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DELLA  SERIETA’  E INEVITABILITA’  DEL  GIOCO

                                              
Mimmo  Benevento 

Io ritengo che, da qualunque punto di vista lo si voglia trattare, quello antropologico, quello sociale, quello filosofico, quello culturale, quello di attività del tempo libero, quello economico ecc. , il gioco riguarda ogni individuo nel suo agire nella vita quotidiana cioè il gioco come modello dell’interazione umana o, più in generale, creaturale, non escludendo il comportamento di molte specie animali.
Non si tratta di affermare che il gioco ci insegni a vivere, come fosse un manuale contenente tutte le regole che è necessario sapere, ma che attraverso l’esperienza del gioco, nell’esercizio degli elementi che connotano i vari tipi di giochi e che caratterizzano il come quei giochi vanno giocati, si acquisti un rapporto migliore con noi stessi, con la nostra vita e con gli altri che ne fanno parte; una maggiore saggezza.
Voglio considerare gli elementi del gioco (quelli trattati da Huizinga e da Caillois) come apprendimenti che si possono trasferire ( e spesso si trasferiscono implicitamente) nei comportamenti relazionali nella vita quotidiana, anche se questo comporta – ne sono consapevole – un salto acrobatico di livelli logici (l’aspetto “vertigine” informa  spesso certi miei atteggiamenti) e cambiamenti di contesto che possono portare a dei paradossi  (ma non è la vita stessa paradossale?) , cioè ci si mette nei  “ pasticci” (come direbbe G. Bateson) .
Margaret Mead, presentando se stessa al secondo Convegno Macy del 1955 a Princeton (New Jersey) aveva affermato: << Il gioco mi interessa come precursore dell’arte, della religione e della poesia, nella società umana. E mi incuriosisce anche quello che dal gioco possiamo imparare sulla natura del “piacere”. … In questo Convegno mi piacerebbe scoprire qualcosa di più sull’importanza del gioco per gli esseri umani nella propria considerazione di sé, e capire in che misura esso sia paragonabile al mangiare, al bere, al dormire e a qualsiasi altro riconosciuto bisogno fisiologico>>
.
Stando alle definizioni e alle molteplici interpretazioni del gioco che ne hanno dato illustri studiosi (peraltro non sempre da “giocatori”) sembrerebbe:

  1. che il gioco (e i giochi) non si possa definire univocamente, onnicomprensivamente, in modo esaustivo, cioè secondo un criterio unico che comprenda tutti gli innumerevoli aspetti del gioco, mettere insieme in una classificazione i giochi di carte e i giochi di destrezza, l’aquilone, i cruciverba, le montagne russe, il bambino che gioca a fare l’arcivescovo, la roulette e le lotterie, i giochi olimpici e i giochi di prestigio, il gioco degli scacchi,  ecc.

Su questo punto si può essere d’accordo e risulta chiaro anche dalle difficoltà che hanno trovato tutti quelli che si sono occupati dell’argomento, in modo “serio”, nel tentare una indebita “reductio ad unum”. <<Il gioco non è “uno”, ma qualcosa di simile ad una piattaforma girevole (l’espressione è di M. Yourcenar contenuta nel discorso pronunciato nel 1981 in occasione della sua elezione all’Académie française nel posto lasciato vuoto da R Caillois che era morto nel 1978), con lati e aspetti diversi collegati da una logica circolare. >> [ P.A. Rovatti – Il paiolo bucato – pag 76 ]

  1. Che è essenzialmente improduttivo (in antitesi con un’attività lavorativa o artistica) perché non crea alcuna ricchezza, alcun prodotto, alcun oggetto mercificabile; <C’è spostamento di proprietà, ma non produzione di beni > – come sottolinea R. Callois –

.

  1. Che è un’attività separata dalla “vita reale”, un’azione libera, anche se incerta (nel risultato),        conscia di non essere presa “sul serio”. Questo punto mi sembra il più interessante e ne parlerò più avanti.

Questi tre punti emergono dalle analisi  classiche – per così dire - del gioco. Per Johan Huizinga : <Gioco è un’azione, o una occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa, accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di “essere diversi” dalla vita ordinaria>.
E Roger Caillois amplifica l’argomento definendo il gioco come un’attività:
1) libera:                     a cui il giocatore non può essere obbligato senza che il gioco perda subito la sua natura di divertimento attraente e gioioso.
2) separata:                circoscritta entro precisi limiti di tempo e di spazio fissati in anticipo.
3) incerta:                   il cui svolgimento non può essere determinato né il risultato acquisito preliminarmente, una certa libertà nella necessità d’inventare essendo
obbligatoriamente lasciata all’iniziativa del singolo giocatore.

4) improduttiva:         che non crea cioè, né beni né ricchezza, né alcun altro elemento nuovo; e, salvo uno spostamento di proprietà all’interno della cerchia dei giocatori, tale da riportare ad una situazione identica a quella dell’inizio della partita.
5) regolata:                 sottoposta a convenzioni che sospendono le leggi ordinarie e instaurano momentaneamente una legislazione nuova che è la sola a contare.
6) fittizia:                   accompagnata dalla consapevolezza specifica di una diversa realtà o di una totale irrealtà nei confronti della vita normale.

E Caillois espande, per così dire, l’ambito del gioco inserendolo fra due atteggiamenti diametralmente opposti, quasi aporetici, ma che comunque sconfinano uno nell’altro e cioè: il ludus, caratterizzato dal superamento controllato delle difficoltà, dalla “padronanza di sé”, dal mettersi in gioco, dal sottoporsi volontariamente alle regole per dare il meglio di se stessi, dall’usare l’astuzia e il calcolo,  e la paidia, che mette in risalto la libera improvvisazione, una fantasia di tipo incontrollato, una gioiosa esuberanza irrequieta e spontanea, la manifestazione spontanea dell’istinto del gioco. Il ludus appare come il complemento e l’educazione della paidia che esso disciplina e arricchisce. E non si cada nell’errore di volerli separare questi due atteggiamenti, riservando la paidia ai giochi dei bambini (anche se la parola ne contiene il significato) e il ludus ai giochi degli adulti perché sono sempre copresenti in qualsiasi tipo di gioco.
E poi, per venire a capo dell’impossibilità di un’unica classificazione che li comprenda tutti, Caillois traccia delle distinzioni unificanti degli aspetti presenti in tutti i giochi ( che pure si intersecano e coesistono in ogni tipo di gioco) e sono:

  1. l’ambizione di trionfare grazie al solo merito personale in una competizione regolata (agon)

-      l’abdicazione della volontà a vantaggio di una attesa ansiosa e passiva della sentenza della    
sorte  (alea)             

  1. il gusto di assumere una personalità diversa dalla propria, cioè una maschera, un travestimento (mimicry)
  2. la ricerca della vertigine, per ex in una gara a folle velocità o sulle montagne russe (ilinx).

 

Dobbiamo, innanzi tutto, sgombrare il campo da due luoghi comuni che tanto posto hanno nell’immaginario comune, con conseguenze a volte fuorvianti, a volte paralizzanti.
Il primo consiste nell’idea che il gioco sia riservato ai bambini, che sia fatalmente infantile.
Il secondo è che il gioco,  il gioco delle carte, l’azzardo, che in qualche modo è sempre inerente al gioco, il giocare rappresenti qualcosa di riprovevole, qualcosa di cui vergognarsi e giustificarsi, qualcosa di cui si è obbligati, in certe condizioni “serie”, a discolparsi. Il fatto è che questi giudizi vengono, per lo più, da chi il gioco non lo conosce o non lo pratica, una sorta di moralisti che si spaventano delle cose di cui non possono parlare con cognizione di causa, delle cose che per descriverle non hanno parole sufficienti e appropriate, perché non ne hanno esperienza ed allora, come un arcano inquietante, se ne tengono a debita distanza ma non abbastanza da sottrarsi ad esprimere giudizi. (U. Galimberti).

Le regole

<< La differenza tra un gioco e il divertirsi puro e semplice è che il gioco ha delle regole>>
[ VEM – Dei giochi e della serietà – pag 49 ]

E R. Caillois – ne: I giochi e gli uomini – pag 8 - :
<<Ogni gioco è un sistema di regole. Esse definiscono ciò che è o non è gioco, vale a dire il lecito e il vietato. Queste convenzioni sono al tempo stesso arbitrarie, imperative e senza appello. Non possono essere violate con alcun pretesto, pena l’interruzione e la fine immediata del gioco. Nient’altro, infatti, sostiene la regola se non il desiderio di giocare, vale a dire la volontà di rispettarla.Bisogna giocare secondo le regole o non giocare affatto. Ora, “stare al gioco” è un’espressione che si impiega in moltissimi altri casi al di fuori del gioco e anzi soprattutto al di fuori di esso, in un’infinità di azioni e rapporti che si cerca di regolare in base a delle condizioni implicite molto simili a quelle del gioco. E tanto più conviene sottomettervisi dal momento che nessuna sanzione ufficiale punirà il partner sleale. Semplicemente, cessando di stare al gioco, egli avrà reinstaurato lo stato di natura e permesso nuovamente ogni imposizione, astuzia o reazione proibita, che le convenzioni avevano proprio lo scopo di bandire di comune accordo. Quello che si chiama gioco appare in questo caso come  un insieme di restrizioni volontarie, accettate di buon grado e che instaurano un ordine stabile, a volte una tacita legislazione, in un universo senza leggi>>.

Va bene, le regole sono un elemento indispensabile del gioco, altrimenti si dissolverebbe il gioco stesso ( come game ) ma poi il gioco va giocato ( come play ) cioè deve essere lasciato un margine di libertà (chiamato ancora “ gioco” come nei meccanismi, negli ingranaggi in cui la mobilità reciproca fra i diversi elementi rende possibile il funzionamento del meccanismo stesso).
<<La regola, volontariamente assunta, deve esistere come pretesto del gioco, ma non è il gioco>> afferma Bateson.
In un torneo di Bridge, per es, la stessa “smazzata”, determinata dal caso a seguito del mescolamento delle carte e relativa “alzata” del giocatore a destra del mazziere, viene giocata da giocatori diversi e il risultato dell’incontro è spesso diverso perché dipende da come i diversi giocatori, soggetti tutti alle stesse regole, hanno saputo giocare quelle carte, cioè hanno messo in campo le proprie abilità, la libertà di fare dichiarazioni (licite) o troppo audaci o troppo prudenti, di tentare un “impasse” nel giocare le carte (che ha solo il 50% di probabilità di riuscita) oppure no:
Perfino nei giochi d’azzardo, che si fondano essenzialmente in un’abdicazione delle nostre capacità, delle risorse delle nostre abilità, dei nostri muscoli o della nostra intelligenza, per affidarsi alla sorte, non contando su di noi per la vittoria, ma restando passivi nello svolgersi degli eventi (la pallina della roulette può fermarsi, indipendentemente da noi, su un certo numero della ruota), noi mettiamo in gioco il nostro carattere, cioè prendere la decisione se andare fino in fondo o fermarsi in tempo (prima di rovinarci completamente), di “vedere” o “passare” in ogni mano di poker.

Bateson ci aiuta ad evidenziare questo punto, quando in :” Versioni molteplici della relazione” – MEN pag 184 – afferma:  << Il gioco e la creazione del gioco debbono essere visti come un unico fenomeno e anzi, dal punto di vista soggettivo, è plausibile dire che la sequenza può essere veramente giocata solo finchè conserva qualche elemento creativo e inatteso. Se la sequenza è del tutto nota essa è rituale, benchè forse sempre formativa del carattere. Quando un essere umano (A) che gioca ha a sua disposizione un numero finito di azioni alternative, è abbastanza semplice vedere un primo livello di scoperta. Si tratta di sequenze evolutive, con una selezione naturale, non di elementi ma di strutture di elementi di azione. (A) tenterà varie azioni su (B) e scoprirà che (B) accetta solo certi contesti. Cioè, (A) deve o far precedere certe azioni da certe altre oppure collocare alcune delle proprie azioni in certe cornici temporali (sequenze di interazione) che sono preferite da (B) : (A) “propone” e (B) “dispone”.. [Bateson fa riferimento, per trattare del gioco – che a sua volta gli serve per un discorso più ampio sull’interazione umana – alla sua esperienza al Fleishhacker Zoo di San Francisco nell’osservare il comportamento di “ gioco” fra due lontre]
E più avanti – pag 187 -  <<Esiste una entità più ampia, diciamo (A) più (B) che, nel gioco, compie un processo per il quale ritengo che il nome giusto sia pratica. Si tratta di un processo di apprendimento in cui il sistema (A) più (B) non riceve informazioni nuove dall’esterno, ma solo dall’interno del sistema. L’interazione mette a disposizione delle parti di (B) informazioni sulle parti di (A) e viceversa. C’è stato un cambiamento di confini.>>

E ancora:
<<Si noti che il termine gioco non limita né definisce gli atti che costituiscono il gioco. Gioco è applicabile solo a certe ampie premesse dell’interscambio: Nel linguaggio ordinario, “gioco” non è il nome di un atto o di un’azione; è il nome di una cornice per l’azione. Possiamo attenderci allora che il gioco non sia soggetto alle regolari norme del rinforzo. Anzi, chiunque abbia tentato di far smettere di giocare dei bambini, sa che cosa si prova vedendo che i propri sforzi vengono semplicemente incorporati nella struttura del loro gioco.>>.

Il gioco, con le sue regole, le sue rigidità, l’obbligo di comportamenti volontari di adesione ai limiti imposti dal gioco stesso, pena la distruzione del gioco e lo scadimento nel non-gioco, può essere considerato come modello e, per analogia, trasferito nel “gioco della vita” – e la vita non si può non giocare - dove una caratteristica essenziale dell’interazione è un processo in cui si evolvono di continuo nuove regole e forme di interazione; dove ci si deve districare fra “pasticci” in situazioni transcontestuali in cui la logica dei matematici ( quella della teoria dei giochi di von Neuman ) non riesce a chiarire, per es. la differenza tra messaggi e metamessaggi.

<<…Per quanto non vi sia gioco senza regole e per quanto le regole esercitino un certo controllo [sui giocatori], questi ultimi non sembrano sentire questo controllo come qualcosa di spiacevole. Il fatto è che le regole sono parte del gioco, per cui, fino a quando il gioco va liscio, i giocatori non hanno la sensazione di essere sottomessi ad una imposizione dall’esterno, ma semplicemente di stare giocando il gioco. Certo, a volte, un giocatore può sentire una decisione come ingiusta, ma anche in questo caso non obietterà alla regola, ma a quella che ritiene una sua violazione, cioè ingiusta e unilaterale [per es. un errore arbitrale] . Quello che accade nei giochi è che il controllo sulle azioni individuali è ottenuto mediante la situazione complessiva in cui sono coinvolti gli individui, situazione che essi condividono e in cui e per cui, anche nel più competitivo dei giochi, cooperano e interagiscono.>> [ D. Zoletto – La scuola dei giochi – pag. 57 ]

Ci si può chiedere, con R. Caillos, “che cosa diventino i giochi quando la rigida barriera che separa le loro regole ideali dalle leggi confuse e insidiose dell’esistenza quotidiana, perda la necessaria nettezza”.

E qui veniamo al punto 3), che avevo lasciato in sospeso, cioè il gioco come attività “non seria” e separata dalla vita “reale”.

<<Quando si parla di gioco, si tende di solito a dire ciò che esso non è – “non è reale” o “non è serio” salvo poi restare un po’ sul vago, non appena ci si rende conto di quanto il gioco sia una cosa seria.>>
[Bateson Questo è un gioco – pag 29 ]
Il gioco non può che essere serio o non è. E non si contrapponga (in un equivoco) il piacere o la soddisfazione o la vertigine che può accompagnare chi gioca alle azioni controllate e responsabili della vita “normale”, alla logica dei comportamenti istituzionalizzati.
E al termine serio si può aggiungere rigoroso. <Gioco significa, dunque, la libertà all’interno del rigore stesso, affinché questo acquisisca o conservi la sua efficacia> [Caillois -I giochi e gli uomini-]
Già Huizinga si era espresso in proposito: <Se consideriamo più da presso la coppia di concetti “gioco” e “serietà”, ci risulta che i due termini non sono equivalenti. “Gioco” è il termine positivo, “serietà” il termine negativo. Il contenuto semantico di “serietà” è definito ed esaurito con la negazione del gioco; “serietà” è non-gioco e nient’altro. Il contenuto semantico di “gioco” invece non è affatto circoscritto né esaurito dalla non-serietà. “Gioco” è una cosa a sé. Il concetto “gioco” come tale è di un ordine superiore a quello di “serietà”, perché “la serietà” cerca di escludere il gioco, ma il “gioco” può includere benissimo la serietà.> [Homo Ludens – pag 54 ]
P.A.Rovatti [– La scuola dei giochi – pag 23] :  <Mentre il così detto spirito di serietà, che appartiene alla filosofia e alla scienza, ma che si insinua ed è infine radicato nelle nostre menti, si affanna a strappare il gioco dal suo stato di supposta non serietà per costruire definizioni e concetti di gioco che lo restituiscano a una qualche legittimità scientifica, proprio mentre porta a compimento questa esigenza di serietà, ottiene in realtà solo il risultato di allontanare il gioco e perfino di distruggerlo. Al contrario, l’esperienza del gioco, nel caso si riuscisse ad attraversarla almeno un po’, avrebbe come risultato non certo secondario quello di smantellare questo spirito di serietà, non per distruggere o uccidere la serietà bensì per ripensarla o semplicemente per lasciarle spazio, per farla uscire dai suoi angusti confini, aprendo così la possibilità a un altro spirito di serietà, certo più inquietante ma sicuramente meno soffocante.>

Così come abbiamo cercato di superare la logica oppositiva gioco-serietà, adesso vediamo di esaminare la questione della realtà del gioco, la sua “diversità”, la sua distanza, la sua separazione dalla vita normale, lavorativa, “reale” di tutti i giorni.

Una prima considerazione, (ma che ancora non chiarisce) è che il gioco, l’esperienza ludica, è riconosciuto unanimemente come qualcosa di comune a tutti gli uomini e a tutte le associazioni di viventi (compresi gli animali).
<Il gioco è innegabile. Si possono negare quasi tutte le astrazioni: la giustizia, la bellezza, la verità, la bontà, lo Spirito, Dio. Si può negare la serietà, ma non il gioco.> [Huizinga –Homo Ludens – pag 6]
E Bateson ci dice – come rileva P.A. Rovatti ne: Il paiolo bucato - < o impariamo a giocare, oppure ci collochiamo al di qua di quel che in effetti ci accade in un qualunque scambio con gli altri. Se non impariamo a giocare, siamo in ritardo o addirittura tagliati fuori rispetto al gioco dell’esperienza: non solo non lo comprendiamo, che sarebbe forse il male minore, ma non riusciamo a giocarlo e così limitiamo lo spazio, o meglio non riusciamo a produrre lo spazio che ci è necessario per allargarci, per allargare l’esperienza.> ……..< comunque, molti non sanno giocare e il gioco, di solito, non è ritenuto così importante come vorrebbero Bateson e altri illustri studiosi (E. Goffman, S. Freud, F. Nietzsche,
D.W. Winnicott, L. Wittgenstein, ecc.).
Il gioco è comunque qualcosa di “circoscritto” - un “oasi della gioia” secondo E. Fink o  “un’isola incerta” secondo Caillois o “uno spazio magico” secondo Hiuzinga – uno spazio a sé, in certo modo chiuso, sicuramente “separato” dalla realtà comune, entrando nel quale sospendiamo le regole e i modi della vita quotidiana per immetterci, gratuitamente, in un esperienza che ha le sue regole, ha una sua 
“realtà”. Sembrerebbe che il gioco ha una sua “cornice” che lo inquadra.
Ma quella del gioco è una realtà tra virgolette. C’è una distanza precaria tra la realtà della vita quotidiana e la “realtà” del gioco. Potremmo, per capire meglio, prendere l’esempio del cinema:
Quello che viene rappresentato sullo schermo è una realtà vera, anche se rappresentata (e quindi una finzione), ma guai se nella sala cinematografica facessimo commenti del tipo che il sangue dell’eroe caduto è solo pomodoro o che il morto non è morto (perché l’attore comparirà nel prossimo film);
Rovineremmo il gioco, faremmo perdere all’arte cinematografica il valore di arte, annulleremmo il messaggio sociale, culturale che il film sta trasmettendo. Si tratta di distinguere e contemporaneamente integrare i livelli di astrazione e di realtà; siamo chiaramente nel paradosso. <Se siamo scienziati, sostiene Bateson, cerchiamo con grandi difficoltà di applicare la teoria dei tipi logici per tenere in ordine questi livelli. Ma nella vita quotidiana le cose vanno diversamente anche per gli scienziati e i paradossi vengono accettati senza pretendere di distinguere rigorosamente fino a che punto si tratta di realtà o fantasia> [D. Zoletto – Pensiero e scrittura del doppio legame – pag 111 ]
Allora il problema è quello di entrare e chiarire quella linea di confine tra i diversi livelli di realtà, tra un “interno” e un “esterno”, fra un “dentro” e un “fuori”.
E. Goffman perviene nella sua analisi ad affermare:<ogni assunzione che separa un’attività [ per es. il gioco ] dal suo contorno esterno segue anche i modi in cui questa stessa attività è inevitabilmente legata al mondo che la contorna.>
Esiste una “barriera”, per Goffman, che protegge lo spazio del gioco e lo separa dalla realtà esterna ma che diventa “una membrana” o un “velo creativo” che allenta la distanza tra “interno ed “esterno”. Si tratta del paradosso per cui una separazione, proprio in quanto separa ed isola, permette il passaggio e la comunicazione; per cui c’è una distanza che avvicina. [Il paiolo bucato]
<<Il gioco reale, anche se pensiamo ad un gioco massimamente regolato, è un gioco sregolante.
Il gioco è divertente, ed è un gioco reale, solo quando arriva alla soglia di sicurezza delle abitudini e riesce ad attraversare, magari per un solo momento, questa soglia di sicurezza, che è costituita dalle cornici abituali in cui facciamo normalmente scorrere la nostra esistenza. Se il gioco è trattenuto al di qua di questa soglia, restando incanalato nelle cornici abituali, il gioco cessa di essere divertente e diventa un gioco noioso, cessando perciò di essere un gioco. Il gioco non è più piacevole, e quindi smette di essere un gioco, quando è completamente sorvegliato dall’esterno, mentre è piacevole e perfino eccitante quando la sorveglianza dall’interno (che ciascun giocatore vanta di avere) comincia ad allentarsi. Per quanto possa sembrare paradossale, la realtà del gioco non è la conferma o la ripetizione della propria identità acquisita, ma consiste ogni volta in uno smottamento di questa identità, per cosi dire acquisita. Perdersi nel gioco, che è quanto accade poco o tanto, ma sempre, nel gioco reale, non significa affatto perdersi, ma sfidare almeno un poco la propria identità esponendosi all’esterno di sé.>
[ La scuola dei giochi – pag 17-18 ]

Fonte: http://www.circolobateson.it/archiviobat/2005/vacanza05/Benevento%2005%20GIOCO.doc

 

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