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L’Informale
Con il termine “informale” vengono definite una serie di esperienze artistiche sviluppatesi soprattutto negli anni ’50 e che hanno una matrice astratta fondamentale. La caratteristica dell’Informale è di essere contrario a qualsiasi forma.
Ma cosa sono le forme? Nella realtà sensibile è forma tutto ciò che ha un contorno, con il quale un oggetto o un organismo si differenzia dalla realtà circostante e nel quale si definiscono le sue caratteristiche visive e tattili. Anche l’arte astratta, soprattutto nelle sue correnti più geometriche, si costruisce per organizzazione di forme. Queste, non più imitate dalla natura, nascono solo nella visione (o immaginazione) dell’artista, ma rimangono pur sempre delle forme.
L’Informale, rifiutando il concetto di forma, si differenzia dalla stessa arte astratta costituendone al contempo un ampliamento. Questo ampliamento non è da intendersi solo come possibilità di creare immagini nuove ma anche come allargamento del concetto stesso di creatività artistica, in quanto l’Informale produrrà in seguito una notevole serie di tendenze, che finiscono per sconfinare del tutto dalle tradizionali categorie di pittura e scultura. L’Informale è pertanto da considerarsi una matrice fondamentale di tutta l’esperienza artistica contemporanea.
Il termine “informale” fu coniato negli anni ’50 dal critico francese Tapié. A questa etichetta sono state variamente attribuite, e poi negate, molte ricerche di quegli anni. Oggi nell’ambito dell’Informale si tende a individuare due correnti principali: l’Informale gestuale e l’Informale materico. Ma a queste due tendenze vanno di certo uniti altri due segmenti: quello dello Spazialismo e quello della Pittura Segnica.
L’Informale gestuale, definito anche Action Painting, proviene soprattutto dagli Stati Uniti e coincide di fatto con l’Espressionismo astratto. Il suo maggior rappresentante è Jackson Pollock. La sua tecnica pittorica consisteva nello spruzzare o far gocciolare (dripping) i colori sulla tela, senza procedere ad alcun intervento manuale diretto sulla superficie pittorica. Le immagini così ottenute si presentano come un intreccio caotico di segni colorati, in cui non è possibile riconoscere alcuna forma.
I quadri informali sono pertanto la negazione di una conoscenza razionale della realtà, ossia diventano la rappresentazione di un universo caotico in cui non è possibile porre alcun ordine razionale. In tal modo l’esperienza artistica diventa solo testimonianza dell’essere e dell’agire. E in ciò si lega molto profondamente alle filosofie esistenzialistiche di quegli anni, che proponevano una visione di tipo pessimistico rispetto alla possibilità dell’uomo di realizzarsi nel mondo.
Le premesse dell’Informale di gesto si legano in maniera molto diretta ad alcune esperienze delle Avanguardie storiche. In particolare al Dadaismo si può fa risalire il suo rifiuto per la cultura, all’Espressionismo la violenza delle immagini proposte. Ma soprattutto dal Surrealismo l’Informale prende un principio fondamentale: la valorizzazione dell’inconscio. Nell’Informale di gesto infatti il risultato che si ottiene è del tutto automatico: deriva non da scelte formali coscienti, ma da gesti compiuti secondo movenze in cui la gestualità deriva dalla liberazione delle proprie energie interiori. In tal modo l’automatismo psichico dei Surrealisti arriva alle sue estreme conseguenze. In esso non vi è alcun momento cosciente che cerchi di razionalizzare o spiegare ciò che proviene dall’inconscio.
Il fascino di quest’arte risiede proprio nel suo farsi. Da essa infatti possiamo far derivare tutte quelle esperienze successive, come il Comportamentismo, la Body Art o le Performance, in cui il risultato estetico non risiede più nell’opera compiuta ma solo nel vedere l’artista all’opera. Tra i principali artisti americani dell’Action Painting vanno ricordati, oltre a Pollock, Willem de Kooning e Franz Kline.
L’Informale di materia è la tendenza che si manifesta maggiormente in Europa. Esso deriva da un’antica dicotomia da sempre presente nella cultura occidentale da Platone in poi: la polarità materia-forma. Il primo termine indica il magma informe delle energie primordiali, il secondo definisce l’organizzazione della materia in organismi superiori. Questo contrasto tra materia e forma era stato un termine problematico nella scultura di Michelangelo e da lì ha influenzato la scultura moderna attraverso la riscoperta di Rodin. Con l’Informale si appropriano di questa problematica anche i pittori, proponendo immagini in cui i valori estetici ed espressivi sono appunto quelli dei materiali utilizzati.
L’Informale di materia inizia nello stesso anno in cui Pollock inventa l’Action Painting, il 1943. Protagonista è il pittore francese Jean Fautrier. Egli, rifacendosi alle esperienze del Cubismo sintetico di Picasso e Braque e alle ricerche surrealiste di Max Ernst, inserisce nei suoi quadri materiali plastici che emergono dalla superficie. In tal modo rompe il confine tra immagine bidimensionale e immagine plastica, proponendo opere che non sono più classificabili nelle categorie tradizionali di pittura o scultura.
Ai valori espressivi dei materiali si rivolgono altri artisti informali europei: tra essi emergono soprattutto il francese Jean Dubuffet, lo spagnolo Antoni Tápies e l’italiano Alberto Burri. Quest’ultimo in particolare propone opere dalla singolare forza espressiva, ricorrendo a materiali poveri: legni bruciati, vecchi sacchi di juta, lamiere, plastica, eccetera.
Lo Spazialismo è una corrente non uniforme, che si può riconoscere attraverso due artisti principali: l'argentino Lucio Fontana e il russo (ma naturalizzato americano) Marc Rothko. Anche le loro ricerche possono ricondursi all’Informale per la comune assenza di forme, così come definite sopra. Tuttavia la loro ricerca mira ad altri risultati, diversi da quelle degli altri informali. Le loro opere suggeriscono effetti spaziali del tutto inediti: il primo, Fontana, ricorrendo a buchi e tagli prodotti nelle tele, il secondo alle stesure di colore secondo macchie di sottile variazione tonale. Entrambe queste ricerche hanno la capacità di suscitare atmosfere immateriali e non terrene, proponendo una inedita visione di spazi che vanno al di là dello spazio percettivo naturale.
La Pittura Segnica infine è un’ultima versione dell’Informale, anche se da questa si differenzia per la mancanza di un netto rifiuto della forma. In queste ricerche la forma, benché non del tutto assente, tende a trasformarsi in segno cioè in un elemento grafico di riconoscibilità formale ma non contenutistica. Le ricerche della Pittura Segnica tendono a costruire nuovi alfabeti visivi ma non concettuali, in cui è evidente la componente calligrafica. Tra gli artisti più significativi di questa tendenza sono da citare l’italiano Giuseppe Capogrossi e in Francia George Mathieu, Wols (pseudonimo di Wolfgang Schultze) e Hans Hartung, questi ultimi di origine tedesca.
La Pop Art
L’Informale ha sicuramente ben rappresentato un certo clima culturale esistenzialistico tipico degli anni '50. La sua carica pessimistica di fondo tuttavia fu compresa solo da una ristretta cultura d’élite. E ben presto ha mostrato la sua inattualità nei confronti di una società in rapida trasformazione, che si caratterizzava sempre più come massa, dominata dai tratti positivi ed ottimistici del consumismo.
Ed è proprio dall’incontro tra arte e cultura dei mass-media che sorge la Pop Art. La sua nascita avviene negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni ’50 con le prime ricerche di Robert Raushenberg e Jasper Johns. Ma la sua esplosione avviene soprattutto negli anni ’60, conoscendo una prima diffusione e consacrazione con la Biennale di Venezia del 1964.
I maggiori rappresentanti di questa tendenza sono tutti artisti connaturati americani: Andy Warhol, Claes Oldenburg, Tom Wesselmann, James Rosenquist, Roy Lichtenstein ed altri. Ed in ciò si definisce anche una componente fondamentale di questo stile: essa appare decisamente il frutto della società e della cultura americana. Cultura largamente dominata dall’immagine, ma immagine che proveniva dal cinema, dalla televisione, dalla pubblicità, dai rotocalchi, dal paesaggio urbano largamente dominato dai grandi cartelloni pubblicitari.
La Pop Art ricicla tutto ciò in una pittura che rifà in maniera fredda ed impersonale le immagini proposte dai mass-media. Si va dalle bandiere americane di Jasper Johns alle bottiglie di Coca Cola di Warhol, dai fumetti di Lichtenstein alle locandine cinematografiche di Rosenquist.
La Pop Art documenta quindi in maniera precisa la cultura popolare americana (da qui quindi il suo nome, dove Pop sta per diminutivo di popolare), trasformando in icone le immagini più note o simboliche tra quelle proposte dai mass-media. L’apparente indifferenza per le qualità formali dei soggetti proposti, così come il procedimento di pescare tra oggetti che apparivano triviali e non estetici, ha indotto molti critici a considerare la Pop Art come una specie di nuovo Dadaismo. Se ciò può apparire in parte plausibile, diverso è però il fine. In essa infatti è assente qualsiasi intento dissacratorio, ironico o di denuncia.
Il più grosso pregio della Pop Art rimane invece quello di documentare, senza paura di sporcarsi le mani con la cultura popolare, i cambiamenti di valore indotti nella società dal consumismo. Quei cambiamenti che consistono in una preferenza per valori legati al consumo di beni materiali e alla proiezione degli ideali comuni sui valori dell’immagine, intesa in questo caso soprattutto come apparenza. E in ciò testimoniano dei nuovi idoli o miti, in cui le masse popolari tendono ad identificarsi. Miti ovviamente creati dalla pubblicità e da mass-media che proiettano sulle masse bisogni indotti e non primari, per trasformarle in consumatori sempre più avidi di beni materiali.
Il Concettuale
Il termine “concettuale” ha assunto in campo artistico un significato polivalente, per cui è necessario fare una premessa sul suo utilizzo. Il primo artista ad aver usato programmaticamente la definizione concettuale è stato Joseph Kosuth intorno alla metà degli anni '60. Il suo intento era di proporre opere il cui fine non era il godimento estetico bensì l’attività di pensiero. Del 1965 è una delle sue opere più famose, Una e tre sedie, in cui egli espone una sedia vera, un’immagine fotografica e la definizione scritta della parola sedia. Ciò, a cui tende, è avviare nello spettatore la riflessione sul rapporto, problematico e conflittuale, che esiste tra realtà, rappresentazione iconica (immagine) e rappresentazione logica (parola).
Si comprende come un’arte di questo tipo tende ad eliminare qualsiasi significato emozionale per proporsi con razionalità lucida e fredda. Nell’opera di Kosuth ciò avviene ancora attraverso la proposizione di opere concrete, ma ben presto si comincia a comprendere come si può giungere all’obiettivo concettuale anche facendo a meno di opere materiali o durature. Arte diviene anche il parlare dell’arte, il comportamento, la riflessione e così via. E da questo punto comincia il significato più pregnante del termine concettuale: un’arte che riesce a fare a meno delle opere d’arte.
Se guardiamo all’arte del XX secolo da un'ottica particolare, ci accorgiamo che l’evoluzione artistica ha seguito una linea di progressive riduzioni, di privamenti. Gli artisti si sono aperti nuovi territori di ricerca, privandosi di qualcosa che sembrava appartenere indissolubilmente al significato stesso di arte (così come storicamente si era costruito in Occidente). Si inizia con il fare a meno del naturalismo e della mimesi (Postimpressionismo, Espressionismo, eccetera), si procede facendo a meno della prospettiva (Cubismo), del passato (Futurismo), del valore venale dell’opera (Dadaismo), della realtà (Astrattismo), della forma (Informale), fino a giungere a fare a meno dell'opera d’arte.
Si è rotto così l’ultimo tabù, in quanto un’arte che si manifesti senza opere, era decisamente l’ultima frontiera che restava da conquistare.
Torniamo al problema iniziale. Il termine concettuale può essere utilizzato in una accezione ristretta, riferendoci ad un gruppo limitato di esperienze, o in una accezione più ampia, guardando a tutte le esperienze in cui la mancanza dell’opera tradizionalmente intesa appare il dato caratterizzante. Come abbiamo già fatto con l’Informale, noi utilizzeremo l’accezione più ampia, comprendendo in questo termine molteplici esperienze anche molto diverse tra loro ma che si accomunano per una intenzionalità di fondo, che appare molto evidente.
Cominciamo a delimitare i termini cronologici: il Concettuale inizia alla metà degli anni '60 e si esaurisce alla fine degli anni '70. Dura appena una quindicina d’anni e tuttavia rimane una delle fasi più salienti dell’arte contemporanea. In questo periodo troviamo una serie di movimenti e di artisti che con maggiore o minore consapevolezza propongono un’arte il cui approccio è effettivamente concettuale: l’Environment, la Land Art, l’Arte Povera, la Body Art, la Narrative Art eccetera.
Giusto per comodità di classificazione possiamo dividere le esperienze concettuali in due gruppi principali: quelle legate al pensiero e quelle legate all’evento. Nel primo caso abbiamo artisti la cui attività, pur legata alla produzione di opere concrete, si pone come messaggio prettamente intellettuale. Nel secondo caso rientrano quelle esperienze artistiche, che non producono opere ma eventi temporalmente limitati e la cui traccia rimane solo nella testimonianza dell’evento stesso (fotografica, filmica o altro).
Il pensiero concettuale. Le premesse più dirette dell’atteggiamento concettuale vanno individuate soprattutto in alcuni movimenti che vengono a definirsi già negli anni '50 e agli inizi degli anni '60. Ci riferiamo soprattutto al New Dada e alla Minimal Art.
Con New Dada si intende un movimento nato inizialmente negli Stati Uniti e i cui protagonisti americani coinfluiranno in seguito nella Pop Art (Rauschenberg e Jasper Johns). Caratteristica di questo movimento fu soprattutto il recupero in chiave dadaista dell’oggetto d’uso quotidiano, da inserire nelle opere d’arte. Atteggiamento che finirà per coinvolgere trasversalmente molti fenomeni artistici del Dopoguerra: l’uso e la manipolazione di oggetti presi dalla realtà è tratto comune a molti movimenti ed artisti. In Italia il fenomeno del New Dada arriva agli inizi degli anni ’60 con il gruppo dei Nouveaux Réalistes e con l’attività di alcuni artisti, tra cui il più emblematico rimane Piero Manzoni. Di Manzoni sono celebri alcune provocazioni, come le famose scatolette con i suoi escrementi, il cui significato non può che essere concettuale.
Con il termine Minimal Art si intende invece un movimento nato anch’esso negli Stati Uniti negli anni ’60, la cui produzione si caratterizza per grandi strutture tridimensionali realizzate in forma di geometria assoluta, spesso metalliche monocrome, unite secondo criteri di composizione asettica. Le strutture minimaliste si pongono quindi a una fruizione da cui è del tutto escluso il piacere estetico, ma in cui prevale l’atteggiamento di razionalismo freddo.
Nel corso degli anni '60 e '70, i movimenti che più si pongono in linea con queste premesse sono soprattutto tre: l’Arte Concettuale intesa in senso proprio, l’Arte Povera e la Narrative Art.
Nel primo gruppo oltre al già citato Joseph Kosuth possono essere inclusi gli americani Bruce Nauman e Lawrence Weiner, il tedesco Joseph Beyus, l’italiano Giulio Paolini. Con il termine Arte Povera si fa invece riferimento ad un gruppo di artisti italiani (Mario Merz, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Luciano Fabro, Michelangelo Pistoletto, e altri), presentati per la prima volta nel 1967 dal critico Germano Celant. Il termine nacque a designare un’arte fatta di elementi primari (acqua, terra, luce, eccetera), che non disdegnava l’uso alla maniera New Dada degli oggetti presi dalla realtà più umile: stracci, giornali vecchi e così via. Infine nella Narrative Art ritroviamo una serie di artisti che lavorano utilizzando testi scritti e immagini fotografiche, spesso a sfondo autobiografico, per costruire percorsi narrativi indipendenti, dove i testi narrano una storia mentre le foto ne illustrano un’altra. Anche qui la derivazione dall’approccio già sperimentato da Joseph Kosuth appare evidente.
L’evento concettuale. In questa categoria possiamo includere quegli artisti e quei movimenti la cui attività si esprime soprattutto attraverso happening e performance. Ricordiamo che, benché i due termini siano quasi equivalenti nel significato di fondo di esibizione, la differenza solitamente consiste nel fatto che l’happening è un’azione in cui l’improvvisazione e il caso giocano un ruolo determinante e spesso prevede anche il coinvolgimento del pubblico, mentre la performance è un’azione o un evento pianificato, il cui esito non è casuale ma è quello che l’artista vuole ottenere. In senso più generale, oggi è maggiormente usato il termine performance, per indicare qualsiasi operazione artistica basata sull’esibizione di tipo teatrale.
Il precedente più diretto è da individuare senz’altro nell’opera di Jackson Pollock, la cui pittura avveniva con una gestualità che, indipendentemente dal prodotto finito, aveva già valenze spettacolari ed estetiche. Ma sono da ricordare anche le Avanguardie storiche, in quanto i primi a pensare all’arte come spettacolo sono stati senz’altro i Futuristi con le loro Serate futuriste, subito seguiti dai Dadaisti del Cabaret Voltaire.
Negli anni '60 la tendenza all’uso dell’azione teatrale e spettacolare trova sbocco in due direzioni principali: la Body Art e la Land Art. Con il primo termine si indicano quegli artisti che tendono ad utilizzare se stessi in prima persona nell’evento proposto. Spesso, soprattutto negli anni '70, queste performance avevano un effetto-choc ai limiti dell’irrazionale, come il prodursi ferite o infliggersi dolore per produrre negli spettatori livelli di emozione sicuramente inediti. In altri casi la performance aveva effetti meno cruenti, mettendo in gioco meccanismi quali il travestimento o l’azione collettiva.
Con il termine Land Art si indicano invece quelle operazioni, spesso condotte a scala territoriale, di durata limitata e che come le performance lasciano solo una traccia documentaria alla fine del loro accadere. Il caso più emblematico è quello dell’artista bulgaro Christo, divenuto famoso per avere completamente impacchettato monumenti di grande dimensione, come il Pont-Neuf a Parigi e il Palazzo del Parlamento di Berlino, o ambienti naturali quali un tratto di scogliera in Australia e un’intera isola in Florida. Ovviamente l’effetto spettacolare di un simile impacchettamento è indubbio, proponendo una diversa percezione della scala di rapporti tra uomo e spazio ma ovviamente non può che essere contenuta in tempi molto ristretti, qualche ora o al massimo qualche giorno. Altro caso tipico della Land Art è l’operazione Lightning Field dell’artista americano Walter De Maria, consistente in 400 pali d’acciaio infissi a distanze costanti in un tratto inaccessibile del deserto del New Mexico. Questa imponente installazione è nota soprattutto attraverso le foto, e alla fine, come altre operazioni concettuali, funziona soprattutto per ciò che offre alla definizione di pensieri e concetti nuovi in campo artistico.
Fonte: https://www.lsgalilei.org/attachments/article/176/I.%20Storia%20dell'Arte.doc
Sito web da visitare: https://www.lsgalilei.org/ e www.francescomorante.it
Autore del testo: F.Morante
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