni produttive.
Il punto focale della riflessione si sposta quindi sull'origine di questa complessità, così preziosa e necessaria, anche se non sufficiente a spiegare l'essenza dell'uomo. È casuale? È il frutto di una serie di circostanze fortuite che hanno portato l'evoluzione a produrre l'homo sapiens oppure c'è un carattere di necessità in tutto ciò? L'uomo è una «opportunità colta al volo»31 tra gli innumerevoli percorsi potenziali dell'evoluzione della vita sul nostro pianeta? In termini ancora più essenziali, il meraviglioso ordine biologico che si è sviluppato dagli archeobatteri fino a quella materia nobile in grado di essere una casa per lo spirito, ha unicamente un'origine darwiniana? È contingente? Avrebbe potuto non realizzarsi mai se solo il clima dell'Africa centrale di 15 milioni di anni fa fosse stato per esempio un po' più secco o un po' più umido? Fino a non molto tempo fa la risposta a tutte queste domande era positiva, in accordo con le posizioni ufficiali della biologia teorica, secondo cui l'evoluzione darwiniana è tutto ciò che serve per spiegare i caratteri della storia della vita sulla Terra, dalle origini ad oggi, uomo compreso. Recentemente però, sulla scia della scienza della complessità, nuove originali posizioni sono sorte32 secondo cui il meccanismo darwiniano di mutazione fortuita e pressione selettiva non è da solo sufficiente a spiegare l'insorgenza dell'ordine biologico e tantomeno il suo sviluppo. Risulta che la complessità è una tendenza ineliminabile connaturata a tutti i sistemi in grado di differenziarsi e stabilire relazioni, come ad esempio una rete di reazioni chimiche o un ecosistema o anche uno scenario tecnologico produttivo. Per quei sistemi sufficientemente complessi da porsi sul confine tra ordine e disordine (sull'orlo del caos), l'autorganizzazione sorge spontaneamente e gratuitamente, e da lì in avanti innumerevoli potenziali percorsi si affacciano all'orizzonte dell'essere. L'evoluzione, poi, orienterà le contingenze di queste storie, ma in nessun modo potrà influire sulla direzione di tale movimento, che punta verso la massima ricchezza, varietà, complessità. Vi è dunque un telos nello sviluppo della vita, implicito fin dalle prime reti autocatalitiche di reazioni tra molecole organiche nei mari di 3, 8 miliardi di anni fa, una strada che porta all'uomo, pur attraverso una imprevedibile serie di contingenze. È proprio l'evidenza di questo fine, così profondamente inciso nelle leggi della materia inanimata, che fa dire a Kauffman che siamo «A casa nell'Universo»,33 nel senso di una riscoperta del senso più profondo del nostro essere nello spazio tempo, dopo che negli ultimi quattro secoli eravamo passati dal ruolo di specialissime creature create da Dio a propria immagine e poste nel centro geometrico dell'Universo, a quello di una tra le tante specie animali, selezionata fortuitamente, manifestazione di un fenomeno chiamato 'vita', realizzatosi casualmente su un pianeta non troppo grande di una insignificante stella periferica in una galassia simile a moltissime altre sparse qua e là in un Universo senza alcun centro, né geometrico né di altra natura.
5. Complessità e gratuità 
La complessità è ordine disordinato e disordine ordinato. Ordine perché ogni cosa è al suo posto e non si può modificare nulla senza che la funzione dell'intero sistema ne risulti compromessa, disordine perché in tutto ciò non vi è regolarità. L'ordine è la notte, la morte, il silenzio. Anche il disordine è notte, morte, silenzio. Nell'ordine totale, come nel disordine totale, non è possibile né lo spazio né il tempo; i due estremi sono esattamente equivalenti: dove non è possibile evidenziare una diversità, un punto di riferimento che rompa l'uniformità della situazione circostante non si può parlare di distanze e neanche di prima e dopo. Lo spazio e il tempo richiedono la complessità; la storia è un evento complesso, e senza un substrato complesso non avrebbe senso parlare di storia (anche naturale), basterebbero le leggi dell'ordine o il silenzio del disordine.
Se la vita è complessa, la morte è intimamente necessaria alla complessità. La vita è altro dalla cristallizzazione dell'ordine e dall'indifferenza del disordine, ambedue senza tempo. Le strutture aperte che si formano in virtù delle molteplici interazioni, proprio a causa di esse, ad un certo punto devono dissolversi e liberare le risorse materiali che hanno occupato per permettere ad altre strutture di formarsi. Non può essere diversamente, senza questo necessario carattere la stessa complessità non potrebbe sussistere. Una struttura che gratuitamente appare gratuitamente scompare per permettere ad altre strutture di sorgere spontaneamente e gratuitamente. La stessa vita, forse, ha questo destino.34
Da queste considerazioni si capisce come la gratuità sia un concetto intimamente connesso alla complessità. Quella stessa gratuità che sul piano antropologico emerge ad una attenta analisi fenomenologica dal continuo bisogno d'essere dell'uomo, cioè come ontologia indigenziale,35 può essere vista su uno sfondo più ampio, che abbraccia (quantomeno) l'intero mondo della vita. In effetti, in un sistema di enti e relazioni sufficientemente ricco, gratuitamente emergono strutture e proprietà a priori non prevedibili, una realtà totalmente nuova in nessun modo riducibile al precedente livello ontologico.
6. L'uomo come costruttore di complessità 
L'uomo, creatura complessa, tende naturalmente a formare e creare sistemi complessi. Tali sono le reti di rapporti personali e sociali, la struttura economica, l'organizzazione del lavoro, il sistema politico. Ci troviamo quindi di fronte ancora a un dato fenomenologicamente evidente: l'universo dell'uomo non è un universo a risposta lineare. Non lo è prima di tutto egli stesso -- l'uomo -- in quanto vivente, non lo è egli stesso in quanto capace di pensiero, non lo è infine la sua cultura e il mondo che egli si costruisce. Malgrado questo, vi è un anelito sempre presente alla riduzione, alla semplificazione, alla linearizzazione. Non accettando l'irriducibile complessità che permea il suo mondo, l'uomo ha molte volte percorso la strada della riduzione e separazione, non capendo che, una volta spaccata, la complessità non è più tale e il dato risulta destinato all'incomprensibilità. In altri casi invece egli ha rivolto i suoi sforzi ad abbracciare il tutto senza volerlo dominare e sovrastare, ma accettando quello che del tutto riesce a cogliere.
Vi sono profonde analogie strutturali tra un sistema complesso naturale (come ad esempio una cellula) e l'insieme dei rapporti in una qualsiasi comunità umana. In ambo i casi abbiamo una rete di relazioni tra singoli agenti in cui la presenza di ognuno di essi influenza un certo numero di relazioni, o perché ne prende attivamente parte, o perché ne rappresenta una delle condizioni di possibilità. Si tratta inoltre di sistemi aperti, che si sostengono sulla base di scambi con il mondo in cui sono immersi. Sotto quest'ottica si capisce bene quale sia l'effettivo e profondo valore della diversità. Per meglio chiarire questo concetto utilizziamo una analogia biologica,36 considerando semplici sistemi di molecole organiche interagenti tra loro (il probabile meccanismo che diede origine alla vita sulla Terra). In molti casi una miscela di specie diverse raggiunge una configurazione di equilibrio nella quale nessuna specie nuova si crea e le concentrazioni delle specie esistenti rimangono costanti. Però può accadere che alcune specie che partecipano direttamente a certe reazioni possano giocare anche il ruolo di «facilitatori» per altre reazioni. Aumentando il numero di specie coinvolte e di possibili reazioni chimiche oltre un certo valore di soglia si osserva un rapido incremento di complessità. Da qui in poi il sistema può evolvere, aumentare la propria diversità, esplorare imprevedibili regioni (o anche ripiombare nella morte dell'equilibrio).
La diversità è la radice genetica della complessità; intervenire su un sistema per ridurne la diversità significa tagliare alla base le possibilità di una evoluzione che si sviluppi creando novità. Non necessariamente un tale intervento avrà sempre una valenza etica negativa, ma sicuramente la avrà quando lo si applica alle culture umane. Se infatti uno dei caratteri della complessità è la creazione irreversibile di strutture sempre nuove che una volta sparite non si riproporranno più negli stessi termini, vi sarà, in maniera analoga alla preziosità dell'individuo irripetibile, una preziosità irripetibile delle culture. E quindi, poiché la complessità è ordine gratuito che appare e si sviluppa purché vi sia sufficiente diversità, distruggere tale diversità, imporre l'omologazione in nome di una presunta consapevolezza di avere in mano il migliore dei modelli possibili, significa negare le stesse basi ontologiche del mondo dell'uomo. Le implicazioni etiche di queste considerazioni sono di drammatica attualità. L'etica e la politica del mondo moderno sono fondate sul soggetto, sul vuoto cogito cartesiano, autoreferenziale, che trova il suo perfetto compimento nell'enunciazione del principio per cui senza il riconoscimento di un'idea di cui «non posso essere io stesso la causa [...] non avrò proprio nessun argomento che mi possa rendere certo dell'esistenza di una qualche cosa diversa da me».37 È chiaro come in questa prospettiva la diversità non solo non rappresenti un valore, ma anzi la sua cancellazione permetta al soggetto di ridurre il tutto a sé.
Nella loro imprevedibilità e ricchezza i sistemi complessi sono estremamente fragili. Essi, in quanto sistemi aperti, dipendono in maniera critica dalle condizioni al contorno. Una cultura umana è una complessa struttura di agenti in interazione, fortemente dipendente dal contesto in cui è immersa. Sulla scala del gruppo ritroviamo quella preziosità e irripetibilità che caratterizza il singolo. In maniera irripetibile e irreversibile si crea, come polpa di un frutto intorno a ciò che è più essenzialmente e profondamente umano, un complesso di saperi, forme, tradizioni, che è ricchezza del gruppo ma che -- una volta conosciuto -- lo è per il resto della famiglia umana. E proprio questa potrebbe essere la maniera corretta di vivere la mondialità: non tentativo egemone di una sola cultura di ridurre tutte le altre ai propri modelli economici e politici, ma interazione reciproca nel rispetto delle peculiarità, magari superando la fase meramente conoscitiva per sperimentare inedite contaminazioni. Si tratta in fondo della risposta alle contraddizioni della cultura occidentale di chi oppone al paradigma della soggettività quello della reciprocità,38 superando anche il concetto stesso di «tolleranza» (che già nella sua etimologia ha il senso negativo di sopportazione di un peso) per sostituirlo con quello di «convivialità». D'altra parte, questa esigenza di un profondo mutamento sul piano valoriale che oramai non è più esclusivo patrimonio di poche avanguardie particolarmente sensibili e illuminate, si manifesta sempre più spesso in concrete battaglie politiche39 e proposte economiche effettivamente alternative.40 Questa diversità, che nasce nella varietà delle culture umane e al tempo stesso è la condizione di possibilità per lo sviluppo di quelle culture, è dunque ricchezza autentica, irripetibile, irreversibile. È ricchezza autentica perché profondamente radicata nell'esperienza, spesso inconsapevole, di generazioni nel corso dei secoli, stratificazione di innumerevoli contributi. Legata alla terra, al mare, alla vita, inconsapevolmente conscia, in un modo misterioso, di molte delle acquisizioni della ratio dianoetica riguardanti il paradigma della complessità.41 Diversità che è ricchezza irripetibile per l'impossibilità oggettiva di ricreare due volte le stesse condizioni. Non ci si illuda, pentimenti tardivi non potranno in alcun modo riavvolgere la pellicola della storia. È inscritto nelle più profonde leggi della complessità, è la nonlinearità per cui una piccola perturbazione riesce ad influenzare radicalmente tutta l'evoluzione di un sistema. Per gli stessi motivi la diversità è ricchezza irreversibile: quando per effetto di una spinta esterna l'equilibrio dinamico di un sistema si rompe e la sua struttura passa ad altro, non sarà possibile né invertendo il segno della spinta né in alcun altro modo ripercorrere a ritroso gli stessi passi; sarebbe come voler far rivivere il cadavere di un annegato semplicemente svuotandogli i polmoni dall'acqua.
Appare dunque chiaramente come la tendenza all'omologazione, la mondialità a senso unico, l'imposizione di un modello economico, politico e culturale egemone, abbia il carattere della distruzione, della riduzione al nulla, al non essere, della perdita irreversibile, di un impoverimento generale dell'umanità. Se a questa forma di nichilismo aggiungiamo il fatto che la colonizzazione culturale è accompagnata dall'imposizione in agricoltura di estese monoculture, dalla deforestazione, dalla pesca effettuata con metodi intensivi, dal deterioramento degli ecosistemi a causa dell'inquinamento, si vede come la distruzione si porti dal piano immateriale delle culture a quello concreto della diversità biologica. Il danno per l'uomo è duplice: in quanto soggetto culturale nel primo caso, e in quanto essere vivente partecipante alla biosfera nel secondo. Guardando questa preoccupante situazione sotto la lente della complessità possiamo cogliere ulteriori aspetti che danno pienamente conto della portata della sfida a cui siamo chiamati. Invece, nella miope visione riduzionistica la ricchezza della diversità non è percepita come tale, e la complessa rete di agenti e relazioni che forma il sistema delle relazioni umane è vista solo come un limitato insieme di «qui ed ora» nelle immediate vicinanze del soggetto che, pur essendo uno tra i tanti in una rete chiusa su se stessa e quindi senza centro né periferia, nutre l'illusoria convinzione di occupare una posizione privilegiata.
Note
1.          G. Devoto, G. C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze (1971). 
2.          James Gleick, Caos, Rizzoli, Milano (1989). 
3.          E. Lorenz, Deterministic nonperiodic flow, Journal of the Atmospheric Sciences, 20, 130 (1963). 
4.          B. Bertotti, P. Farinella, Physiscs of the Earth and the Solar System, Kluwer Academic Publishers (1990), cap 10. 
5.          Ibidem, cap. 11. 
6.          Ibidem, § 15. 2. 
7.          Si veda ad esempio la raccolta di scritti Geometria e Caso, Bollati Boringhieri, Torino (1997). 
8.          Si veda a proposito lo storico lavoro di Freeman Dyson sul futuro dell'Universo: F. J. Dyson, Rev. Mod. Phys., 51, 447, (1979); ma anche M. L. Kraus, G. D. Starkman, Qual è il destino della vita nell'Universo? , in Le «Scienze», 378, (2002). Si veda inoltre L. Pietronero: La struttura frattale dell'Universo, in «Le Scienze», 354 (1998). 
9.          Lo studio matematico dei comportamenti sociali, che tanta importanza riveste nella scienza della complessità, trova la sua pietra miliare nei lavori pionieristici di von Neumann sulla teoria dei giochi, idee che sono mirabilmente esposte in J. Von Neumann, O. Morgenstern, Theory of Games and Economic Behavior, Princeton University Press, New Jersey 1944. 
10.        A partire dagli storici lavori di Volterra e Lotka (V. Volterra, Atti Accad. naz. Lincei Memorie, 2, 31, 1926 e A. J. Lotka, J. Wash. Acad. Sci., 22, 461, 1932) sui modelli non lineari in biologia, la produzione sull'applicazione della scienza della complessità in biologia è stata vastissima, qui ricordiamo solo una delle ipotesi più suggestive, ovverosia il pianeta vivente, Gaia, in J. E. Lovelock, L. Margulis, Atmospheric Homeostasis by and for the Biosphere: the Gaia Hypothesis, in «Tellus", 26, 2-9 (1974). 
11.        J. P. Peixoto, A. H. Oort, Physics of Climate, in «Rev. Mod. Phys.», Vol. 56, 3 (1984) 
12.        Una esposizione divulgativa di buon livello è rappresentata dal celebre testo di H. Haken: Sinergetica -- Il segreto del successo della natura, Bollati Boringhieri, Torino (1983). 
13.        Per esempio, un tentativo molto interessante è quello di affrontare lo studio della biologia partendo da oggetti elementari puramente biologici, cioè non ulteriormente riducibili a sistemi fisici più semplici, illustrato in Galleni L., Forti M., An axiomatization of biological concepts within the foundational theory of E. De Giorgi, in «Rivista di Biologia/Biology Forum», 92, 77 (1999). 
14.        G. Basti & A. L. Perrone, Le radici forti del pensiero debole, Il Poligrafo, Padova (1996). 
15.        Mi sembra a tal proposito particolarmente significativo un episodio di cui io stesso sono stato testimone. Di fronte a una platea di insegnanti di fisica delle scuole medie superiori, uno stimato fisico teorico durante una conferenza sull'importanza dello studio delle particelle elementari disse che, tra le altre cose, la conoscenza dei mattoni fondamentali della materia permetterà prima o poi di comprendere tutti i fenomeni posti a un livello di organizzazione più elevato: da quelli chimici, a quelli biologici, e -- passando per la neurofisiologia -- fino alla psiche dell'uomo! 
16.        E. Lorenz, cit. 
17.        P. Musso, Filosofia del caos, Franco Angeli, Milano (1997), p. 41. 
18.        C. H. Bennet, Dissipation, Information, Computational Complexity and the Definition of Organization, D. Pines ed., 1987, pp. 215-231. 
19.        A. N. Kolmogorov, Three Approaches to the Definition of the Concept of the Amount of Information, Problemy Peredachi Informatsii 1: 1, 293-302 MR. # 2273 (1965). 
20.        R. Nobili, The Conceptual Basis of Theoretical Biology, in «Annales Biotheoretici», 14, 1, (1997). 
21.        Per esempio, la complessità di un oggetto può essere valutata dal rapporto tra la lunghezza della sua descrizione e la lunghezza di tale descrizione dopo essere stata compressa per mezzo di un opportuno algoritmo, come illustrato in: F. Argenti, V. Benci, P. Cerrai, A. Cordelli, S. Galatolo and G. Menconi, Information and Dynamical Systems: a Concrete Measurement on Sporadic Dynamics; Chaos, Solitons and Fractals, 13, 461-469, (2002). 
22.        A. Cordelli, L. Galleni, Towards a Definition of Meaning in Biology: a Proposal for an Operative Definition, in «Rivista di Biologia/Biology Forum», 145, 96 (2003). 
23.        R. Penrose, La mente nuova dell'imperatore, Rizzoli, Milano (1992). 
24.        R. Nobili, cit., p. 18. 
25.        J. Searle, La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino (1994). 
26.        J. Searle, cit., cap 2. 
27.        Una magistrale illustrazione di questa posizione si trova nel classico D. R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un'Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano (1990), che unisce al rigore espositivo uno stile gradevole e divulgativo. 
28.        M. Zatti, Dolore innocente, libertà, caso: riflessioni di filosofia naturale, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», ISSN 1128-5478 (2004). 
29.        J. Searle, cit. 
30.        E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (trad. it. di E. Filippini), Einaudi, Torino (1965). 
31.        J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano (1970). 
32.        S. Kauffman, The origins of order, Oxford University Press, New York (1993). 
33.        S. Kauffman, A casa nell'universo, Editori Riuniti, Roma (2001). 
34.        M. L. Kraus, G. D. Starkman, cit. 
35.        Si veda a tal proposito la dettagliata discussione su questi temi di E. Baccarini in La persona e i suoi volti, Anicia, Roma (2003), come pure in La soggettività dialogica, Aracne, Roma (2002). 
36.        S. Kauffman, A casa nell'universo, cit., cap. III. 
37.        Cartesio, Meditazioni metafisiche (a cura di Lucia Urbani Ulivi), Rusconi, Milano (1998), p. 197. 
38.        E. Baccarini, La persona e i suoi volti, cit., cap X. 
39.        Si veda ad esempio il racconto della lotta degli agricoltori francesi per la salvaguardia delle produzioni di qualità in: Josè Bovè e François Dufour, Il Mondo non è in vendita, Saggi Universale Economica Feltrinelli, Milano 2001. 
40.        N. Roozen, F. van der Hoff, Max Havelaar -- L'avventura del commercio equo e solidale, Feltrinelli, Milano (2003). 
Le comunità rurali, anche nelle aree sottosviluppate del sud del mondo, trovano spesso il loro equilibrio all'interno di un sistema integrato che ha tutti i caratteri della complessità e che è formato, oltre che dall'uomo da una grande varietà di specie vegetali e animali. Per queste comunità l'incontro con i grandi gruppi transnazionali alimentari, del legname e delle sementi, che impongono monoculture intensive con mezzi industriali di specie molto spesso estranee all'ecosistema locale, quando non addirittura geneticamente modificate, comporta invariabilmente esiti di estrema drammaticità. L'avvincente descrizione dei sistemi produttivi dei villaggi rurali indiani confrontati con quello delle società multinazionali si trova nell'ormai classico: Vandana Shiva, Monoculture della Mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
Mirko Di Bernardo
Simulazione informatica e vita artificiale.
È possibile per l'uomo creare la vita reale?
1. Premessa 
Alla luce dei buoni risultati ottenuti dalle ricerche attuali nel campo della filosofia della biologia e delle affascinanti prospettive aperte dalla post-genomica, si sta assistendo, negli ultimi anni, ad una rivisitazione di quelli che sono ormai i veri e propri classici della biologia del novecento, vale a dire i lavori di Monod, Crick e Jacob.1 Questa rivisitazione sta, attualmente, mettendo in luce come questi grandi scienziati, con le loro geniali intuizioni, abbiano cambiato radicalmente il volto della biologia contemporanea iniziando, per alcuni aspetti, il cammino stesso della filosofia della biologia.
Monod offre alla biologia contemporanea la possibilità di costruire un nuovo paradigma e di individuare un codice per esso: egli presenta la teoria molecolare del codice come teoria generale degli esseri viventi, ovvero di quegli «oggetti strani» che si distinguono da tutti gli altri oggetti dell'universo in quanto dotati di teleonomia, morfogenesi autonoma e invarianza riproduttiva. Gli organismi viventi, dunque, sono «unità funzionali coerenti ed integrate in grado di costruirsi da sé»:
La struttura di un essere vivente [...] deve tutto, dalla forma generale fino al minimo particolare, a interazioni morfogenetiche interne all'oggetto medesimo. [...] Struttura che testimonia un determinismo autonomo, preciso, rigoroso, che implica una libertà quasi totale verso agenti o condizioni esterne, capaci di ostacolare questo sviluppo ma non di dirigerlo né di imporre all'oggetto vivente la sua organizzazione.2
Il meccanismo morfogenetico costituisce la base della teleonomia e consente agli organismi viventi la conservazione e la moltiplicazione delle specie, cioè il realizzarsi del progetto teleonomico originario. Quest'ultimo «consiste nella trasmissione, da una generazione all'altra, del contenuto d'invarianza caratteristico della specie. Tutte le strutture, le prestazioni, le attività che concorrono al successo del progetto essenziale saranno quindi chiamate teleonomiche. [...] Si può allora affermare che il livello teleonomico di una data specie corrisponde alla quantità d'informazione che deve essere trasferita, in media, per individuo onde assicurare la trasmissione del contenuto specifico di invarianza riproduttiva alla generazione successiva.»3 Alla luce di tutto ciò, dunque, in accordo a Monod, è possibile asserire che in ogni organismo vivente la struttura stessa delle molecole raggruppate costituisce la fonte dell'informazione per la costruzione dell'insieme. L'organizzazione globale di un organismo complesso è già contenuta nella struttura dei suoi costituenti, tuttavia diviene attuale grazie alle loro interazioni:
Quest'analisi, come si vede, riduce a mera disputa verbale, priva di qualsiasi interesse, l'antica polemica tra pre-formisti e epigenisti: la struttura compiuta non è pre-formata, in quanto tale, in alcun luogo, ma il suo progetto è presente nei suoi stessi costituenti. Essa si può dunque realizzare in modo autonomo e spontaneo, senza intervento dall'esterno, senza immissione d'informazioni nuove: l'informazione è già presente, ma rimane inespressa, nei suoi costituenti. La sua costruzione epigenetica non è dunque una creazione, bensì una rivelazione.4
Jacob e Monod, pertanto, attraverso lo studio dei geni regolatori, giungono alla fondamentale nozione di programma genetico, ovvero un programma di sviluppo della cellula racchiuso all'interno del genoma. Secondo i due scienziati, infatti, immediatamente dopo il concepimento esiste in essenza un programma completo di sviluppo di un nuovo essere vivente, un programma che però ha la peculiarità di essere singolare e discriminante di ogni organismo.
Tutto il determinismo del fenomeno ha origine, in definitiva, nell'informazione genetica costituita dalla somma delle sequenze polipeptidiche interpretate, o meglio filtrate, dalle condizioni iniziali. L'ultima ratio di tutte le strutture e prestazioni teleonomiche degli esseri viventi è dunque racchiusa nelle sequenze dei radicali amminoacidi dei filamenti polipeptidici.5
La realizzazione del Progetto Genoma Umano, negli ultimi anni, ha segnato una cesura con questa concezione monodiana poiché ha dato nascita ad una nuova fase di studio: la genomica funzionale. Fox Keller, proseguendo il cammino tracciato dalle fondamentali scoperte di Jacob e Monod, capisce che per fare previsioni sulle funzioni precise delle innumerevoli regioni codificanti non basta analizzare la sequenza meramente sintattica del DNA poiché la stabilità strutturale dei geni costituisce «Non il punto di partenza ma il prodotto finale di un processo dinamico altamente orchestrato che richiede la partecipazione di un gran numero di enzimi organizzati in reti metaboliche complesse, le quali regolano e assicurano sia la stabilità della molecola di DNA che la sua replicazione fedele.»6 Questi risultati, pertanto, conducono la grande studiosa a rivisitare la dottrina della morfogenesi autonoma monodiana attraverso una prospettiva in accordo alla quale, come appunto scrivono A. Carsetti e H. Atlan, i sistemi naturali sono caratterizzati dal fatto che ciò che si auto-organizza al loro interno è la funzione stessa che li determina con il loro significato. Stando così le cose, lo studio della funzionalità del genoma costituisce la vera e propria chiave d'ingresso scientifica all'interno della complessità dei sistemi biologici.
Per quasi cinquant'anni ci siamo illusi che la scoperta delle basi molecolari dell'informazione genetica avrebbe svelato il segreto della vita, che bastasse decodificare il messaggio nella sequenza dei nucleotidi del DNA per capire il programma che fa di un organismo ciò che è. Ci stupiva che la risposta fosse così semplice. [...] Ora che cominciamo a misurarne l'ampiezza, ci stupisce non la semplicità dei segreti della vita ma la loro complessità.7
La genomica funzionale rappresenta lo studio della vita cellulare nei suoi diversi livelli, ovvero nelle complesse interazioni tra le molte componenti del sistema. È proprio nell'analisi del concetto di significato biologico, dunque, che risulta possibile rintracciare la differenza concreta tra la concezione di programma genetico di Monod e quella di programmi distribuiti della Keller. Secondo questa nuova prospettiva le informazioni non si trovano più in luoghi specifici e determinabili, al contrario il sistema agisce come un insieme dinamico all'interno del quale ogni particolare diviene indispensabile nel momento in cui entra in relazione con gli altri generando, così, una complessa auto-organizzazione.
La fonte della stabilità genetica diviene, dunque, il risultato di un processo dinamico:
Ora abbiamo imparato che anche la funzione genica va capita in termini dinamici. Siccome la funzione biologica è inerente all'attività delle proteine più che all'attività dei geni, il crollo dell'ipotesi un gene-una proteina toglie di mezzo la possibilità di attribuire una funzione al gene inteso, per tradizione, come un'unità strutturale. Nemmeno dopo che è stato riconfigurato come unità funzionale [...] il gene può essere ricollocato sopra e fuori dai processi che specificano l'organizzazione cellulare ed intracellulare. Quel gene è parte integrante dei processi definiti e messi in opera dall'azione di un sistema complesso e auto-regolato, nel quale e per il quale il DNA ereditato fornisce la materia prima assolutamente indispensabile, ma nulla di più.8
Stando così le cose, il riduzionismo genetico, insieme allo stesso concetto di gene, dopo aver raggiunto il livello massimo di produttività, lascia ora il posto ad una visione olistica in cui i sistemi biologici non sono più né equivalenti alla semplice somma delle loro parti, né tanto meno determinabili in base alle sole condizioni iniziali; essi appaiono costituire il risultato di complesse interazioni che si danno al livello della molteplicità immensa delle loro componenti. Fox Keller, quindi, mettendo in luce l'esigenza della circolarità continua tra strutture proteiche e nucleotidiche, introduce mutamenti profondi per quel che concerne il concetto di programma genetico ed individua altresì il compito della ricerca contemporanea nella circolarità.
Oggi, tuttavia, gli scienziati nel cercare di capire i processi cellulari che portano alla funzione biologica, hanno bisogno dell'aiuto di scienze sincretiche. Per descrivere le funzioni biologiche, infatti, serve un lessico che comprenda concetti appartenenti all'ingegneria, all'informatica e alla fisica: ecco dunque il delinearsi di nuove aree di ricerca come ad esempio la bio-informatica e la vita artificiale .
2. La bio-informatica 
Durante l'ultima guerra gli ingegneri diventarono efficienti nel progettare macchine finalizzate allo svolgimento di compiti che le precedenti generazioni ritenevano superiori a capacità non umane. Le ricerche di Wiener in ambito cibernetico portarono alla realizzazione di macchine dotate di intenti; alla luce di tali ricerche, infatti, ci si accorse che il comportamento di un pilota automatico non era diverso da quello di un organismo vivente (per esempio un embrione) poiché entrambi mostravano un'attività guidata da uno scopo. Queste nuove idee, suggerite da meccanismi auto-regolatori, si rivelarono estremamente utili per la biologia:
Dagli anni cinquanta nel campo dell'intelligenza artificiale prevaleva il presupposto che la capacità di risolvere problemi risiedeva in un'intelligenza centrale, la quale operava in base ad una descrizione o rappresentazione simbolica del mondo già iscritta nel sistema. Dopo trent'anni di sforzi, però, i risultati rimanevano deludenti. Pochi sistemi progettati in questo modo erano in grado di operare nel mondo reale [...]. Insieme ai colleghi, Brooks ha suggerito un'alternativa: progettare agenti autonomi capaci di svolgere i compiti incontrati durante l'interazione con il mondo, invece dei compiti per i quali sono appositamente costruiti. Come arrivare a questo risultato?9
Brooks propone una «programmazione interattiva», ovvero software concepiti per percepire gli stimoli dall'ambiente durante l'attività dei robot in modo tale da cercare «programmi secondari» in grado di elaborare le informazioni ottenute. Le caratteristiche essenziali di questa «robotica basata sul comportamento» sono la collocazione e l' incorporazione: i robot, una volta collocati nel mondo, hanno a che fare con il «qui e ora» dell'ambiente esterno che influenza direttamente il comportamento del sistema.10 In questo senso le macchine sono come corpi che istaurano un'interazione costruttiva con il mondo: le azioni hanno una retroazione immediata sulle sensazioni provate dal robot che le compie. Tali proprietà sono state ottenute da Brooks in quattro modi: attraverso l'uso di circuiti paralleli, attraverso la scomposizione del comportamento in diverse spire di «percezione-e-azione» eseguibili autonomamente, attraverso regole locali di interazioni che fanno dipendere la risposta di un'unità dai segnali provenienti dal suo ambiente immediato ed infine attraverso principi di controllo stratificati e robusti in cui i vari strati, pur operando in modo indipendente, sono ordinati in modo tale che i livelli superiori possono sussumere il ruolo di quelli inferiori.
In queste creature, la capacità di risolvere problemi non richiede né una rappresentazione interna né una capacità centralizzata e programmata di elaborare simboli. Compare invece come una proprietà emergente dell'intensa interazione tra il sistema ed il suo ambiente dinamico.11
Alla luce di tutto ciò, appare chiaro come i biologi nel cercare di capire i processi cellulari che portano alla funzione biologica, hanno bisogno dell'aiuto di scienze sincretiche. Per descrivere le funzioni biologiche, infatti, serve un lessico che comprenda concetti appartenenti all'ingegneria e all'informatica («amplificazione», «adattamento», «correzione degli errori», «robustezza» e altri). Dietro a tutto questo, però, vi è la presa di coscienza del fatto che tali proprietà non emergono dalle componenti di un sistema come per esempio singoli geni o singole proteine, bensì dalla loro interazione. Le cellule sono dei sistemi robusti insensibili in maniera specifica a quelle mutazioni che influiscono su attività cruciali: molti geni o interazioni regolatrici non hanno alcun effetto significativo sul fenotipo a meno che un certo insieme di altri geni sia contemporaneamente modificato.
Uno dei vantaggi notevoli dovuti all'ascesa della genomica è stata l'emergenza di una nuova sottodisciplina, la bioinformatica, e di concerto quella di una nuova stirpe di biologi con una formazione informatica. Quando il Progetto Genoma Umano era stato lanciato, sul finire degli anni ottanta, era già ovvio che i metodi convenzionali non sarebbero bastati per gestire le masse di dati provenienti da un sequenziamento completo. Perciò una parte significativa degli sforzi promozionali del Progetto è stata diretta al reclutamento di informatici e alla creazione di centri di bioinformatica. [...] Da allora il numero di questi centri è cresciuto in maniera spettacolare e le collaborazioni che hanno generato rientrano tra le maggiori fonti di nuove prospettive in biologia molecolare e, forse soprattutto, del crescente riconoscimento del bisogno di passare a livelli di organizzazione superiori a quelli del gene.12
Il concetto essenziale che la gnomica funzionale, in dialogo costante con le scienze sincretiche, ha mostrato è che l'insieme di interazioni cinetiche all'interno del sistema integrato della cellula determinano non solo le caratteristiche funzionali della singola componente e del sotto-sistema, ma addirittura quelle dell'intero organismo.
La letteratura informatica per ciò che concerne l'affidabilità e la flessibilità è ricca di riferimenti ai sistemi biologici, tuttavia, nella parte finale del suo volume, Fox Keller si sofferma su un esempio in cui il richiamo ai principi dell'organizzazione biologica risulta essere più esplicito: si tratta di un tentativo in corso al MIT, l'amorphous computing o elaborazione amorfa. Gerald Jay Sussman, uno dei responsabili di questa ricerca, pur partendo dal fallimento della progettazione strutturale e dalla fragilità dei sistemi informatici, cerca idee nella biologia dove oggi si riscontra il fatto che «strategie multiple possono essere messe in opera da un singolo organismo per ottenere un'efficacia collettiva superiore a quella di un singolo approccio.»13 La biologia, quindi, diviene per Sussman, non solo campo di applicazione, ma soprattutto, fonte di ispirazione:
L'elaborazione amorfa richiede nuovi modi di concepire la tolleranza degli errori. Tradizionalmente, si cerca di ottenere risultati corretti a dispetto delle parti inaffidabili, introducendo una ridondanza per rilevare gli errori e sostituire le parti difettose. Ma in un regime amorfo, voler ottenere la risposta giusta potrebbe essere un'idea sbagliata: non conviene pensare che un meccanismo quale lo sviluppo embrionale produca l'organismo giusto riparando le parti difettose e le comunicazioni interrotte. Occorre invece strutturare astrattamente dei sistemi per avere una probabilità elevata di ottenere risposte accettabili anche in presenza di inaffidabilità.14
I meccanismi centrali di un sistema amorfo, dunque, consistono nel verificare la coerenza dei risultati intermedi di sistemi progettati in maniera indipendente anche se non c'è una corrispondenza esatta di dati valori nei singoli sub-sistemi. Sussman ed i suoi collaboratori, da ingegneri, hanno lo scopo di rendere concrete queste idee e pensano di riuscirci in due modi:
In primo luogo costruendo sistemi che si ispirano alla biologia non solo come a una metafora, ma come ad una tecnologia concreta per la messa in opera di una nuova attività di elaborazione cellulare e, in secondo luogo, sviluppando su questi processi il controllo che permetterà loro, in quanto ingegneri, di creare organismi nuovi con le proprietà desiderate.15
Ovviamente i biologi hanno intenti diversi, tuttavia possono ugualmente trarre vantaggio dalle idee degli informatici; l'elevato numero di sequenze di genomi completi, infatti, oggi è resa possibile dalle risorse bio-informatiche e da internet. Tutto ciò costringe le bioscienze a compiere un importante passo verso l'integrazione ed il «comportamento sistemico». Questa prospettiva se da un lato ci proietta verso la realizzazione di sistemi artificiali capaci di prestazioni paragonabili a quelle umane nello svolgimento di attività intelligenti (i così detti computers semantici), dall'altro fa emergere una nuova questione:
Mentre calcolatori e organismi sono sempre più invischiati nella trama di idee, competenze e lessico intessuta dalle rispettive discipline [...] diventa a volte difficile sapere quale disciplina funga da metafora per l'altra, e perfino distinguere la descrizione di un sistema da quella dell'altro.16
Se gli ingegneri, dopo aver analizzato i «principi di progettazione dei sistemi biologici» come per esempio la rilevazione delle coincidenze, l'amplificazione, i sistemi a prova d'errore e la retroazione (positiva o negativa), concludono che «in biologia progettazioni simili sono comuni», dove divergono, dunque, calcolatori e organismi viventi? Secondo Fox Keller la differenza risiede in un elemento essenziale:
La strada attraverso la quale i due tipi di sistema sono giunti ad essere meccanismi così straordinariamente simili. Per quanto siano stati influenzati dalle strutture biologiche, i calcolatori sono costruiti in base ad una progettazione umana, mentre gli organismi si sviluppano senza i benefici di un progettista (o così di solito si presume). La domanda cruciale per i biologi è perciò questa: quale processo evolutivo ha portato all'esistenza di esseri così complessi e auto-organizzati? Come può un processo che dipende unicamente dalla comparsa casuale di nuove mutazioni aver dato luogo a strutture la cui funzione è di fornire sacche di resistenza alle forze disordinatrici del caso, insomma a strutture progettate per essere robuste?17
Come i classici della biologia del novecento, anche il testo della Keller termina con un interrogativo sulle origini: vero e proprio scacco per il sapere di ogni tempo. La grande filosofa della scienza, pur prendendo in seria considerazione le riflessioni di Jacob e Darwin riguardanti tale questione, tuttavia non sembra essere completamente soddisfatta dalle loro risposte:
Sono tentata di concludere il capitolo laddove era iniziato con un omaggio alla [...] creatività di lunghe ere di bricolage, di ricombinazioni casuali di parti preesistenti che, in virtù delle ricombinazioni e con l'aiuto di una costante retroazione proveniente da organismi vicini e dall'ambiente, quasi inavvertitamente acquisiscono nuove funzioni. [...] Dopotutto c'è altro da dire, credo. [...] Preferisco perciò concludere con una previsione: stanno per comparire molte novità, forse addirittura un altro Cambriano, non più nuove forme di vita biologica, questa volta, bensì nuove forme di pensiero biologico.18
La questione sollevata dagli scienziati del primo novecento resta dunque irrisolta, ma, potremmo dire, «gravida di futuro».
3. Gli automi cellulari 
In Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, testo del 2005, la Fox Keller mostra la sua effettiva passione: l'epistemologia. La grande studiosa «interpreta» la biologia come l'immagine stessa della divinità dei nostri giorni, come la divinità del vivente. Il compito principale che la Keller si prefigge è quello di esplorare i segreti del linguaggio della vitadi cui noi siamo espressione eche tuttavia non conosciamo in tutta la sua profondità. In altre parole, anche se l'«essenza» del bios resta misteriosa, lungo tutto il suo stupefacente passaggio dal modello all'espressione estesa della vita, la grande studiosa individua nella disamina dei moduli dell'auto-organizzazione l'unica via in grado di condurre la ricerca verso la comprensione delle regole di questo enigma.
L'utilisation de la simulation informatique pour étudier les systèmes biologiques a explosé au cours des dix dernières années, et elle découle directement du développement historique de la simulation dans les sciences physiques. De fait, à ce jour, ceux qui affirment sa valeur sont encore principalement des physiciens et des mathématiciens. Le plaidoyer de loin le plus vigoureux et le plus répandu vient des scientifiques engagés dans le projet que Christopher Langton a appelé « vie artificielle ».19
La prima volta che Langton usò quest'espressione così scrisse:
Le but ultime de l'étude de la vie artificielle serait de créer de la vie dans un autre milieu, l'idéal serait un milieu virtuel dans lequel l'essence de la vie aurait été débarrassée des détails de sa mise en jeu dans des modèles particulaires. Nous voudrions construire des modèles qui soient si semblables à la vie qu'ils cessent d'être des modèles de la vie pour devenir les exemples mêmes de la vie.20
Questa nuova area di ricerca fu inaugurata ufficialmente nel congresso appositamente organizzato dallo stesso Langton a Los Alamos, in quell'occasione, infatti, il grande informatico disse: «La vie artificielle est un domaine relativement nouveau qui emploie une approche synthétique pour étudier la vie telle qu'elle pourrait être. Elle conçoit la vie comme une propriété de la matière ainsi organisée.»21
Il termine simulazione informatica, nella sua prima accezione, faceva riferimento all'uso dei calcolatori numerici per la soluzione di equazioni differenziali le quali costituivano la base matematica di molti modelli dei fenomeni fisici e naturali. Questa utilizzazione, però, presentava il problema di dover rappresentare le variabili continue, contenute nelle equazioni, tramite delle quantità discrete costituite da numeri da 32 a 64 bit. Questo problema portava alla necessità di dover operare delle approssimazioni: in particolare, per molte equazioni non lineari dovevano essere usati metodi ad hoc per calibrare l'accuratezza di valori di grandezza imprecisi (approximations):
Cependant, lorsqu'on a tenté de mettre au point de meilleures théories du comportement des fluides, les ordinateurs ont rapidement été utilisés pour simuler non seulement les équations mais aussi la dynamique moléculaire des fluides réels. Une grande partie des simulations informatiques de systèmes biologiques repose sur un progrès supplémentaire, à savoir l'utilisation d'ordinateurs pour explorer des phénomènes pour lesquels on n'a encore formulé aucune équation ni aucune sorte de théorie générale, et pour lesquels on ne dispose que d'indications rudimentaires sur la dynamique des interactions sous-jacentes.22
Ad esempio i modelli teorici delle esplosioni nucleari e lo studio delle supernove implicano la risoluzione di centinaia di equazioni differenziali che descrivono l'interazione di un numero molto grande di isotopi. In questi casi ciò che è simulato non costituisce né un insieme ben stabilito di equazioni differenziali, né le costituenti fisiche particolari del sistema, bensì il fenomeno osservato così come si manifesta nella sua complessità: il tentativo, dunque, è quello di ridurre tale complessità alla sua dinamica essenziale. Lo studio di questi sistemi ha portato, in questi ultimi anni, allo sviluppo di una nuova area di ricerca detta teoria dei sistemi complessi in cui i metodi computazionali svolgono un ruolo fondamentale. La teoria or ora accennata parte dallo studio del comportamento delle singole componenti di un sistema complesso e dalle loro interazioni basandosi sull'ipotesi che le proprietà microscopiche dei componenti sono trascurabili e che il comportamento collettivo non varia se variano di poco le leggi che regolano il comportamento dei singoli componenti. A conferma di ciò, Stephen Wolfram così scrive:
La science s'est traditionnellement concentrée sur l'analyse des systèmes en les décomposant en constituants simples. Une nouvelle forme de science se développe actuellement, qui aborde le problème de la manière dont ces parties agissent ensemble pour produire la complexité du tout.
Dans cette approche, il est fondamental de rechercher des modèles qui soient aussi simples que possible à construire, mais qui possèdent les caractères mathématiques essentiels nécessaires pour reproduire la complexité observée. Les automates cellulaires offrent probablement les meilleurs exemples de modèles de ce type.23
Gli automi cellulari sono sistemi dinamici discreti in grado di riprodursi, la cui struttura è quella propria di sistema parallelo distribuito. Ogni elemento dell'automa in una griglia spaziale regolare è detto cella e può essere in uno degli stati finiti che la cella può avere. Gli stati delle celle variano secondo una regola locale e sono aggiornati contemporaneamente in maniera sincrona. L'insieme degli stati delle celle compongono lo stato dell'automa; così, secondo questo modello, un sistema viene rappresentato come composto da tante semplici parti ed ognuna di queste parti per evolvere ha una propria regola interna ed interagisce solo con le parti ad essa vicine: l'evoluzione globale del sistema, pertanto, emerge dalle evoluzioni di tutte le parti elementari. Una delle idee fondamentali del concetto di automa cellulare è quella di riuscire a ricostruire il comportamento complesso di un sistema a partire da semplici regole che descrivono l'interazione dei micro-componenti in cui si pensa suddiviso il sistema stesso. «Les automates cellulaires sont si bien accueillis par ceux qui tentent de modéliser des phénomenes pour lesquels on n'a pu formuler aucune équation de la micro-dynamique qui produise la complexité observée.»24 Secondo questa nuova prospettiva, dunque, la complessità di un sistema emerge dall'interazione delle parti che lo compongono. Un esempio di semplice automa cellulare è il Gioco della Vita o A-Life proposto da John Horton Conway. A-Life simula una popolazione di organismi viventi o celle in una griglia bidimensionale che si sviluppano nel tempo sotto l'effetto di tendenze all'accrescimento e all'estinzione. Ogni cella può avere due stati: vivente (1) o morta (0) ed ha un vicinato composto dalle otto celle adiacenti. In base a certe regole date, le celle cambiano stato rappresentando così l'evoluzione di una popolazione di organismi viventi. In realtà il progetto di utilizzare il computer per la simulazione dei processi biologici di sviluppo, riproduzione ed evoluzione, è molto più antico del termine automa cellulare: il vero padre della vita artificiale, infatti, non è Langton, bensì John von Neumann.
La construction initiale de von Neumann, au début des années 1950, était très lourde (elle nécessitait 200 000 cellules avec 29 états pour chaque nœu), mais elle fit date. L'histoire de sa mise au point ensuite (et de sa considérable simplification), depuis le Game of Life de John Conway aux « boucles » de Christopher Langton (1984), encore plus simples, a été racontée à plusieurs reprises. Ce qui est un peu moins connu, c'est l'histoire de l'utilisation des automates cellulaires dans la modélisation des phénomènes physiques complexes (tels que les transitions de phase, la turbulence ou la cristallisation), une activité qui, tout comme la vie artificielle, a explosé dans les années 1980. De fait, le tout premier congrès sur les automates cellulaires s'est également tenu à Los Alamos (quatre ans avant le congrès sur la vie artificielle), et si a donné à Langton l'occasion de faire une première incursion dans la vie artificielle, ce congrès portait principalement sur les sciences physiques. L'apparition d'une nouvelle génération d'ordinateurs à processeurs parallèles à grande vitesse a été d'une importance déterminante dans le regain d'intérêt pour les modèles à automates cellulaires dans les années 1980.25
Wolfram, come abbiamo già accennato, pone l'accento sui progetti sintetici degli automi cellulari di cui l'aspetto più importante, ai suoi occhi, consiste proprio nel fatto che la complessità del sistema non si origina dalle singole proprietà delle parti che lo costituiscono, bensì dal modo in cui queste parti interagiscono; il suo intento è quello innanzitutto di far vedere come da interazioni locali semplici possano scaturire comportamenti globali complessi. Alla luce di tutto ciò, lo studio degli automi cellulari ci permette di fare ulteriori considerazioni sul bios. La fitta rete di connessioni cellulari che caratterizza gli automi è una simulazione di due aspetti fondamentali della vita reale: il connessionismo e la moltiplicazione. La vita, infatti, oltre ad essere significato, è anche un programma distribuito legato a funzioni specifiche di auto-programmazione; in accordo a Monod, come abbiamo già visto, essa è anche un fenomeno di auto-organizzazione in vista di un telos specifico: la riproduzione. Per garantire l'auto-riproduzione von Neumann definì per l'automa cellulare un costruttore universale che fosse realizzato nell'automa tramite un insieme di celle (pattern) con valori di stato particolari ed una regola di transizione di stato per esse. Questo insieme di celle formava un automa virtuale: la griglia di celle di base consentiva di realizzare una macchina di calcolo universale capace di risolvere qualsiasi problema che fosse alla portata di un calcolatore.
4. La vita artificiale 
Dagli automi di von Neumann agli studi di Langton e di tutto il gruppo di ricerca di Santa Fé, lungo lo scorrere di questi ultimi trent'anni abbiamo assistito all'emergere di un dibattito sempre più approfondito sui temi della vita artificiale che ci permette di vedere il modo in cui il modello cellulare si realizza a livello di costruzione effettiva. Ma come è possibile che ciò avvenga?
A questo riguardo, ci sembrano rilevanti le considerazioni di Toffoli e Margulis:
Dans la mythologie grecque, c'étaient les dieux eux-mêmes qui représentaient la machinerie de l'univers. [...] Dans des conceptions plus récentes, l'univers est créé tout d'un bloc, avec ses mécanismes d'action: une fois en mouvement, il fonctionne tout seul. Dieu se trouve à l'extérieur de lui et peut prendre plaisir à le contempler.
Les automates cellulaires sont des univers stylisés, synthétiques. [...] Ils ont leur propre type de matière évoluant dans un espace et un temps qui leur sont propres. On peut en concevoir une variété stupéfiante. On peut réellement les construire et les regarder évoluer. Créateurs inexpérimentés, nous avons peu de chance de produire un univers très intéressant du premier coup; en tant qu'individus, nous avons peut-être des idées différentes sur ce qui rend un univers intéressant ou sur ce que nous pourrions vouloir faire avec. En tout cas, une fois qu'on a vu un univers d'automates cellulaires, on veut en faire un soi-même; quand on en a fait un, on veut en essayer un autre. Après en avoir fabriqué quelques-uns, on est capable d'en tailler un sur mesure dans un but particulier avec une certaine assurance.
Une machine à automates cellulaires est un constructeur d'univers. Comme un orgue, elle a des touches et des registres permettant de mettre en marche, de combiner et de reconfigurer les ressources de l'instrument. Son écran couleur est une fenêtre par laquelle on peut regarder l'univers qui est « joué ».26
In ambito scientifico, l'utilizzazione degli automi cellulari per simulare gli effetti globali non solo ha provocato una visibile trasformazione semantica dei termini «simulazione» e «modello», ma, addirittura, ha contribuito in modo determinante a modificare il senso dell'espressione «reale».27 Come hanno notato più autori, la simulazione informatica giunge a mettere in questione lo stesso concetto di realismo favorendo così la costruzione di una «realtà alternativa» che sembra essere più facilmente interscambiabile con il mondo reale. Gli automi costituiscono dei veri e propri «universi stilizzati e sintetici» in continua evoluzione, universi di cui è possibile osservare la nascita, la riproduzione ed infine la morte. Osservare la storia di un automa cellulare significa guardare una macchina in grado di costruirsi da sé, ovvero un «costruttore d'universi» capace di padroneggiare gli strumenti di cui è fornito. Alla luce di tutto ciò, attraverso lo schermo di un computer è possibile contemplare una realtà alternativa creata dall'uomo la quale, sostituendosi e confondendosi con il mondo reale, conferisce al suo costruttore una sorta di ruolo di creatore: ogni essere umano in grado di dare nascita ad un universo cellulare, infatti, gioca (joué) a tutti gli effetti un ruolo demiurgico. Lo spazio dell'uomo diviene, infatti, lo spazio stesso del possibile.
La questione che ci interessa approfondire in questa sede consiste nella stretta relazione che si instaura tra le considerazioni di Toffoli e Margulis sull'universo fisico or ora accennate e quelle di Langton concernenti la biologia. Langton fa lavorare gli automi cellulari con lo scopo di costruire un universo di esseri viventi all'interno del quale l'ultima ratio consisterebbe proprio nel creare la vita ricorrendo a strumenti del tutto nuovi e non semplicemente meccanici. Le costruzioni formali che hanno sempre svolto la funzione di modelli della vita, passano ora dalla dimensione virtuale a quella reale divenendo così «essi stessi degli esempi della vita».
La vie artificielle, a-t-il répété par la suite, est la biologie de la vie possible, c'est l'étude de systèmes fabriqués par l'homme et présentant des comportements caractéristiques des systèmes naturels vivants. Elle complète les sciences biologiques traditionnelles, qui traitent de l'analyse des organismes vivants, en tentant de produire synthétiquement des comportements semblables à la vie dans des ordinateurs et d'autres milieux artificiels. En étendant les bases empiriques sur lesquelles est fondée la biologie au-delà de la vie qui a évolué sur Terre, caractérisée par des chaînes carbonées, la Vie Artificielle peut contribuer à la biologie théorique en situant la vie-telle-que-nous-la-connaissons au sein d'un domaine plus vaste, celui de la vie-telle-qu'elle-pourrait-être.28
Il senso principale di quest'ultima espressione, ovvero «la vita tale come essa avrebbe potuto essere», a nostro avviso, mette in luce la logica autentica del bios: l'apertura al possibile. La vita è imprevedibilità e quindi novità continua, ma la frase di Langton ci permette di fare un passo ulteriore; la questione che egli pone non concerne semplicemente la possibilità da parte dell'uomo di intervenire sulla vita per modificarla, la sua prospettiva è ancor più radicale: la vita artificiale diviene la biologia della vita possibile. In altre parole si tratta di creare nuovi orizzonti in grado di completare le scienze biologiche tradizionali, lo spazio dell'immaginazione umana si trasforma nello spazio effettivo della biologia poiché c'è la possibilità di articolare un nuovo linguaggio. L'uomo si trova di fronte ad una sfida immensa, una sfida che conduce anche alla necessità di rivisitare teorie filosofiche del primo novecento come ad esempio la sintesi di Bergson in accordo alla quale, come giustamente nota Monod:
L'uomo rappresenta lo stadio supremo a cui è giunta l'evoluzione, ma senza averlo cercato o previsto: egli è piuttosto la manifestazione e la prova della totale libertà dello slancio creatore.29
Ancora una volta, l'indagine sul bios pone in stretto contatto scienza, etica ed antropologia; la prospettiva di Langton, in effetti, se apre al genere umano spazi immensi della possibilità, lo mette anche, d'altro canto, dinanzi a dei pericoli immensi (a livello ad esempio della bio-tecnologia). Con riferimento a questa prospettiva ci sia consentito concludere il presente paragrafo con la seguente annotazione: il bisogno insito nel cuore di ogni uomo di dare un volto al mistero, di spiegare e comprendere totalmente ogni enigma, nasconde in realtà, a nostro avviso, l'esigenza originaria di una risposta totale, un'esigenza che spinge ogni essere umano a scambiare la particolarità per la totalità fino all'incapacità stessa di comprendere il rapporto essenziale esistente tra mezzi e fini. È, quindi, possibile domandarsi: i pur enormi progressi della conoscenza umana a livello della biologia molecolare sono realmente in grado di «interpretare» in modo completo il linguaggio misterioso della complessità della vita? Ed inoltre, ammesso che noi in quanto uomini saremo nel futuro in grado di svelare il segreto di tale linguaggio, potremo mai divenirne dei creatori autonomi senza di nuovo cadere nella nemesi propria dell'antica Torre di Babele?
5. Verso «la sfida della Complessità» 
La principale technique de simulation de Vie artificielle est connue sous le nom d'algorithmes génétiques. La méthode des algorithmes génétiques (parfois appelés systèmes adaptatifs) a été introduite pour la première fois lors de tentatives visant à imiter l'évolution par sélection naturelle. Elle exploite les procédures des automates cellulaires en produisant des changements aléatoires (appelés mutations) dans la population des algorithmes (ou gènes) de départ, des procédures d'échange de parties d'algorithmes (appelées croisements génétiques) et un programme de langage machine qui code pour la fabrication de copies (ou reproduction) des nouveaux programmes ainsi construits. Ce programme de langage machine (ou, comme on le désigne souvent, le corps de l'organisme digital) peut être soit inséré dans le hardware de l'unité centrale de traitement de l'ordinateur, soit stocké en mémoire comme des données, pour un traitement ultérieur. Certes, la transformation effective de ces données en un organisme vivant nécessite l'activité (ou l'énergie) de l'unité centrale de traitement, mais l'important, c'est que sa forme finale est indépendante du hardware.30
Il concetto essenziale che la genomica funzionale, in continuo dialogo con le scienze sincretiche, ha mostrato è che l'insieme di interazioni cinetiche all'interno del sistema integrato della cellula determinano non solo le caratteristiche funzionali della singola componente e del sotto-sistema, ma persino quelle dell'intero organismo. Le considerazioni or ora accennate se tradotte nel nuovo linguaggio della simulazione informatica ci conducono verso degli scenari inediti:
Hayles fait à peu prés la même remarque. Elle écrit : « Ces corps d'information ne sont pas, comme les termes pourraient le suggérer, les expressions phénotypiques de codes informationnels. En réalité, les créatures sont leurs propres codes. Pour elles, le génotype et le phénotype sont une seule et même chose ; l'organisme est le code et le code est l'organisme ». De même, il est important de noter que [...] le code est considéré à la fois comme génome et programme, comme données et instructions; c'est « l'ensemble de bits qui compose le programme [qui] est le corps de l'organisme » et, en même temps, « la totalité du matériel génétique » de l'organisme (c'est-à-dire son génome). En d'autres termes, le vocabulaire biologique qu'il utilise n'établit pas que le code est le génome, que le génome est le programme et celui-ci le corps de l'organisme, il présuppose tout cela.31
La selezione entra in ballo, quindi, al livello del corpo della realtà: quello che prima era programma, ora diviene corpo biologico. Ecco dunque che il codice e il genoma costituiscono la medesima realtà; quando ciò avviene emergono fenomeni nuovi ed imprevedibili:
La question principale, dans une grande partie de la littérature, est la simulation de l'évolution par sélection naturelle. Comment les organismes numériques évoluent-ils ? L'univers dans lequel on dit qu'ils vivent est défini par l'espace de la mémoire de l'ordinateur et le temps nécessaire au traitement, et l'évolution est définie comme le processus résultant de leur compétition pour cet espace et ce temps. De même que dans le cas de la sélection naturelle agissant sur les organismes biologiques, les gagnants sont les organismes numériques qui ont les plus rapides taux de reproduction et qui, de ce fait, détiennent la plus grande patrie des ressources. Ray conclut donc : « L'évolution engendrera des adaptions permettant d'avoir un meilleur accès à ces ressources et de les employer plus efficacement ».32
Gli specialisti della vita artificiale, nell'ultimo decennio, hanno fatto convergere i loro sforzi nell'utilizzo degli algoritmi genetici (spesso in relazione con le reti neurali) per simulare l'evoluzione dei meccanismi dello sviluppo osservati negli organismi biologici. Questi studi hanno permesso ai ricercatori di abbandonare il modello della causalità e di interpretare il bios come un fenomeno emergente:
L'émergence est ici le terme opérationnel, car on considère que c'est précisément dans leur capacité à produire des formes globales précisément dans leur capacité à produire des formes globales d'une grande complexité que réside la force de ces modèles. Cependant, malgré la proximité avec les processus biologiques qu'indique tout le discours sur les génomes et les programmes, les résultats ont été jusqu'ici décevants.33
Secondo questa nuova prospettiva, dunque, la nozione monodiana di invarianza legata all'idea di programma genetico fisso ed immutabile lascia il posto a quella di emergenza, un'emergenza che appare connessa ad una continua apertura al possibile e ad un approfondimento delle radici della complessità.
Alla luce di tutto ciò, l'obiettivo dei biologi diviene quello di studiare la vita non più come semplice dato, bensì come un fenomeno emergente associato a sistemi complessi adattivi. Il tentativo di studiare l'emergenza senza cadere nei meccanismi causali ed oggettivi ha costituito, negli ultimi anni, uno degli ambiti di ricerca della Teoria della Complessità, ovvero lo studio interdisciplinare dei sistemi complessi adattivi (dai sistemi naturali non biologici fino ai sistemi biologici) e dei fenomeni emergenti (come la vita, la mente e l'organizzazione sociale) ad essi associati.34 La domanda cruciale a cui i teorici della complessità stanno tentando di rispondere concerne le caratteristiche dei sistemi or ora accennati. La risposta a questa domanda, tuttavia, attende ancora una sistemazione teorica rigorosa. In accordo con l'intuizione di Langton è possibile affermare che i sistemi adattivi di media-alta e alta complessità evolvono verso una regione intermedia tra l'ordine ed il caos: il «margine del caos». Quest'ultimo è lo stato ottimale posto tra i due estremi di un ordine rigido, incapace di modificarsi senza essere distrutto e di un rinnovamento incessante, irregolare e caotico. Cosa succede quando un sistema complesso adattivo si trova al margine del caos? Il sistema si auto-organizza. Quando avviene ciò emergono fenomeni nuovi ed imprevedibili: i fenomeni emergenti. In epistemologia un fenomeno è detto emergente se ha natura processuale, se può essere descritto utilizzando un linguaggio qualitativamente diverso da quello usato per descrivere le altre proprietà del sistema cui è associato, se il suo comportamento non è previsto dal modello del sistema e, in fine, se la sua esistenza non dipende dall'esistenza di singole componenti del sistema. La vita associata a qualsiasi sistema biologico (cellule, organi, organismi) è l'esempio per eccellenza di fenomeni che hanno tutte queste caratteristiche: il bios, infatti, costituisce una sorta di miracolo poiché il suo emergere nell'universo non è possibile se non grazie ad un aggiustamento eccezionale delle leggi fondamentali dell'universo stesso le quali oscillano verso quell'ineffabile frontiera tra l'ordine ed il caos.
Come abbiamo già accennato facendo ricorso ai testi della Keller, i teorici della complessità utilizzano come principale metodo di ricerca la simulazione su computer, ciò significa che i sistemi complessi adattivi vengono studiati mediante modelli computazionali di media complessità. Il passaggio dai sistemi complessi reali ai loro modelli computazionali comporta un'immensa diminuzione di complessità. Lo scarto di complessità tra modelli computazionali e sistemi complessi tende certamente a diminuire in virtù della costante produzione di computer e programmi di simulazione sempre più complessi; tuttavia resta il fatto che oggi la complessità dei modelli è ancora lontana da quella dei sistemi complessi adattivi. Alla luce di queste considerazioni, ci si può legittimamente domandare se sia effettivamente possibile per l'uomo «creare la vita reale». In altre parole, una creatura sintetica fisicamente realizzata come per esempio un automa cellulare, può concretamente sostituire la creatura che ha lo scopo di imitare? Fox Keller, nella parte finale del suo testo, così risponde:
Très brièvement, je dirais que même si les organismes synthétiques dans l'espace-temps physique ne sont plus des simulations informatiques, ce sont encore des simulations, bien que dans un milieu différent. Cependant, je ne crois pas du tout à une séparation irréductible entre la simulation et la réalisation. D'une part, les milieux de construction peuvent changer, et ils le feront sûrement. [...] D'autre part, on peut également s'approcher d'une convergence entre la simulation et la réalisation, entre les constructions métaphoriques et littérales, en manipulant du matériel biologique déjà existant. Par exemple, les informaticiens pourraient en venir à abandonner le projet d'une synthèse de novo d'organismes artificiels, tout comme les biologistes actuels semblent l'avoir fait. La construction de nouvelles formes de vie, dans la biologie contemporaine, procède d'une manière totalement différente, elle ne part pas des matériaux bruts fournis par le monde inorganique, mais de ceux que fournissent des organismes biologiques existants.35

Gli informatici, dunque, abbandonano la sintesi ex novo degli organismi artificiali e tentano di partire da materiali già evoluti poiché la realtà alternativa costruita dalla simulazione artificiale, attraverso modelli sempre più complessi, non può sostituire, a tutti gli effetti, il mondo reale. In linea di continuità con tale prospettiva e potendo contare sul miglioramento continuo di tecniche e tecnologie, molti studiosi di fama internazionale impegnati in centri di ricerca differenti, negli ultimi anni, hanno tentato simultaneamente di avvicinarsi al genoma minimo necessario per la vita stimato in meno di quattrocento geni circa.
Nel luglio 2007, ad esempio, Craig Venter (cofondatore della Synthetic Genomics, azienda creata per inventare organismi artificiali in grado di produrre bio-carburanti e combustibili alternativi a basso impatto ambientale) ed il suo team sono riusciti ad inserire in un microrganismo il DNA di un'altra specie. Pochi giorni dopo un gruppo di biologi del centro Enrico Fermi, coordinato da Giovanni Murtas, ha cercato di «creare» la prima cellula sintetica racchiudendo in una sfera costituita da lipidi circa quaranta geni; purtroppo, però, l'esperimento è riuscito solo in parte: tale cellula, infatti, è stata in grado riprodurre proteine fluorescenti (GFP) solo per qualche ora.
Una tappa fondamentale lungo il cammino che conduce verso la vita artificiale sembra essere stata raggiunta pochi giorni fa dallo stesso Craig Venter il quale, il 6 ottobre, ha dichiarato in un'intervista rilasciata al quotidiano britannico «The Guardian» di aver realizzato in laboratorio un cromosoma completamente artificiale. «Oltre che un traguardo scientifico», ha spiegato lo scienziato, tale scoperta «rappresenta un importante passo filosofico nella storia della nostra specie. Stiamo passando dalla capacità di leggere il nostro codice genetico alla possibilità di scriverlo. E questo ci rende ipoteticamente in grado di fare cose mai pensabili fino ad oggi.»36 Queste parole hanno dato il via ad una grande speculazione mediatica basata sull'idea inesatta secondo cui grazie alla scoperta di Venter l'uomo sarebbe finalmente in grado di creare la vita reale; a dire il vero, agli occhi della comunità scientifica (in particolare ci riferiamo ai commenti di alcuni autorevoli scienziati tra i quali spiccano A. Vescovi, G. Novelli e E. Boncinelli), quella di Venter, più che essere una scoperta, costituisce senza dubbio un'innovazione tecnologica importante, ovvero un esperimento (tra l'altro ancora da documentare scientificamente visto che all'annuncio non ha ancora fatto seguito alcuna pubblicazione scientifica) che rappresenta un'evoluzione tecnica in più e che potrebbe costituire un passo notevole verso l'esistenza artificiale. Certamente, a livello delle bio-tecnologie, l'esperimento dello scienziato statunitense può aprire interessanti orizzonti sia nell'ambito della produzione di nuovi farmaci, sia nell'ambito energetico dove potrebbe favorire la realizzazione di fonti alternative di energia prima impensabili (si potrebbero produrre batteri capaci di assorbire l'anidride carbonica in eccesso contribuendo così alla soluzione del problema del riscaldamento globale, oppure carburanti come butano e propano prodotti partendo dallo zucchero); tuttavia, nello stesso tempo, queste nuove conoscenze se utilizzate con scopi distruttivi possono condurre l'umanità verso la grande minaccia delle armi batteriologiche.37
Quello che ci interessa approfondire in questa sede, tuttavia, è la questione relativa alla possibilità da parte dell'uomo di oggi di creare effettivamente la vita reale; in tale senso l'esperimento di Venter e del su gruppo di ricerca ci spinge a riflettere perché mette in luce le possibilità e i limiti della conoscenza umana: fino a che livello, infatti, possiamo conoscere e quindi padroneggiare quel linguaggio misterioso che è dentro di noi e che ci permette di essere ciò che siamo?
Il cromosoma è quel filamento di DNA impacchettato in una struttura proteica che si trova nel nucleo delle cellule e che porta su di sé l'informazione genetica di ogni organismo, ovvero i suoi caratteri ereditari (le istruzioni che gli permettono di diventare ciò che è). Nei laboratori di Venter, un'equipe di venti scienziati capeggiata dal Premio Nobel Hamilton Smith sarebbe riuscita nell'impresa precedentemente accennata partendo da un cromosoma esistente, quello del batterio Mycoplasma genitalium. Questo batterio, che vive nelle cellule dei genitali dei primati, è una delle forme di vita più piccole che si conoscano ed ha un unico cromosoma. Proprio questo cromosoma è stato preso dagli scienziati di Venter, spogliato di un quinto delle sue caratteristiche genetiche e quindi ricostruito con sostanze di sintesi fino a farne un filamento lungo circa trecentoottantuno geni (il quale contiene cinquecentoottantamila paia di basi di codice genetico). Il cromosoma, denominato Mycoplasma laboratorium, è stato successivamente inserito nella cellula vivente di un batterio privato del materiale genetico. I ricercatori sperano che in un secondo momento il cromosoma prenda il controllo dello sviluppo di questa cellula producendo, altresì, una forma di vita parzialmente nuova.
In senso stretto l'inserimento del cromosoma all'interno di una cellula pre-esistente non è definibile come specie completamente sintetica poiché il cromosoma utilizzerebbe i sistemi biologici preesistenti per potersi replicare. In laboratorio, dunque, è stata costruita, pezzo per pezzo, una copia leggermente modificata del cromosoma dello stesso batterio. Alla luce di tutto ciò, dunque, non siamo di fronte alla creazione di una nuova vita (una sintesi ex novo di un organismo vivente), bensì, in accordo con Evelyn Fox Keller, alla ricostruzione di un organismo preesistente in natura (ovvero già evoluto) e geneticamente modificato. Questa tecnica, tra l'altro, è stata già sperimentata con successo dallo stesso gruppo di ricerca; in quel caso, però, come abbiamo già accennato in precedenza, ad essere inserito nella cellula di un batterio era il genoma naturale proveniente da un altro batterio già esistente in natura con il risultato di modificare la specie di origine della cellula. Oggi Venter ci riprova con un DNA parzialmente artificiale, ma si è detto «convinto al cento per cento che l'esperimento riuscirà.»
L'obiettivo dello scienziato statunitense è quello di riuscire a trasferire gradualmente il genoma all'interno dei batteri e studiare come i singoli geni si attivino; ciò è fondamentale per capire le funzioni delle singole porzioni di DNA e anche per stabilire il minimo genoma necessario ad attivare i primi processi vitali. Questo tipo di studio si realizza spegnendo un segmento alla volta del genoma, tuttavia è un procedimento complesso e nello stesso tempo limitante. Oggi, infatti, grazie all'importante contributo offerto dagli studiosi che si occupano di complessità, si sta assistendo all'emergenza di nuovi modelli in grado di «interpretare» il bios alla luce di una visione sistemica in cui lo schema un gene -- un enzima -- un carattere lascia il posto alla circolarità delle funzioni in grado di mutare a seconda del contesto: in tal senso le conseguenze delle operazioni del sistema sono le operazioni del sistema in una situazione di completo auto-riferimento. Applicando questo principio della teoria dei sistemi complessi in biologia, è possibile affermare che l'interconnessione degli elementi che compongono il sistema (cellula, organo, apparato, organismo) è così cruciale che si è obbligati a mettere in primo piano la loro chiusura e la loro circolarità:
In tutti questi casi ciò che avviene nel sistema è la generazione di stati di coerenza auto-determinantesi che comportano uno stato soddisfacente, in uno stesso momento, per tutte le componenti.38
Chiusura significa che il risultato di un'operazione cade ancora entro i confini del sistema stesso. In altre parole, «la chiusura di un sistema può produrre un mondo o dare senso ad un mondo».39 Ciò a livello della biologia molecolare significa che il passaggio dell'informazione dal DNA alle proteine non avviene in modo lineare ed univoco, bensì è da rintracciarsi nella circolarità del sistema; l'informazione genetica (la successione sintattica del DNA), infatti, è costantemente creata e riorganizzata non da semplici risistemazioni di elementi interconnessi, ma da una rete di funzioni di auto-programmazione sparse in tutta la cellula: ad ogni combinazione, ad ogni risistemazione delle parti corrisponde, dunque, un'organizzazione funzionale differente, ovvero un diverso significato delle relazioni che si stabiliscono fra differenti fattori. Questo concetto di auto-creazione del significato come origine dell'auto-organizzazione è stato sviluppato e approfondito in modo particolare da H. Atlan il quale nell'articolo dal titolo Complessità, disordine e auto-creazione del significato, così scrive:
L'aspetto più importante dei fenomeni di auto-organizzazione è l'auto-creazione del senso, cioè la creazione di nuovi significati nell'informazione trasmessa da una parte a un'altra parte o da un livello di organizzazione ad un altro livello di organizzazione. Senza la creazione di nuovi significati avremmo a che fare con ricombinazioni che non sarebbero in grado di portare all'apparizione di nuove funzioni, di nuovi comportamenti.40
Stando così le cose, il significato in biologia costituisce quel vero e proprio mistero invisibile che, celandosi dietro l'informazione genetica, crea costantemente ogni novità e differenza. Alla luce di tali considerazioni, pertanto, appare evidente come Venter abbia senza ombra di dubbio compiuto un passo in avanti molto importante in seno all'ingegneria genetica, ma per andare oltre, ovvero per parlare di vita artificiale servono delle conoscenze tecnologiche e scientifiche che la specie umana attualmente non possiede. Per tali ragioni, i pur enormi progressi della conoscenza umana a livello della biologia molecolare, al momento, non sono in grado di comprendere l'enigmatico linguaggio della vita: traccia di una diacronia irrappresentabile che sfugge costantemente ad ogni tentativo umano di determinazione completa. Questa dimensione antinomica del limite in cui la scienza entra in contatto con quello che alcuni filosofi definiscono come il precategoriale è descritta, in modo impeccabile, da Monod che, nel suo volume, introduce, così, il capitolo dedicato alle frontiere della conoscenza:
Quando si pensa al lunghissimo cammino percorso dall'evoluzione da forse tre miliardi di anni, alla prodigiosa varietà delle strutture che essa ha creato, alla miracolosa efficacia delle prestazioni degli esseri viventi, dal batterio all'uomo, diventa spontaneo dubitare che tutte queste manifestazioni possano essere il risultato di una gigantesca lotteria in cui vengono tirati a sorte dei numeri tra i quali una cieca selezione designa rari vincenti.41
Più avanti il grande biologo francese aggiunge:
Si potrebbe pensare che l'aver scoperto i meccanismi universali su cui si basano le proprietà essenziali degli esseri viventi abbia permesso di risolvere il problema delle origini. In realtà tali scoperte, presentando sotto nuova luce tutta la questione, oggi posta in termini molto più precisi, l'hanno resa ancor più complessa di quanto non sembrasse prima.»42
Teleonomia, morfogenesi autonoma e invarianza riproduttiva, quindi, sono tre manifestazioni distinte di un'«essenza» che, ad un'indagine diretta, permane densa di mistero.
In questo senso, ci sia consentito di chiudere il presente lavoro individuando in Immanuel Kant il primo grande studioso che ha tentato di porre in termini non metafisici il problema della natura umana scindendo, altresì, la caratteristica principale del bios (e quindi degli organismi viventi) da qualsiasi nozione metafisica della vita (si consideri a riguardo l'interessante prospettiva di Tommaso D'Aquino circa I tre gradi d'immanenza di un'operazione vitale).43 Il grande genio del settecento, infatti, prendendo le distanze in modo esplicito dall'idea di disegno, ha il merito di aver distinto nettamente l'auto-organizzazione, caratteristica fondamentale del bios, da qualsiasi altra causalità: «Un prodotto organizzato della natura è quello in cui tutto è scopo e vicendevolmente anche mezzo. Niente in esso è gratuito, senza scopo, o da ascrivere ad un cieco meccanismo della natura.»44 «In un tale prodotto della natura ogni parte, così come c'è soltanto mediante tutte le altre, è anche pensata come esistente in vista delle altre e del tutto, vale a dire come strumento [...] Solo allora e per ciò un tale prodotto potrà essere detto, in quanto essere organizzato e che si auto-organizza, uno scopo naturale.»45
Alla luce di tutto ciò, gli organismi viventi non possono essere considerati, quindi, come meri «spettatori» del mondo, bensì come «attori-costruttori» che, in continuo rapporto con l'ambiente, trasformano se stessi creando così sempre nuovi significati.

 


Note
1.          In particolare ci riferiamo ai seguenti volumi: Crick, F., L'origine della vita, Garzanti, Milano 1983; Jacob, F., Il gioco dei possibili, Mondadori, Milano 1983; Monod, J., Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1970. 
2.          Monod, Il caso e la necessità, p. 15-16. 
3.          Ibidem, p. 19. 
4.          Ibidem, p. 82. 
5.          Ibidem, p. 90. 
6.          Keller, E. F., Il secolo del gene, Garzanti, Milano 2001, p. 27. 
7.          Ibidem, p. 9. 
8.          Ibidem, p. 56. 
9.          Ibidem, p. 96. 
10.        Brooks, R. A., «Elephants don't play chess», Robotics and autonomous systems, 6, (1990) p. 3-13. 
11.        Keller, Il secolo del gene, p. 97. 
12.        Ibidem, p. 99-100. Cors. nostro. 
13.        Ibidem, p. 98. 
14.        Abelson, H. et A., «Amorphous computing», White Paper, MIT. http://swiss.csail.mit.edu/projects/amorphous/papers/aim1665.pdf, 1999. 
15.        Ivi. 
16.        Keller, Il secolo del gene, p. 101. 
17.        Ibidem, p. 102. 
18.        Ibidem, p. 103. 
19.        Keller, E. F., Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, Gallimard, Janvier 2005, p. 291. 
20.        Langton, C. J., «Studying artificial life with cellular automata», Physica, 22D, 1986, p. 120-149. 
21.        Ivi. 
22.        Keller, Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, p. 292. 
23.        Wolfram, S., «Theory and application of cellular automata», World Scientific, Singapore 1986 (ed.). 
24.        Keller, Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, p. 293. 
25.        Ibidem, p. 295. 
26.        Toffoli, T. et N., Margulis, «Cellular automata machines: a new environment for modeling», MIT. Press, Cambridge 1987. 
27.        Keller, Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, p. 295-296. 
28.        Langton, C. J., «Studying artificial life with cellular automata», Physica, 22D, 1986, p. 120-149. 
29.        Monod, Il caso e la necessità, p. 29. 
30.        Keller, Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, p. 302-303. 
31.        Ibidem, p. 304. 
32.        Ibidem, p. 304-305. 
33.        Ibidem, p. 306. 
34.        Per un'introduzione allo studio della Teoria della Complessità, qui solo accennata, si veda: Prigogine, I., La complessità. Esplorazioni nei nuovi campi delle scienze,Einaudi, Torino 1991; Prigogine, I. e I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1993; Atlan, H.,(1992), «Self-organizing networks: weak, strong and intentional, the role of their underdetermination», La Nuova Critica, 19-20, p.51-71; Carsetti, A. (1993), «Meaning and Complexity: the role of non standard models», La Nuova Critica, 22, p. 57-86; Carsetti, A., «Randomness, Information and Meaningful Complexity: Some Remarks About the Emergence of Biological Structures», La Nuova Critica, 36 (2000): 47-128; Carsetti, A., «La filosofia della scienza di fronte alla sfida della complessità», in Caos Ordine Complessità, I quaderni dell'I.P.E., Cur. G. Del Re, E. Mariani, Napoli 1993; Carsetti, A., «Dalla Cibernetica alla Teoria della Complessità: il percorso intellettuale di Valerio Tonini», in Visione del mondo nella storia e nella scienza, I quaderni dell' I.P.E., Cur. E. Mariani, Napoli 1998; Carsetti, A., «Semantic Information and Biological Funtions », T. R., Rome (at press); Brocchi, G. e M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007. 
35.        Keller, Expliquer la vie. Modèles, métaphores, et machines en biologie du développement, p. 313-314. 
36.        Saturday October 6 2007, The Guardian: «I am creating artificial life, declares US gene pioneer.» Disponibile all'indirizzo http://guardian.co.uk/science/2007/oct/06/genetics.climatechange/. 
37.        Ci riferiamo all'intervista del 7 ottobre 2007 rilasciata da Angelo Vescovi a Il Giornale.it: «Così è stato fatto un passo verso l'esistenza artificiale» di Enza Cusmai. Disponibile all'indirizzo http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=211359. 
38.        Varela, J. F. (1985), «Complessità del cervello e autonomia del vivente», in Bocchi e Ceruti, (a cura di) La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007, p.123. 
39.        Ibidem, p. 129 
40.        Atlan, H. (1985), «Complessità, disordine e auto-creazione del significato», in Bocchi e Ceruti, (A cura di) La sfida della complessità, Mondadori, Milano 2007, p.143. 
41.        Monod, Il caso e la necessità, p. 127. 
42.        Ibidem, p. 128 
43.        Tommaso D'Aquino [S. Th.]. Summa Theologiae, a cura di Caramello P., Torino 1952-56. [I, 18, 3c]. 
44.        Kant, I., Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, p. 209-210. 
45.        Ibidem, p. 207. 
Mirko Di Bernardo
Verso una fondazione naturalistica delle pre-condizioni dell'etica: semantica molecolare ed intenzionalità nei sistemi viventi
1. Agenti autonomi ed auto-catalisi 
In Esplorazioni Evolutive, testo pubblicato nel 2000 dopo una faticosa gestazione durata quattro anni, Stuart Alan Kauffman, uno dei padri della teoria della complessità biologica contemporanea, mostra l'esito di una ricerca serendipica con un cospicuo numero di risultati sorprendenti. Si tratta di un'opera realmente esplorativa, piena di ipotesi di lavoro euristiche, talvolta feconde talvolta destinate al fallimento la cui argomentazione è, a tratti, oscura ed enigmatica, ma da cui traspaiono, senza ombra di dubbio, sia la passione per la ricerca della verità che l'attaccamento ad alcune tracce di lavoro promettenti. Rispetto agli anni di massimo fervore intellettuale del «pensatoio interdisciplinare» formatosi attorno al Santa Fe Institute durante i quali hanno visto la luce The Origins of Order e A casa nell'universo; rispetto, cioè, a quella temperie scientifica di fine novecento dove tutto sembrava possibile (scoprire la quarta legge della termodinamica per i sistemi aperti in non equilibrio, tracciare una teoria unificata dell'universo, decifrare le leggi senza tempo della biologia universale) e dove la Scienza della Complessità gettava ponti tra domini diversi della fisica, fra la Cibernetica e la teoria dell'informazione, nonché fra matematica, scienze biologiche, economia, psicologia e politica; Esplorazioni evolutive, rispetto a quell'epoca pionieristica, «rappresenta al contempo la chiusura di una trilogia e l'apertura di nuove possibilità, mosse dallo stesso stupore sincero, quasi fanciullesco degli esordi».1 Il grande biochimico americano, infatti, nelle sue esplorazioni cerca di dar vita ad un'ermeneutica dell'evoluzione che spieghi la logica costruttivista del vivente, una logica, vale a dire, che deriva dalla selezione naturale, dall'auto-organizzazione e da altri principi che tutt'ora restano incomprensibili. «La cosa strana della teoria dell'evoluzione è che tutti credono di conoscerla. Com'è vero! Essa sembra, naturalmente, così semplice. I fringuelli zampettano sulle Galapagos e migrano occasionalmente di isola in isola; becchi grandi e becchi piccoli sono utili per semi differenti; i becchi che si adattano ai semi nutrono i piccoli; i becchi di giusta foggia vengono favoriti dalla selezione; le mutazioni sono la riserva di variazioni ereditabili in una popolazione; le popolazioni si evolvono per mutazione, accoppiamento, ricombinazione e selezione per dar vita a quelle varietà ben demarcate che, per Darwin, sono nuove specie. Filogenesi a cespuglio nella biosfera. «Siamo qui, siamo qui!», ognuna grida la sua presenza che data a quattro milioni di anni in uno spettacolo all'aperto che si replica da quattro miliardi di anni. «Siamo qui!». Ma come? Come, in molti sensi. Innanzitutto, la teoria dell'evoluzione di Darwin è una teoria della discendenza con modificazioni. Essa finora non ha spiegato la genesi delle forme, ma la rifinitura delle forme, una volta che sono state generate. «Un po'come ottenere un melo potando tutti i rami», citando uno scettico di fine Ottocento. Come, nel senso più fondamentale: da dove è scaturita la vita per la prima volta? Darwin prende le mosse da una vita già presente. Da dove ha origine la vita è la sostanza di tutte le domande successive sull'origine e sul vaglio delle forme. [...] La cosa strana della teoria dell'evoluzione è che tutti credono di conoscerla. Ma non è così. Una biosfera, o un'econosfera, si costruiscono in modo auto-consistente secondo principi che ancora non sappiamo spiegare.»2 Questi esercizi di biologia teorica, dunque, si pongono un obiettivo molto ambizioso: andare alle radici della definizione del vivente. Così, il nume che lo studioso invoca, è il padre della meccanica quantistica, ovvero E. Schrödinger ed in particolare il suo capolavoro del 1943 dal titolo Che cos'è la vita? . In quel testo il grande fisico suggerì di non ridurre la vita alla fisica, ma di pensare ad una nuova fisica capace di spiegare l'organizzazione propagante della biosfera e dell'universo, ovverossia l'incessante produzione coevolutiva di nuova diversità e nuova complessità di cui solo la vita è capace. «Erwin Schrödinger [...] nel corso delle lezioni magistrali che tenne a Dublino, creò lo scenario della biologia contemporanea. [...] Nessuno però, neanche lo stesso Schrödinger, avrebbe potuto prevederne le conseguenze. Al suo libro, Che cos'è la vita? , si ascrive il merito di aver ispirato una generazione di fisici e di biologi alla ricerca della natura fondamentale dei sistemi viventi. Fu Schrödinger infatti a introdurre in biologia la meccanica quantistica, la chimica ed il concetto di informazione, formulato quest'ultimo in forma ancora embrionale. Egli fu l'antesignano della nostra conoscenza del DNA e del codice genetico. Eppure, per quanto geniale sia stata la sua intuizione, io credo che abbia mancato il bersaglio. Esplorazioni Evolutive punta proprio a quel bersaglio, ma trova in realtà un enigma.»3 Nei due libri precedenti, il grande studioso americano aveva messo in rilievo alcune ragioni crescenti per ritenere che l'evoluzione fosse più ricca persino di quanto avesse immaginato Darwin. La moderna teoria dell'evoluzione, basata sul concetto di discendenza con variazioni ereditabili filtrate dalla selezione naturale per conservare i cambiamenti adattativi, è giunta a ritenere la selezione come l'unica fonte di ordine nella biosfera. Ciò nonostante, la delicata simmetria esagonale di un fiocco di neve testimonia, secondo Kauffman, il fatto che l'ordine può emergere anche senza il contributo della selezione. «The Origins of Order e A casa nell'universo, i miei due libri, avanzano ragioni valide per ritenere che una buona parte dell'ordine negli organismi -- dall'origine stessa della vita all'incredibile ordine nello sviluppo di un neonato a partire da un uovo fecondato -- non sia il riflesso della sola selezione. Piuttosto, io credo, buona parte di tale ordine è auto-organizzato e spontaneo. L'auto-organizzazione si mescola con la selezione naturale secondo modalità poco chiare e produce la nostra pullulante biosfera in tutto il suo splendore. La teoria dell'evoluzione deve perciò essere ampliata. Ma ci serve qualcosa di ben più importante di una teoria dell'evoluzione ampliata. Pur con tutte le valide intuizioni nei miei due libri precedenti, e con l'ottimo lavoro di molte altre persone -- incluso il fulgore evidente della biologia molecolare degli ultimi trent'anni -, il cuore della vita stessa è rimasto come nascosto dietro ad un velo. Noi conosciamo frammenti della meccanica molecolare, dei percorsi metabolici, degli strumenti di biosintesi delle membrane. Insomma, conosciamo molte parti e molti processi. Eppure non ci è ancora chiaro che cosa fa di una cellula qualcosa di vivente: il bersaglio è ancora avvolto nell'ombra.»4 Ritorniamo per un momento alle illuminanti intuizioni di Schrödinger ed al suo tentativo di dare una definizione cardinale della vita. Che cos'è la vita? ha fornito una risposta sorprendente alla sua indagine relativa all'essenza del bios, ponendo una questione rilevante: da dove deriva lo straordinario ordine negli organismi? La risposta classica (per Schrödinger erronea) risiedeva nella fisica statistica. Se si sospende una goccia di inchiostro nell'acqua immobile di una capsula di Petri, per esempio, essa si diffonderà raggiungendo all'equilibrio una distribuzione uniforme, che costituisce una media ricavata da un numero enorme di atomi o di molecole, e non è attribuibile al comportamento di singole molecole: qualsiasi fluttuazione locale della concentrazione di inchiostro, infatti, presto si dissipa per ritornare all'equilibrio. Schrödinger basò il suo ragionamento sulla genetica sperimentale e sui dati relativi all'induzione attraverso raggi X di mutazioni genetiche ereditabili. Così, calcolando «la dimensione del bersaglio» di tali mutazioni, egli capì che un gene poteva includere poche migliaia di atomi.5 Si consideri, per esempio, il lancio, 10000 volte, di una moneta regolare. Il risultato sarà 50% testa e 50% croce con una fluttuazione di circa 100, ovvero la radice quadrata di 10000. Una tipica fluttuazione da testa e croce 50: 50, perciò, sarà pari a 100/10000, ovvero all'1%. Si immagini ora che il numero dei lanci sia 100 milioni: le sue fluttuazioni saranno la sua radice quadrata, cioè 10000. Se si effettua la divisione, 10000/10000000 produce una tipica deviazione, pari allo 0. 01%, dal rapporto 50: 50. «Schrödinger era pervenuto alla conclusione corretta: se i geni sono costituiti da diverse centinaia di atomi appena, le fluttuazioni statistiche familiari previste dalla meccanica statistica sarebbero così ampie che l'ereditabilità sarebbe pressoché impossibile. Le mutazioni spontanee si verificherebbero con una frequenza enormemente più grande di quella osservata. La fonte di ordine deve risedere altrove. La meccanica quantistica, sosteneva Schrödinger, viene in soccorso alla vita. Essa assicura che i solidi abbiano strutture molecolari rigidamente organizzate, e un cristallo ne è il caso più semplice. Ma i cristalli sono strutturalmente monotoni: i loro atomi sono disposti su una griglia tridimensionale regolare. Se conosciamo la posizione di tutti gli atomi in un'unità minima di cristallo, sapremo dove si trovano tutti gli altri atomi dell'intero cristallo. E'un po'un'esagerazione, poiché vi possono essere difetti complessi. Il punto però è chiaro: i cristalli possiedono strutture molto regolari, e dunque le loro differenti parti diranno in un certo senso tutte la stessa cosa. [...] Schrödinger tradusse l'idea del «dire» nell'idea del «codificare».»6 Compiuto quel salto, però, un cristallo regolare non può «codificare» molta «informazione» poiché quest'ultima è già contenuta interamente nella cellula unitaria. Così, se i solidi hanno l'ordine richiesto ma i solidi periodici come i cristalli sono troppo regolari, l'attenzione del grande fisico si concentra allora sui solidi aperiodici: «Una piccola molecola potrebbe dirsi «il germe di un solido». Prendendo le mosse da un tale piccolo germe solido, sembrano esservi due diversi modi di fabbricare assiemi di atomi sempre più vasti. Uno è quello relativamente monotono di ripetere all'infinito la stessa struttura nelle tre direzioni. Questo è quello che si realizza nell'accrescimento dei cristalli. Una volta che la periodicità è stabilita non vi è un limite definito alle dimensioni dell'aggregato. L'altro modo è quello di costruire un aggregato sempre più esteso, senza ricorrere al banale espediente della ripetizione. Questo è il caso delle molecole organiche via via più complicate, nelle quali ogni atomo ed ogni gruppo di atomi ha una funzione particolare, non interamente equivalente a quella di molti altri (come avviene in una struttura periodica). Potremmo, in modo proprio, chiamare una tale struttura un cristallo o solido aperiodico ed esprimere la nostra ipotesi con le parole: noi riteniamo che un gene, o forse l'intera fibra cromosomica, sia un solido aperiodico.»7 La forma dell'aperiodicità, inoltre, conterrà una sorta di codice microscopico che in qualche modo controlla lo sviluppo dell'organismo: «Ci siamo spesso chiesti come mai questa insignificante particella di materia, il nucleo dell'uovo fecondato, possa contenere tutto un elaborato codice che riguarda tutto il futuro sviluppo dell'organismo. Una ben ordinata associazione di atomi dotata di sufficiente stabilità per mantenere il suo ordine in permanenza, sembra essere l'unica struttura materiale concepibile, che offra una varietà di possibili riordinamenti (isomerici) sufficientemente grande da racchiudere un complicato sistema di «predeterminazioni» entro un volume spaziale piccolo. Infatti, non è necessario che il numero di atomi in una struttura di questo genere sia molto grande, per dar luogo ad un numero di possibili ordinamenti diversi, praticamente illimitato. Considerate a titolo d'esempio, il Codice Morse. I due diversi segni, il punto e la linea, in gruppi ben ordinati di non più di quattro, permettono di ottenere una trentina di differenti specificazioni. Ora, se vi permettete l'uso di un terzo segno, oltre al punto e alla linea e fate uso di gruppi di non più che dieci segni, potete formare 88. 572 differenti lettere; con cinque segni e gruppi fino a venticinque, il numero è 372. 529. 029. 846. 191. 405. [...] Naturalmente, nel caso reale, è chiaro che non ogni disposizione del gruppo di atomi rappresenterà una possibile molecola; inoltre, la questione non è quella di adottare un codice arbitrario, poiché il codice stesso deve essere il fattore operante che porta innanzi lo sviluppo. Ma, d'altra parte, il numero da noi scelto nell'esempio [...] è ancora molto piccolo e abbiamo inoltre tenuto conto soltanto della semplice disposizione dei segni lungo una linea. Ciò che desideriamo porre in rilievo è soltanto il fatto che con il modello molecolare di un gene non è più inconcepibile che il codice in miniatura venga esattamente a corrispondere ad un complicatissimo e specificato piano di sviluppo ed in qualche modo contenga i mezzi per realizzarlo.»8 Il carattere quantistico del solido aperiodico sta a significare che si verificheranno piccoli cambiamenti discreti: le mutazioni. Infine, la selezione naturale, agli occhi del grande fisico, operando su questi piccoli cambiamenti discreti, selezionerà le mutazioni favorevoli secondo il modello divisato da Darwin: «Concesso che si debbano spiegare le rare mutazioni spontanee per mezzo delle fluttuazioni casuali dell'agitazione termica, non dobbiamo troppo stupirci del fatto che la natura sia riuscita a fare una così oculata scelta dei valori di soglia da rendere le mutazioni un evento raro. Infatti siamo arrivati precedentemente alla conclusione che mutazioni frequenti sono dannose all'evoluzione. Individui che, per mutazione, acquistano una configurazione genica di insufficiente stabilità avranno poca probabilità di vedere la loro discendenza, «ultraradicale» e rapidamente mutante, sopravvivere a lungo. La specie si libererà di essi e presceglierà così, per selezione naturale, dei geni stabili.»9 Alla luce di quanto detto sinora, dunque, Kauffman così scrive: «A cinquant'anni di distanza, trovo che il ragionamento di Schrödinger sia affascinante e brillante. In un colpo solo, egli concepì quella che nel 1953 sarebbe diventata la chiarificazione della struttura della doppia elica del DNA da parte di James Watson e di Francis Crick, con una considerazione nel loro articolo originale che, come è noto, è stata minimizzata: cioè che la struttura del DNA suggerisce il suo modo di replicarsi e il suo modo di codificare l'informazione genetica. A cinquant'anni di distanza sappiamo moltissime più cose. [...] Ci siamo avvicinati al sogno di Schrödinger. Ma siamo anche più vicini a rispondere alla domanda «che cos'è la vita?» La risposta, quasi certamente, è no. Io non sono nella condizione di affermare così su due piedi perché lo penso, ma posso abbozzare una spiegazione. Esplorazioni Evolutive è la ricerca di una risposta. [...] I sentieri lungo cui ho proceduto con passo malfermo, intravedendo una possibile terra inesplorata, mi sembra meritino davvero una presentazione e una considerazione serie. Con mio grande stupore, la storia che qui si dispiegherà suggerisce una risposta nuova alla domanda «che cos'è la vita?» Risposta di cui non mi aspettavo nemmeno un abbozzo e ancora mi sorprendo per essere stato guidato verso queste direzioni inattese. Una direzione suggerisce che una risposta potrebbe richiedere un cambiamento fondamentale nel modo in cui pratichiamo la scienza fin dai tempi di Newton. La vita sta facendo qualcosa di assai più ricco di tutti i nostri possibili sogni, qualcosa di letteralmente incalcolabile. Quale è il ruolo di una legge se, come abbiamo accennato, le variabili e lo spazio delle configurazioni di una biosfera, o magari di un universo, non possono essere specificati? Eppure, io credo che esistano leggi. E se queste mie meditazioni sono vere, allora è la scienza in sé che dobbiamo ripensare.»10 Siamo, dunque, di fronte ad un libro di maturazione intellettuale ed umana, ovvero al compimento di un lungo percorso che ha condotto il grande biochimico verso il nucleo dell'attuale teoria della complessità biologica: l'agente autonomo, ovvero l'unità di base di una biologia generale indipendente dal supporto, definito come «un sistema auto-riproduttivo capace di eseguire almeno un ciclo di lavoro termodinamico.»11 Si consideri un batterio che nuota controcorrente in un gradiente di glucosio sfruttando il suo motore flagellare rotativo. Se ci si domanda cosa effettivamente stia facendo, è possibile rispondere senza esitazione che «sta andando a procurarsi da mangiare». Ciò, agli occhi di Kauffman, significa che, pur senza attribuirgli una coscienza o una finalità cosciente, risulta possibile concepire il batterio come «agente a proprio vantaggio in un ambiente»: esso, infatti, sta nuotando controcorrente per ottenere il glucosio di cui necessita. Ebbene, quei batteri che raggiungono effettivamente il glucosio, o il suo equivalente, possono sopravvivere con più probabilità rispetto a quelli che non riescono ad usufruire dello stratagemma motorio flagellare; la selezione naturale, pertanto, li selezionerà positivamente. «Un agente autonomo è un sistema fisico come lo è il batterio, che può agire a proprio vantaggio in un ambiente. Tutte le cellule dotate di vita autonoma e gli organismi sono chiaramente agenti autonomi. Il carattere quasi familiare, ma del tutto straordinario, degli agenti autonomi -- Escherichia coli, e parameci, cellule del lievito e alghe, spugne e platelminti, anellidi e ognuno di noi -- è la capacità che abbiamo di manipolare ogni giorno il mondo circostante: noi nuotiamo, strisciamo, ci attorcigliamo, costruiamo, ci nascondiamo, annusiamo e ghermiamo. [...] Il nostro batterio con il suo motore rotativo flagellare che nuota controcorrente verso la sua cena è, come puro fatto, un sistema molecolare auto-riproduttivo che segue uno o più cicli di lavoro termodinamici. E lo è il paramecio che insegue il batterio augurandosi la propria, di cena. E altrettanto lo è il dinoflagellato a caccia del paramecio che tende un agguato al batterio. [...] Ci vorrà del tempo per esplorare a fondo questa definizione. Spiegarne minutamente le implicazioni rivela molte cose che nemmeno lontanamente avevo previsto. Una prima intuizione è che un agente autonomo deve essere allontanato dall'equilibrio termodinamico perché i cicli di lavoro non possono verificarsi all'equilibrio. Il concetto di agente è dunque di per sé un concetto di non equilibrio. In esordio, è anche chiaro che questo nuovo concetto di agente autonomo non è contenuto nella risposta di Schrödinger. Il suo brillante salto concettuale ai solidi aperiodici codificanti l'organismo, che spiegò le ali alla biologia di metà Novecento, sembra essere soltanto lo sprazzo di una storia ben più grande.»12 A dire il vero, a questo stadio la definizione provvisoria di Kauffman non è circolare, poiché «riproduce se stesso» e «ciclo di lavoro» li possiamo definire indipendentemente. Ma quando, nei prossimi paragrafi, scaveremo più a fondo nel concetto di agente autonomo, sorgeranno definizioni circolari relative a «lavoro», «lavoro propagante», «vincoli», «organizzazione propagante» e «compito». L'obiettivo del grande studioso consiste, dunque, nel mettere in luce come il circolo definizionale sia virtuoso e quindi foriero di una nuova comprensione del concetto di «organizzazione» in sé. In breve, sviscerare questa definizione ci condurrà in un territorio misterioso. In parte, l'enigma riguarda la risposta ad un interrogativo preciso: quale è la forma matematica opportuna per descrivere un agente autonomo? Si tratta di un numero, e quindi di uno scalare? Di un elenco di numeri, e quindi di un vettore? Di un tensore? Secondo Kauffman la risposta è negativa poiché quello di agente autonomo è un concetto relazionale. Le cellule viventi, infatti, appaiono ineluttabilmente come totalità organizzate. Una cellula non è un singolo tipo di molecola che replica se stessa, bensì una ricca trama di eventi molecolari mediante i quali quella totalità propaga «riduzioni approssimative di se stessa». Esiste poi il metabolismo, vi è l'attività di comprensione, traduzione ed innovazione di diversi linguaggi che interagiscono incessantemente tra loro come, ad esempio, quello del DNA, quello relativo ai vari RNA ed infine quello delle proteine dove il codice stesso è mediato dagli enzimi di attivazione (aminoaciltrasferasi) che caricano sulle opportune molecole di tRNA gli aminoacidi corretti al fine di tradurre il codice, un codice, vale a dire, capace di creare gli enzimi aminoaciltrasferasi stessi. Nella cellula, inoltre, c'è il «fruscio» di energia che fluisce simultaneamente dentro, e attraverso, quelle che potremmo definire come vie labirintiche principali e secondarie che collegano la degradazione di fonti a elevata energia alla sintesi di prodotti che richiedono l'aggiunta di energia libera. «Una cellula vivente è, a un esame, [...] un sistema collettivamente auto-catalitico. Nessuna specie molecolare da sola produce copie di se stessa. Che cos'è questa totalità? E poi, l'olismo è necessario? Di che cosa necessita quell'intricata trama della rete molecolare che appare come l'anima stessa di una cellula? In qualsiasi teoria dei geni nudi replicanti, come la concezione standard di un polinucleotide replicante, sia esso senza enzimi oppure una RNA polimerasi alla Szostak che bisbiglia felicemente tra sé e sé, «AAUGGCCAAUCCCC... .», la virtù è nell'apparente semplicità dei primi passi della vita. Fate sì che la nuda molecola capace di replicare se stessa esista e altrove prenderà forma una biosfera. Rimane però irrisolta la questione dell'origine della trama olistica di una cellula e, faccenda più critica, se la rete è essenziale. Mi spiego. I sistemi viventi autonomi più semplici, i pleuromonia (PPLO), una specie batterica semplificata che infesta i polmoni delle pecore, già possiedono una membrana, un DNA, un codice, forse trecento geni assortiti, un congegno per la trascrizione e la traduzione, un metabolismo e un collegamento dei flussi di energia verso e attraverso l'interno. Un pregio della teoria del gene nudo è l'origine semplice della vita. Un suo difetto è che non sa rispondere alla domanda: perché le cellule libere hanno una complessità apparente minima? Suppongo che una complessità minima sia reale. Assemblare una varietà sufficiente di funzioni molecolari che lavorino di concerto dando vita a una creatura essenziale, capace di riprodursi e di evolvere verso una complessità superiore, potrebbe richiedere una complessità minima. Evolversi da un simile antenato comune verso la complessità crescente di una biosfera potrebbe richiedere una varietà di funzionalità iniziali. Tant'è che persino il matematico J. von Neumann ritenne anni addietro che una complessità minima sia necessaria per creare un sistema capace di riprodursi e di arricchire quella complessità.»13 La forza della teoria degli insiemi auto-catalitici, così come divisata da Kauffman, risiede proprio nel fatto di condurre naturalmente ad attenderci un ineluttabile olismo di complessità minima: «In un insieme autocatalitico tutte le molecole la cui formazione deve essere catalizzata trovano all'interno dell'insieme medesimo la specie molecolare che catalizza le reazioni della loro formazione. Tutte le funzioni catalitiche vengono svolte di modo che l'insieme sia collettivamente autocatalitico. Non si tratta di un olismo mistico, ma di una proprietà reale, osservabile, di un insieme di molecole collettivamente autocatalitico. La nuova radicale concezione della vita cui aderisco è che la vita si fondi su un insieme di molecole collettivamente autocatalitico, e non sulla replicazione a stampo in sé. [...] Da quando Watson e Crick hanno scoperto la simmetria dello stampo del DNA a doppia catena, tutti hanno compreso come una molecola copia se stessa. Ma le proteine? Questa classe di molecole si ripiega in compatte strutture tridimensionali, l'emoglobina per esempio. Come potrebbe un meccanismo copiare quella struttura? Ebbene, risulta difficile se lo scopo è copiare la struttura dell'emoglobina in un unico passaggio. Ma se vengono saldate sottosequenze della proteina e si costruisce l'intera sequenza da suoi frammenti? E che dire della possibilità concettuale di un insieme collettivamente autocatalitico basato interamente su proteine che catalizzano reciprocamente la propria formazione attraverso una qualche stima di reazioni di saldatura?»14
M. R. Ghadiri e colleghi hanno realizzato la prima stupefacente scoperta in questo senso. Nell'articolo del 1996 dal titolo: A self-Replicating Peptide, infatti, questi chimici operanti allo Scripps Research Institute hanno pubblicato il primo esempio di proteina auto-riproduttiva. L'esperimento è stato il seguente. Sia A una sequenza lunga 32 aminoacidi la quale catalizza la formazione di una copia di se stessa allineando e saldando due propri frammenti. La sequenza di 32 aminoacidi si ripiega in un Ü-elica, che a sua volta si ripiega su se stessa creando una struttura a superelica. Ghadiri ha congetturato che, ripiegandosi l'Ü-elica su se stessa e legandosi perciò a se stessa, la medesima sequenza poteva legare due propri frammenti. Per fornire l'energia utile a guidare la formazione del legame peptidico tra i frammenti adiacenti, lo studioso è ricorso ad uno stratagemma chimico: ha fatto sì che un primo frammento fosse elettrofilo (E) e un secondo nucleofilo (N). Il grande chimico, inoltre, ha definito templato (T) il peptide a 32 aminoacidi. A questo punto abbiamo che T allinea E ed N adiacenti a se stesso e catalizza la saldatura di E e di N, creando una seconda copia di T.15 L'esperimento è riuscito brillantemente. Ghadiri e colleghi hanno dimostrato che la vita potrebbe essere basata solo su proteine. Ebbene, lo stesso gruppo di studiosi, in un lavoro successivo ha creato un «brodo» composto da peptidi T, E ed N simili. Qui, un templato specifico T1 poteva catalizzare non solo la saldatura di E1 e di N1 formando così una seconda coppia di T1, bensì poteva anche catalizzare la saldatura di E2 e di N2 per formare T2. A sua volta, T2 poteva agire non solo su E2 ed N2, ma anche su N1 ed E1, o su altre combinazioni di frammenti E ed N.16 Alla luce di quanto detto sinora, dunque, Kauffman così scrive: «Riassumendo, tra le possibilità già dimostrate vi sono reti di reazioni di modesta complessità, costituite da peptidi auto-catalitici e a catalisi incrociata. Per esempio A potrebbe catalizzare la propria formazione come pure la formazione di B, mentre B potrebbe catalizzare la propria, di formazione, e anche quella di A, in una struttura catalitica che nel 1977 il premio Nobel Manfred Eigen ha definito con Peter Schuster iperciclo. Ghadiri e collaboratori hanno pubblicato il primo esempio di iperciclo peptidico. Una rete collettivamente autocatalitica, dove A e B catalizzano mutuamente la propria formazione, ma né A né B lo fanno direttamente, non è ancora stata ottenuta, ma lo sarà presumibilmente in un futuro prossimo. [...] Gli esperimenti di Ghadiri aprono la strada al lavoro su sistemi molecolari auto-riproduttivi in reti complesse di reazioni chimiche dove i substrati e i prodotti sono tutti peptidi. Il campo della diversità molecolare, vale a dire la generazione di trilioni di sequenze più o meno casuali di DNA, di RNA e di proteine, significa che possiamo creare reti di reazioni complesse a volontà. Poiché DNA, RNA e proteine possono tutti legarsi a, e presumibilmente anche a catalizzare, reazioni che coinvolgono altre classi di polimeri, nulla impedisce di andare a caccia di sistemi auto-catalitici e collettivamente autocatalitici di DNA, di RNA e di specie proteiche, tutti insieme. [...] Se Ghadiri può costruire un peptide autocatalitico o una rete di reazioni peptidiche collettivamente autocatalitica, non possono tali sistemi assemblarsi per caso? Forse che la vita è prefigurata nelle leggi di tutto questo? Io intendo proporre una concezione ancora allo stadio di teoria, secondo cui la vita, come le rozze bestie di Yeats, striscia verso Betlemme per essere partorita -- nascita virginale di tutti noi. Desidero sostenere che la vita è una proprietà attesa, emergente, di reti complesse di reazioni chimiche. In condizioni piuttosto generali, al crescere della diversità di specie molecolari in un sistema di reazioni, viene attraversata una transizione di fase, superata la quale diventa pressoché inevitabile la formazione di insiemi di molecole collettivamente autocatalitici. Se così, siamo figli della diversità molecolare, figli delle stelle di seconda generazione.»17 Secondo questa visione dunque la vita è copiosa, è emergente, è attesa, un fenomeno, vale a dire, che si dispiega misteriosamente all'interno di un universo creativo. Se tale prospettiva è corretta, quindi, l'emergenza di insiemi autocatalitici non è difficile, ma relativamente facile. Agli occhi di Kauffman, infatti, è necessario un modo per assemblare varietà di RNA, di proteine o di altri substrati (o catalizzatori potenziali) per tenerli in prossimità affinché non si allontanino per diffusione da un contatto reciproco efficace, e che, infine, il caso ed i numeri compiano la «magia». Tuttavia, se in A casa nell'universo il grande studioso riteneva che la chiusura auto-catalitica fosse la proprietà fondamentale della vita anche perché permetteva di spiegare la misteriosa evoluzione dalle strutture pre-biotiche alle cellule evolute (con DNA, RNA e proteine), in Esplorazioni Evolutive, invece, la sua posizione appare molto più cauta. «[...] La vita è una proprietà emergente attesa di reti complesse di reazioni chimiche. Bisogna tuttavia essere prudenti. In primo luogo, dobbiamo sapere se il nostro calcolo approssimativo su una semplice pcat è robusto. Parrebbe di si. Per una serie di ipotesi circa la distribuzione di attività catalitiche tra insiemi di molecole, e una serie di ipotesi sulla struttura statistica dei grafi delle reazioni, quando si manifesta una diversità critica gli insiemi autocatalitici tendono a emergere. Ma andiamoci cauti: è necessario ulteriore lavoro teorico e, soprattutto in questa fase, molto lavoro sperimentale ancora. In secondo luogo anche nel caso che la teoria precedente fosse vera, non abbiamo ancora parlato dell'emergenza di un metabolismo che risolva il problema termodinamico: cioè il problema di guidare la sintesi rapida di specie molecolari sopra le rispettive concentrazioni all'equilibrio collegando tale sintesi alla liberazione di energia attraverso la demolizione di altre specie chimiche. Le reazioni chimiche che liberano energia vengono definite esoergoniche e, viceversa, endoergoniche quelle che richiedono energia chimica. Le cellule viventi connettono reazioni endoergoniche e reazioni esoergoniche al fine di produrre concentrazioni elevate di molte specie molecolari. [...] Il legame tra reazioni esoergoniche ed endoergoniche si rivela infatti essenziale nella definizione di agente autonomo, quella misteriosa concentrazione di materia, di energia, di informazione, e di quel qualcosa in più che chiamiamo vita. In breve, io sosterrò che auto-catalisi e riproduzione molecolare sono si necessarie per la vita, ma non ancora sufficienti. La vita possiede realtà più profonde, e ancora più misteriose, di quell'autocatalisi che siamo andati esplorando [...] .»18 Ebbene, nel tentativo di sondare l'essenza misteriosa della vita, dunque, Kauffman cerca ora di esplorare più in profondità la circolarità insita nella definizione stessa di agente autonomo, prendendo le mosse dalla pietra angolare della termodinamica: il ciclo di Carnot.
Carnot, nel volume dal titolo: Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco, si dedicò alla comprensione degli elementi fondamentali dell'estrazione di lavoro meccanico da fonti di energia termica. Il risultato dei suoi sforzi fu l'analisi di un dispositivo ideale per ricavare lavoro meccanico dal calore, il ciclo di Carnot.19
Figura 1
La figura 1 illustra gli elementi essenziali della macchina ideale di Carnot, la quale è costituita da due serbatoi di calore di cui uno più caldo dell'altro, T1 > T2. Tra i due serbatoi è collocato un cilindro contenente un pistone. Lo spazio tra la parte superiore del pistone e la testa del cilindro è riempito da un gas che «compie lavoro ideale», che può essere compresso e può espandersi. Un gas reale (e a maggior ragione un gas ideale) una volta compresso si riscalda e, viceversa, una volta espanso si raffredda. Kauffman modifica la macchina di Carnot per un aspetto centrale il quale rende esplicito, senza alterarlo, un carattere importante dell'attività reale della macchina stessa: egli, infatti, attacca una manopola al cilindro. Sarà un soggetto esterno, quindi, a far funzionare la macchina. Il ciclo di Carnot inizia con il pistone compresso in alto, quasi alla sommità del cilindro, e con il gas compresso e caldo, come la temperatura elevata T1. Se si tira la manopola, quest'ultima farà scivolare il cilindro (privo di attrito) a contatto con il serbatoio a temperatura elevata T1. A questo punto, allora, se si lascia la manopola, il gas si espande nel cilindro spingendo così il pistone in basso, lontano dalla testa del cilindro. Questa è la prima parte della corsa di lavoro della macchina di Carnot. Quando ha inizio la corsa di lavoro il gas si espande e comincia a raffreddarsi. Tuttavia, poiché il cilindro è a contatto con il serbatoio termico caldo, il calore fluisce nel cilindro da T1 e mantiene il gas praticamente alla temperatura costante T1. In realtà, se si opera sulla macchina di Carnot con adeguata lentezza, la temperatura rimane costante: un'operazione lenta viene definita reversibile. Se, invece, si opera sulla macchina più rapidamente (irreversibilmente) la temperatura viene mantenuta pressoché costante lungo questa fase della corsa di lavoro che viene definita «fase di espansione isotermica» del ciclo di Carnot. Kauffman raffigura lo stato del sistema or ora accennato in un sistema di coordinate cartesiane dove l'asse delle ascisse corrisponde al volume del gas e l'asse delle ordinate alla sua pressione (figura 2).
Figura 2
Il ciclo ha avuto inizio con il pistone prossimo all'estremità del cilindro, con il gas caldo e compresso. Quando avviene la fase di espansione la pressione diminuisce leggermente mentre il volume aumenta sensibilmente. Il segmento corrispondente del ciclo collega la posizione di partenza (posizione1), alla posizione 2 per mezzo di un segmento che rappresenta i valori simultanei di volume e pressione durante la fase di espansione isotermica della corsa di lavoro. La seconda fase della corsa di lavoro, invece, ha inizio spingendo la manopola e allontanando il cilindro dal serbatoio caldo T1 per collocarlo in una posizione intermedia tra i due serbatoi senza che venga a contatto con nessuno dei due. Se si lascia improvvisamente la manopola, il gas continuerà ad espandersi spingendo in basso il pistone allontanandolo dalla testa del cilindro. Tuttavia, dato che il cilindro non è a contatto con T1 e il gas si sta espandendo divenendo altresì percettibilmente più freddo, la pressione diminuirà notevolmente mentre il volume aumenterà leggermente. Questa fase della corsa di lavoro viene definita da Carnot espansione adiabatica. La fase di espansione adiabatica sposta il sistema dalla fase 2 alla fase 3, la fase finale della corsa di lavoro, ovvero un punto in cui la pressione raggiunge il livello minimo mentre il volume del gas è al punto massimo del ciclo. Per far ritornare la macchina di Carnot allo stato iniziale1 così che il gas possa nuovamente espandersi e compiere lavoro meccanico sul pistone, deve essere svolto del lavoro sul motore per riportare il pistone alla sua posizione vicina alla testa del cilindro ricomprimendo e scaldando di nuovo il gas in modo tale che i suoi valori di temperatura e pressione (il suo stato) corrispondano allo stato1 (figura 2). «La macchina di Carnot, come tutte le macchine termiche, invece di ripercorrere la via della corsa di lavoro ricorre ad un semplice stratagemma. Sarete voi a farlo: alla fase3, la terminazione della corsa di lavoro, afferrate la manopola, spingendo così il cilindro a contatto con il serbatoio a bassa temperatura T2. Voi infatti avete disposto le cose in modo che alla fine della corsa di lavoro il gas sia anch'esso alla temperatura più bassa T2. Adesso che il cilindro è a contatto con T2, girate attorno alla base del cilindro, dove una robusta manopola è attaccata al pistone e si protende oltre la base del cilindro. Spingete la manopola, che spingerà il pistone verso l'alto nel cilindro e comprimerà così il gas. Mentre effettuate questo lavoro sul pistone, il gas in fase di compressione tende a scaldarsi. Ma, grazie al contatto con il serbatoio a bassa temperatura, il calore generato dalla compressione nel gas si diffonde nel serbatoio freddo T2, mantenendo il gas solo leggermente più caldo di T2. Così facendo, il volume diminuirà apprezzabilmente, mentre la pressione aumenterà leggermente. Il punto chiave dello stratagemma è che è necessario meno lavoro per comprimere un gas che rimane freddo che non un gas che si riscalda. Poiché il gas viene mantenuto ad una temperatura pressoché costante T2, questa fase della corsa di compressione viene definita compressione isotermica, e sposta il sistema nel suo spazio degli stati pressione-volume dalla posizione 3 alla posizione 4. Alla fine della fase di compressione isotermica, siete ancora voi a entrare in scena: tirate la manopola, allontanando il cilindro dal contatto con il serbatoio freddo T2 in una posizione tra T2 e T1, senza che esso sia a contatto né con l'uno né con l'altro. A quel punto, spingete un'altra volta la manopola collegata al pistone, comprimendo ulteriormente il gas. A causa della compressione del gas e al fatto che non è in contatto con il serbatoio T1 freddo, il gas si riscalda e la pressione aumenta sensibilmente mentre il volume diminuisce appena, e intanto il gas viene compresso finché si raggiunge lo stato iniziale del gas compresso caldo, la fase1. Adesso, il ciclo è completato. [...] Ho sottolineato il ruolo vostro e della manopola in questo cammino attraverso il ciclo. È chiaro che in una macchina reale il ruolo della manopola è svolto da vari ingranaggi, bielle, scappamenti e altri congegni meccanici che rivestono un ruolo essenziale: la manopola e voi, oppure gli ingranaggi, le bielle e gli scappamenti, organizzano letteralmente il flusso del processo ricorrente. Ritornerò su questa organizzazione del flusso del processo in una macchina o in un agente autonomo. Il ciclo di Carnot è coinvolto nel rilascio organizzato di energia termica per ottenere lavoro meccanico ricorrente. L'organizzazione del lavoro è essenziale -- e sarà centrale -- per riflettere su quanto accade in un agente autonomo. Infatti, a noi serve anche un modo per caratterizzare l'organizzazione di processi reali nel mondo in non equilibrio. Non credo che disponiamo già di un concetto adeguato di organizzazione.»20 Il ciclo di Carnot, dunque, opera in un ciclo, come fanno un motore a vapore, un motore a benzina ed un motore elettrico, poiché, completato un ciclo, il sistema totale viene riportato allo stato iniziale dell'avvio del ciclo: l'organizzazione del processo, quindi, ritorna alla configurazione iniziale da cui il sistema potrà eseguire ancora una volta un ciclo. «[...] L'organizzazione ciclica dei processi nella macchina di Carnot, in quella a vapore, a gas, oppure in quella elettrica, realizza l'organizzazione richiesta proprio perché il sistema opera come un processo ciclico.»21
Una seconda questione su cui, agli occhi di Kauffman, è opportuno riflettere riguarda un aspetto ben conosciuto della macchina di Carnot. «Se la sequenza di stati viene percorsa in direzione contraria, così che la macchina venga attivata dallo stadio 1 allo stadio 4 allo stadio 3, e poi al 2 e di qui all'1, la macchina di Carnot non si comporta affatto da pompa, ma piuttosto da frigorifero. Attivata in direzione contraria, la macchina di Carnot usa il lavoro meccanico per pompare calore dal serbatoio freddo T2 al serbatoio caldo T1, raffreddando T2. [...] Gli aspetti che meritano di essere considerati sono quindi due: il primo è che la stessa macchina, la macchina di Carnot, può essere sia pompa che frigorifero. Dipende dalla sequenza delle operazioni. [...] Sostanzialmente, la stessa macchina può eseguire due funzioni, o compiti, molto differenti: pompare in un caso e raffreddare nell'altro.»22 Il terzo punto individuato da Kauffman concerne processi spontanei e processi non spontanei. Sono stati necessari più di cinquant'anni dagli studi di Carnot per iniziare a comprendere veramente la termodinamica e per inventare la meccanica statistica che collega termodinamica e meccanica newtoniana. Alcuni processi si verificano spontaneamente mentre altri processi plausibili no. Per esempio, se un gas caldo viene messo a contatto con un gas freddo, i due, a tempo debito, avranno la stessa temperatura: il calore, infatti, si diffonde spontaneamente dall'oggetto caldo a quello freddo, raffreddando il primo e scaldando il secondo. In meccanica statistica la concezione comune di «caldo» corrisponde ad atomi in movimento rapido, ovvero con la nozione di energia cinetica elevata. Quando questi atomi interagiscono con atomi più lenti le collisioni trasferiscono energia cinetica a questi ultimi accelerandoli e provocando così il rallentamento dei primi. Con il passare del tempo gli atomi appartenenti ai due insiemi arriveranno ad avere la stessa distribuzione statistica dei moti e quindi la stessa energia cinetica, vale a dire la stessa temperatura. La seconda legge della termodinamica, come tutti sanno, stabilisce che l'entropia di un sistema è costante oppure cresce. L'interpretazione moderna dell'entropia può essere formulata grossomodo ricorrendo al concetto di spazio delle fasi 6n-dimensionali. Si consideri un sistema chiuso e isolato, per esempio un gas ideale in un termos. Si ipotizzi, inoltre, che nel termos vi siano n particelle di gas . Ebbene, ogni particella sarà in movimento nello spazio tridimensionale reale; allora, sarà possibile scegliere un sistema di coordinate tridimensionali arbitrario con lunghezza, larghezza e altezza (x, y, z). E risulta possibile anche rilevare la posizione di ogni particolare particella nel termos in ciascun istante per ciascuna delle tre coordinate di posizione. Ogni particella, oltre ad avere una posizione, potrebbe essere in movimento, potrebbe avere una velocità e una quantità di moto associate a qualche direzione nel termos. Ricorrendo alle regole della composizione vettoriale delle forze di Newton è possibile scomporre il movimento della particella reale nei suoi movimenti nelle direzioni x, y e z. «La quantità di moto in ciascuna di queste direzioni è proprio la massa della particella moltiplicata per la sua velocità in quella direzione. La regola della composizione vettoriale di Newton afferma che possiamo risalire al moto della particella iniziale costruendo l'evidente parallelogramma che ricompone di nuovo i vettori della velocità o della quantità di moto sugli assi x, y, z. Allora, di ciascuna particella, possiamo rappresentare con 6 numeri la posizione e la quantità di moto in tre direzioni dello spazio. Nel termos ci sono n particelle, e possiamo pertanto rappresentare la loro posizione e quantità di moto effettiva in ogni istante con 6n numeri. Combinazioni differenti di posizioni e velocità corrispondono adesso ad insiemi differenti di 6n numeri. E, se le n particelle nel termos si urtano e si scambiano le quantità di moto, rimbalzando in nuove combinazioni di direzioni con nuove combinazioni di velocità in accordo con le tre leggi del moto di Newton, i 6n numeri che rappresentano il sistema in ogni istante cambieranno nel tempo attraverso una successione di 6n numeri. Se consideriamo tutti i possibili valori di posizione e di velocità delle n particelle nel termos, quell'insieme di valori possibili è lo spazio delle fasi 6n-dimensionale del nostro sistema.»23 Il sistema, quindi, inizia da qualche singola combinazione di 6n numeri, cioè da un singolo stato nello spazio delle fasi. Nel tempo, al variare delle posizioni e delle quantità di moto, i 6n numeri variano e il sistema fluisce verso una traiettoria nello spazio delle fasi. Alla luce di quanto detto sinora, dunque, Kauffman così scrive: «La seconda legge, nella sua interpretazione moderna, è semplicemente l'enunciato secondo cui un sistema termodinamico isolato tenderà a fluire lontano da macrostati improbabili -- corrispondenti a pochissimi dei nostri cubetti microscopici 6n-dimensionali -- e fluirà e trascorrerà la maggior parte del tempo nel macrostato all'equilibrio per l'ottima ragione che quel macrostato corrisponde ad un numero enorme di piccoli cubi 6n nell'intero spazio delle fasi 6n-dimensionale. Nella seconda legge, l'aumento di entropia è semplicemente la tendenza dei sistemi a fluire da macrostati meno probabili a macrostati più probabili.»24 A partire dall'Ottocento, grazie al decisivo contributo di Boltzmann, il concetto fisico di entropia di un macro stato viene concepito come proporzionale al logaritmo del numero di cubetti 6n-dimensionali che corrispondono a quel macrostato. L'aumento di entropia in processi spontanei è allora la tendenza a fluire da macrostati costituiti da un numero esiguo di cubi 6n-dimensionali, o microstati, a macrostati costituiti da moltissimi microstati. Stando così le cose, dunque, il passo successivo compiuto da Kauffman nella riflessione sugli agenti autonomi consiste nel fatto di considerare il concetto di «spazio delle attività catalitiche» ed il carattere degli «insiemi auto-catalitici» nel contesto dello spazio delle attività catalitiche. «Dovremo considerare uno spazio delle forme limitato con valori massimi e minimi per ciascun asse. Una forma è un punto nello spazio delle forme e dunque un carattere molecolare su un antigene virale, un epitopo, è un punto nello spazio delle forme. Un anticorpo potrebbe legarsi a quell'epitopo e a una famiglia di forme simili che riempiono una sfera nello spazio delle forme. [...] Molecole molto differenti possono avere la stessa forma, e allora l'endorfina e la morfina si legheranno allo stesso recettore, il recettore dell'endorfina. Un numero finito di palle ricoprirà lo spazio delle forme e un repertorio immunitario, forse nell'ordine di un centinaio di milioni di anticorpi, potrebbe benissimo ricoprire lo spazio delle forme.»25 Secondo Kauffman lo spazio delle attività catalitiche si limita ad applicare il concetto di spazio delle forme alla catalisi. Un punto nello spazio delle attività catalitiche rappresenta dunque un'attività catalitica. «Una certa reazione chimica costituisce un'attività catalitica. Come nello spazio delle forme, reazioni simili costituiscono attività catalitiche simili. Come nello spazio delle forme, reazioni differenti possono costituire essenzialmente la stessa attività catalitica. Un enzima copre una certa palla nello spazio delle attività catalitiche, che comprende l'insieme di reazioni che essa può catalizzare. E, come rilevato in precedenza e in accordo alla teoria dello stato di transizione, un'attività catalitica corrisponde ad un catalizzatore che si lega alla configurazione molecolare distorta, e perciò a elevata energia, corrispondente allo stato di transizione di una reazione con elevata affinità e che lega gli stati del substrato e del prodotto con affinità, in generale, inferiore.»26 E'quindi possibile domandarsi: in termini di spazio delle attività catalitiche, che cos'è un insieme collettivamente autocatalitico? Vediamo un esempio semplice. Due peptidi A e B formano un insieme collettivamente autocatalitico se A catalizza la formazione di B da due frammenti di B, e B catalizza la formazione di A da due frammenti di A. Si Considerino allora due palle nello spazio delle attività catalitiche: la prima palla, coperta da A, costituisce l'attività catalitica in cui due frammenti di B sono saldati per formare B; la seconda palla, coperta da B, costituisce l'attività catalitica nello spazio delle attività in cui due frammenti di A sono saldati e formano A. «Il primo carattere di un insieme collettivamente autocatalitico è quello che definisco chiusura catalitica. Ogni reazione che deve trovare un catalizzatore lo trova. La formazione di A richiede B e la formazione di B richiede A. È importante sottolineare che questa chiusura nello spazio delle attività catalitiche non è locale, perché non vi è una singola reazione in questo insieme collettivamente autocatalitico che costituisca in sé la chiusura in questione. Chiaramente, la chiusura catalitica è una proprietà del sistema nella sua totalità. Un secondo aspetto da sottolineare è che A e B, in quanto catalizzatori, non costituiscono in sé la chiusura in questione; A e B potrebbero catalizzare una varietà di reazioni. [...] In breve la chiusura delle attività catalitiche richiede la specificazione delle attività catalitiche stesse insieme con i substrati specifici i cui prodotti, in questo caso A e B, costituiscono i catalizzatori veri e propri che eseguono le attività catalitiche in questione. La chiusura di un insieme autocatalitico e di un insieme di attività catalitiche manifesta una sorta di dualismo. Dal punto di vista delle molecole implicate, le attività catalitiche specifiche costituiscono le grandi vie di liberazione dell'energia chimica mediante cui il sistema molecolare riproduce se stesso. Le attività coordinano il flusso di atomi tra le molecole mediante cui l'insieme riforma se stesso. Dal punto di vista delle attività le specie molecolari riescono ad eseguire le attività ripetutamente, senza che ulteriori specie molecolari siano necessarie per eseguire le attività. Le molecole eseguono le attività, le attività coordinano, ovvero organizzano, i processi tra le molecole. [...] L'organizzazione realizzata dalla chiusura delle attività catalitiche è simile all'organizzazione ottenuta dagli ingranaggi e dagli scappamenti di concerto al resto della macchina ideale di Carnot. Il flusso del processo è disposto in un tutto organizzato. Nel caso dell'insieme autocatalitico, quest'ultimo riproduce se stesso. Merita inoltre sottolineare che questa chiusura nello spazio delle attività catalitiche è un concetto nuovo che possiede un significato fisico reale. È un dato di fatto oggettivo se un sistema di reazioni fisico realizza o meno la chiusura catalitica; il precedente ipotetico sistema AB e qualsiasi cellula autonoma realizzano una chiusura catalitica.»27 Per giungere alla definizione provvisoria di agente autonomo precedentemente accennata, però, secondo Kauffman, occorre riflettere in modo ancora più approfondito su un preambolo: la distinzione, già rilevata, tra reazioni chimiche spontanee (esoergoniche) e non spontanee (endoergoniche). «Tutte le reazioni chimiche spontanee, se non sono accoppiate ad alcun'altra fonte di energia, sono esoergoniche. Per contro, se qualche altra fonte di energia libera viene accoppiata alla reazione, quest'ultima può essere spinta oltre l'equilibrio utilizzando parte della fonte di energia. Le reazioni che vengono spinte oltre l'equilibrio per aggiunta di energia libera sono definite endoergoniche. Perciò X potrebbe convertirsi in Y e questa reazione potrebbe essere accoppiata ad un'altra fonte di energia libera, così che la concentrazione di Y allo stato stazionario sia molto superiore a quella del rapporto normale tra X e Y all'equilibrio.»28
Nel ciclo di Carnot, come abbiamo ampiamente mostrato in precedenza, il completamento del ciclo vedeva coinvolto il sistema cilindro-pistone che eseguiva lavoro esoergonico sul mondo esterno durante la corsa di lavoro e vedeva poi il mondo esterno eseguire lavoro sul sistema cilindro-pistone nel momento in cui veniva esercitata una pressione sul pistone per comprimere il gas. «Il ciclo di Carnot collega fonti di energia meccanica e di energia termica in un ciclo. Una rete di reazioni chimiche con un ciclo dovrà collegare reazioni spontanee, esoergoniche, e reazioni non spontanee, endoergoniche, nell'analogo chimico di un ciclo. Al pari della macchina ciclica di Carnot, l'analogo chimico dovrà lavorare in un ciclo di stati, come il ciclo 1, 2, 3, 4, 1 del ciclo di Carnot. Inoltre, affinché il ciclo operi con una velocità finita, e quindi irreversibilmente, l'agente autonomo deve essere un sistema termodinamico aperto spinto da fonti esterne di materia o di energia -- quindi cibo -- e la spinta continua del sistema da parte di tale cibo mantiene il sistema lontano dall'equilibrio.»29 (Figura 3).
Figura 3
Stando così le cose, dunque, in accordo con Kauffman, risulta possibile riconsiderare sotto questa luce il sistema autocatalitico di Ghadiri; la sequenza di 32 aminoacidi A che salda due frammenti, A'di quindici aminoacidi, e A? di 17 aminoacidi, per formare A. Questa reazione è puramente esoergonica, procede dai frammenti substrato A'e A? per formare la molecola prodotto A, e si approssima al rapporto di equilibrio substrati/prodotto. «Il sistema autocatalitico di Ghadiri è magnifico, ma puramente esoergonico: non produce un ciclo. In generale, sistemi autocatalitici e collettivamente autocatalitici possono essere puramente esoergonici. In qualsiasi caso del genere, non si realizza alcun ciclo. A questo punto, possiamo ritornare alla mia definizione buttata lì: un agente autonomo è un sistema riproduttivo che esegue almeno un ciclo di lavoro termodinamico. Quel batterio, remando contro il gradiente di glucosio, con il flagello che si dimena in cicli di lavoro, si danna per farlo, riproducendosi ed eseguendo uno o più cicli di lavoro. E lo fanno anche le cellule autonome e gli organismi. Noi, come puro fatto, colleghiamo processi spontanei e non spontanei in percorsi interattivi dai complessi intrecci, che attuano la riproduzione e i cicli di lavoro persistenti mediante cui agiamo sul mondo. I castori costruiscono davvero le dighe, eppure questi animali sono meri sistemi fisici. Tuttavia, l'esempio del peptide autocatalitico proposto da Reza Ghadiri non si dimostra all'altezza e nemmeno l'esamero autocatalitico di DNA di Günter von Kiedrowski o l'insieme collettivamente autocatalitico di due esameri di DNA. Tutti questi sistemi sono esclusivamente esoergonici e non viene eseguito alcun ciclo.»30 Una volta enunciata la definizione, dunque, il grande studioso americano prosegue la sua argomentazione ipotizzando la realizzazione di un agente autonomo molecolare (figura 4).
Figura 4
Tale figura è costruita per connettersi con altri due sistemi molecolari, il sistema esoergonico autocatalitico sviluppato da G. von Kiedrowski basato sulla saldatura di due trimeri di DNA da parte del loro esamero complementare. Qui l'esamero è semplificato come 3'CCCGGG5'e i due trimeri complementari sono 5'GGG3'+ 5'CCC3'. Questa reazione, lasciata ai propri meccanismi, è esoergonica e, in presenza di trimeri in eccesso rispetto al rapporto all'equilibrio tra esamero e trimeri, è Kauffman che parla, fluirà esoergonicamente verso l'equilibrio mediante la sintesi dell'esamero. Dato che l'esamero è a sua volta catalizzatore della reazione, la sintesi dell'esamero è autocatalitica. Il primo sistema aggiunto è il pirofosfato PP, un dimero ad alta energia di monofosfati che si scinde per formare due monofosfati P + P. Come qualsiasi reazione, la reazione che converte PP in P + P ha un proprio equilibrio, e quindi un rapporto di equilibrio tra PP e P. In presenza di PP in eccesso rispetto all'equilibrio, la reazione fluisce verso l'equilibrio mediante scissione spontanea di PP, da cui si ottiene P + P.31 «Io mi richiamo alla conversione esoergonica di PP in P + P al fine di utilizzare la perdita di energia libera in questa reazione esoergonica per guidare la reazione trimeri-esamero di DNA oltre il suo equilibrio, determinando così una sintesi in eccesso rispetto 3'CCCGGG5'rispetto alla sua concentrazione di equilibrio. Pertanto, la sintesi in eccesso dell'esamero, che non si manifesterebbe spontaneamente, è guidata endoergonicamente essendo accoppiata alla scissione esoergonica di PP in P + P. In breve, la rottura esoergonica di PP in P + P fornisce l'energia libera per guidare l'accumulo in eccesso della concentrazione di 3'CCCGGG5'oltre il proprio equilibrio rispetto ai propri substrati, i trimeri 5'GGG3'e 5'CCC3'. La sintesi in eccesso di 3'CCCGGG5'costituisce la riproduzione in eccesso del prodotto della reazione autocatalitica dell'esamero oltre quella che si verificherebbe senza l'accoppiamento con la fonte di energia libera aggiuntiva PP. Il sistema allora si riproduce meglio accoppiandosi a PP che non accoppiandosi. [...] Una volta che il pirofosfato PP viene scisso e forma P + P, al fluire di questa reazione verso il rapporto di equilibrio tra PP e P, quell'energia libera viene consumata. Per avere una fonte interna rinnovata di energia libera necessaria per sintetizzare esamero in eccesso, è conveniente risintetizzare il pirofosfato dai due monofosfati P + P'. [...] In un'accezione generale la convenienza riflette l'organizzazione dei processi che alimenta un agente, ma quell'organizzazione non è conveniente, è essenziale.»32 La sintesi di PP da P + P richiede l'aggiunta di energia libera. A questo punto si deve aggiungere energia per risintetizzare PP da P + P. Per fare ciò, Kauffman chiama in causa una fonte addizionale di energia libera, l'elettrone e che assorbe un fotone hv, che viene così spinto endoergonicamente in uno stato eccitato e* e ricade esoergonicamente verso il proprio stato a bassa energia in una reazione accoppiata alla sintesi di PP da P + P. «Il punto di questa terza coppia di reazioni è chiaro: PP viene sintetizzato da P + P, così che PP possa continuare a guidare la sintesi in eccesso dall'esamero di DNA 3'CCCGGG5'. Complessivamente, il sistema di reazioni collegate è esoergonico. Avviene cioè una perdita complessiva di energia libera fornita a conti fatti dal fotone entrante hv, oltre che da i due substrati 5'GGG3'e 5'CCC3'. Quindi non stiamo sfuggendo alla seconda legge della termodinamica.»33 Torniamo per un attimo al ciclo di Carnot, in particolare nella fase in cui Kauffman aveva fatto spingere e tirare la manopola ed il pistone ad un soggetto esterno durante il ciclo. Come abbiamo già accennato, in una macchina reale il ruolo nell'organizzazione dei processi (chi spinge e tira la manopola) è assunto da ingranaggi e da scappamenti, da bielle e da connettori, da cuscinetti e da altri pezzi meccanici. Ora, però, il grande studioso americano ipotizza, come primo assunto, che l'esamero 3'CCCGGG5'sia il catalizzatore che accoppia la saldatura dei due trimeri 5'GGG3'e 5'CCC3'con la scissione esoergonica di PP in P + P e, come secondo assunto, che il monofosfato P si leghi all'esamero e faciliti la reazione. Egli, pertanto, suppone che P sia un attivatore allosterico della reazione dove il termine allosterico significa che P si lega a un sito dell'enzima, all'esamero in questo caso, diverso dal sito di legame proprio dell'esamero per i substrati. Attivatori e inibitori allosterici, dunque, come tutti sanno, sono comuni nei sistemi biologici. «In questo caso, P potrebbe legarsi allo scheletro di zuccheri-fosfato dell'esamero di DNA. Questo accoppiamento implica che quando PP si scinde per formare P + P, il monofosfato P eserciterà una retroazione attivando ulteriormente l'enzima esamerico e accelerando ulteriormente la catalisi di formazione dell'esamero. Una simile retroazione positiva di un prodotto di reazione sulla formazione di un enzima si verifica nella celebre glicolisi, il cuore del metabolismo delle vostre cellule. In realtà, in condizioni sperimentali opportune, questo accoppiamento basato sulla retroazione positiva può far sì che la glicolisi sia soggetta a marcate oscillazioni temporali nella concentrazione dei metaboliti glicolitici. Infine, chiamerò in causa qualche altro accoppiamento. Io suppongo che uno dei trimeri, 5'GGG3', sia il catalizzatore che accoppia la perdita esoergonica di energia liberata dall'elettrone attivato e* a e, con la risintesi di PP da P + P. Ed evocherò un'inibizione allosterica di questa catalisi da parte dello stesso PP. Pertanto, il PP, quando è a concentrazione elevata, tende ad inibire la propria risintesi. Ma quando la sua concentrazione diminuisce, l'inibizione della sua sintesi viene rimossa, e PP viene risintetizzato.»34
La figura 4 mostra il primo ipotetico agente autonomo. Dopo aver costruito virtualmente l'impalcatura molecolare di un tale sistema, dunque, Kauffman ne mette in luce gli aspetti rilevanti. Egli, infatti, individua quattro caratteristiche su cui vale la pena riflettere. La prima riguarda il fatto che l'ipotetico agente autonomo «costituisce una classe di reti di reazioni chimiche non ancora indagate: il comportamento di sistemi esoergonici autocatalitici e a catalisi incrociata comincia adesso ad essere studiato. Il comportamento di reti di reazioni esoergoniche ed endoergoniche collegate è la sostanza stessa del metabolismo intermedio e della trasduzione biochimica dell'energia, oggetto di studio per i biochimici per anni. Ma, fino a oggi, nessuno ha iniziato a studiare reti di reazioni collegate in cui l'autocatalisi è accoppiata a reazioni esoergoniche ed endoergoniche connesse. Stiamo dunque entrando in un dominio completamente nuovo. Il nostro agente autonomo molecolare costituisce perciò un sistema con due caratteri essenziali dei sistemi viventi: l'auto-riproduzione e il metabolismo. Tuttavia, il mio insistere che un agente autonomo esegue un ciclo perfeziona il concetto di metabolismo per come viene comunemente inteso, includendo la richiesta che esso esegua un ciclo.»35 Il secondo aspetto messo in luce dal grande studioso americano, consiste nel fatto che il nostro agente autonomo virtuale è di necessità un sistema in non equilibrio. L'energia libera, infatti, nel nostro caso nella forma del fotone hv e dei trimeri substrati, viene inclusa ed impiegata per guidare la sintesi di PP e l'eccesso dell'esamero di DNA. All'equilibrio, dunque, non vi è azione causale. La sintesi in eccesso dell'esamero di DNA costituisce la replicazione in eccesso dell'esamero in virtù dell'accoppiamento della sintesi trimeri-esamero al ciclo di reazioni PP? P + P, che, agli occhi di Kauffman, costituisce una vera e propria «macchina chimica». Il terzo carattere da rilevare è il ciclo eseguito dall'agente. Nel comportamento della reazione PP? P + P è possibile vedere il ciclo. Nel ciclo di Carnot, come abbiamo ampiamente mostrato in precedenza, il gas effettua dei cicli: da compresso e caldo, a meno compresso e freddo, e di ritorno a compresso e caldo. Nell'ipotetico agente autonomo esiste un ciclo macroscopico di materia da PP a P + P attraverso la reazione di formazione dell'esamero di DNA e di ritorno lungo una via circolare a PP attraverso la reazione con l'elettrone a energia elevata. Ebbene, il ciclo macroscopico di materia intorno a questo ciclo costituisce la macchina operante. «In funzione dei dettagli delle costanti cinetiche, il nostro agente autonomo potrebbe letteralmente manifestare un ciclo di concentrazioni oscillatorio, dove la concentrazione di PP inizia elevata per diminuire poi rapidamente con la formazione di P + P; a quel punto, la concentrazione elevata di PP si riforma con l'impiego della reazione esoergonica e*? e che il fotone ha arricchito di energia. Allora, la reazione PP? P + P inclusa nell'agente autonomo costituisce una macchina chimica in cui si verifica un flusso macroscopico netto di materia intorno al ciclo PP? P + P, che opera lontano dall'equilibrio essendo spinto dall'addizione di energia del fotone hv e da quella dei due trimeri di DNA, e poiché l'energia è drenata via per guidare la sintesi in eccesso dell'esamero di DNA.»36 Infine, il quarto aspetto da rilevare, secondo Kauffman, risiede nel fatto che l'agente autonomo, come la macchina di Carnot, lavora lungo un ciclo. Al termine del ciclo il sistema è pronto per un nuovo ciclo, ovverossia si realizza un'organizzazione ripetuta del processo. Inoltre, come la macchina di Carnot che fatta funzionare al contrario è un frigorifero e non una pompa, se le reazioni dell'agente autonomo venissero attivate al contrario la macchina PP? P + P funzionerebbe nella direzione contraria. «La ragione è che tutte le coppie di reazioni sarebbero allontanate dall'equilibrio nella direzione contraria e l'analogo di invertire il movimento degli ingranaggi -- ovvero invertire di segno gli accoppiamenti, positivi e negativi, di attivatore e inibitore con i due enzimi opportuni -- convertirebbe l'energia in eccesso, immagazzinata nella concentrazione all'equilibrio dell'esamero di cui sopra, nella produzione di due trimeri e nella risintesi di PP da P + P. Se la liberazione del fotone hv fosse un passo facilmente reversibile, l'eccesso di PP guiderebbe l'emissione di un fotone da parte dell'elettrone eccitato, che ritornerebbe allo stato iniziale, lo stato non eccitato. In breve, l'agente autonomo, se fatto funzionare al contrario, si fonde con il suo cibo. Attivato al contrario, il sistema non è un agente autonomo: non si riproduce e non esegue un ciclo. Attivato al contrario il sistema è un lampo di luce.»37 Insieme a A. J. Daley, A. Girvin, P. R. Wills e D. Yamins, Kauffman, nell'articolo dal titolo: Simulation of a Chemical Autonomous Agent, ha simulato con successo il sistema di equazioni differenziali che corrispondono alla dinamica di questa rete di reazioni molecolari dell'agente autonomo. Le equazioni differenziali rappresentano il modo in cui la concentrazione di ciascuna specie chimica nell'agente autonomo varia nel tempo in funzione della concentrazione propria e di altre sostanze chimiche.38 In genere, nelle equazioni differenziali di questi modelli matematici sono incluse diverse costanti fisse che rappresentano costanti cinetiche e altri parametri. In questo caso, il sistema di equazioni differenziali possiede tredici di questi parametri. Il sistema dell'agente autonomo simulato viene allontanato dall'equilibrio mediante l'aggiunta persistente dei due trimeri di DNA 5'GGG3'e 5'CCC3', la rimozione dell'esamero di DNA e l'attivazione persistente per opera del fotone hv, dall'esterno. La rete delle reazioni chimiche si verifica in condizioni di chemostato, ovvero tutti i costituenti molecolari del sistema sono trattati matematicamente come se fossero in un serbatoio reale ben agitato cui vengono aggiunti a velocità costante i trimeri ed il fotone. In aggiunta, i componenti molecolari dell'esamero vengono rimossi dal sistema con una velocità regolabile che ne mantiene costante la concentrazione interna a prescindere da quale sia la velocità di riproduzione dell'esamero. Sono stati eseguiti esperimenti di selezione al computer, non solo comparando l'agente autonomo ad un sistema esoergonico nudo di trimeri-esamero di DNA, ma anche mutando in maniera computazionale le costanti cinetiche per piccoli valori e facendo evolvere, sempre computazionalmente, gli agenti autonomi affinché si riproducessero con maggiore efficienza termodinamica. Alla luce di tutto ciò, dunque, nel suo volume, il grande studioso americano così commenta i risultati ottenuti: «I nostri risultati dimostrano innanzitutto una cosa: che gli agenti autonomi operanti lontano dall'equilibrio, e che utilizzano un ciclo, sono più efficienti nell'impiego dell'energia libera disponibile che entra nel sistema totale per riprodurre l'esamero di DNA che non quando è assente l'accoppiamento del sistema di DNA trimeri-esamero con il sistema del ciclo PP ed elettrone fotone. Allora, l'agente autonomo come totalità, includendo il suo ciclo, riproduce l'esamero di DNA più rapidamente che non il solo sistema esoergonico trimeri-esamero. In breve, fatto non meno importante, essere un agente autonomo che accoppia un sistema autocatalitico con un ciclo, arreca un vantaggio selettivo rispetto al semplice essere un sistema autocatalitico esoergonico. In secondo luogo, proprio come nel caso della retroazione positiva nella glicolisi, il nostro agente autonomo simulato, per valori opportuni delle costanti cinetiche, può subire intense oscillazioni temporali della concentrazione di PP e di altre sostanze. L'oscillazione di PP durante il ciclo, da concentrazione elevata a bassa concentrazione e poi di nuovo a concentrazione elevata, è analoga all'oscillazione dell'espansione e della compressione del gas nel ciclo della macchina di Carnot. In terzo luogo, esiste un paesaggio di fitness montuoso nello spazio dei parametri matematici delle tredici costanti cinetiche, dove alcuni valori delle costanti cinetiche determinano un'efficienza di riproduzione superiore rispetto ad altre. La selezione naturale darwiniana potrebbe in linea di principio operare se vi fosse variazione ereditabile delle costanti cinetiche. La conclusione principale che ricaviamo dalla nostra simulazione è che gli agenti autonomi, accoppiando uno o più cicli autocatalitici e cicli di lavoro, sono una forma perfettamente plausibile, se pure nuova, di rete di reazioni chimiche aperta e in non equilibrio. Nessuna magia qui. In un futuro prossimo quasi certamente costruiremo simili reti di reazioni molecolari degli agenti autonomi e ne studieremo la dinamica e l'evoluzione del comportamento. Una biologia generale è davvero dietro l'angolo.»39 Alla luce di quanto detto sinora, dunque, è ipotizzabile la creazione di una nuova forma di vita, per simulazione/manipolazione della biologia molecolare? In un'intervista rilasciata nel 2002 a R. Benkirane, Kauffman così ha risposto: «Si, potremo creare sistemi molecolari autoriproduttori in grado di compiere cicli termodinamici: all'inizio li si creerà in vitro e poi, in una seconda fase, si tenterà di inserirli in una parvenza di vita che nasce da abbozzi di cellule. Se pensa a ciò che è un agente autonomo, ovvero un sistema che si connette ad un ambiente e agisce per proprio conto, allora tutte le cellule viventi possono agire in questo modo all'interno del proprio milieu -- ad esempio un batterio può nuotare risalendo un gradiente di glucosio per cercare cibo. Mi chiedo quali debbano essere le caratteristiche di un sistema fisico affinché esso possa connettersi al suo ambiente per proprio conto, e rispondo che tale sistema deve essere in grado di autoriprodursi e compiere cicli di lavoro termodinamico; forse così ho trovato una definizione rigorosa di vita... In ogni caso potremo produrre sistemi di questo tipo in un prossimo futuro, perché già oggi gli scienziati concepiscono sistemi molecolari autoriproduttori. Restano solo da aggiungere i cicli di lavoro termodinamico, e avremo una nuova tecnologia basata su questi sistemi entro i prossimi trent'anni.»40 L'agente autonomo virtuale finora studiato, però, è stato trattato come se il problema di conservare i reagenti in una regione di spazio confinata potesse essere ignorato. Tale assunto in realtà costituisce un'idealizzazione: se, infatti, l'ipotetico agente autonomo si trovasse in una soluzione diluita, le velocità di reazione sarebbero molto lente. Pertanto, sottolinea Kauffman, la creazione effettiva di un agente autonomo molecolare funzionante richiederà che le specie molecolari reagenti siano confinate in un piccolo volume (micelle e liposomi) o superficie, oppure confinate in qualche altro modo. Nel prossimo paragrafo mostreremo altre proprietà degli agenti autonomi molecolari. In particolare focalizzeremo l'attenzione sul concetto di lavoro. Il grande studioso americano, in effetti, critica il concetto fisico di lavoro: ai suoi occhi, infatti, l'interpretazione migliore di lavoro appare quella secondo cui quest'ultimo costituisce il rilascio vincolato di energia. «Eppure, i vincoli effettivi al rilascio di energia, essenziali per svolgere il lavoro, costituiscono a loro volta l'analogo di ingranaggi, bielle, connettori e scappamenti di una comune macchina. Ma, soprattutto, ci vuole di solito proprio del lavoro per costruire i vincoli sul rilascio di energia che poi costituisce a sua volta lavoro.»41 Nell'ipotetico agente autonomo, dunque, questi vincoli sono presenti negli accoppiamenti, precedentemente delineati, di catalizzatori e attivatori allosterici con le reazioni che costituiscono l'agente autonomo stesso. «Ho la sensazione -- una sensazione profonda che rasenta la convinzione -- che l'organizzazione coerente della costruzione di insiemi di vincoli sulla liberazione di energia, che costituisce il lavoro attraverso cui gli agenti costruiscono poi ulteriori vincoli sul rilascio di energia i quali, nel tempo dovuto, a loro volta letteralmente costruiscono una seconda copia dell'agente stesso, sia un concetto nuovo, la cui formulazione adeguata sarà un concetto adeguato di organizzazione.»42 E, nell'articolo del 2007 dal titolo Question1: Origin of life and a Living State, Kauffman, dopo aver introdotto la nozione di agente autonomo, aggiunge: «The inclusion of a work cycle seems to be a central feature of this tentative definition, for work cycles link spontaneous and non-spontaneous (exergonic and endergonic) chemical reactions. The collectively autocatalytic system [...] might have been entirely exergonic. If one considers the biosphere as a whole, it is a richly interwoven web of linked exergonic and endergonic reactions building up the enormous chemical complexity of the entire biosphere, the most complex chemical system we know. I suspect that we will create molecular autonomous agents in the reasonably near future, for molecular reproduction has been achieved experimentally, as have molecular motors. I also suggest that such system may foretell a technological revolution for they do work cycles, hence can build things, as do cells when they build copies of themselves and do other work. It may be, although I would not insist on it, that molecular autonomous agents, augmented to have a bounding membrane, my be a minimal definition of life. I would note that Schrödinger, in What is life, argued for the necessity for «neg-entropy», but not for the requirement for a work cycle.»43 Se il ragionamento del grande biochimico americano è corretto, quindi, Schrödinger avrebbe visto giusto per quanto riguarda il suo microcodice il quale, però, ora viene «reinterpretato» come un sottoinsieme dei vincoli sulla liberazione di energia mediante cui un agente autonomo costruisce una copia grezza di se stesso. Ciò, allora, significa che il microcodice è la struttura stessa del DNA, che funge da vincolo sugli enzimi i quali poi trascrivono e traducono il codice. «Schrödinger tuttavia non asserì che il requisito di un agente dovesse essere il non equilibrio. Invece lo spostamento dall'equilibrio è una condizione necessaria affinché un microcodice faccia alcunché. E allora, forse, lo spostamento dall'equilibrio era implicito nella sua tesi. Ma, soprattutto, credo gli sia sfuggito un altro concetto: che un agente è un'unione di un sistema autocatalitico che segue uno o più cicli di lavoro. Un'unione che è un sistema dinamico di tipo nuovo. Ora che abbiamo visto un agente autonomo mi scopro a domandarmi se gli agenti autonomi potrebbero rappresentare una definizione adeguata della vita in sé. Non provo nemmeno a difendere la mia forte intuizione che la risposta sia affermativa. Ho il dubbio che il concetto di agente autonomo, inteso come sistema autocatalitico che esegue uno o più cicli di lavoro, definisca la vita. Se è così, eccolo il centro, quel nocciolo esclusivo della vita, che l'indagine di frammenti molecolari della cellula non rivela. Una buona parte del libro sarà dedicata ad esaminare gli sviluppi imprevisti di questa definizione provvisoria di agenti autonomi e, perché no, della vita. Ma non insisterò certamente su questa mia intuizione. Giunti sin qui sarà sufficiente rilevare che tutti i sistemi viventi liberi da noi conosciuti -- batteri unicellulari, eucarioti unicellulari e organismi pluricellulari -- soddisfano la mia definizione di agente autonomo.»44 Tale definizione provvisoria, tuttavia, a nostro giudizio, nasconde delle insidie. Se, infatti, la figura 4 ci illustra un primo caso di agente autonomo molecolare, quanto è grande la famiglia di sistemi abbracciata dal concetto di agente autonomo? Secondo Kauffman, nulla nel concetto di sistema riproduttivo, che esegue almeno un ciclo termodinamico, limita un sistema di questo tipo al DNA, all'RNA e alle proteine; pertanto, sembra plausibile che ampie classi di reti di reazioni chimiche possano esaudire i criteri fin qui delineati. A questo punto, quindi, risulta possibile chiedersi: sistemi mutuamente gravitanti come le galassie, non potrebbero esaudire gli stessi criteri? Ed inoltre, cosa dire, per esempio, di sistemi formati per lo più da fotoni, da spettri autoriproduttivi in una cavità risonante alimentata da un mezzo amplificatore? Ed, infine, che cosa dire della geomorfologia? A tali domande, però, Kauffman dichiara di non poter, al momento, offrire alcuna risposta: «Non lo so. Forse a questo punto ci basterà aver iniziato un'indagine, un'esplorazione, e non tanto averla completata.»45 L'indagine relativa agli agenti autonomi, pertanto, ci conduce verso quelle che potremmo definire come «le colonne d'ercole della biologia». Dove risiede, infatti, assumendo come attendibile la definizione di agente autonomo elaborata da Kauffman, la linea di demarcazione tra ciò che è vita e ciò che non lo è? Quali sono i principi alla base della genesi delle forme viventi e della loro auto-organizzazione, un'auto-organizzazione, vale a dire, molto più complessa rispetto a quella mostrata da una perturbazione atmosferica o da altri fenomeni naturali non ancora viventi? A partire dalle esplorazioni di Kauffman, nei prossimi paragrafi, cercheremo di mostrare come, a nostro giudizio, l'essenza della vita costituisca, in realtà, un'alterità radicale e profonda che trascende costantemente, pur non trasgredendole, la chimica (per esempio il concetto di autocatalisi), la fisica (per esempio, la nozione di cicli di lavoro termodinamico) e la bio-matematica (i modelli di simulazione e le equazioni differenziali). Forse, dietro al misterioso connubio di auto-organizzazione e selezione naturale non c'è solo una relazione addizionale tra materia, energia ed informazione, bensì, come Kauffman intuisce, giunge a fare capolino una nuova concezione dell'informazione, una concezione al cui interno l'informazione giunge ad apparire come una «qualità» in grado di generare e regolare l'intero sistema (relazione coestensiva legata ad un continuo gioco dialettico delle parti), trasformandolo in un sistema vivente e quindi in un sistema cognitivo. Ci stiamo riferendo qui all'affascinante possibilità di far dialogare il mistero della complessità del vivente con la nozione di emergenza del significato. Il bios, infatti, a nostro giudizio, andando oltre la misurazione meramente quantitativa (livello sintattico) dell'informazione aggredita attraverso la logica binaria (logica estensionale),46 può essere interpretato come un fenomeno emergente intrinsecamente connesso a forme di cognizione e di intenzionalità (livello semantico). In questo spirito, quindi, proseguiremo la nostra trattazione approfondendo, da un lato la circolarità fisica esclusiva della vita tra vincoli e lavoro secondo la quale il lavoro viene definito, al contempo, come il rilascio vincolato di energia e come la condizione principale della costruzione dei vincoli medesimi e dall'altro l'esigenza intrinseca al concetto di organizzazione propagante di porre le basi per la costruzione di una fisica della semantica (o meglio di una semantica molecolare). Questa intuizione geniale di Kauffman, pertanto, ci permette di compiere un ulteriore passo in avanti per ciò che concerne la nostra esplorazione dell'auto-organizzazione; sotto certi aspetti, però, tale indagine ci consente anche di esplorare percorsi teorici paralleli portati avanti da studiosi che pongono l'accento delle loro ricerche sui limiti della teoria dell'informazione di Shannon e sulla possibilità affascinante di elaborare quella che attualmente viene definita da alcuni come teoria semantica dell'informazione.
2. Lavoro propagante 

Può darsi che il mondo sia brutalmente davanti ai nostri occhi, ma che, di esso, ci manchino le domande che ci consentirebbero di vedere. Davanti a noi, infatti, in ogni istante cellule o colonie di cellule propagano una meravigliosa organizzazione di processo: ogni agente autonomo, come abbiamo visto in precedenza, collegando con abilità processi esoergonici ed endoergonici, mediante la chiusura delle attività catalitiche e delle attività di lavoro, costruisce di fatto una seconda copia «grezza» di se stesso da «piccoli mattoni». Risulta difficile, dunque, vedere qualcosa di cui non si ha ancora un concetto. Nel presente paragrafo, pertanto, attraverso le esplorazioni di Kauffman, tenteremo di svolgere un'indagine su cosa potremmo intendere, e quindi vedere, per organizzazione propagante. Il nostro cammino teorico prende le mosse dal demone di Maxwell e dalla ragione per cui la misurazione di un sistema è remunerativa solo in una situazione di non equilibrio. Situazione in cui le misurazioni si possono archiviare in memoria ed impiegare per estrarre lavoro dal sistema misurato. In fisica, il demone di Maxwell è il luogo per antonomasia in cui è possibile trovare insieme materia, energia ed informazione. Ciò nonostante, più avanti scopriremo che il demone ed i suoi sforzi di misurazione sono sorprendentemente incompleti: solo alcuni caratteri di un sistema in non equilibrio, infatti, se misurati, rivelano spostamenti dall'equilibrio da cui in linea di principio risulta possibile estrarre lavoro; gli altri caratteri, invece, persino se misurati, sono inutili per rilevare tali fonti di energia. Ma procediamo con ordine. Si consideri per l'ennesima volta un sistema termodinamicamente isolato, ovvero una scatola che contiene un gas, isolata da ogni scambio di energia o di massa con l'esterno. Nella scatola sono contenute n particelle di gas e, come abbiamo sottolineato, di tutte le n particelle è possibile considerare posizione e quantità di moto. Ciascuna posizione e ciascuna quantità di moto risulta possibile poi scomporla in tre valori numerici, che definiscono posizione e moto nelle tre direzioni nello spazio. L'intero stato delle n particelle sarà perciò definito da 6n numeri, cui aggiungeremo la specificazione dei confini interni della scatola. In precedenza avevamo affermato che tutti i possibili stati di questo sistema 6n di particelle si possono suddividere in volumi molto piccoli di stati, che chiameremo microstati. Un microstato, come tutti sanno, è un insieme di microstati. In particolare, il macrostato all'equilibrio è un insieme di microstati che godono della proprietà per cui le particelle di gas sono distribuite nella scatola in modo pressoché uniforme, con una distribuzione caratteristica delle velocità all'equilibrio, che lo stesso Maxwell risolse. Questo macrostato all'equilibrio presenta ulteriori importanti proprietà per cui: a) Moltissimi microstati sono nel macrostato all'equilibrio e b) alcuni caratteri macroscopici (la temperatura, la pressione e il volume) sono sufficienti per specificare il macrostato all'equilibrio. «Abbiamo visto che, in termini di macrostati e microstati, la seconda legge può essere riformulata nella sua celebre incarnazione secondo la meccanica statistica. La seconda legge diventa l'enunciato secondo cui, all'equilibrio, il sistema fluirà da un qualunque macrostato iniziale in modo tale da trascorrere la maggior parte del tempo nel macrostato all'equilibrio. Questo enunciato della seconda legge non esclude il caso estremamente improbabile in cui succede che le n particelle fluiscano verso un angolo della scatola. La seconda legge sarà allora una legge statistica in meccanica statistica. Ma ecco che arriva Maxwell e inventa una creatura microscopica, poi soprannominata demone o diavoletto di Maxwell. Per inciso, confesso che trovo l'uso del termine demone qui più che leggermente interessante. Si può dire che il demone di Maxwell sia quasi un agente autonomo. Anche se questa creatura non viene definita così come la definisco io, presto vedrete come essa sembri capace di prendere decisioni e di agire su mondo fisico. [...] Maxwell ci chiede di considerare quello stesso contenitore con n particelle. Egli però immagina che il contenitore sia suddiviso in due scomparti da una parte con una finestrella, nella quale è inserita una valvola a battente. A valvola aperta, le particelle di gas possono fluire dalla scatola sinistra a quella destra, oppure da quella destra alla sinistra. Ebbene, esprime divertito Maxwell, supponiamo che lo stato iniziale del gas nel contenitore sia il macrostato all'equilibrio: nessun lavoro macroscopico potrà essere svolto dal sistema all'equilibrio. Questo era il punto centrale di Carnot. Esiste un mare di energia nei movimenti casuali delle particelle di gas, ma da esso non vi è modo di estrarre lavoro meccanico, per esempio per spingere un pistone. Poi, aggiunge Maxwell, appassionandosi alla sua tesi, «immaginiamo che il nostro minuscolo amico agisca sulla valvola a battente in modo che egli, ogni volta che una particella veloce di gas si avvicina alla finestra dall'interno del contenitore sinistro verso quello destro, apra il battente e lasci passare la particella di gas più veloce della media, cioè la particella più calda. Supponiamo poi che il nostro demone agisca sulla valvola a battente e lasci così passare le particelle di gas più lente della media, e quindi più fredde, dal contenitore destro a quello sinistro. Ebbene, presto il contenitore sinistro sarà più freddo ed il contenitore destro più caldo. E ora [...] noi possiamo sfruttare la differenza macroscopica di temperatura tra il contenitore sinistro e il contenitore destro ed estrarre lavoro meccanico, magari per spingere un pistone».»47 Maxwell pose, quindi, una questione difficile per la meccanica statistica: sembrava, infatti, che le azioni del demone potessero aggirare la seconda legge della termodinamica. In effetti, il diavoletto di Maxwell ha posto un enigma non ancora risolto appieno. Tuttavia, un passo importante verso il «salvataggio» della seconda legge lo ha compiuto L. Szilard che concepì la reazione nucleare a catena, favorendo così lo sviluppo della bomba e dell'energia atomiche. «Szilard effettuò un calcolo che collegava per la prima volta il concetto di entropia ad un concetto nuovo di informazione. L'entropia in un sistema è la misura del suo disordine. Se ricordate, possiamo definire i volumi di macrostati differenti dal numero di microstati contenuti in ciascun macrostato. Per convenzione, consideriamo il logaritmo del numero di microstati di ciascun macrostato. In aggiunta, ogni macrostato ha anche la probabilità di essere occupato dal sistema. Moltiplichiamo il logaritmo del numero di microstati per macrostato per la probabilità che il sistema sia in quel macrostato. A questo punto, sommiamo tutti questi valori per tutti i macrostati. Il valore totale sarà l'entropia del sistema.»48 Dal punto di vista statistico, l'entropia di un sistema o aumenta nel tempo oppure è costante. All'equilibrio, per esempio, essa è costante. Diversamente, se il sistema viene lasciato libero da un macrostato inizialmente improbabile, in un primo momento l'entropia iniziale sarà bassa poiché la maggior parte dei macrostati non è occupata, tuttavia, con il passare del tempo, essa si diffonderà su tutte le possibilità e la somma della probabilità dei tempi di occupazione moltiplicata per i volumi dei macrostati crescerà fino al valore di equilibrio. «Szilard compì una prima riflessione su quella che in seguito Shannon avrebbe definito informazione. Szilard aveva grosso modo compreso che, quando il demone lascia passare in modo specifico una particella più veloce o più lenta nello scomparto sinistro oppure in quello destro, allora l'entropia totale del sistema sta diminuendo un poco. Ma, a sua volta, Szilard stimò la quantità di lavoro che il demone deve svolgere per distinguere se la particella di gas è più veloce o più lenta della media. Ne risulta che il lavoro da svolgere, e quindi l'energia utilizzata, è equivalente al lavoro che in seguito potrà essere estratto dal sistema una volta che le particelle veloci e quelle lente sono state segregate nei due comparti. Poiché il lavoro svolto dal demone equivale al lavoro estraibile in seguito dal sistema, all'equilibrio non può essere estratto alcun lavoro netto dal sistema: la seconda legge è salva.»49 Il passo successivo, però, lo ha compiuto Shannon legando il concetto di entropia con quello di informazione. Egli era interessato alla trasmissione dei segnali via cavo e concepì acutamente il segnale minimo come una risposta tutto o nulla, una risposta «si» o «no», che si poteva quindi rappresentare sottoforma di cifre binarie (di 1 o 0), quelle che oggi definiamo bit. Shannon considerò l'entropia di una sorgente che inviava un eventuale messaggio come l'insieme dei possibili messaggi potenzialmente inviabili, dove ogni messaggio doveva essere quantificato per la probabilità di essere effettivamente inviato. Egli concepì la ricezione di un messaggio come la riduzione di entropia, o di incertezza, riguardo a quale messaggio fosse stato effettivamente inviato, considerato l'insieme iniziale di messaggi possibili. In tal modo, dunque, Shannon reinventò la stessa matematica attinente all'entropia. Si immagini che esista un insieme di messaggi e che ciascuno di essi occupi un volume in uno spazio di messaggi possibili. Ogni messaggio viene inviato dalla sorgente con una certa probabilità. Shannon allora considerò il logaritmo del volume, nello spazio dei messaggi, occupato da un messaggio e lo moltiplicò per la probabilità che quel messaggio venisse inviato dalla sorgente. Se la frazione del volume totale dello spazio dei messaggi occupato da un certo messaggio è p, allora il logaritmo di questo volume è logp mentre la probabilità di quel volume è p. Pertanto il logaritmo di una probabilità di un messaggio moltiplicata per la probabilità stessa è data da plogp. La somma di questi termini plogp per l'insieme totale dei messaggi alla sorgente, dunque, rappresenta l'entropia della sorgente. «La ricezione di un segnale riduce l'incertezza nel ricevente riguardo a cosa viene inviato dalla sorgente, un'entropia negativa dunque. La misura dell'informazione secondo Shannon sarà allora il valore negativo della misura normale dell'entropia. Il legame che Szilard stabilì tra entropia e demone di Maxwell è, grosso modo, il seguente: la distinzione effettuata dal demone circa il fatto che una molecola di gas sia più veloce o più lenta della media e provenga dallo scomparto sinistro oppure da quello destro (vale a dire, se debba aprire o chiudere la valvola) costituisce una misurazione che estrae informazione sul sistema del gas, e quindi diminuisce l'incertezza sul sistema stesso. L'entropia del sistema sarà ridotta. La cosa importante è che, quando si parla di entropia, esiste un osservatore implicito. Pertanto, un fisico potrebbe affermare che l'entropia di un sistema

FONTI INTERNET

Berni - Biodiritto Enrico Diciotti – Relativismo etico, antidogmatismo e tolleranza Paolo Casalegno – La questione del relativismo fra filosofia e dibattito pubblico Vittorio Fantoni – Modernità, postmodernità e morale Umberto Galimberti – L’etica nell’era della tecnica Leonardo Marchettoni – Verità, pluralismo e realismo Roberto Mordacci – Relativismo, moralità e questioni morali

 

Fonte: http://www.liceofermibo.net/genitori_admin/genitori/docs/APPUNTI_DI_FILOSOFIA_MORALE.doc

Sito web da visitare: http://www.liceofermibo.net/

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