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Fin dalla nascita, nel XIX secolo, di ciò che con ragionevole approssimazione chiamiamo l’urbanistica moderna, esiste una straordinaria distanza fra la realtà del contesto e quella cui la nuova disciplina sembra far riferimento. Inoltre esiste anche una notevole differenza, in termini d’ampiezza, fra il campo d’applicazione effettivo e quello presupposto nelle elaborazioni disciplinari. Possiamo tranquillamente affermare che l’urbanistica non si è mai separata da questi due vizi d’origine; anche oggi è generalmente priva degli strumenti istituzionali che le permetterebbero di far coincidere il campo operativo con quello della ricerca, anche oggi viene regolarmente colta di sorpresa da trasformazioni sociali ed economiche che ne rovesciano i termini generali di riferimento e provocano periodiche crisi d’identità fra i suoi cultori. E’ un fatto ormai acquisito alla cultura urbanistica il livello metropolitano e regionale come quelli base per ogni tipo d’analisi o d’interventi nella struttura dell’insediamento. Pure, la legislazione urbanistica da una lato e le competenze amministrative dall’altro costituiscono una barriera tale da rendere estremamente difficile un’urbanistica coerente con quei livelli. Se questo è il caso dell’Italia tuttora legata al piano regolatore comunale come unico strumento in qualche modo efficace, è anche quello degli Stati Uniti dove lo scontro fra una pianificazione di settore a scala statale e nazionale (strade e autostrade), e una prassi di controllo dell’uso del suolo legata ad una costellazione di piccolissime comunità autonome, costituisce la negazione di ogni possibilità d’accordo non previcatore. Stando così le cose, non c’è da stupirsi del progressivo distacco tra ricerca scientifica e progettazione degli interventi, né dei tentativi sempre più frequenti di demandare ad organismi ad hoc la gestione dell’intero processo di pianificazione. Uno dei dati più impressionanti che si rivelano indagando la letteratura urbanistica ottocentesca riguarda la presenza di problemi – o, più esattamente d’un modo di impostare certi problemi – che sono tuttora vivi e dibattuti: le case popolari, il verde pubblico, e così via. Dove ciò che stupisce è il permanere di un modo di approccio e di un tipo di linguaggio, malgrado la diversità del momento storico, come se la “durata” dell’urbanistica fosse superiore a quella del contesto. Fra il 1870 e il 1914 le città d’Europa continentale assumono quel carattere di metropoli che da allora le definisce. Sono quelli gli anni nei quali l’amministrazione della città assume precise caratteristiche politiche ed economiche. Sono anche quelli gli anni in cui si definisce il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata nella proprietà e nella conduzione della città. E’ in quegli anni che si forma la struttura urbana nella quale viviamo e che condiziona oggi, quasi fosse una preesistenza storica, ogni progetto di modificazione. E’ in quegli anni che si impiantano i grandi parchi pubblici, le reti di trasporto urbano e metropolitano, i maggiori impianti tecnici a rete. Le strutture fisiche create in quegli anni sono state fino ad oggi il supporto dell’espansione successiva: i centri urbani coincidono tuttora largamente coi centri ottocenteschi mentre le zone di più recente sviluppo conservano il carattere di periferia. La città moderna è ancora, almeno per ciò che riguarda l’organizzazione spaziale e amministrativa, quella dell’ottocento. E prima di questa data la città è ancora, nella coscienza comune, città storica. Qual è stato l’atteggiamento dell’urbanistica ufficiale di fronte al processo di definizione della città messo in opera con la sua riduzione ad area di sfruttamento edilizio? La risposta che possiamo dare a questa domanda è ben altrimenti precisa di quella che saremo costretti ad offrire a una molto più ambigua, del tipo: ha saputo l’urbanistica far fronte ai problemi di sviluppo della grande città industriale dell’ ‘800? (Sullo smarrimento della cultura urbanistica dell’ottocento, cfr la versione che ne dà l’Enciclopedia Italiana: “Di fronte a queste nuove condizioni, l’urbanistica dell’ottocento, incerta tra le reminiscenze dell’edilizia prospettica del ‘700 e la vertigine del progresso tecnico, ritarda la sua azione di previsione e di controllo sulle città in movimento. Dall’altro lato la crisi architettonica dell’arte investe in pieno l’urbanistica: il problema si sminuzza nei suoi dettagli tecnici separati l’uni dagli altri: fognature, strade, acquedotti, ferrovie, ecc.”). Si tratta in sostanza di verificare se l’urbanistica ha saputo raggiungere gli obiettivi per i quali era nata, e che sono riconoscibili nei modi e negli strumenti adottati per costituirsi disciplinarmente, fra tutti, il piano regolatore, nel XIX secolo, lo strumento che più compiutamente riassume l’idea di città su cui si fonda l’urbanistica, è anche uno strumento che si è poi rivelato largamente inadeguato a controllare, a guidare e a gestire quei meccanismi e quelle attività che si ritengono tradizionalmente caratterizzare l’organizzazione urbana. L’impossibilità di fondo di conciliare un’immagine ideale di città quale obiettivo da raggiungere attraverso una serie di interventi spaziali, con la realtà di uno sviluppo sociale ed economico che tende a rinnovare continuamente i propri bisogni organizzativi specifici, non ha mai permesso di fare del piano lo strumento risolutorio che si pretendeva che fosse. Tuttavia, fin dall’inizio è nata la polemica non contro il piano ma contro un certo modo “disegnato” di fare il piano. Effettivamente l’educazione architettonica originale di molti urbanisti sembra sostenere un’attenzione per il disegno che va molto al di là di quanto non si elabori in termini di analisi, programmi e tecnologie graficamente meno appariscenti. La cura minuziosa con cui sono illustrate soluzioni planimetriche destinate a rimanere sulla carta per molti anni sembra essere lì a snellire quell’organicità dell’urbano che pur tutti sostenevano. Una prevaricazione dell’intuizione formalisteggiante insomma, sull’approccio scientifico globale. E’ l’eredità delle Beaux Arts, è quell’essere, per tanti, l’urbanistica figlia dell’architettura, che spiegherebbe l’enfasi del disegno e il così scarso interesse nelle motivazioni economiche e sociali. Ancora oggi in molta letteratura urbanistica, si notano espressioni di indignazione virtuosa in difesa della scienza contro l’urbanistica “intuitiva”.
La cosiddetta rivoluzione industriale è un processo di trasformazione economica e produttiva che si sviluppa in un periodo lungo e non sempre storicamente omogeneo, prima di arrivare a consolidarsi e a caratterizzare definitivamente la società occidentale. Se ne riconoscono gli inizi in Inghilterra nella seconda metà del XVIII secolo e se ne può verificare l’affermazione progressiva, ad un ritmo sempre più accelerato, nei paesi europei o di origine europea, in tempi e modi diversi, lungo tutto il XIX secolo. Comprenderne i meccanismi economici e gli aspetti politici e sociali significa darsi ragione dell’ultima vera “rivoluzione urbana” nella storia della città e non città, fra città e cittadini, fra città e disciplina urbanistica. Non è possibile definire un rapporto di continuità tra la città nata dalla rivoluzione industriale e la città barocca, più di quanto non lo sia con la città medioevale: il salto è radicale, quantitativo e qualitativo e la persistenza di forme o istituzioni cittadine del passato non basta ad eliminarlo. Si è anche affermato fra gli studiosi la nozione di città “preindustriale”, quale quella di una categoria atta a definire una varietà di situazioni urbane (in termini di periodo storico, organizzazione sociale e organizzazione spaziale) precedente o comunque estranei alla trasformazione della società in senso industriale, assimilando le strutture della città antica e quella di alcuni grossi centri africani o asiatici contemporanei. I caratteri delle trasformazioni indotte dallo sviluppo industriale nel XIX secolo sono abbastanza simili nei paesi europei, almeno per quanto riguarda l’origine della città industriale e la formazione del proletariato urbano. Bisogna tuttavia tener presente, ai nostri scopi, due elementi: lo sviluppo industriale non prende l’avvio contemporaneamente in tutta l’Europa, e, soprattutto, più tardi questo comincia e più rapidi sono sia il processo di trasformazione economica che il processo di urbanizzazione. Il processo di trasformazione industriale dell’ ‘800 è appoggiato ad un eccezionale aumento di popolazione, in gran parte da attribuire ai paesi europei (i soli peraltro dei quali si abbiano stime statistiche attendibili). Nel 1750 la popolazione europea è di 140 milioni, nel 1800 di 180, nel 1850 di 270, nel 1900 di 400. E’ stato osservato che la rivoluzione demografica in alcuni paesi precede di qualche decennio la rivoluzione industriale ed andrebbe piuttosto riferita all’aumento della produttività agricola che si registra verso la fine del XVIII secolo, per continuare poi nei decenni successivi lungo tutta la prima fase industriale. Nel 1800 soltanto il 2,2% della popolazione d’Europa viveva in città di più di 100.000 abitanti. L’Europa è dunque ancora nel suo insieme una regione non urbanizzata, ma alcuni suoi paesi stanno per divenirlo rapidamente. Cinquant’anni dopo l’Inghilterra, nel 1900, è la Germania che registra una maggioranza urbana, e nel 1930 la Francia. Aumentano enormemente anche le grandi città, nel 1800 solo una città Londra si avvicina al milione di abitanti, nel 180 Parigi contava una milione e Londra due. Nel 1900 le città “milionarie” erano 11, di cui nove di origine europea: Londra, Parigi, Berlino, Vienna, Mosca, Pietroburgo, New York, Chicago, Philadelphia, Tokio e Calcutta. I nuovi cittadini sono frutto da una parte del generale aumento della popolazione, che comincia peraltro a verificarsi, come si è visto, già prima dell’avvio della rivoluzione industriale e dall’altro in termini percentualmente più significativi, dell’emigrazione dalla campagna. Si indicano per l’Inghilterra due fattori predominanti: l’abbandono dei campi da parte delle famiglie dei piccoli coltivatori espropriati nel corso del processo di trasformazione fondiaria e le ricorrenti carestie irlandesi che fanno si che grandi masse contadine emigrano in Inghilterra, e, più tardi, nel nord America. Lo studio del processo di urbanizzazione in Inghilterra rivela che la popolazione dei centri con meno di 10.000 abitanti tende a diminuire, legata come è allo spopolamento delle campagne, mentre aumenta quella delle altre classi. Due sono le direttrici fondamentali di spostamento della popolazione i bacini minerari, destinati ad alimentare il fabbisogno sempre crescente di ferro e di carbone, e i grandi centri urbani. Motivi sia tecnici che economici giustificano la concentrazione dei luoghi di lavoro dell’industria. L’uso del carbon coke nella produzione del ferro porta alla formazione dei grandi centri carbosiderurgici: la scala della produzione necessaria ad assorbire gli alti costi, derivanti dalla complessità dei procedimenti produttivi, aumenta costantemente. Per le industrie meccaniche e chimiche si spiega la concentrazione con la necessità di unificare e generalizzare i controlli sulla qualità della produzione. Per tutte, infine, la ferrovia diviene uno dei motivi fondamentali di attrazione e concentrazione. L’altro motivo è costituito dalla necessità di avere a disposizione un largo mercato del lavoro ove sia possibile attingere manodopera tanto fissa che stagionale, in modo da assorbire le fluttuazioni di una produzione estremamente sensibile alla richiesta del mercato. L’età delle industrializzazioni in Europa è anche un’epoca di enormi trasformazioni nella struttura degli insediamenti. Le migrazioni da una regione all’altra, la trasformazione dell’uso di interi territori, le aperture di nuove vie di comunicazione, l’abbandono dei campi e il trasferimento in città di grandi masse di popolazione: in un periodo di tempo relativamente breve, poco più di un secolo o in periodi anche minori all’interno dei singoli paesi, cambiano radicalmente, con le strutture economiche politiche e sociali, le strutture territoriali, la localizzazione dei centri produttivi, il rapporto fra la città e la campagna. Eppure l’urbanistica e, agli inizi, esclusivamente scienza della città. Le sue origini sono state riconosciute in quella critica dell’urbanesimo che assume spesso toni di violenta denuncia man mano che le condizioni del proletariato urbano vengono scoperte dall’opinione pubblica borghese. Senza mai tentare di indagare le cause, si pensa di poter risolvere la situazione portando dei rimedi per cancellare gli aspetti patologici più clamorosi della fase finale del processo. Non si trova nella letteratura urbanistica dell’ ‘800, nessun accenno alle origini territoriali dei problemi urbani. I mali dell’urbanesimo appartengono alla città e vanno curati nella città o, al più, con una diversa città. Lo stesso problema edilizio, che nessuna grande città europea sarà in grado di risolvere, viene sempre esaminato dall’interno, come inadeguatezza dell’organizzazione urbana, anziché essere posto in relazione con i grandi movimenti di popolazione e la concentrazione delle fonti di lavoro. Le grandi trasformazioni fisiche dei territori, lo sviluppo delle reti di trasporto a lunga distanza, le operazione di risanamento idrico, le grandi bonifiche, le costruzioni cioè del paese industriale, sfuggono all’urbanistica ufficiale. Questa è più che mai costruzione della città: ciò che è fuori è soggetto di sviluppi settoriali e mai, neanche nelle elaborazioni teoriche di sviluppo integrato. Di più, nella letteratura urbanistica, ciò che non è città è campagna idillica, un ambiente che non ha alcun rapporto con la nuova realtà produttiva. Lo sfasamento tra la realtà del contesto e l’immagine che se ne ricava dalla disciplina non potrebbe essere più netto.
Come la città moderna, l’urbanistica nasce nell’ottocento. Pur se il periodo in cui ci riferiamo comprende sicuramente gli anni che precedono la prima guerra mondiale e, per alcuni paesi, gli ultimi decenni del XVIII secolo, è certo che siamo di fronte ad un vero spartiacque nella storia urbana e territoriale della società occidentale. Sono anche gli anni in cui si afferma un modo preciso di intendere la città, secondo una serie di schemi funzionali caratterizzati dai propri obiettivi di rendimento e da una propria logica interna. La città risulta dalla sovrapposizione di questi schemi ed è un organismo tanto più soddisfacente quanto più efficienti sono le reazioni che intercorrono fra gli elementi componenti: la rete dei trasporti, la distribuzione delle densità edilizie, il sistema di verde. Sono anche gli anni in cui l’urbanistica sembra occuparsi prima di tutto dell’aspetto edilizio degli insediamento, stabilendo una tradizione che arriva fino ai nostri giorni e che appare in straordinario contrasto con la realtà dell’intervento pubblico in un numero sempre maggiore di settori della vita sociale. E’ tuttavia estremamente importante comprendere le ragioni storiche ed economiche che sottendono delle scelte culturali così innovatrici rispetto al passato e nello stesso tempo, apparentemente così distante dalla realtà dell’intervento umano sul territorio. La definizione di “organismo” applicata alla città, ha un immediato successo. La possibilità di classificare i fenomeni urbani con i metodi delle scienze naturali (le più obiettive e certe) entusiasma i cultori della nuova disciplina e sembra conferire loro il prestigio dello scienziato. L’idea d’organismo comporta una correlazione fra i diversi elementi del complesso urbano e, analogamente, fra i diversi tipi d’intervento messi in opera o ipotizzati. Si tratta cioè di ovviare alla politica del caso per caso, dell’intervento ad hoc per risolvere un problema locale senza tener conto dell’insieme, per superare insomma un modo tipico della tecnica urbanistica corrente. Questo nuovo atteggiamento ha però una conseguenza che, non chiara agli inizi, diverrà in seguito sempre più caratterizzante: la città e, più in generale, gli insediamenti costituiranno d’ora in poi un campo autonomo e definito di eventi, dal quale appare essenziale chiarire le strutture e i collegamento interni e su cui è necessario operare nel modo più “specifico”. La città viene intesa come una macchina complessa della quale è necessario assicurare il funzionamento. Il funzionamento a sua volta si identifica in pochi meccanismi elementari come la circolazione e l’enfasi su alcuni punti significa naturalmente che queste sono le aree di maggior attrito, dove cioè la macchina stenta di più a funzionare, fino a minacciare di fermarsi. E poiché nella città, come mai prima, si compendia tutta l’energia, e la speranza della società, è compito della società intera garantirne la salvezza. Il primato della città, nella nuova società industriale è fuori discussione. L’accentuarsi del potere economico nelle città, già tradizionalmente sedi del potere politico, e soprattutto lo spostamento nelle città delle attività produttive economicamente determinanti con la relativa concentrazione di impianti e di lavoratori, determinano il crollo di ogni rapporto di complementarità con la campagna circostante. La città è il luogo dove “tutto” ormai avviene, ma anche quello dove sono più evidenti le contraddizioni, le ingiustizie e le sofferenze della nuova forma di sfruttamento. Una ricostruzione della sostanza teorica della disciplina urbanistica fra l’ottocento e il novecento deve basarsi nella pubblicistica contemporanea come fonte essenziale di documentazione, più puntuale certamente di ogni deduzione che si possa trarre da interventi urbanistici realizzati. E’ necessario però farne una lettura tra le righe, poiché gli scritti disponibili non sono mai orientati in questo senso, e tendono anzi ad evitare le impostazioni generali per attenersi il più possibile alla casistica concreta. L’atteggiamento apparentemente pragmatico dell’urbanistica ufficiale è stato per molto tempo confrontato con quello scopertamente ideologico della tradizione utopica, col risultato di creare un’immagine sostanzialmente tecnicistica e non impegnata della cultura dei “funzionari”. Anzi, contro questa pretesa limitatezza si è più spesso levata la critica novecentesca, incapace – proprio perché pienamente partecipe della stessa tradizione culturale – di comprenderne la reale portata ideologica. Invece, come del resto è ovvio, una base teorica esiste ed è sistematicamente osservata, ed è proprio ciò che rende possibile quella univocità di posizioni disciplinari cui si è già accennato. Solo che, per rendersene conto, è necessario svolgere un’indagine tutta interna alla disciplina, senza alcuna deviazione alla ricerca di conferme esplicite nei trattati o finanche nel contesto reale. Allora è possibile comprendere le ragioni che giustificano la creazione di quegli strumenti di intervento, la scelta di quel campo di operazioni, l’individuazione di quei problemi da risolvere. In questo modo la disciplina riacquista la sua dignità di scienza, rivelandosi impegnata nella realizzazione di un progetto sociale storicamente corretto ed attendibile. Certo, il suo progetto non è quello profondamente riformatore che verrà più tardi sbandierato con sempre maggiore frequenza, ma riconoscerne le reali caratteristiche è pur sempre un atto positivo in vista di una sua rifondazione. Il tutto è tuttavia, volta per volta, dettato e suggerito dal problema fondamentale della casa sul quale è opportuno soffermarsi.
Uno degli strumenti più dibattuti riguarda la tipologia: edilizia aperta o edilizia chiusa?. Qui la discussione non è risolvibile semplicemente in termini di destinazione d’uso, perché si tratta di una scelta significativa soprattutto, ma non soltanto, all’interno dell’edilizia residenziale: il problema è piuttosto quello di individuare il modulo di accrescimento del tessuto urbano, nel quale si inseriranno ulteriori specificazioni tipologiche e funzionali, accompagnate ad una serie di considerazioni di carattere anche sociale. Tranne qualche eccezione, da ricercarsi piuttosto fra gli architetti che fra gli urbanisti, le simpatie di questi ultimi vanno regolarmente all’edilizia a bassa densità. Larghi strati di popolazione a medio e basso reddito non potranno, infatti, evitare gli edifici ad appartamenti, più economici anche per ciò che riguarda la manutenzione. Inoltre tali edifici sono più adatti per le attività industriali e commerciali, più sicuri essendo accessibili solo da un lato e, grazie al maggior profitto realizzabile, preferiti dai prioritari delle aree fabbricabili. Per edilizia aperta si intende quella costituita da edifici unifamiliari isolati, e, di solito, non superiori a due piano. Ad ogni edificio è attribuito un lotto, di dimensioni variabili, completamente attrezzato a giardino o a spazio di servizio con le eventuali dèpendences. L’edificio è circondato dal giardino e la sua distanza dai confini del lotto, dal margine stradale e dalle costruzioni adiacenti è generalmente regolata attraverso l’indicazione dei minimi ammissibili. Questo è il modo base di costruzione dei quartieri signorili. Ed è anche, il modo assunto come ideale per la residenza laddove le condizioni economiche lo permettano. Queste sono le case fatte per abitarci e non per trarne profitto, queste sono le case che “appartengono” al cittadino e al suo modo di vita e non sono imposte dalle contingenze. La discussione tipologica si svolge prevalentemente intorno ai temi dell’edilizia residenziale, ma la possibilità d’uso del tipo per destinazioni diverse è generalmente adottato come prova del primato dell’uno sull’altro. Ciò significa che il soggetto è in realtà il modulo di accrescimento urbano, e cioè quale tipo corrisponda meglio all’obiettivo di una crescita ordinata. Questa, s’è visto, è quella detta equilibrata, nella quale la città, crescendo uniformemente, determina un graduale ed uniforme aumento di valore dei terreni di espansione. Tale valore non può venire realizzato che imputandone l’onere all’edificio che sorge sul terreno, divenendo quindi parte integrante del costo di costruzione: l’unico modo possibile per assorbire l’incidenza dell’area in una proporzione accettabile dal mercato è quello di realizzare un’alta densità edilizia. Nasce così il problema se sia possibile imporre la costruzione di un’edilizia aperta ai proprietari di aree fabbricabili, visti i vantaggi che verrebbero all’intera città, che sono invece naturalmente favorevoli all’edilizia chiusa: la risposta, dilatoria, rinvia generalmente al piano regolatore come il luogo più appropriato per la verifica dei modi possibili di crescita urbana. Il dilemma, edilizia aperta o edilizia chiusa, è di quelli che non sono rimasti. Ma non perché la questione sia stata chiarita: piuttosto, perché è stata intorbidita dal prevalere di un altro tipo di considerazioni. Le ricerche tipologiche degli architetti moderni, l’interesse esasperato per una rigida corrispondenza del tipo all’uso, la definizione di standards ottimali rispetto a diversi parametri di utenza (per chi, per quale attività, in che posto, etc.) hanno portato all’individuazione di una serie articolata di tipologie che tendono ad interessare, in primo luogo, la produzione edilizia. Solo che non sono stati gli interessi dell’industria edilizia a determinare il modo di crescita della città, bensì quella della proprietà fondiaria. Questo punto, così chiaro agli urbanisti tedeschi fra l’otto e il novecento, è stato messo da parte dagli architetti del movimento moderno cosicché dal loro sforzo creativo ben poco, e con grandi ritardi, è riuscito a superare le maglie dei regolamenti edilizi e urbanistici. La questione dell’abitazione è invece fra quelle che, dibattute fin dai primi tempi, non hanno cambiato i propri connotati strutturali. E’ presto chiaro, infatti, che, nella formazione della grande città, il fabbisogno di alloggi si va vieppiù aggravando malgrado l’intensificarsi della produzione edilizia e delle opere di urbanizzazione. Ma, se è vero che la popolazione urbana aumenta ad un ritmo decisamente superiore alle possibilità dell’industria edilizia, cosicché la scarsità di alloggi è da sempre una caratteristica della città moderna, e altrettanto vero che per una larga fascia di abitanti la scarsità è cronica e va di pari passo con la fatiscenza. Il modo di produzione della città, condizionato dalla rendita fondiaria e dall’appropriazione privata dell’aumento di valore dei terreni seguito all’espansione urbana, e tale da non permettere la realizzazione di alloggi civili per una vasta fascia di redditi minori. Il costo del terreno e l’esiguità dei salari fanno si che l’edilizia volta a soddisfare i lavoratori sia, oltre che scarsa, di qualità estremamente scadente, così da dover essere classificata fra i tuguri poco dopo essere costruita. Ma il più delle volte le classi lavoratrici vanno ad ammassarsi nei vecchi quartieri, dove gli indici di affollamento raggiungono livelli mai prima sperimentati, nonché temuti dagli igienisti e dai tutori dell’ordine della moralità pubblica. Nasce il quartiere operaio modello. Generalmente lontano dal centro urbano ma adiacenti alla fabbrica, gli abitanti di nuovi quartieri, dotati dei servizi necessari, tenderanno a sentirsi più partecipi del sistema. Le abitazioni intorno alla fabbrica: ideale sociale che fa degli operai i difensori dell’ordine pubblico e del diritto di proprietà. Si arriva ad augurarcisi che le tre categorie – operai, impiegati, padroni – vivano assieme attorno alla fabbrica, sottolineando così ancora una volta la necessità – di sfuggire alla potenziale conflittualità sociale della grande concentrazione urbana. Così, nella tradizione urbanistica, le differenze fra le proposte di palingenesi sociale e urbanistica derivate dagli utopisti e le realizzazione edilizia degli industriali avanzato tendono ad attenuarsi. Le une e le altre propongono modelli di organizzazione spaziale sostanzialmente antiurbani, una struttura dei servizi autosufficiente almeno nei suoi termini essenziali, un’edilizia a bassa densità ricca di giardini pubblici e privati. L’esigenza dell’esproprio nasce dalla necessità di strappare alla proprietà privata il controllo dei suoli necessari a garantire l’ordinato espandersi della città. Ed essendo, come s’è visto, uno degli obiettivi di un’ordinata espansione un graduale aumento di valore dei suoli, l’esproprio appare in definitiva come uno strumento di sostegno della proprietà privata. Ma, se questa è la philosophy che sta alla base di una questione fra le più dibattute, non c’è dubbio che l’esigenza di un disegno razionale del piano urbanistico porta più di uno studioso ad allargare sempre più i confini delle aree soggette ad esproprio. Gli urbanisti guardano così con invidia l’esperienza di quei paesi, come la Francia (i decreti haussmanniani del 1852 e del 1858) e l’Italia (legge per Napoli 1885) dove esiste addirittura l’esproprio di zona per le operazioni di risanamento. Nella letteratura tedesca, l’esproprio di zona è generalmente legato al problema della ricomposizione fondiaria o riparcellazione. Quando la città, nel suo espandersi, si trova di fronte ad un’antica e irrazionale suddivisione in lotti l’esproprio e la ricomposizione delle parcelle catastali è l’unico mezzo disponibile per evitare da un lato di colpire ingiustamente alcuni proprietari e dall’altro di sottostare al facile ricatto del singolo che pretenda di opporsi alla volontà della comunità. Il problema spunta fuori di nuovo quando si discute della indennità di esproprio. Nella determinazione del prezzo di esproprio e nella discussione se questo debba essere o meno commisurato al valore agricolo non ci si nasconde l’origine pubblica degli aumenti di valore ma si dà per scontato che l’obiettivo pubblico sia l’arricchimento individuale. Si arriva anche a proporre per un’indennità di esproprio tutte quelle aree che risultassero inutilizzabili, per i privati, a causa della forma e delle dimensioni, in seguito ad interventi stradali di piano.
Non c’è dunque da stupirsi se il piano regolatore è prima di tutto un piano di ampliamento, un modo cioè di organizzare lo spazio urbano futuro portando la città dove ora è solo campagna. Nella città esistente si occupa il piano di trasformazione, col quale il centro storico viene per la prima volta isolato dai programmi generali di crescita della città e si avvia a diventare un terreno per le esercitazioni culturalistiche di architetti e archeologi. In attesa delle sognate trasformazioni il centro storico decade mentre gli interventi edilizi che vi si operano non fanno che aggravare le già spaventose condizioni di sovraffollamento. Le “caserme di affitto”, teatro di tanta letteratura verista ed espressionista, è bersaglio privilegiato dell’invettiva anti urbana, diventano il simbolo della città industriale e appaiono come l’unico possibile modo di rinnovamento edilizio nei tessuti urbani preesistenti. Qui opera soprattutto il regolamento edilizio, che offre il quadro normativo necessario per portare gli antichi aggregati ai livelli più elevati di sfruttamento edilizio, attraverso un sistematico innalzamento degli indici di densità. E’ quando è accaduto in tanti centri storici, dovunque se ne intravedesse la convenienza, ed è la ragione per cui tanto vasta e sistematica è stata, a cavallo del secolo, la distribuzione e la deformazione di tessuti storici rimasti sostanzialmente inalterati nei secoli passati. Nascerà così anche la questione del centro storico e del relativo “risanamento”, che spesso diventa necessario proprio a causa degli interventi della speculazione più recente. Contratte dentro le maglie di una suddivisione proprietaria estremamente fitta, le nuove costruzioni riescono solo in parte a sfruttare tutto il volume edificabile, che i regolamenti cittadini permetterebbero; vi si aggiunga l’inadeguatezza della rete viaria antica, in un epoca in cui la sezione stradale è l’unico elemento pubblico rimasto a garantire la salubrità di un tessuto urbano, e si vedrà come l’avvio ad un’equivoca politica di risanamenti fosse pressoché inevitabile. Le grandiose operazioni speculative che hanno caratterizzato la ristrutturazione haussmanniana di Parigi accompagneranno le analoghe imprese che verranno compiute in tante città europee, da Milano a Monaco a Madrid. Si affermerà tuttavia, soprattutto in Austria e in Germania, un metodo di intervento più rispettoso del tessuto storico della città, centrato sulla trasformazione della cinta muraria in un sistema di circonvallazione sul quale si attesta di preferenza l’edilizia pubblica. Il modello è, chiaramente, quello dei Ring viennese (realizzato negli anni ’50 contemporaneamente agli sventramenti parigini) ma diventa anche questo ben presto uno schema universalmente e acriticamente applicato, tanto che numerosi sono i piani di ampliamento graficizzati soltanto con un anello di circonvallazione. I costi di trasformazione della cintura sono inferiori a quelli da affrontare nel centro urbano e, almeno in una prima fase, se molti bastioni sono scomparsi, molti centri sono sopravvissuti.
Fonte: http://www.celestini.it/filemanager/download/168/GLOSSARIO%20DI%20URBANISTICA2.doc/
Sito web da visitare: http://www.celestini.it
Autore del testo: Barbara, Chiara, Elena, Graziella, Marcella, Maria e Piergiorgio
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