Calcio movimenti ultras

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Calcio movimenti ultras

 

Introduzione

 

Il calcio negli ultimi vent’anni è cresciuto moltissimo: la crescente ingerenza del mondo dei media, ed in particolare della televisione, unita ad una serie di fattori di cambiamento a livello regolamentare, tattico, economico, ha portato lo sport più amato dagli italiani ad essere considerato come un’azienda, molto spesso, però, mal gestita.
In quest’ambito la comunicazione riveste un ruolo centrale, coinvolgendo numerosi soggetti attivi e passivi: in primis le società che impiegano strategie di carattere pubblicitario; i mass media, che rappresentano istituzionalmente la comunicazione legata allo sport; le tifoserie organizzate che con i propri comportamenti sono in grado di influenzare le scelte societarie e che utilizzano lo stadio come cassa di risonanza per lanciare messaggi.
Ci è parso interessante ragionare proprio sul fenomeno del tifo e, in particolare, su coloro che fanno della fede calcistica una ragione di vita, gli ultras: il “fenomeno ultras” si presenta come un tema di grande attualità, vista l’attenzione mediatica rivolta al mondo del calcio e, soprattutto, da quando le cronache calcistiche hanno cominciato a riportare non solo i risultati dei campi di gioco,  ma anche le “gesta” compiute sugli spalti. Gesta che spaziano dalle note di colore e di folclore, fino ad arrivare a quelle più propriamente degne della “cronaca nera”, ampio com’è il volume delle notizie inerenti agli scontri tra opposte tifoserie e tra tifoserie e forze dell’ordine.
Abbiamo cercato, perciò, di accrescere la nostra conoscenza riguardo al movimento ultras, analizzando i valori e le motivazioni che ne sono alla base e provando a capire quanto è cambiato il fenomeno, anche inconsapevolmente, all'interno di un mondo “naturalmente mediato”.
I mass media come cassa di risonanza, l’esibizione di striscioni ad uso di tv e fotografi, il rapporto con la carta stampata, le trasmissioni radiofoniche, l’utilizzo di strumenti comunicativi più o meno nuovi: c’è stata una trasformazione del movimento ultras in funzione della comunicazione? Questo lavoro proverà a dare una risposta a tale quesito.
La nostra ricerca è stata effettuata nella realtà di Roma, sponda romanista, città che vive con passione le vicende calcistiche della squadra capitolina. Lo scopo del nostro lavoro è stato quello di analizzare la realtà della Curva Sud, da sempre cuore del tifo giallorosso, alla luce della situazione in cui versa l’intero panorama delle curve, in Italia, ma anche nel resto d’Europa.
Nelle nostre dissertazioni abbiamo tenuto conto, in primo luogo, della vera e propria origine del movimento degli ultras, cioè la scena inglese, caratterizzata dai “famigerati” hooligans. Avendo questi ultimi portato una ventata innovativa all’interno degli stadi di calcio, sia in termini di sostegno caloroso alla squadra, sia in termini di esuberanza dimostrata dentro e fuori gli spalti, abbiamo ritenuto opportuno menzionare quei paesi europei fortemente influenzati dagli ultras britannici.
Il passo successivo è stato quello di spostare la nostra attenzione anche verso quegli altri paesi, europei e non, che hanno saputo sviluppare un proprio modello di tifo, primi fra tutti gli ultras italiani. Abbiamo così affrontato la genesi del movimento ultras nel nostro paese, citando soprattutto quelle tifoserie che più delle altre hanno saputo “farsi un nome”; in base ai temi trattati, il nostro percorso ha continuamente fatto riferimento alla realtà della Curva Sud di Roma, con lo scopo di tracciare un confronto tra il movimento ultras in generale e la realtà da noi esaminata.
Cercando comunque di evitare un lavoro di semplice “cronistoria” dei fatti accaduti all’interno delle curve, il nostro intento è stato quello di dare un quadro completo del movimento ultras, partendo dal contesto in cui è germogliato, fino  a prendere in considerazione i cambiamenti che il fenomeno ha subito nella società mediata dei nostri giorni.   
Abbiamo cercato di capire la mentalità degli ultras, il  modo in cui vivono la curva, il loro “territorio”, prestando  particolare attenzione ai valori e alle “regole” che governano questi veri e propri spaccati della società. Oltre alle relazioni interpersonali ci siamo inoltrati nella rete dei rapporti esistenti tra gruppi ultras e il “mondo esterno”, come i movimenti politici, le società calcistiche, i calciatori, le forze dell’ordine, ma soprattutto i mass media, rispetto ai quali gli ultras alternano manifestazioni di collaborazione ad altre di aperta ostilità.
La nostra analisi ha preso poi in considerazione i problemi più “scottanti” del mondo ultras: i comportamenti  violenti e la sempre più netta “politicizzazione” delle curve italiane, cercando di capire se esiste un collegamento tra i due fenomeni. Lo abbiamo fatto attraverso uno studio di quelle che possono essere le cause che spingono molti  ragazzi ad assumere atteggiamenti incivili, citando le ricerche effettuate in alcuni paesi europei, Italia inclusa; tali ricerche cercano di spiegare quali sono gli elementi da tenere ben presenti  negli approcci di questo tipo.
Abbiamo preso in esame i possibili modi di contrastare il problema della violenza, non solo passando in rassegna le misure adottate nelle aree degli stadi di calcio come perquisizioni ai cancelli, diffide comminate agli ultras più “pericolosi”, settori riservati unicamente alle tifoserie ospiti, ma anche provando a ragionare sui metodi applicabili sul piano politico – sociale: iniziative delle società sportive, interventi  delle autorità statali e calcistiche, Osservatori sulle culture giovanili come l’Archivio del Tifo.
Un intero paragrafo, inoltre, è dedicato al serio problema del razzismo da stadio.
La ricerca portata avanti nella realtà del tifo romanista, come vedremo, verterà su un questionario somministrato al campione di ultras selezionato, con domande riguardanti ogni aspetto della vita: dalla scuola al lavoro, dal tempo libero allo sport, dalla politica all’attività svolta in curva.
Tali  domande sono state effettuate sulla falsariga di una ricerca sugli ultras del Livorno, condotta nel 1996 dal Laboratorio di Ricerca del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pisa, inserita nel quadro di ricerca e monitoraggio sulla condizione giovanile di Livorno.
La disponibilità e la franchezza degli stessi ultras, già dimostrate durante i nostri primi approcci, hanno permesso di effettuare una ricerca esaustiva e realistica, visto che lo scopo di questa tesi, una volta accantonati i comprensibili dubbi su questo nostro “ingresso” nei codici e nella fisionomia della curva, è stato assimilato ed accettato in tempi brevi. Nelle pagine conclusive della nostra tesi abbiamo riportato i risultati relativi alle risposte ai questionari.  
Questo lavoro, inoltre, si avvale del contributo diretto di due persone che vivono, con diversi “ruoli”, il mondo del calcio: abbiamo intervistato Lorenzo Contucci, avvocato  penalista e rappresentante della “vecchia guardia” della Curva Sud, per addentrarci ancor di più nella realtà dei tifosi della Roma; il secondo intervento è quello di Fabio Massimo Splendore, giornalista professionista del Corriere dello Sport – Stadio, con il quale abbiamo approfondito il rapporto tra ultras e mezzi di comunicazione.
Ultras e Mass media, due mondi tanto diversi, quanto dipendenti l’uno dall’altro.
CAPITOLO 1

La nascita del movimento ultras

 

Il termine “ultras” (dal latino ultra = oltre, al di là) nella Francia rivoluzionaria degli anni del diciottesimo secolo ha originariamente indicato chi spingeva all’eccesso la propria ideologia e prassi politica. A partire dagli anni ’60, come vedremo, il termine è entrato a far parte del gergo giornalistico sportivo del nostro paese indicando singoli o gruppi di tifosi organizzati.
Attualmente, il movimento ultrà è uno dei fenomeni collettivi che riunisce il maggior numero di persone, soprattutto giovani di sesso maschile. Ogni domenica gli stadi di tutto il mondo non si riempiono soltanto di tifosi di calcio, ma si fanno teatro di uno spettacolo di colori e passione, uno spettacolo ordinato da forti valori e precise regole interne. Il fenomeno ultrà ha aumentato il suo spessore, sia in senso qualitativo che quantitativo, proporzionalmente alla diffusione del gioco del calcio, come se i passi avanti fatti registrare negli anni dalle tattiche e dagli schemi di gioco avessero come “correlato” una maggiore partecipazione dei tifosi sugli spalti.
In questo capitolo iniziale proveremo a chiarire il contesto sociale, culturale ed economico in cui sono cambiati la mentalità e l’approccio di vaste fasce giovanili nei confronti del gioco del calcio, cambiamento che è alla base della nascita del movimento ultrà. Vedremo come, con il passare degli anni, sia stato graduale il passaggio da una mentalità da semplice tifoso alla mentalità ultrà come la intendiamo oggi. Un discorso questo che ci porterà ad analizzare la realtà inglese, alla quale va sicuramente riconosciuta la paternità dei primi fenomeni di aggregazione giovanile da stadio; una realtà che è stata presa a modello da molti paesi del resto d’Europa e del mondo.

 

1.1     Il contesto in cui ha origine il fenomeno       
ultras

 

“Si può parlare di un’unica e specifica sottocultura ultrà? Si può affermare che nonostante le specificità che contraddistinguono i vari contesti, secondo le differenti situazioni economiche, culturali e sociali, si registrano una serie di canoni comuni. A loro volta questi canoni sembrano poi richiamarsi ad una ancor più generalizzata “cultura del tifoso”, le cui peculiarità ritroviamo, trasformate e amplificate, nel movimento ultrà. Il primo degli elementi della “cultura del tifoso” è l’adesione al modello amico/nemico, indotta dall’essenza stessa del gioco. La natura agonistica e di gioco di squadra del football promuove, infatti, una visione manichea del mondo e trasforma la partita in un confronto rituale tra due appartenenze distinte e contrapposte. Un secondo elemento, sviluppato proprio dallo schema amico/nemico, è il senso di appartenenza per contrapposizione: nell’autoidentificazione con la squadra. E nell’avversione per le squadre altrui, la massa dei tifosi trova quel denominatore che la trasforma in una “comunità” (se non di sangue, almeno di luogo e di spirito), fondata su sentimenti di fraternità, accordi reciproci e vicinanza di sentimenti. Lo schema amico/nemico inoltre stimola un atteggiamento di fondo che adatta i valori “virili” dell’archetipo guerriero: aggressività, esaltazione del coraggio e della valentia fisica, sessismo, forte senso del gruppo. Antonio Roversi, in proposito, parla di “riserva patriarcale”. A questo scenario di base si vanno a sommare le peculiarità sociocomportamentali dei vari paesi di appartenenza: la stratificazione sociale, anagrafica e per sesso del pubblico tende a variare a seconda dei contesti e delle epoche.
Il movimento ultrà, pertanto, si conforma fin dagli inizi come una sottocultura specifica, che rielabora a livello simbolico le contraddizioni, le ansie e le incertezze, il senso di conflittualità della propria epoca e soprattutto della condizione giovanile e subalterna” .
Abbiamo citato queste parole di Valerio Marchi perché mettono a fuoco in maniera chiara quei meccanismi che hanno spinto molti giovani a adottare comportamenti in aperto contrasto con la società. Marchi parla di “sottocultura” ultrà, cioè di un modus vivendi giovanile inteso come “un insieme di atteggiamenti e comportamenti legati soprattutto alla gestione del tempo libero che, attraverso l’assunzione di canoni comuni, sviluppano o accentuano il senso di appartenenza a un gruppo” . Questi canoni comuni sono alla base di ogni singolo movimento ultrà, dai fin troppo famosi hooligans inglesi alle torcidas brasiliane, sebbene nei diversi paesi il fenomeno abbia poi assunto caratteristiche ben distinguibili le une dalle altre.
Andando indietro negli anni, riconosciamo nel secondo dopoguerra il momento storico in cui importanti cambiamenti sociali hanno provocato “una crisi culturale in seno alla gioventù nel suo complesso, con il risultato di far perdere gran parte del suo significato al tradizionale sistema di valori. Molti ambiti dell’attività giovanile si sono gradualmente sottratti al controllo sociale delle autorità tradizionali” . In questo particolare momento storico, infatti, sotto l’impulso delle nuove condizioni socio-economiche e, soprattutto grazie all’aumento del tempo libero delle classi subalterne, il pubblico negli stadi diventa sempre più numeroso e si può iniziare veramente a parlare di tifo di massa. I gruppi di tifosi sono composti prevalentemente da giovani di origine operaia e piccolo borghese: i primi raggiungono l’indipendenza economica interrompendo il proprio iter formativo ed abbandonando così lo status di adolescenti, per entrare, in un periodo di forte crescita economica ed industriale, nella grande famiglia del mercato; gli altri, i piccoli borghesi ancora minorenni, hanno una maggiore disponibilità di tempo libero rispetto ai giovani operai e sono i soli a “incarnare la figura e le caratteristiche del “giovane” e, ancor più, del “giovane turbolento” .
Con l’avvento della società dei consumi, tanto i giovani operai, quanto gli studenti borghesi, vivono con insofferenza l’intreccio tra angoscia esistenziale ed espansione dei consumi: nasce la figura del teenager perennemente insoddisfatto, preda di un vero e proprio gap generazionale: “Dagli anni bui dell’immediato dopoguerra, attraverso la ripresa degli anni Cinquanta e via via verso gli anni Sessanta, il mondo dei minorenni (teenagers) prende lentamente volto, si sceglie nuovi idoli, un costume di vita, un modo di vestire, amare, ballare, pensare, sempre più lontani da quelli della generazione immediatamente precedente e soprattutto dai genitori. Si tratta di un processo graduale, aspro, caratterizzato da posizioni a volte di aperto conflitto” .
Con l’ingresso negli anni Sessanta, i giovani italiani acquistano una visibilità sociale dapprima sconosciuta, balzando all’attenzione dell’opinione pubblica: “Insieme allo studente turbolento, anche il giovane operaio inizia a contribuire alla nascita in Italia di quell’indistinto senso di allarme sociale che a partire dal 1968 prenderà eufesticamente il nome di “questione giovanile”. I grandi cambiamenti sociali, economici e culturali che segnano l’ingresso dell’Italia negli anni Sessanta si manifestano anche nel mondo del calcio. In questi anni nascono i primi tifosi “organizzati”, disposti a seguire in trasferta e ad incitare la propria squadra con regolarità e, nel giro di pochi anni, nasce la Federazione italiana sostenitori di calcio (FISSC) ”
E’ probabile che le tensioni politiche che caratterizzano gli anni Sessanta e il successivo decennio siano uno dei motivi che hanno provocato i primi seri comportamenti violenti dentro e fuori gli stadi italiani, anche se non è possibile stabilire alcun rapporto di causa-effetto tra i due fenomeni. “I ragazzi di stadio” iniziano ad attirare l’attenzione di psicologi e giornalisti, che ne parlano come di “giovani potenzialmente delinquenti”, giovani che vivono con insofferenza e disillusione questo periodo molto delicato dal punto di vista economico e politico: “I ragazzi di stadio sono uno dei tanti oggetti su cui gli altri – gli adulti, i professionisti della partita domenicale, gli studiosi dei fenomeni di massa o semplicemente gli abitanti della grande città – parlano. E’ legittimo, certo, da quando la partita di calcio è diventata una variabile indipendente dell’ordine pubblico. Un evento che concentra emozioni collettive dall’esito imprevedibile in un clima sociale già saturo di tensioni [...] Dove sono i ragazzi di stadio? Chi a scuola, chi in fabbrica, chi al bar a passare il tempo, perché senza lavoro o assolutamente schifato dalla scuola. Infinite sono le varianti, ma costante è il senso di esclusione, anche nell’ambiente di lavoro” .
Al clima politico del biennio ‘68/’69 segue un periodo di crisi dell’azione collettiva: “Alla base del processo di adesione al modello ultrà sembrano esserci quei meccanismi di delusione sociale attivati dalla duplice crisi del modello occidentale di sviluppo e delle prassi politiche tese a modificarlo. Elementi quali il tramonto delle certezze ideologiche e religiose, la caduta delle illusioni sull’egualitarismo della società dell’affluenza, l’affermarsi di un modello televisivo totalizzante, la perdita progressiva della memoria storica sfociano in una crisi generalizzata del senso d’identità, in una “individualizzazione dei conflitti collettivi” che rielabora la scala delle priorità individuali e collettive” .
Provando a sintetizzare quanto detto finora, possiamo dire che gli ultras di tutto il mondo condividono innanzi tutto “un senso di delusione come una caduta verticale del livello delle aspettative sulla natura “aperta” della società dell’affluenza e sulle capacità emancipatrici della politica, cui si aggiunge una sempre maggiore difficoltà a comprendere le complesse trasformazioni del modello postindustriale, dal mutamento delle tecnologie e dei rapporti di forza tra classi alla sovrapproduzione di informazione e di comunicazione massmediale”. In secondo luogo possiamo sottolineare “una ricerca di status e di “visibilità sociale” attraverso un’egemonia culturale che nella realtà è patrimonio esclusivo delle classi dirigenti: in quest’ambito, mentre le dinamiche interne regolano le posizioni e le gerarchie dei giovani all’interno del gruppo, le attività “pubbliche”, le manifestazioni del tifo affermano uno status collettivo che non trova riscontro al di fuori del contesto calcistico. Nella sua analisi Marchi afferma che il movimento ultrà si presenta come “una cultura “cumulativa”, che tende ad assemblare i più diversi elementi delle controculture e delle sottoculture giovanili che, al pari delle tendenze politiche, si sovrappongono e si mescolano nella superiore istanza ultrà”. Inoltre Roversi riconosce al movimento ultrà una certa capacità di “anticipare, pur se in forme simboliche, il “futuro prossimo venturo” dell’immaginario giovanile: nei primi anni Settanta attraverso il distacco dalla prassi politica di massa, nei primi anni Ottanta attraverso l’atomizzazione del senso d’identità, e nei primi anni Novanta attraverso la forte conflittualità “etnica”, politica e impolitica” .

 

1.2    Nascita e storia del movimento ultras in     Italia

 

Il calcio si sviluppa in Italia dopo il 1880, in quelle città come Genova e Livorno, che più avevano contatti con la Gran Bretagna, patria in cui nasce il football. In Inghilterra, già alla fine del diciannovesimo secolo, la diminuzione dell’orario di lavoro e l’istituzione dei giorni di riposo nel fine settimana, consentono lo sviluppo tra i ceti più bassi delle attività sportive, tra cui proprio il football. In Italia, come nel resto d’Europa, invece, lo sviluppo del gioco del calcio avviene grazie alla passione per le attività agonistiche delle classi più abbienti e la pratica sportiva e la fruizione dell’evento calcistico sono legate esclusivamente alle classi medio alte, perché le masse operaie e contadine, impegnate in giornate lavorative di tredici ore, senza riposo infrasettimanale, non godono di alcuna forma di tempo libero . Solo a partire dal luglio 1907, quando un’apposita legge istituisce il riposo festivo per tutti i lavoratori, si forma in Italia un pubblico calcistico in cui spariscono le caratteristiche elitarie di fine secolo, la partecipazione è aperta a differenti strati sociali e il numero degli spettatori alle partite cresce esponenzialmente.
Con l’avvento del regime fascista si costruiscono importanti strutture sportive, stadi più capienti in molte città d’Italia e la crescita numerica del pubblico continua gradualmente. Lo stato fascista vigila attentamente su ogni attività sportiva, gli spalti sono ben controllati, il servizio d’ordine viene intensificato per cercare di evitare il contatto tra le tifoserie di diverse città. Dagli anni Venti in poi, infatti, l’evento calcistico registra il proprio consolidarsi come strumento di identificazione con la propria città, grazie, da una parte, al processo di accorpamento delle società di calcio che riduce la rappresentanza cittadina a una o due squadre al massimo, rafforzando il legame tra identità locale e squadra calcistica, dall’altra, grazie anche ai valori diffusi dalla propaganda fascista. Per tutti questi motivi, gli anni Venti e Trenta possono essere presi in considerazione come gli anni in cui nasce “il tifo calcistico”, così chiamato dalla stampa perché definito come una malattia sociale, soprattutto dopo i primi episodi di violenza. Nelle sue prime manifestazioni, la violenza calcistica sembra essere conseguenza delle rivalità campanilistiche e degli eventi che accadono all’interno del rettangolo di gioco (la sconfitta della propria squadra, una partita giocata duramente dalle squadre in campo, ecc..), ma i protagonisti degli scontri sono adulti ancora lontani dalla figura del giovane politicizzato, che diventerà protagonista delle cronache degli anni Settanta .
Nel dopoguerra, sotto l’impulso delle trasformazioni socioeconomiche e l’aumento del tempo libero, il pubblico è composto da uomini di origine operaia e piccolo borghese, con punte di media e alta borghesia nelle maggiori città del Centro-Nord. Il fenomeno calcistico inizia ad assumere caratteristiche moderne assimilabili al calcio odierno: pubblico di massa con forte presenza popolare, giocatori professionisti e società di calcio guidate da potenti figure industriali e inserite in giochi politici e finanziari. Negli anni Cinquanta c’è da registrare anche l’aumento degli episodi di violenza legati al calcio, con incidenti anche più gravi rispetto alle risse tra tifosi: per la prima volta, si assiste a sassaiole contro i pullman delle squadre avversarie o ad aggressioni contro dirigenti delle squadre ospiti. La stampa da ampio risalto a tali episodi contribuendo a diffondere uno stereotipo dei tifosi più violenti come persone che perdono ogni capacità di giudicare la realtà nel momento in cui varcano i cancelli dello stadio; l’immagine corrente di quegli anni vede le intemperanze degli spettatori essere il risultato di una potenziale isteria di massa o di una sorta di instabilità emotiva che si propaga per contagio nella folla. Troviamo in realtà meccanismi che, se pur in forme mutate, ritroveremo nell’attuale movimento ultras. I responsabili di tali atti non si sentono spettatori passivi ed impotenti di ciò che avviene sul terreno di gioco, ma appunto tifosi, partigiani di una squadra, i cui giocatori sono chiamati a dimostrarne i meriti ed il valore .
Questi spettatori, tra il 1968/75, in un clima di grandi mutamenti sociali e culturali che segnano l’Italia, iniziano a fondare i primi nuclei di ultrà, gruppi di tifosi a volte non ancora maggiorenni che si distaccano nettamente dal modello “classico”, adulto, dello spettatore calcistico. Nel 1968 nasce la Fossa dei Leoni del Milan, che adotta il nome del vecchio campo d’allenamento dei rossoneri, l’anno successivo è la volta dei “cugini” interisti che fondano il gruppo Boys SAN, mentre a Bologna compaiono i Commandos Rossoblù. Sono tre i filoni che contribuiscono alla nascita del fenomeno: “ In primo luogo, l’autonomia dalla tutela paterna di una parte di giovani che erano stati normalmente socializzati al rito domenicale della partita; in secondo luogo, i modelli parapolitici di coesione del gruppo dati dalla comune appartenenza a un gruppo politico di estrema destra o estrema sinistra; in terzo luogo, l’assimilazione per via imitativa delle forme inedite di tipo hooligan, che imperversano negli stadi già
da una decina d’anni” .
Il fenomeno si allarga a macchia d’olio e assume come riferimento il tifo inglese anche se, gli ultrà italiani “manifestano immediatamente una serie di caratteristiche che li rende un fenomeno originale: dal senso di identificazione con il proprio “territorio”, ovvero quel settore di curva delimitato da uno o più striscioni con il nome e il simbolo del gruppo, a un look paramilitare ripreso da quello in voga nelle organizzazioni politiche estremiste: eskimo, anfibi, tute mimetiche e giacconi militari ricoperti di “toppe” della propria squadra, cui si aggiunge la sciarpa con i colori sociali della squadra” . Oltre alla nascita di un abbigliamento particolare che permette loro di distinguersi dagli altri tifosi, questi giovani ultras importano nella sfera calcistica pratiche fino a tal momento riservate al mondo della politica; sono proprio le forme organizzative di tipo politico che diversificheranno il modello ultras italiano da quello inglese. In entrambi si tende ad esibire un atteggiamento sistematicamente aggressivo nei confronti degli analoghi gruppi di tifosi avversari, ma negli ultras italiani troviamo la capacità di elaborare intorno al tifo e alla violenza una serie di significati complessi e pratiche organizzative, sia nello stadio che fuori, che rivelano l’influenza sul movimento ultras delle esperienze organizzative maturate nei gruppi extraparlamentari, e, più in generale, nella sfera politica. Molti giovani, che durante la settimana difendono il proprio territorio dall’incursione di gruppi politici nemici, che battagliano con le forze dell’ordine e contestano il sistema, la domenica portano allo stadio il loro carico di conflittualità politica. La curva, dunque, è una comunità decisamente interclassista, ragazzi dall’alta borghesia al sottoproletariato, con una forte componente politicizzata le cui caratteristiche organizzative modificano radicalmente il concetto di “tifo calcistico” . L’influenza del modello inglese sui gruppi ultrà italiani appare evidente anche per alcuni nuovi aspetti coreografici delle nostre curve, come le “sciarpate” (le sciarpe vengono alzate e distese dai tifosi, dando l’effetto ottico delle onde del mare) e i cori d’incitamento. Quest’ultimi, ben presto, “non si limitano più a sottolineare un’azione offensiva o una fase di gioco esaltante, ma divengono costanti, fino ad assumere un carattere ossessivo volto a incoraggiare i propri beniamini e a frastornare e intimidire i giocatori avversari. Il tifo viene dunque considerato parte della strategia e della tattica adottate per vincere un incontro: diviene il cosiddetto “dodicesimo giocatore” .
Anche i primi anni Settanta aggiungono importanti elementi di novità sotto il profilo coreografico:
lanciarazzi, petardi, fumogeni e tamburi modificano radicalmente l’aspetto degli spalti. Oltre ai cori, anche gli slogan e gli striscioni divengono manifestazioni autonome e organizzate rispetto all’evento sportivo, mentre gli spazi fisici all’interno degli stadi vengono occupati seguendo la logica del “territorio inviolabile”. Lo stadio, con la sua divisione in settori differenti, rappresenta anche un’evidente metafora di un sistema sociale classista: gli alti borghesi nelle tribune centrali o “poltroncine”, la piccola borghesia nelle tribune laterali o “distinti”, i gruppi antagonisti (proletari e giovani di tutte le estrazioni) nelle curve e negli anelli superiori o “popolari”. Se nella società reale i comportamenti borghesi sono egemoni, all’interno dello stadio il rapporto di forza si inverte, è l’ultrà a svolgere un ruolo da protagonista, a trascinare nel tifo l’intero stadio, imponendo al resto degli spettatori i propri modelli culturali . La dilagante sfiducia dei giovani nei confronti del mondo della politica e della giustizia crea di fatto delle istituzioni “parallele”, cioè le curve, da una parte catalizzatrici delle frustrazioni e dei desideri di svago, dall’altra vere e proprie “comunità” dotate di regole e codici comprensibili soltanto dai loro membri, gli ultras. Nasce così una sottocultura giovanile che è sia dichiarazione di indipendenza, di alterità, sia rifiuto dell’anonimato e della condizione di subordinazione. I gruppi ultras sono formati da giovani che condividono modelli culturali unificanti, aderendo a valori come la forza, la durezza, l’aggressività e il disprezzo per gli avversari, in cui la violenza non è un comportamento sanzionabile.
Sul nuovo modo di tifare appaiono evidenti le influenze delle manifestazioni operaie (i tamburi di latta) e studentesche (i cori, gli slogan, gli striscioni); il primo striscione con la scritta “ultras” appare a Genova nel 1971 ad opera dei tifosi della Sampdoria, gli Ultras Tito, e sempre nel 1971 nascono a Verona le Brigate Gialloblù e a Firenze gli Ultras Viesseux, dal nome della piazza in cui si ritrovano i tifosi viola. Nel frattempo, all’interno delle curve, comincia a diffondersi l’uso di articoli pirotecnici come fumogeni, razzi e bengala, destinati a dare quel tocco di vivacità in più alle gradinate. Subentra così il concetto di “coreografia della curva”, una pratica del tutto originale che si evolverà di pari passo con il grado di organizzazione dei gruppi ultrà. Questi ultimi, in Italia, si conformano ai canoni delle organizzazioni politiche, la preparazione di striscioni, bandiere e coreografie coinvolge l’intera curva in attività che vanno oltre l’impegno domenicale e che si nutrono di riunioni, di risorse economiche acquisite tramite tesseramento e della presenza femminile, assente tra gli ultras inglesi, che trova ruolo proprio in tali attività collaterali svolte durante la settimana.
Nei suoi primi anni, il movimento si diffonde maggiormente nelle regioni settentrionali della penisola, mentre per quanto riguarda il Mezzogiorno, se si escludono le città di Napoli, Bari, Cagliari e Catanzaro, gli ultrà costituiranno un’entità apprezzabile solo a partire dagli anni Ottanta. Proprio le rivalità di campanile, da tempo immemore presenti nel nostro paese, costituiscono uno dei principali fattori delle inimicizie che sorgono tra alcuni gruppi ultras delle diverse città italiane. Alle rivalità campanilistiche vanno sommate le differenti matrici politiche e ideologiche dei diversi gruppi, dando vita così ad una miscela esplosiva, che riempie le cronache dei quotidiani di episodi di violenza tra tifoserie, paragonabili agli scontri in piazza che infiammano, negli anni Settanta, il clima politico del nostro paese. Proprio come avviene nelle manifestazioni dei gruppi politici estremisti, gli ultras innalzano il livello di violenza negli scontri tra tifoserie, facendo ampio uso di armi proprie ed improprie. La seconda metà degli anni Settanta si caratterizza per il fatto che gli scontri si spostano fuori dallo stadio, acquisendo le sembianze di una vera e propria guerriglia urbana: autobus distrutti, macchine ribaltate, ecc. La violenza ultras tende così a perdere ogni riferimento con l’avvenimento sportivo, per rispondere ad una precisa scelta strategica collegata alla politica dei gemellaggi e inimicizie con altri gruppi.
Gli anni ’70 vedono il loro tragico epilogo nella morte di Vincenzo Paparelli, tifoso laziale, morto il 28 ottobre 1979 durante un derby fra la Roma e la Lazio, a causa di un razzo metallico che lo colpì in pieno volto, lacerandogli un occhio e la tempia sinistra. Dopo questa vicenda le due tifoserie Eagles Supporters (Lazio) e Commando Ultrà Curva Sud (Roma) furono bersaglio di una dura repressione. Furono infatti vietati striscioni, sciarpe, magliette e quant’altro rappresentasse l’immagine dei due gruppi in questione. Il caso Paparelli determinò l’inizio di una repressione su vasta scala del fenomeno ultrà, che in quel periodo inizia ad essere definito come “fenomeno socialmente deviante”.
Alla fine del decennio troviamo una sottocultura ultras ben radicata nelle maggiori tifoserie del Paese. I gruppi ultras mostrano di possedere ora un’organizzazione meno spontanea, più stabile e gerarchizzata, pianificando accuratamente le loro strategie d’azione manifestando un grado maggiore di strutturazione, pianificazione e coordinamento rispetto alla loro nascita .
Partendo da queste basi, negli anni Ottanta il movimento ultrà italiano raggiunge il suo apice sotto tutti i punti di vista, in termini di partecipazione, folclore, quantità numerica, intensità degli incidenti, realizzazione delle trasferte e così via. Assistiamo pertanto a un “progressivo e costante ingrandimento dei gruppi ultrà, le cui file sono ormai composte non più da decine, ma da centinaia – e in alcuni casi anche migliaia – di aderenti. Questo moltiplicarsi dei gruppi porta, quasi necessariamente, alla nascita di una complessa rete di amicizie e di rivalità regolata dai canoni della “sindrome del beduino”, secondo cui gli amici di un gruppo alleato diventano a loro volta amici, mentre i nemici di un gruppo amico vengono considerati dei rivali” . Il proliferare di nuovi piccoli gruppi, formati da giovanissimi di provenienza più disparata (compagnie di amici, gruppi di quartiere, ecc.), provoca dei cambiamenti anche all’interno della stessa curva: alcuni di questi gruppi, infatti, si distaccano dalla cultura ultras tradizionale finendo talvolta per costituire un ambiente isolato, poco partecipe alla vita e all’attività degli ultras più impegnati. Maltollerati da quest’ultimi, essi, ciascuno con un proprio striscione, occupano un preciso settore della curva, di solito sopra o a lato dei gruppi tradizionali, creando competizione per la supremazia all’interno della stessa, rompendo, se è il caso, l’unità di azione tra gruppi che ormai non si identificano più in un sistema unitario di regole e comportamenti.
La vittoria della Nazionale italiana ai Mondiali di Spagna nel 1982 porta entusiasmo negli stadi di tutto il Paese e chiude, almeno temporaneamente, questa fase di difficili rapporti non solo tra gruppi ultras rivali, ma anche, come abbiamo visto, tra tifosi della stessa squadra. In questi anni, il tifo assume una valenza rilevante sia nelle città più grandi che nei piccoli paesi e gli spettatori si rendono sempre più spesso protagonisti di coreografie suggestive: gli ultras della Sampdoria allestiscono una bandiera di novanta metri per trentadue, quelli romanisti distribuiscono diecimila cartoncini giallorossi. E’ un crescendo di spettacolo nello spettacolo dove l’ultrà si trasforma da osservatore degli eventi a osservato; il ricorso alla gestualità coordinata genera un colpo d’occhio che non si può fare a meno di ammirare: tamburi, fiaccole, sciarpe e bandieroni completano il quadro di una scenografia che valorizza non poco lo spettacolo calcistico. Per molti tratti della partita l’attenzione si concentra su ciò che avviene sugli spalti piuttosto che in campo; la   spettacolarizzazione delle curve sembra trasformarsi in un fenomeno di costume al quale lo spettatore medio attribuisce un’importanza di poco inferiore agli eventi che si svolgono sul rettangolo di gioco.
Sembra affievolirsi, contemporaneamente, il collegamento ultrà-politica e il verificarsi di gemellaggi tra tifoserie orientate in senso opposto (es. Fiorentina e Verona) lo testimonia ampiamente. In questo periodo, piuttosto, si segnala un aumento nell’uso delle sostanze stupefacenti dentro gli stadi e immagini di foglie di marjiuana compaiono su decine di striscioni in tutta Italia.
A metà degli anni Ottanta il movimento ultrà italiano può dirsi dunque sulla cresta dell’onda. I gruppi contano su moltissimi aderenti: la Fossa dei Leoni del Milan, ad esempio, registrerà nella stagione 1987-88 quindicimila iscritti: “Possiamo confermare che a Milano non esiste alcuna istituzione di qualsiasi tipo col nostro numero di tesserati (15 mila circa). Noi interpretiamo il fatto come elemento positivo di fronte a quei detrattori che accusano i nostri gruppi come ispiratori di violenza e basta. Se tante persone ci danno il loro appoggio, vuol dire che siamo apprezzati per ciò che facciamo, oppure che siamo un’organizzazione di 15 mila malviventi” . Verso la fine degli anni ’80 i gruppi possono quindi contare su adesioni massicce ed iniziano ad avere rapporti più o meno stabili con le società sportive; in questo periodo tutti i gruppi si dotano di una struttura stabile affidandone la gestione ai tifosi più esperti, le mansioni sono quindi delegate a individui determinati che curano il tesseramento, le trasferte, i rapporti con la società di calcio e con la stampa, la produzione e la vendita del materiale destinato all’autofinanziamento. Ormai andare allo stadio per molti ragazzi di curva non è più solo un passatempo domenicale ma “è qualcosa di più, qualcosa che non si esaurisce in un evento sportivo cui assistere come semplici spettatori. Le folle sono infatti composte, in maggioranza, da uomini adulti che vivono l’eccitazione suscitata dall’incontro di calcio associandola ad un forte senso di identità locale, ma anche, e soprattutto, come occasione per ricreare una sorta di riserva patriarcale, un universo tutto maschile in cui non vi è spazio per i non appassionati e tantomeno per le donne. Per molti di questi tifosi predominano incontrastati valori come l’aggressività, la competizione, la forza fisica e la durezza. In questo senso il loro tifo non è soltanto una forma di incoraggiamento ai propri beniamini o un modo per accrescere il divertimento domenicale, ma è piuttosto un mezzo per dare voce ad un insieme di valori fortemente caratterizzati sul piano culturale: attraverso il tifo, in sostanza, essi esprimono il bisogno di partecipare e al contempo attivare una certa cultura della virilità” .
Negli anni Novanta il termine “ultrà” circola ormai in ogni ambiente, diventando parte integrante del lessico quotidiano e subendo un’autentica inflazione d’uso. Ma gli anni Novanta sono soprattutto gli anni degli “affari di curva”; gli ultras cominciano a commerciare gadget, riviste, foto, a organizzare trasferte in maniera massiccia e addirittura trasmissioni radio e TV sui canali privati. Quasi tutte le società calcistiche continuano a coccolare di nascosto gli ultras con biglietti omaggio, contributi vari per coreografie e trasferte, persino affidandogli piccoli business. La Juventus, ad esempio, fa gestire una parte della campagna abbonamenti ai club, pagandogli le corografie; unica condizione, quella di evitare simboli o nomi troppo duri. Il Milan, invece, riserva iniziative privilegiate ai club aderenti all’Associazione italiana Milan club: visite agli impianti, incontri con i giocatori, offerta di materiale promozionale, nonché la disponibilità di biglietti omaggio per ogni incontro casalingo . Questo modello, introdotto dalla gestione Berlusconi, favorisce uno scambio interorganizzativo destinato a portare vantaggi ad entrambe le parti; si tratta in pratica di organizzazioni collegate in rete e sottoposte ad un visto di legittimità con il compito rafforzare e valorizzare l’identità.
In questi anni, quindi, il calcio non è più solo passione; molti ultras, talvolta grazie all’appoggio di società preoccupate di tenere sotto controllo potenziali focolai di disordini, sono riusciti a trasformare il loro “prestigio” allo stadio in un vero e proprio lavoro. Gli Irriducibili della Lazio, ad esempio, hanno un rapporto molto stretto con la società a sono talmente attivi da avere spinto i “cugini” romanisti ad esporre in Curva Sud lo striscione con la scritta: “Irriducibili S.p.a.”.
Gli anni Novanta, purtroppo, sono anche anni che fanno registrare molti, gravi episodi di violenza dentro e fuori gli stadi, nonostante nel 1989 fosse stata varata la legge 401, il cui articolo 6 (modificato e inasprito dal DDL 377/01) regola il provvedimento di diffida, che viene emanato a discrezione dei questori vietando l’ingresso negli stadi ai tifosi più facinorosi. Un provvedimento, questo, che colpisce molti gruppi e non poche sono le polemiche dovute al fatto che la diffida appartiene alla categoria dei provvedimenti preventivi, il cui scopo non è punire reati, ma evitare che questi vengano commessi. Questo provvedimento, però, non riesce ad evitare, pochi anni dopo, soprattutto due episodi molto gravi: il primo, a Brescia, nel 1994, porta al ferimento del vice questore Selmin e colpisce soprattutto per la premeditata azione di guerriglia urbana, e per l’intreccio pericoloso fra gli ultras e il gruppo più attivo tra neonazisti romani, il Movimento Politico, che più tardi verrà sciolto dal Ministro degli Interni; il secondo, nel 1995, a Genova, porta alla morte per accoltellamento del giovane tifoso genoano Vincenzo Spagnolo, poco prima dell’incontro tra Genoa e Milan. Questo episodio colpisce, invece, per il profilo sociale degli aggressori, tutti appartenenti alla piccola borghesia milanese e facenti parte di un nuovo gruppo ultrà, il cui segno distintivo è il giubbotto Barbour e il look da ragazzi di buona famiglia. Questo avvenimento sconcertante mette in serio pericolo la vita stessa del movimento ultras, già profondamente colpito da un lento ricambio generazionale, dal frazionamento delle curve in tante piccole “schegge”, acuito dallo scompiglio portato negli stadi dai “cani sciolti”, cioè tifosi allo sbando, e dalla crisi di identità che si aggirava con lo scioglimento di alcuni gruppi ultras che fino a quel momento rappresentavano un punto di riferimento per le rispettive tifoserie, che si trovano smarrite e disorientate.
Il 5 febbraio 1995 gli ultras d’Italia, per la prima volta, s’incontrano a Genova, per iniziativa degli Ultras Tito della Sampdoria, per un raduno che vuole essere un momento di riflessione, data l’enorme pressione dei media dopo il caso Spagnolo. “Basta lame, basta infami” è lo slogan del raduno, che stigmatizza il dilagare della violenza di curva, ma vuole anche essere un grido disperato di soccorso al mondo ultrà. Alcuni gruppi ultras hanno rifiutato di partecipare, considerando il raduno “una farsa”, i presenti, invece, raccontano della voglia di condividere un’esperienza comune in un momento in cui gli ultras venivano additati come fuorilegge. Gli ultras sono chiamati a riflettere, a interrogarsi su come si sia potuto arrivare a tanto, giustificando il fenomeno nell’ottica della tribù che adotta una sua cultura e parla un suo linguaggio.
Lo Stato, preoccupato per l’aggravarsi della situazione riguardante il fenomeno sociale della violenza negli stadi, risponde approvando la Legge n. 337 del 19 ottobre 2001 recante disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive, aprendo di fatto una nuova fase di repressione all’interno delle curve. Scopo dichiarato è quello di “tutelare lo spettacolo sportivo” attraverso l’inasprimento delle pene e della velocizzazione dei giudizi, affidando al questore il potere di diffidare (cioè di disporre il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive) coloro i quali abbiano preso parte attiva in episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o anche solo abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza, con ciò intendendosi la specifica istigazione alla violenza.
Gli ultras, dal canto loro, si sono organizzati per rispondere all’uso generalizzato del provvedimento di diffida con la creazione del Coordinamento Nazionale “libertà per gli ultras”, il cui motto è “non con le spranghe...non con le cinte...non con le mani...ma con la legge”. L’obiettivo di questa iniziativa è di “coordinare tutti i gruppi ultras d’Italia, a prescindere da rivalità calcistiche e simpatie politiche, in modo da rispondere in modo unitario alla pioggia di diffide che le varie questure d’Italia si divertono a spiccare”. Il Coordinamento, dal giugno 2000, ha ottenuto diversi successi giudiziari e pronunciamenti da parte della Corte di Cassazione, anche in considerazione del fatto che le consulenze ed i consigli sono immediati e gratuiti e i costi per i rimedi da adottare sono pari a un quinto di quelli “normali”.
Attualmente, a più di trent’anni dalla nascita dei primi gruppi di tifosi organizzati, gli ultras sono parte integrante del sistema calcistico, sono insostituibili e sempre più protagonisti, non solo determinanti nelle strategie societarie, nella cacciata di allenatori o nell’acquisto di calciatori, ma anche influenti a tal punto da riuscire a far sospendere una partita ufficiale, com’è successo il 21 marzo 2004, allo stadio Olimpico, in occasione della gara tra Lazio e Roma. In quella occasione i circa settantamila tifosi presenti, creando un clima surreale, hanno voluto, ed ottenuto, la sospensione della partita, dando credito alla voce, infondata, della morte di un bambino prima dell’inizio dell’incontro. A nulla sono servite le smentite e gli appelli della Questura di Roma e questo la dice lunga sull’attuale rapporto di sfiducia e diffidenza che lega tifosi ed autorità, da non intendersi esclusivamente come forze dell’ordine.

 

1.3    Gli hooligans inglesi e il panorama europeo

 

Per capire meglio quali furono i “primi passi” e le prime forme di aggregazione di tanti giovani all’interno di uno stadio, dobbiamo recarci in Gran Bretagna, nel mondo degli hooligans, veri e propri “maestri” per gli ultras di tutto il mondo.
Il termine “hooligan” deriva da “Hooley’s Gang”, una famigerata banda giovanile dell’Est End londinese, formata da ragazzi d’origine irlandese e attiva nell’ultimo decennio dell’800, in epoca Vittoriana.
E’ sul finire di tale decennio che cominciano a verificarsi dei cambiamenti nel comportamento dei tifosi negli stadi: “L’aumento del pubblico, i suoi atteggiamenti scomposti, i frequenti disordini e le violenze che scoppiano negli stadi e nelle vicinanze spingono, nel 1898, a parlare di “pazzia da football” (football madness) ” . Tra le cause di questi comportamenti possiamo indicare il fenomeno incontrollato dell’urbanizzazione, il lavoro minorile in fabbrica e la divisione fisica e culturale delle classi in due “nazioni” distinte, che portano alla comparsa di una nuova “folla giovanile potenzialmente delinquente” .
L’hooliganismo va inquadrato “nella prospettiva globale di una società individualistica che non è più in grado di fornire dei ripari trascendentali sicuri ed assoluti (il divino, il mito, la tradizione, l’appartenenza di classe, ecc.) per indicare a ciascuno il suo ruolo e la sua identità. Esso esprime il dilemma dei gruppi sociali situati alla base della gerarchia sociale e condannati a restarvi, proprio mentre la nostra cultura esalta la possibilità di riuscita per merito individuale e non per merito dell’azione collettiva. Ineguaglianza e invisibilità vanno dunque di pari passo: i più sfavoriti socialmente sono anche i meno visibili, salvo che come massa indifferenziata” .
Gli hooligans perciò possono essere visti come “il frutto di una crisi economica e occupazionale che ha prodotto effetti devastanti sia a livello pubblico che privato, nella società come nella famiglia” .
Sarà negli anni Sessanta che si diffonderanno molteplici stili giovanili, legati spesso all’ambiente dello stadio, che culmineranno con l’avvento degli skinheads (“teste rasate”) e dell’hooliganismo calcistico: “Negli anni del boom economico, il clima è di sfrenato ottimismo e i mods (da modernist, sottocultura nata agli inizi degli anni ’60 come espressione della working class giovanile, assai presente negli stadi) cantano nel proprio stile una speranza di ascesa sociale che sarà presto infranta dalle crisi economiche [...] A metà degli anni ’60, dalla frantumazione dei mods nascono due filoni contrapposti, il secondo dei quali, gli hard mods, rigetta ogni rapporto con le culture giovanili borghesi, richiamandosi con esasperata fierezza ai tradizionali valori della sottocultura operaia giovanile: forte senso del gruppo e della territorialità, esaltazione della forza fisica e della capacità di battersi, passione per il football e per la birra, sessismo, sciovinismo, tendenze xenofobe. Capelli rasati, scarponi da lavoro, jeans con bretelle, “nervosismo paranoico”, gli hard mods assumono il nome di skinheads, che tendono ad organizzarsi nella tradizionale struttura della street-band, del gruppo di coetanei, di solito appartenenti alla stessa strada o quartiere, che esalta quel senso aggressivo del territorio che si esplica appieno nel modo skinhead di “vivere” la curva calcistica” . Le principali caratteristiche di questo movimento, quali la fierezza e l’appartenenza alla classe operaia, sembrano ben spiegare perché lo stile skinhead diverrà la tendenza dominante delle curve inglesi, spingendo gli hooligans a seguire le sorti delle rispettive squadre in maniera viscerale: “In Inghilterra il rapporto tra calciatori e tifosi è contraddistinto da una comune appartenenza di classe, per nulla minacciata dal fatto che i giocatori percepiscono uno stipendio superiore al salario di un operaio. Anzi, dalla sottocultura dei suoi sostenitori il giocatore viene visto come un giovane appartenente alla stessa comunità dei suoi tifosi, di cui condivide origine sociale, stile di vita e aspettative sul futuro, un giovane “alla mano” che non è minimamente sfiorato dall’idea che il calcio possa rappresentare un mezzo di ascesa sociale individuale. In secondo luogo, a questi stretti rapporti di classe tra le diverse componenti del mondo del calcio, è associata una serie di valori tipici della classe operaia, dei suoi stili di vita e delle sue lotte per il lavoro. Questi valori sono principalmente quelli della mascolinità, della partecipazione collettiva e della vittoria” .
Il merito degli hooligans inglesi fu quello di apportare dei cambiamenti di grande impatto, in quanto furono i primi ad inventare il “tifo”, a sostenere la squadra non più con i soli e tradizionali applausi. L’apporto dato ai propri beniamini venne mutato in almeno due direzioni: in primo luogo attraverso l’uso di sciarpe e bandiere (specie quelle a due aste), creando una “nota di colore” non indifferente in quasi tutti gli stadi britannici. In secondo luogo, le fasi delle partite cominciarono ad essere accompagnate da cori spontanei, da battimani continui e fragorosi. Questi due aspetti, che all’epoca rappresentarono delle vere e proprie novità, permisero agli hooligans di farsi conoscere anche oltre confine, fino ad imporre una loro leadership nell’ambito del mondo del tifo. Furono gli hooligans inglesi, in definitiva, a creare il concetto di end (curva), che diverrà in seguito il “territorio degli ultrà”.
In generale possiamo dire che il movimento ultrà italiano ha da una parte subito una grande influenza dal mondo degli hooligans, ma c’è pure da riscontrare che il “modello italiano” ha a sua volta ispirato le tifoserie di altri paesi, soprattutto nell’area mediterranea.
In Spagna, ad esempio, durante i Mondiali del 1982, vinti peraltro dalla nostra Nazionale, le decine di migliaia di italiani giunti in Spagna diedero un notevole impulso alla nascita di un movimento ultrà nella penisola iberica, influenzandone lo sviluppo con il proprio modo di “vivere la curva”. E’ solo dal 1986, però, che i gruppi ultras prendono una consistenza tale da diventare i “padroni degli spalti” in quasi tutte le città e s’instaura una rete di contatti in ogni regione, permettendo rapporti e comunicazioni fra i diversi gruppi. Il merito è di una fanzine, “Ultras”, prodotta da alcuni tifosi del Barcellona a cavallo tra il 1985 e il 1986. In contatto diretto coi principali gruppi italiani, la redazione fornisce notizie, suggerimenti e centinaia di spunti a un movimento che si mostra, forse anche per questioni di affinità culturale, più influenzato dal modello di tifo italiano (coreografie, striscioni, fuochi d’artificio) che da quello inglese (soprattutto cori e “sciarpate”) .
Ci sono poi dei paesi in cui sia il modo di tifare all’inglese sia quello all’italiana hanno attecchito con successo, anche se con doverosa distinzione. Gli hooligans britannici vengono emulati per lo più nell’ambito delle intemperanze e delle strategie da guerriglia, gli ultrà italiani, al contrario, nell’ambito delle coreografie e del materiale da stadio (striscioni, sciarpe, ecc.).
Possiamo trovare questo dualismo, ad esempio, in Francia: “Tutte le tifoserie della Francia settentrionale risultano fortemente influenzati dal modello inglese. Nel Sud, invece, la partecipazione degli spettatori ricorda decisamente l’Italia degli anni Sessanta e Settanta, con un incitamento caloroso ma spontaneo e intemperanze dovute ad arbitraggi contestati” . Anche l’Ungheria non sfugge a questa regola: “Dopo la gigantesca rissa avvenuta il 12 ottobre 1983 a Budapest prima di Ungheria - Inghilterra, i tifosi magiari assorbiscono il look e il fascino degli hooligans britannici, influenzati ulteriormente dai mass media e dalle notizie provenienti dall’estero, che facevano degli inglesi una sorta di mito negativo ma ricchissimo di carisma [...] Se si escludono i fans del Ferencvaros, gli altri gruppi ungheresi si dimostrano più corretti ed adottano come modello il tifo degli ultrà italiani, piuttosto che il teppismo made in England” .
Decisamente più “anglofili” sembrano esserlo paesi come il Belgio e la Grecia: “in Belgio i giovani tifosi violenti, influenzati dalla realtà inglese, si organizzano nei cosiddetti “gruppi di contatto” (near groups), si definiscono “Sides” e fanno la loro comparsa a metà degli anni Settanta come frutto della sottocultura giovanile urbana, marginale e in alcuni casi delinquenziale. Molti dei loro membri sono skinheads e vi sono certamente anche giovani con simpatie di estrema destra” .
Analogamente in Grecia, paese in cui i danni provocati dai tifosi non hanno eguali in tutto il nostro continente, è tutto il movimento ultrà a mostrarsi fortemente influenzato dal modello inglese. Come avviene anche in Spagna, lo stile “skinhead/boot-boy” giunge infatti in terra ellenica nei primi anni Ottanta, a seguito dei flussi turistici. Ma quel che cambia, rispetto alla Spagna, è la natura di questo turismo: meno massificato, più specificatamente giovanile, ancora più influenzato dalle sottoculture e dagli stili più svariati” .
Troviamo una situazione particolare anche in Svizzera, dove nell’area italiana (il Ticino) si fa largo uso di terminologie e stili importati dal nostro Paese, mentre nella Svizzera tedesca c’è un pubblico fortemente influenzato dalla Germania e i giovani sono divisi in supporters e hooligans. I primi vestiti con i colori delle loro squadre, restando a un livello di partecipazione spontaneo, i secondi organizzati in bande di casuals, che ovviamente ripudiano l’aspetto folcloristico del resto della folla” .
Concludiamo questo paragrafo menzionando il movimento ultras in America Latina, che presenta tutt’altre origini: esso, infatti, nasce strettamente legato alla cultura musicale sudamericana ed è caratterizzato da un’importante componente folcloristica, con incessanti accompagnamenti di strumenti a percussione a dominare la curva.

 

La storia della Curva Sud di Roma

 

Prima del 1977 la Curva Sud racchiudeva una miriade di gruppi e gruppetti, tutti validi ma divisi tra loro. Formati per lo più da gente di quartiere, ognuno lanciava i suoi cori senza un vero coordinamento. Il sovrapporsi dei differenti cori creava confusione, ognuno pensava a se stesso e mancava una strategia comune.
A Torino, i tifosi granata si erano riuniti sotto un’unica bandiera, quella degli Ultras, superando lo scoglio delle ideologie politiche. L’iniziativa per la riunificazione dei gruppi di curva non integrati nella tifoseria dei Roma Club partì nell’autunno del ‘76 dalla società giallorossa, interessata a controllare quanto più possibile lo zoccolo duro del tifo giovanile.
Aderirono alla proposta i seguenti gruppi: Boys, Fedayn, Fossa dei Leoni, Pantere giallorosse.
Si doveva scegliere il nome del nuovo raggruppamento. Ognuno dei capi fece la sua proposta. Dopo una consultazione, venne scelto “Commando Ultrà Curva Sud”. Dopo il nome, il simbolo: le lettere “U” e “R” rosse su sfondo bianco, spaccate da un fulmine. Un simbolo elettrico che riportava alla mente la rapidità e la decisione dell’azione.
Il Centro di Coordinamento Roma Club finanziò i tamburi e il primo striscione degli ultrà. L’esordio del “Commando” avvenne il 9 gennaio 1977: “fu qualcosa di stupendo, ci fecero entrare prima dell’apertura dei cancelli, eravamo soli in quello stadio così grande per noi, ci sentivamo i veri protagonisti della giornata. Eravamo tutti lì, emozionati dietro il nostro, finalmente nostro e unico, striscione (42 m.), bombardati dai flash delle macchine fotografiche.


Poi la partita, quel sonante 3-0 alla Sampdoria, tanto amore, molta passione e un tifo tutto sommato soddisfacente, se si pensa che era solo l’inizio, forse un solo errore, quello di cantare anche prima della partita e ritrovarsi per il secondo tempo senza voce, un errore che cercammo di eliminare di volta in volta [...] Da parte del resto della tifoseria romanista non ci furono grandi reazioni, anche perché la nostra postazione non permetteva di vedere il nuovo striscione. Naturalmente serpeggiava una gran curiosità, si cercava di scoprire chi fossero questi ragazzi che volevano far nascere un gruppo ultrà che sarebbe diventato negli anni a seguire il più forte d’Italia [...] Il 1977 fu soprattutto un anno d’ambientamento, dovevamo ancora affiatarci e, cosa forse ancora più importante, ci conoscevamo poco. Avevamo solo otto tamburi e due bandieroni, tra noi vi era già molto entusiasmo e tanta voglia di fare meglio. Nel 1978 iniziarono i primi problemi finanziari, avevamo raggiunto venti tamburi, molte bandiere erano state costruite, ogni domenica accendevamo un gran numero di fiaccole e fumogeni, tutte cose che comportavano una notevole spesa. Decidemmo oltre ad autofinanziarci, di sponsorizzare la nostra immagine stampando adesivi e magliette che ogni domenica vendevamo allo stadio [...] Tutto questo però non bastava, eravamo quasi sempre in rosso, risultava necessario allora iniziare con il tesseramento, che ci aiutò oltre che dal punto di vista economico anche a sapere su quante e quali persone poter contare” .
In quelle prime domeniche del ‘77 i ragazzi del Commando presero saldamente la loro posizione in Curva. Ricorda Antonio Bongi: “Il pubblico all’inizio arrivava e diceva: Qua, ragazzi, mi ci devo mettere io, è il posto mio... E noi rispondevamo: Guarda, se ti vuoi mettere qui, devi tifare in piedi per tutta la partita, se non vai da un’altra parte. Noi occupavamo un perimetro di una settantina di metri. Quasi tutti accettarono con piacere di essere ultrà: dal bambino di sei anni con la sciarpa fino al settantenne” .
Allo scopo di unire completamente la tifoseria degli ultras, alcuni esponenti del Centro Coordinamento Roma Club crearono il Centro Giovanile Giallorosso: esso comprendeva, oltre al Commando Ultrà, anche i Guerriglieri e i Panthers. I Guerriglieri della Sud erano il gruppo con più esperienza sulle spalle, essendo il loro striscione comparso già nel ’67, mentre i Panthers erano l’unico gruppo di ultras della Curva Nord. I rapporti tra il Centro di Coordinamento Roma Club e il Centro Giovanile Giallorosso contemplavano un certo aiuto logistico, ma anche la massima autonomia per gli ultrà. Questi, sentendosi un gradino più in alto per passione rispetto ai sostenitori dei club, li tacciavano di freddezza. Gli ultrà muovevano all’organizzazione dei Roma Club accuse di “gerarchismo” e di scarsa attenzione al sociale; mentre la paura di fondo era di essere in qualche modo “strumentalizzati”. Se, da una parte, si ponevano come obiettivo quello di essere riconosciuti dall’A.I.R.C. sullo stesso piano dei club ufficiali, dall’altro rifiutavano qualsiasi “ingabbiamento” in strutture formali. I problemi da risolvere per il CUCS erano due: le infiltrazioni di agitatori politici e il “teppismo mordi e fuggi” delle frange violente. Entrambi furono combattuti e mai pienamente risolti. Ai militanti di destra e di sinistra che volevano entrare, i capi del Commando facevano un discorso molto chiaro (“Guardate, qui si viene per tifare Roma”), che in genere veniva accettato e rispettato.
Tuttavia, l’abitudine dei giovani tifosi a adottare simbologie contraddittorie (il gesto della P38 degli autonomi insieme al saluto romano, canzoni partigiane e fasciste) ingenerava e manteneva un terreno di equivocità nel quale allignavano facilmente gli agitatori di mestiere. Lo stesso discorso valeva per i teppisti comuni che usavano le trasferte per compiere atti criminosi (furti, rapine e spacci di droga).
La stagione ‘77-’78 segnò l’inizio di un decennio in cui la Curva Sud, unita ed esaltata dalla crescita della squadra, diede il meglio di sé : il rullo dei tamburi orchestrato, lo sventolare bandiere, l’incitamento ritmato, le sciarpe giallorosse ondeggianti, il canto d’incoraggiamento all’unisono: queste furono le novità con le quali il CUCS riuscì ad incanalare la passione di tutta la Curva e a dare un sostegno più efficace alla squadra.
Tutto ciò avvenne grazie soprattutto al contributo di Fausto Josa, giovane e dinamico presidente del Roma Club Esquilino, tesserato numero uno del CUCS e membro del direttivo dell’Associazione Italiana Roma Club, che prese come una chioccia sotto le sue cure i ragazzi ultrà. Con lui il Commando si diede una struttura organizzativa, con tanto di “direttore del coro”, “capotamburo”, cassiere, responsabile degli under 14 e addetto alle pubbliche relazioni. La Roma mise a disposizione all’interno dello stadio un magazzino per i materiali (tamburi, striscioni, aste e bandiere, fumogeni). Josa, commerciante all’ingrosso di stoffe, cominciò ad organizzare le coreografie domenicali insieme ai ragazzi nei suoi magazzini; oltre ai “fumoni”, alla parata di sciarpe e bandiere, le più diverse e colorate, al rullio dei tamburi  e ai cori orchestrati con i           megafoni dai ragazzi che volgevano le spalle al campo, gli  ultrà giallorossi esibivano fantasie coreografiche sempre nuove a base di carta e stoffa. Fantasie che stupivano gradevolmente il pubblico e bene esprimevano l’ironia e la voglia di far festa dell’animo romano. Rispetto al mutismo degli spalti anni ‘60, interrotto da mormorii e boati relativi all’andamento delle azioni,ora il sostegno risultava più caloroso e continuo.
Intorno alla metà degli anni ‘80, però, se da una parte gli ultrà andavano integrandosi nella realtà in evoluzione del tifo mediato dalle radio e tv private, dall’altra s’intravedevano già i primi segni di nervosismo all’interno della “vecchia guardia”. Nei pullman poche facce nuove, sulle gradinate degli stadi d’Italia sempre gli stessi che si dimostravano assidui accompagnatori della squadra: tutto questo portò qualcuno dei fondatori a chiamarsi fuori.
Tutto iniziò ad incrinarsi nell'estate del 1987, quando l’acquisto di Manfredonia e la cessione di Ancelotti scatenarono una dura contestazione al presidente della società, Dino Viola, accusato di svendere una delle bandiere della squadra e di sostituirla con un giocatore anti-romanista. La Curva Sud, prima dell'acquisto, era compatta nel chiedere a Viola di non acquistarlo, perché reo di dichiarazioni diffamatorie nei confronti dei tifosi della Roma nonché condannato per aver venduto le partite della squadra in cui aveva sempre militato e di cui era tifoso, la Lazio. Insomma, prima dell'acquisto la Curva era compatta nel rifiutarlo. Purtroppo Viola decise comunque di acquistarlo e la Curva Sud si spaccò in due: i fondatori (o meglio, la maggior parte dei fondatori), diedero vita al G.A.M. (Gruppo anti Manfredonia), mentre il resto dei fondatori, dopo aver messo fuori la curva un volantino con su scritto “Il Commando si è spostato”, prese posto sul muretto lato Monte Mario, fondando il “Vecchio CUCS”. Anche grazie a questo piccolo ma intelligente stratagemma questo ultimo gruppo acquistò una notevole consistenza e, con il passare del tempo, una notevole capacità organizzativa.
Il Vecchio CUCS riteneva che, essendo Manfredonia ormai diventato della Roma, che lo si odiasse o lo si amasse, non poteva essere fischiato, e così la pensava la maggioranza della Sud , nonostante tutto quello che era accaduto e nonostante il personaggio. Il CUCS-GAM, invece, voleva rimanere fedele alla linea iniziale e con i suoi striscioni continuò a contestare Manfredonia.
Il campionato cominciò con la visione manifesta della spaccatura avvenuta in Curva Sud: il Vecchio CUCS dal lato Monte Mario e il CUCS-GAM dal lato Tribuna Tevere si dividevano equamente lo spazio.
Rientrata la questione Manfredonia, i rapporti tra i due gruppi della Sud rimasero tesi. Antipatie personali e dissidi di carattere economico (la registrazione all’ufficio brevetti del marchio CUCS da parte del neo CUCS-GAM) impedirono una reale riunificazione del Commando. Il Vecchio CUCS aveva dalla sua il vantaggio di rappresentare la linea filo-governativa, vicina all’Associazione Italiana Roma Club e all’A.S. Roma, e infatti trovava spazi sulla rivista “La Roma” . Il CUCS, invece, disponeva dei marchi originali (la famosa sciarpa CUCS Roma) e di un buon rapporto con Viola. Anche il CUCS si garantì una tribuna sulla rivista di Francesco Campanella “Magica Roma”, cercando di mantenere aperto il dialogo con i Roma Club.
Nel frattempo, comunque, la curva romanista riusciva ancora a dare spettacolo: il campionato ‘89-’90 allo stadio Flaminio vide la definitiva affermazione delle sciarpe alte sulla testa, oscillanti a mimare il movimento cullante delle onde del mare. Lo stile british, ordinato ed efficace, prendeva il posto dello stile torcida, più caotico e pirotecnico.
Ma con il ritorno all’Olimpico  nella stagione 1990-1991 si capì quanto la divisione fosse ormai completa. Tutti i gruppi tornarono alle originarie posizioni: I Fedayn, che pur essendo stati sempre un po’ isolati avevano però sempre partecipato alle attività, non parteciparono più ai cori, tornando a tifare per conto loro; i Boys tirarono fuori di nuovo il loro striscione, il CUCS-GAM, per difendersi dal Vecchio CUCS che reclamava la paternità del Commando Ultrà Curva Sud, registrò da un notaio il nome. Come detto, il Vecchio CUCS, a sua volta, si spostò sul muretto "storico" della Curva Sud lato Monte Mario,
considerando il CUCS-GAM come dei fuoriusciti.
L'ala più dura e radicale del CUCS GAM, intanto, si distaccò formando “Opposta Fazione”, gruppo elitario contrario ad ogni contatto con gli altri gruppi, “colpevoli” di aver tradito gli ideali  ultras.
Proprio in questo periodo, iniziarono a cambiare anche gli orientamenti politici della maggioranza dei tifosi romanisti: la Sud, da “rossa” che era negli anni '70, si spostò sempre più verso la destra. I ragazzi più radicali del CUCS., non riconoscendosi più nel gruppo, diedero vita ad un'infinità di gruppi che si formarono in base all'ideologia politica o alle amicizie.
Nella stagione 1993/94 il Commando viene riunificato, o meglio, alcuni tra i maggiori esponenti dell'ex CUCS-GAM decisero, “per il bene della Roma” di riunirsi con gli aderenti al Vecchio CUCS. Ma fu solamente un vano tentativo. Il gruppo iniziò un declino lento ma costante e non riuscì più come un tempo a far presa sulle “nuove leve”.
Siamo ai giorni d’oggi. La situazione è radicalmente cambiata alla prima partita interna del campionato del 1999-2000. In occasione di Roma-Inter si verifica un “cambio della guardia” un po' turbolento che sancisce il definitivo declino del CUCS: è il tempo degli AS Roma Ultras, formato dalla fusione dei gruppi che stavano nella parte bassa della curva
Nel corso delle prime tre stagioni alla guida della curva gli AS Roma Ultras sono riusciti a ridarle un'identità che era andata smarrita inventando nuovi cori, ripresi da varie tifoserie in tutta Italia, e tifando in modo coreografico, pur senza i tamburi che avevano contraddistinto la Sud fino al 1999. La storia degli ASRU sembrava essersi chiusa in ascesa, con l'autoscioglimento proclamato il 1° marzo 2002, allorquando il direttivo del gruppo si era reso conto che le nuove dinamiche dei gruppi ultras presenti in curva non consentivano più di raggiungere gli obiettivi prefissati. Tuttavia, considerato che nessun gruppo si è poi fatto avanti per prendere le redini della curva il gruppo si è ricomposto, rafforzato, nell'estate dello stesso anno ma i dissensi in curva e i rancori personali legati a diverse concezioni del tifo e del modo di essere ultras impediscono di avere una curva del tutto unita e gli stessi AS Roma Ultras subiscono delle miniscissioni interne .
Sulla situazione attuale della Curva Sud Lorenzo Contucci è molto chiaro: Attualmente la curva della Roma è la curva più anarchica d’Italia. L’assenza di gruppi di riferimento la rende imprevedibile e pericolosa. Quando c’è un gruppo guida stabile, tutto è più controllabile. La forte repressione ha generato un qualcosa di ignoto e gli esperti della D.I.G.O.S. lo sanno perfettamente. Fino a che non nascerà in curva un nuovo o dei nuovi leader la situazione rimarrà quella di oggi, visto che gli anziani se ne sono andati. Il problema è che appena ti esponi, le forze dell’ordine ti ricoprono di attenzioni non gradite. Ti propongono di aiutarti per comprare i biglietti o per organizzare le trasferte, e se ti rifiuti diventi automaticamente un ribelle da eliminare. D’altra parte nella sottocultura ultras la collaborazione con le forze dell’ordine è assolutamente esclusa, sicché nessuno intende più trovarsi in situazioni simili. Per questo, la Curva Sud ha scelto l’anarchia”.

 

 

CAPITOLO 2

Il mondo degli ultras: la curva

 

Il mondo degli ultras non gode certo di una grande stima da parte dell’opinione pubblica, ogni singolo “militante” viene molto spesso descritto come una persona ai margini della
società e gli aggettivi “teppista”, “alcolizzato” e “drogato” si sprecano. Con questo capitolo ci proponiamo di entrare nei loro “rifugi” e nei loro codici comportamentali, cercando di capire cos’è che spinge migliaia di ragazzi a dedicarsi alla propria curva, a fare della passione calcistica una vera e propria “fede”, a rischiare anche la pelle (o più semplicemente la fedina penale) in nome di questo ideale.
Per questi ragazzi la curva rappresenta veramente una casa, un’istituzione, un territorio da difendere; non solo, possiamo anche aggiungere che è proprio all’interno della curva che molti giovani si sentono “liberi”, quasi come se nella vita quotidiana, quella “infrasettimanale”, non fosse possibile esprimere tutte le proprie gioie e delusioni. Allo stadio, questo è vero, queste manifestazioni, positive o negative che siano, assumono proporzioni esagerate, estremizzate, ed è questo forse il vero significato della parola “ultrà”.
In questo capitolo avremo comunque modo di vedere che tra gli ultrà non si mescolano solo i teppisti, e che il frequentare la curva non vuole essere solo un pretesto per sfogare le proprie frustrazioni. Al contrario abbiamo riscontrato un insieme di valori e codici interni ben saldi e genuini, difficilmente rintracciabili in altri ambiti della vita sociale.
E’ vero che alcuni di questi valori sono difesi con comportamenti eccessivi, ma è proprio l’esistenza e la difesa di tali principi che ci fa riflettere sulle differenze tra le maniere in cui gli ultras sono descritti dal “di fuori”, e ciò che invece viene portato avanti all’interno delle curve.

 

    • Gli ultras come gruppo

 

 

Definire in senso scientifico il termine “gruppo” può costituire un problema, visto il livello d’impiego quotidiano del termine. Un gruppo sociale è costituito da un certo numero di individui che interagiscono l’uno con l’altro con regolarità. Questa regolarità d’interazione tiene insieme i partecipanti, dando vita ad una distinta unità con una propria complessiva identità sociale. I membri di un gruppo si aspettano determinate forme di comportamento l’uno dall’altro, che non sono invece richieste ai non appartenenti. I gruppi differiscono quanto a dimensioni: vanno da associazioni intime, come una famiglia, a collettività più ampie, quali un circolo sportivo .
Questa prima definizione ci aiuta a capire che se è vero che ogni gruppo è un’aggregazione di individui, è anche vero che non ogni aggregazione è naturalmente un gruppo.
La letteratura sociologica ha sviscerato il concetto di gruppo, proponendoci una serie impressionante di definizioni; non essendo questa la sede idonea per citarle con completezza, analizziamo le definizioni che possono essere utili alla lettura del fenomeno ultras.
Fondamentalmente individuiamo: gruppi formali, orientati al perseguimento di uno scopo o alla produzione di un’attività e caratterizzati da responsabilità divise e orientate al compito e gruppi informali, che si formano in circostanze accidentali, non sono organizzati né orientati allo scopo e possiedono scarsa coesione e non hanno in genere persistenza nel tempo.
I gruppi primari sono invece insiemi di persone che interagiscono direttamente e sono legate da vincoli di natura emotiva, come la famiglia, i gruppi amicali e certi gruppi a finalità educativa. Secondo Peter Mayer, il gruppo primario è composto da un numero ridotto di individui, capaci di sviluppare – mediante un’interazione regolare e diretta - un forte sentimento di identificazione collettiva .
I gruppi secondari sono gruppi formati da persone che hanno rapporti più o meno frequenti ma di tipo prevalentemente impersonale, perché determinati essenzialmente da scopi pratici. Il gruppo secondario è composto da un numero elevato di membri, fra i quali non vi è alcuna forma di comunicazione immediata. Le relazioni fra ogni appartenente al gruppo sono di carattere strumentale, mentre quelle tra individui sono praticamente indifferenti sotto il profilo affettivo. Si possono considerare gruppi secondari, ad esempio, organizzazioni di grandi dimensioni, le unità militari di un esercito, una grande fabbrica.
Vi è poi la distinzione importante fra gruppo di appartenenza, che è quello cui si sente di appartenere, il gruppo in cui ognuno è integrato, e gruppo di riferimento (reference group), cioè quello verso il quale una persona è abituata ad orientarsi nella valutazione di determinati fatti, situazioni ed eventi. Possiamo distinguere tra due tipi di gruppo di riferimento: il tipo “normativo” che definisce gli standards dell’individuo e il tipo “comparativo” che fornisce un termine di paragone in base al quale l’individuo valuta se stesso e gli altri; naturalmente questi due tipi possono riferirsi ad uno stesso gruppo.
A proposito del gruppo ultras possiamo mettere in risalto alcune caratteristiche: abbiamo la consapevolezza di appartenere al gruppo, quindi un’identità sociale molto forte lega tra loro li individui. L’appartenenza al gruppo è giudicata positivamente sia in rapporto agli altri gruppi ultras della stessa curva, sia rispetto ai gruppi ultras di altre squadre. E’ presente una componente emozionale nei confronti del proprio gruppo e degli appartenenti ad esso, con i quali s’instaurano rapporti di collaborazione (per preparare le trasferte, le coreografie, per fare il tifo) e di amicizia.
La quantità e la varietà delle situazioni sociali, quindi, che un individuo avverte rilevanti per la propria appartenenza aumenteranno secondo la misura in cui egli è consapevole di essere membro del gruppo, dall’ampiezza delle valutazioni positive associate a quest’appartenenza e dall’estensione dell’investimento emozionale associato alla consapevolezza e alle valutazioni
La realtà dei gruppi è sempre una realtà dinamica ed in continua trasformazione e cambiamento. Alla base della vita di un gruppo vi sono dunque sempre modalità dinamiche che riguardano il gruppo fin dal suo primo formarsi.
Se si osserva un gruppo, una delle prime osservazioni è certo relativa al fatto che i membri non sembrano essere tutti allo stesso livello, non sembrano avere tutti la stessa rilevanza e centralità: alcuni sembrano più ascoltati di altri, possono assumere iniziative e dare direttive agli altri, sono valutati e considerati consensualmente come più importanti, vi è cioè una caratterizzazione e una differenziazione in base allo status di ognuno. Chi ha uno status più elevato sembra avere un maggiore potere di promuovere iniziative, attività ed idee, di avviare azioni. I ruoli nel gruppo adempirebbero almeno a tre funzioni, secondo la lezione di Brown, come riportato da Speletini e Polmonari :

  • Facilitare il raggiungimento dello scopo di gruppo (i ruoli concorrono a dividere il lavoro tra i vari componenti);
  • Portare ordine e prevedibilità nel gruppo (tutti sanno cosa aspettarsi e da chi);
  • Definire alla nostra “autodefinizione” nel gruppo (contribuiscono alla consapevolezza di ciò che siamo).

Per quanto riguarda i gruppi ultras i ruoli sono distribuiti con precisione scrupolosa; uno dei più importanti è quello dei capo-coro, che incitano continuamente il resto della curva, dando l’avvio ai cori e predisponendo la coreografia iniziale. I membri più rappresentativi di un gruppo ultras non vedono mai l’intero svolgimento della partita, ma ne seguono solo alcuni tratti, restando per il resto dell’incontro con le spalle rivolte verso il rettangolo di gioco. La posizione centrale è quindi occupata dai membri più fedeli del gruppo e l’importanza gerarchica va scemando man mano che ci si avvicina alla periferia della curva.
Qualità essenziali di un leader all’interno di un gruppo ultras sono il coraggio e la fedeltà, valutata sulla base degli anni di militanza nella curva; soprattutto grazie a queste due caratteristiche i leader divengono visibili e rispettati dal gruppo. Da notare che tali leader non vengono visti dagli ultrà come dei capi ma piuttosto come portavoce, rappresentanti o primi esponenti del gruppo. Il potere informale del direttivo si esercita nella gestione delle carriere e delle promozioni, un campo in cui il carisma e l’anzianità legittimano indiscutibilmente il parere dei leader. Benché informale, la carriera all’interno di un gruppo segue un percorso stabile, caratterizzato da una molteplicità di codici e regolamenti, che permettono a ogni singolo ultrà di acquisire un determinato ruolo all’interno della gerarchia della curva: “I tifosi possono aspirare a progredire attraverso una struttura gerarchica abbastanza lineare e all’interno di ogni gruppo alcune posizioni di ruolo sono aperte. Le posizioni di ruolo permettono di dimostrare il carattere e il valore, conducendo ad uno status e alla possibilità di prendere parte ad una struttura ordinata e governata da regole. “Diventare qualcuno” allo stadio è una faccenda altamente strutturata e una comprensione di queste strutture è il primo passo per rendere intelligibile il comportamento apparentemente anomico durante le partite di calcio” .
In base alla disponibilità di tempo e cioè all’impegno, si inizia con attività che non implicano responsabilità come il tesseramento, la vendita di materiali allo stadio, la preparazione degli striscioni. In seguito, a seconda delle capacità, dell’impegno e della fiducia conquistata, si passa ad attività più delicate come l’organizzazione delle trasferte, il coordinamento dei cori, la gestione della cassa. Qualora accada che la militanza non sia più compatibile con il lavoro, la famiglia o gli studi, i vari addetti passano le consegne alimentando il processo di ricambio del direttivo. Il gruppo è molto attento a preservare questa circolazione delle elites e delle competenze specialistiche, al fine di conservare l’organizzazione stessa .
La figura del leader, in ogni modo, è una peculiarità del “modello italiano”. In Gran Bretagna, ad esempio, i cori intonati sono più spontanei e si può dire che ogni iniziativa, folcloristica o violenta che sia, può essere presa da chiunque: “Nelle curve inglesi alcuni giovani possono esercitare un’influenza occasionale, ma ciò non significa che siano dei capi, né che esista una base regolare di membri del gruppo che funga da nucleo dirigente. I processi decisionali sembrano piuttosto avere un’altra caratteristica. Chiunque può avanzare un suggerimento e, se questo sembra rappresentare una buona idea, viene adottato dagli altri” .
Ciò che consente l’interazione fra i membri del gruppo, indica come le interazioni devono svilupparsi e consente la preservazione nel tempo del gruppo è un sistema di aspettative normative condivise . La trasmissione delle norme avviene attraverso i singoli membri che educano gli altri alla conformità, fino a quando l’individuo avverte da se stesso quando attenersi a regole di comportamento appropriate.
Sono le norme, perciò, a stabilire, all’interno di ogni gruppo, quali comportamenti non sono accettabili o sono da biasimare o sanzionare, adeguandosi alle scale di valori condivisi nel gruppo. Anche i comportamenti tenuti dagli ultrà all’interno delle curve sono basati su regole ben precise, la maggior parte non scritte, le quali svolgono innumerevoli e basilari funzioni, dalla “selezione” dei partecipanti, al rispetto verso il gruppo e più in generale al modo di “vivere da ultrà”: “I codici vigenti nelle curve sono delle leggi non scritte che vengono rispettate e che, assai spesso, configgono con le regole dello Stato. Tutto questo viene accettato nelle curve perché viene a formarsi una sorta di microcomunità ove tutti approvano quelle regole e difficilmente accettano chi le vuole sovvertire [...] Se si vuol fare un esempio di “codici” vigenti in curva, potremmo prendere come pietra di paragone quanto avvenuto poco tempo fa in occasione di Ascoli/Sampdoria, dove un ragazzo di 16 anni ha lanciato un razzo che per poco non uccideva un innocuo tifoso avversario. Il gesto è considerato folle sia per il tifoso “normale” che per l’ultras, ma quest’ultimo non lo consegnerebbe mai alle forze dell’ordine, limitandosi ad applicare lui stesso la pena senza processo decisa dal gruppo stesso, che si traduce solitamente in una serie di sganassoni e nella cacciata definitiva dalla curva e dal gruppo, cosa che per un ragazzo giovane inserito in certi ambienti è cento volte peggiore di qualsiasi altra condanna. Ma ci sono una infinità di codici e “linguaggi” della curva: ad esempio, se un gruppo ultras mette il proprio striscione capovolto, vuol dire che contesta qualcuno o qualcosa. Se i gruppi ultras – è accaduto nel famoso derby sospeso – ritirano gli striscioni, spesso vuol dire un lutto improvviso. Lo striscione sottratto al gruppo avversario va esposto sempre capovolto, in segno di disprezzo. E si potrebbe continuare per ore.”.
Queste norme implicite servono soprattutto a tracciare una linea netta tra la cultura ultras e quella degli altri tifosi; ad esempio, gli ultrà seguono la partita in piedi e non seduti sulle gradinate, così come, in caso di scontri, i tifosi avversari non ultras o gli ultras isolati non possono essere attaccati, mentre sono ammessi scontri con la polizia e gli altri gruppi. Ovviamente queste norme solitamente condivise dal direttivo, vengono adottate in modo aleatorio dalla gran massa degli aderenti . Soprattutto i più giovani, in termini di militanza, sono spesso quelli meno consapevoli e rispettosi di tali regole implicite e si rendono protagonisti di iniziative individuali o azioni contro-normative, come il lancio di oggetti in campo o atti vandalici durante le trasferte, che possono recare danno alla squadra o al gruppo stesso. Per prevenire tali iniziative, comunicati e volantini all’interno della curva tendono ad esplicitare le norme di comportamento e le sanzioni contro comportamenti lesivi per l’immagine della curva. Citiamo, ad esempio, un comunicato diffuso dal direttivo degli ultras del Milan: “Riguardo ai frequenti lanci di oggetti verso l’anello inferiore, le persone che hanno questo vizio dovrebbero capire una volta per tutte che sotto di noi ci sono dei nostri tifosi, che ogni domenica devono ricevere tutto quanto viene lanciato dal nostro settore. Speriamo che la gente capisca, in caso contrario dovremo provvedere con tutti i mezzi a nostra disposizione, compresi i più sgradevoli” .
All’interno della curva, quindi, sono ammessi i comportamenti che non danneggiano l’unità del gruppo, mentre non sono ammessi i comportamenti che violino la lealtà e la solidarietà di gruppo: delazioni, calunnie, o l’utilizzo personale dei ricavi della vendita del materiale sono i reati più gravi di cui si può macchiare un ultrà.
Le norme di cui stiamo parlando non includono soltanto regole di comportamento, ma riguardano anche il linguaggio, l’abbigliamento, gli atteggiamenti verso gli altri, ecc.
Risulta evidente che nell’ambito di situazioni di gruppo le norme che vengono percepite come tali dal gruppo stesso sono il frutto del processo d’interazione e non possono essere tratte da situazioni individuali. Nelle relazioni intergruppi, quando due gruppi devono realizzare fini incompatibili, si sviluppa tra i gruppi stessi una percezione sfavorevole e i membri di un gruppo non vedono altra possibilità che quella di realizzare contatti ostili con i membri dell’altro gruppo; essi, infatti, aumentano la coesione e la solidarietà interna, pur adattandola alla situazione di conflitto . Quello che è importante mettere in luce nei rapporti tra gli ultras è la possibilità di dimostrare che il conflitto e la discriminazione tra gruppi abbia origine in assenza di un vantaggio oggettivo che possa derivare dalle azioni in favore del proprio gruppo; di qualsiasi forma di competizione esplicita; di qualsiasi ostilità precedente. Quello che apparentemente potrebbe sembrare un comportamento senza senso può essere compreso solo se lo si considera fin dall’inizio come un comportamento intergruppi. Gli scontri, gli insulti e i rituali possono essere visti come un conflitto d’interessi che ha valore solo nel contesto di confronto-scontro tra i gruppi ultras. Conflitti il cui scopo è un cambiamento nelle posizioni relative dei gruppi, una competizione creata dalla cornice sociale all’interno della quale i gruppi si muovono, capace di creare una memoria storica fatta di amicizie e ostilità che al suo interno si alimentano.

 

    • La “fede” ultras

 

“Così, preso da una strana emozione, difficile da spiegare, comprensibile pienamente soltanto da chi ama andare in curva, anch’io cantavo ed urlavo, attento a non sbagliare nemmeno una parola di quello che si stava gridando. Mi sembrava così di far parte di loro; mi sentivo anch’io un ultrà” .
Questa frase sintetizza in modo realistico le emozioni che un ultrà prova all’interno della “sua” curva, questo ambiente a sé stante che da semplice curiosità, soprattutto per gli adolescenti, può in breve tempo convertirsi in una scelta di vita.
Quello che viene definito come “cultura ultras” è l’insieme di valori che, anche se con differenze di stile da un gruppo all’altro, contraddistinguono i gruppi ultras dai tifosi normali. Primo elemento di differenza tra i ragazzi di curva e il resto degli spettatori è la fede nei colori della propria squadra. A questo proposito Dal Lago evidenzia che “il valore centrale del tifo ultras, la fede nella propria squadra, ha una connotazione quasi religiosa, di fede, in quanto è indiscutibile e costituisce la stessa ragion d’essere del gruppo” .
Lorenzo Contucci vede al tempo stesso durezza e romanticismo nel concetto di fede per la propria squadra:  “La fede è nella propria città/squadra e la curva è il borgo, il territorio che deve essere difeso sia dagli ultras avversari che dalle forze dell’ordine, considerate univocamente come un gruppo ultras con la divisa. I valori sono quelli di sempre: amicizia, lealtà, coerenza…. Senz’altro il tutto è molto idealizzato, ma intendo dire che il concetto di amore per la propria squadra per l’ultras è superiore a quello del tifoso “normale”. E’ difficile da spiegare, ma c’è molto romanticismo in tutto questo. Il mondo esterno scompare, tutto quel che interessa è sostenere la squadra e figurare meglio del gruppo rivale a livello canoro e, a volte, anche nel confronto fisico”.
La fede calcistica è un sentimento comune, sia chiaro, perché anche lo spettatore della tribuna o dei distinti “sente” la partita e la vive con passione. Nel giovane “curvaiolo”, però, tutte queste emozioni si moltiplicano, fino a far passare in secondo piano il risultato della partita o l’esito del campionato. Anzi, è proprio la “fede” che rende possibile un atteggiamento di eterna sfida, di rivincita, di riscatto, proprio perché questi ragazzi vanno “oltre”: “Tutti hanno la mente e il cuore pieni perché hanno vissuto il solo momento che sembra dare senso alla loro vita quotidiana. Non pensano tanto all’incidente, alla scazzottata, allo scontro con la polizia: questi in fondo sono dettagli secondari. Sentono ancora bruciante l’emozione della partita, nella quale hanno fatto irruzione come da protagonisti, e tutti insieme, dando voce e urlo a quella cosa senza nome che è in loro, che sentono mortificata giorno per giorno nella famiglia (quando c’è), nella fabbrica (quando c’è), nella scuola (quando c’è), in un contesto sociale che è loro estraneo e ostile. I toni con cui alcuni cercano di spiegare la loro fede (non sanno trovare altra parola per dare un nome a quello che provano) è irrazionalismo puro. Il confine tra quello che dovrebbe essere una manifestazione secondaria del vivere (lo sport) e il senso dell’esistenza come tale, è labile” .
Continuiamo a citare il testo di Segre per dare risalto a questo senso di inspiegabile trasporto emozionale: “Non dico che è una cosa innata, probabilmente è una cosa inconscia che ti porta a credere in qualcosa, quando non credi più in niente [...] Lo stadio è un momento in cui non penso a nulla, per me è un momento in cui non penso ad altre cose. E’ uno sfogo, il giorno dopo ci si può sentire soddisfatti e insoddisfatti di essersi sfogati” .
Di appagamento ne parla anche un altro ultrà intervistato da Segre: “Per me la nostra è un’attività a livello professionale, è un lavoro che non ci viene retribuito con i soldi, ma con la soddisfazione, quella di andare lì e fare il massimo perché la squadra abbia tutto l’appoggio [...] Tu non riesci a renderti conto, per me è una fede, una fede che travalica l’età” .
Viene quasi da pensare che la curva sia “un’oasi felice”, dove tutto è permesso e soprattutto dove ogni comportamento assunto coincide con i propri “istinti” e con il più verace modo di essere: “Vogliamo che la gente partecipi, che tutto il mondo la pensi come noi. Essere ultrà è bello, ti permette di essere te stesso, di dimostrare l’orgoglio e la forza che ogni ragazzo ha dentro. Che stare in gradinata significhi molto di più che il resto delle alternative, che essere ultrà sia la cosa principale e fondamentale!” . Queste parole sono di un ultrà del Valencia, squadra del campionato spagnolo, ma è frequente ascoltare o leggere interviste fatte a ultrà nostrani dove sia espresso questo senso di libertà e allo stesso tempo di fierezza. E’ peraltro da condannare quel tipo di comportamento che, appellandosi alla “fede”, ha provocato e continua a provocare situazioni di allarme e di pericolo. In questi casi è l’intero movimento ultrà ad aver sempre preso iniziative volte a sensibilizzare la gioventù curvaiola, facendo riflettere sul fatto che ogni ultrà in fin dei conti è mosso da una fede che accomuna migliaia di suoi coetanei, qualunque sia la loro estrazione sociale o squadra del cuore.
In ogni modo si tratta di una fede molto profonda, paragonabile a quella religiosa: “Perché il tifo calcistico, concordano gli studiosi, è una fede: una fede sostitutiva di fedi più serie, si dirà, eppure in grado di generare slanci ed entusiasmi, di far nascere canzoni da cantare insieme. Una fede che, come tutte le fedi (le Crociate, i roghi medioevali degli eretici e delle streghe; ai giorni nostri, i suicidi di massa delle sètte, le stragi del fondamentalismo islamico, i genocidi tribali dell’Africa nera), ha originato anche eccessi, tanti eccessi” .
Potrà essere esagerato, ma quando capita che il campionato osservi un turno di riposo, vuoi per gli incontri della Nazionale, vuoi per la concomitanza di feste tradizionali (Natale, Pasqua, ecc.), molti di questi ragazzi difficilmente trovano occupazioni o divertimenti più appaganti dello stare in curva: “Se non ci fosse più lo stadio, chiaramente qualcosa bisogna averlo per forza. Non ci sarà sempre e solo lo stadio, ma devo dire che quando finisce il campionato spesso la domenica non so che fare, non mi diverto, non mi sento alla stessa maniera” .
Il problema della domenica senza stadio, collegandoci alla realtà dei tifosi della Roma, avrebbe senza dubbio uno spessore diverso se rapportato agli anni appena passati, nei quali la squadra lottava per vincere lo scudetto, com’è accaduto solamente quattro anni fa. Lo conferma proprio un ultrà giallorosso: “Una volta la curva era piena di ragazzi, piena di stimoli e di allegria. Molti giovani si identificavano con la Curva Sud e con orgoglio la domenica si recavano allo stadio come se fosse un santuario”. Appare evidente come nei periodi di maggior successo il legame che s’instaura con gli altri membri della curva e con la squadra si renda quasi indissolubile. La fede, di conseguenza, si fortifica di domenica in domenica, e “l’obbligo” che sente l’ultrà di andare in curva si associa così all’obbligo per il cattolico praticante di andare alla Messa. Anche nelle stagioni deludenti per l’andamento della squadra, comunque,la fede rimane immutata, per così dire, “alla base”, intesa cioè come sentimento che non viene intaccato dai risultati ottenuti, anche se tra gli ultras aumenta lo sconforto e l’impotenza nel vedere come il solo sentimento di fedeltà non sia sufficiente a fungere da rimedio.
Lo dimostra il fatto che alla domanda “Senza lo stadio come passeresti la domenica?” l’19% ha risposto “A casa per la disperazione”. A parte l’amara ironia insita in tale risposta, la percentuale dimostra che per alcuni ragazzi andare in curva rappresenta ancora una ragione di vita. La maggior parte di loro, comunque, non ha evitato a fornire risposte riguardanti altri modi di trascorrere un’eventuale domenica senza calcio. Se consideriamo che il 25% ha risposto che preferirebbe passarla con la ragazza (o con il ragazzo)e il 16% con gli amici, appare chiara la propensione, da parte quasi della metà delle persone intervistate, a curare maggiormente gli affetti, amichevoli o amorosi che siano, senza dimenticare che la curva permette a molti ultrà di crearsi delle vere amicizie, di trovare l’amore, di confrontarsi e condividere delle intere giornate (basti pensare alle trasferte) con altre persone. Molti, infatti, hanno tenuto a sottolineare che la risposta “Con gli amici” è strettamente legata alle conoscenze maturate in curva nel corso degli anni. Lo conferma il fatto che alla domanda “Di che cosa parli con gli amici?” , la maggior parte di loro ha risposto “Sport/Stadio/Roma” (60%).
Inoltre, nonostante la stagione 2004-2005 sia stata molto deludente per la Roma, una buona fetta di ultras giallorossi considera la propria “carriera di tifoso” per niente conclusa. Agli intervistati abbiamo infatti chiesto come immaginano le loro domeniche tra una ventina di anni, chiarendo in ogni modo che quel “venti anni” simboleggia una vita futura in generale, senza calcoli di età. Come vediamo, la maggior parte degli ultrà (36%) è convinta che continuerà ad andare allo stadio anche se in un altro settore, e molti altri (23%), evidentemente “accecati” (nel senso buono) dalla “fede”, credono che si sistemeranno ancora in curva, proprio come oggi. Questo è un dato che mette senza dubbio in risalto il grande attaccamento che da sempre lega la Curva Sud alla maglia della Roma. Poco più del 10%, invece, dichiara che si recherà allo stadio (senza specificare in quale settore) “solo se ne varrà la pena” e questo è il frutto delle recenti delusioni patite quest’anno, il che è abbastanza comprensibile.

 

Tornando invece al concetto di fede, abbiamo riscontrato un’alta percentuale di ragazzi che s’identificano con l’AS Roma: alla domanda riguardante il significato di “fede calcistica” il 54% ha risposto “Seguire la squadra nel bene e nel male” . C’è poi un’importante percentuale di ragazzi che hanno risposto “Fede negli Ultras” (20%), dimostrando che la tifoseria spesso è considerata più importante dei giocatori che indossano la maglia giallorossa. Come dire: i presidenti cambiano, i giocatori pure, solo gli Ultrà resteranno sempre al loro posto. Inoltre, come possiamo vedere nel grafico in basso, sono ancora pochi quei ragazzi che hanno perso il significato di “fede calcistica”.


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L. WALGRAVE – K. VAN LIMBERGEN, Il teppismo calcistico in Belgio: cause e rimedi, in A. Roversi (a cura di), Calcio e violenza in Europa, cit., pp.156-9

V. MARCHI, Blood and Honour. Rapporto internazionale sulla destra skinhead, Koinè, Roma, 1993, pp. 102-3

F. BRUNO, Il movimento ultrà nell’Europa continentale, cit., p. 101

M. IMPIGLIA, “Forza Roma, daje Lupi”, Libreria Sportiva Eraclea, Roma, 1998.

Occorre tenere presente che in quegli anni gran parte del pubblico della Sud seguiva la partita seduto. In realtà, i “dialoghi” con le persone che occupavano i posti in esame non erano così concilianti e spesso sfociavano in qualche rissa.

Associazione Italiana Roma Club.

Commando Ultrà Curva Sud.

Prima di vivere la sua stagione più felice , il CUCS dovette superare una prova terribile: il delitto Paparelli. Il giorno più nero in 70 anni di tifo giallorosso reca la data del 28 ottobre 1979, settima del girone di andata: Roma-Lazio.

“La Roma” è la rivista ufficiale della società.

Lo stadio Olimpico era chiuso per la ristrutturazione in vista dei Mondiali del 1990.

M. IMPIGLIA, “Forza Roma, daje Lupi”,cit.

A. POLMONARI, L’interazione nei gruppi, in L. Arcuri, Manuale di psicologia sociale, Il Mulino, 1995.

P. MAYER, Gruppi sociali, in H. Reimann, Introduzione alla sociologia, Bologna, Il Mulino, 1982.

H. TAJFEL, Human groups and social categories. Studies in social psychology, Cambridge University Press, Cambridgee, 1981. Traduzione italiana, Gruppi umani e categorie sociali, Il Mulino, Bologna, 1985.

G. SPELETINI, A. POLMONARI, I gruppi sociali, Bologna, Il Mulino, 1999.

P. MARSCH, E. ROSSER, R. HARRE’, Le regole del disordine, Giuffrè, Milano, 1984, p. 80.

A. DAL LAGO, R. MOSCATI, Regalateci un sono: miti e realtà del tifo calcistico in Italia, Bompiani, Milano, 1992.

G. ARMSTRONG, R. HARRIS, Football Hooliganism: Theory and Evidence, in “The Sociological Review”, n. 3, 1991, p. 436. Armstrong è un sociologo inglese.

J. W. THIBAUT, H. KELLEY, Psicologia sociale dei gruppo, Il  MulinoBologna, 1974.

Questo è comprensibile se si pensa che un gruppo ultras come la “Fossa dei Leoni” del Milan, ad esempio, ha circa 15000 tesserati ogni stagione calcistica (Dal Lago, Moscati, 1992).

A. DAL LAGO, R. MOSCATI, Regalateci un sono: miti e realtà del tifo calcistico in Italia, Bompiani, Milano, 1992, p. 91.

M. SHERIF, A study of some social factors in perception, in W. DOISE, Psicologia sociale e relazioni tra gruppi, Il Mulino, Bologna, 1977.

SEVE & CLAUDIO, Il gruppo, Torino, 1999, p. 3.

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D. SEGRE, Ragazzi di stadio, Mazzotta,Milano, 1979, pp. 3-4. Commento di Gian Enrico Rusconi.

Ivi, p. 19 e 35.

Ivi, p. 10

“YOMUS ULTRAZINE”, n. 4, 10 marzo 1991, p. 3.

S. CAMETTI, I guerrieri di Verona, Sport Communication, 1997, p. 4.

D. SEGRE, Ragazzi di stadio,cit., p. 37.

 

    1. La vita di curva: valori e codici

 

 

Nel precedente paragrafo abbiamo visto come il concetto di “fede” sia alla base della cultura ultras; accanto ad esso, sono molti altri i valori che caratterizzano i gruppi ultras.
Molto spesso si è portati a credere che i comportamenti degli ultrà, in particolar modo quelli violenti, siano l’esternazione di una mancanza di “materia grigia”, di ideali o più in generale di civiltà. Non neghiamo che siano centinaia i ragazzi che vanno allo stadio pensando unicamente agli incidenti da creare, per non parlare di chi identifica la propria esistenza con l’esito della partita, sentendosi cioè lui stesso “vincente” o “perdente” in base alla prova offerta dai suoi beniamini.
Quando vengono espressi giudizi di questo genere, la risposta degli ultras è sempre pronta ed esauriente: “Spero che la gente capisca che noi non siamo dei cretini, pagliacci, teppisti, buffoni, ma che abbiamo un cervello per ragionare e che se facciamo queste cose è solo perché ci crediamo” .
E’ come se trasparisse il bisogno, da parte degli ultras, di far sapere che credono in qualcosa, che la loro non è una forma di pazzia: “Nonostante i giornalisti ci descrivano come persone quasi ai margini della società, abbiamo capito il valore dell’amicizia e l’importanza di avere comunque un ideale” .
Per l’ultrà i valori più importanti sono quelli che ha avuto modo di assimilare e condividere insieme ai suoi compagni di curva, in molti casi diventati dei veri amici: “Ci mettono l’anima, ci credono. Uniti e fratelli nell’entusiasmo. Dal di fuori potranno sembrare fanatici, magari violenti. In realtà è gente che prende il calcio sul serio. Qualche volta troppo sul serio [...] Per loro lo stadio è un po’ un’evasione dal lavoro, dai fastidi, dalla famiglia. Il ritrovare un briciolo di giovinezza e d’entusiasmo [...] E li accomuna tutti questo amore contagioso per qualcosa che in realtà è irrazionale, ma in cui riconoscono se stessi (anche perché molti non sono stati abituati a riconoscersi in nient’altro). Sono belli, perché genuini, il loro è amore. Qualcuno dirà: “Amore sprecato”. Ma c’è. Non è apatia. E’ sentimento genuino, per il quale si affrontano amarezze, disagi, disillusioni e anche coltellate. In una società atomizzata, nel lavoro, nel tempo libero, la “cultura” collettiva si esprime, oggi, soprattutto allo stadio, perché è li che esiste ancora una collettività, viva, unita da un interesse comune anche se può essere giudicato fatuo. C’è tutta una scenografia e un copione, ma istintivo e voluto nello stesso tempo” .
Gli ultrà fanno quindi della coerenza e del loro “credo” un importante caposaldo del loro pensiero: “Per noi lo stadio non vuol dire andare lì a fare i pagliacci, vestirsi in una certa maniera e poi uscire a fare le persone per bene. Questo vuol dire essere già inquadrati nel sistema. Invece noi no, come andiamo allo stadio così andiamo in giro” .
Abbiamo già accennato alle amicizie che possono nascere in curva e che aiutano a cementare il gruppo, ma quando questo rapporto si estende a tutti i membri della curva si crea una sorta di “super individuo”, nel senso che avviene una piena identificazione tra il singolo ultrà e la curva: “E’ una cosa incredibile. Novanta minuti a sbracciarsi, a urlare, a ritmare, a cantare con un’energia inesauribile. A star male, ma male veramente o a traboccare di gioia, di una gioia che non si prova neanche nei momenti più belli della vita, perché questa è una gioia collettiva. Ingigantita [...] Tutta la curva sembra un animale passionale, una persona viva. Con terribili silenzi d’attesa, sconcerti di rabbia, esplosioni di gioia” .
La solidarietà e la coesione divengono di conseguenza degli insegnamenti e degli scopi che non possono mai rendere la vita di curva come qualcosa di superficiale o ancor peggio di effimero: “Il gruppo ultrà è innanzitutto, nella grande maggioranza dei casi, un laboratorio sociale in cui l’adolescente apprende alcune regole della società adulta. Tale funzione dipende dal fatto che il gruppo ultrà è oggi una tra le poche agenzie di socializzazione in grado di dare una risposta soddisfacente a quei giovani per i quali l’identità personale è ancora un’entità precaria, imperfetta, per via dell’età e/o della condizione sociale e culturale. Il valore di sé, la propria autostima dipendono in gran parte dalle relazioni che ciascun giovane riesce a stabilire con le persone che egli ritiene importanti. Per questo motivo, essere membro di un gruppo ultrà dà modo al giovane tifoso di partecipare a un mondo che lo valorizza, conferendogli la possibilità di accedere ad un ruolo, e per conservare questa possibilità egli si deve impegnare a condividere con il suo gruppo tutte le rappresentazioni che accentuano sia le somiglianze interne che le differenze esterne. In altre parole, il giovane che assume il ruolo di ultrà trova un’identità già predisposta con un corredo di norme, valori, sensazioni, credenze, ragioni e modelli di azione. Preso nella rete dei suoi bisogni di affiliazione e significanza, e dovendo scegliere un ambito di comportamento, egli fa proprie quell’immagine e quelle regole di condotta attraverso le quali può essere confermato dagli altri e approvato dall’intero gruppo” .
E’ importante, dunque, porre l’accento sulla curva come agente di socializzazione che non si esaurisce alle due o tre ore domenicali, ma in molti casi coinvolge esperienze di gruppo che durano tutta la settimana (si pensi alle stazioni radio gestite direttamente dai tifosi o alle centinaia di sedi aperte tutta la settimana in tutta la penisola). Il momento della preparazione della partita è certamente riservato a un gruppo ristretto, ma l’aspirazione a farne parte, da parte di ogni ultras, crea un meccanismo grazie al quale le interazioni sociali (all’interno del gruppo) si fanno sempre più forti e tendono allo scambio e all’acquisizione di nuove conoscenze. Dunque per migliaia di persone l’occasione domenicale diventa una manifestazione di socialità più ampia, che si estende a macchia d’olio nei quartieri periferici delle metropoli, dove per molti la curva è l’unico ambito di socializzazione.
L’adesione dell’ultrà al gruppo di riferimento, riflette un’interiorizzazione dei ruoli e della subcultura che lo orienta in tutti gli ambiti della propria vita; la curva diventa luogo in cui fermarsi a scambiare esperienze, emozioni, sensazioni che contribuiscono alla formazione interiore di tutti coloro che si rendono partecipi di questa esperienza. Possiamo quindi considerare la curva come un piccolo microcosmo, governato da norme di comportamento specifiche, utili ad orientare i membri; queste norme esistono allo scopo di favorire un comportamento conforme da parte di ciascun membro e tale principio è spesso confermato dall’assunzione di un particolare modus vivendi. Da un punto di vista esterno, inoltre, il rispetto di queste norme è indice di appartenenza al gruppo e ne costituisce il marchio di fabbrica: “Chi fa parte di questi gruppi giovanili deve abbigliarsi secondo certi criteri, indossando un insieme di segnali che hanno il compito di influenzare l’atteggiamento dei giovani tifosi sia gli uni rispetto agli altri che nei confronti dei normali tifosi [...] I gruppi giovanili di tifosi non rappresentano alcunché di anomico, ma sono al contrario una forma di aggregazione capace di esprimere un ordine normativo e simbolico integrato, sovente ideologicamente connotato, e sempre coerente, se valutato con la logica di chi in esso si riconosce” .
Il contatto e il confronto che si instaurano tra questi ragazzi divengono nel tempo una sorta di collante, specie tra coloro che dalla vita sociale hanno solo ricevuto delusioni: “Essi sviluppano così basse aspettative sociali, che cercano di compensare unendosi a gruppi di compagni che hanno sperimentato la loro stessa sensazione di social losers (perdentisociali)e assieme ai quali pensano di conquistarsi uno status sfidando la conformità sociale” .
Si può intuire come le opportunità di incontro e di sviluppo della personalità possano avere effetti talvolta eccessivi, legati ad un bisogno di protagonismo, di “visibilità sociale”. Per questi ragazzi diviene molto importante un valore quale la certezza di essere “qualcuno”, rendendo manifesta (spesso fin troppo) la loro presenza, nel bene e nel male: “Se in tempi relativamente recenti il tifoso tradizionale si recava allo stadio portando con sé la convinzione che il ruolo sociale da lui svolto nella vita civile fosse funzionalmente corretto, diversamente stanno le cose per il giovane tifoso moderno. Mentre il primo accettava passivamente un diversivo come lo sport, nel quale gli venivano riproposti in forma ludica gli schemi di comportamento da lui vissuti e assimilati nella vita quotidiana, il secondo rifiuta non tanto la società nel suo complesso quanto l’idea di restare fuso nella folla dei senza nome. Il giovane ultrà, sconvolgendo le regole del gioco, invertendo brutalmente i ruoli, sostituendosi cioè agli attori del calcio giocato, non rifiuta in blocco il sistema di valori e di comportamento dominante. Egli manifesta piuttosto un eccesso di partecipazione, una sorta di “estremismo partecipativo” a una cultura e a una società che imperativamente chiedono di entrare in lizza, di entrare in scena, di partecipare alla competizione” .
I rituali ultrà, i loro spettacoli e la “recita” che mettono in atto altro non è che un bisogno di affermazione. Gli hooligans inglesi, ad esempio, si sono fatti conoscere proprio in questo modo: “L’ hooliganismo altro non è che una strategia per apparire, per rendersi socialmente visibili, che si appoggia in parte su comportamenti devianti. Apparire o non apparire, farsi vedere o restare anonimi è ciò che designa la differenza tra un tifoso e un hooligan [...] La loro violenza non ha nulla di arcaico o di bestiale, tutto al contrario. Essa è espressione del sogno individualista contemporaneo che spinge ciascuno a essere attore della propria vita piuttosto che spettatore della vita altrui. Questi outsider dell’individualismo si fabbricano così un’identità sociale mostruosa che li rende unici, differenti da tutti gli altri” .
Quanto più il calcio acquista le caratteristiche di un campo di investimenti emotivi, sociali e politici, tanto più diviene una ribalta per gli attori in grado di apparirvi. L’interesse dei media, il ruolo di moltiplicatore economico individuato nel calcio da tendenze imprenditoriali innovative, la grande sensibilità dei politici per questa fonte di legittimazione, fanno sì che il calcio costituisca, anche per gli spettatori, una straordinaria occasione di essere visibili e quindi di conquistarsi una porzione rilevante di ciò che Dal Lago chiama il “ potere sociale delle immagini” .
Per le sue caratteristiche di fatto sociale globale costruito intorno a una fonte di emozioni, il calcio costituisce, ciò che Goffman definirebbe come una realtà ideale per l’azione e soprattutto per rendere socialmente visibile l’azione, e cioè la partecipazione a situazioni “fatidiche” . Situazioni in cui gli attori partecipano a un rito in grado di dare i brividi e questo è precisamente il senso dei rituali di stadio: rendere visibili questi momenti, celebrandoli, è il significato principale della partecipazione dei giovani tifosi alla partita; qualcosa di più complesso del teppismo, della frustrazione o di una banale affermazione di sé.
Il risalto assunto dalla violenza nel calcio dipende, per Dal Lago, da una serie di meccanismi, quali, in primo luogo, da una struttura ambivalente per cui la pubblica opinione (dalle pratiche dei media fino all’attenzione del singolo lettore o spettatore televisivo) ricerca attivamente una realtà fatta di emozioni forti, che peraltro si rifiuta di riconoscere e accettare come normale; appare chiaro che la cultura dei tifosi di calcio non può che alimentarsi dalla tensione emotiva promossa da questa struttura ambivalente. I tifosi organizzati trovano conferma nei media che lo stadio è il luogo in cui non solo esistono ampie possibilità di azione, ma soprattutto di un’azione che verrà riconosciuta e amplificata. In questo modo la ricerca delle emozioni e dell’azione da parte dei tifosi e l’ambivalente negazione della sua legittimità da parte dei media costituiscono un meccanismo di vero e proprio rafforzamento dell’immagine dello stadio come scena di eventi pericolosi.
Il fatto che uno striscione sia visibile in tutto lo stadio, che una coreografia particolarmente suggestiva sia visibile in televisione offre ricompense simboliche (prestigio, rispetto dei tifosi avversari) a chi ha organizzato queste attività. Analogamente, essere rispettati sul proprio territorio, dimostrarsi più forti dei tifosi avversari, rafforza il senso dell’identità di gruppo.
Abbiamo accennato ai rituali che legano i membri del gruppo ultrà. Per rituale intendiamo “un modo di agire socialmente regolato e collettivamente attuato, che non intende modificare la situazione, ma vuole avere soltanto un significato simbolico” .
L’importanza del rito è a sua volta un elemento di solidarietà insostituibile: “I meccanismi di adesione allo stile ultrà appartengono soprattutto alla sfera della socializzazione e dell’identità, in uno schema di autoreferenzialità alimentata dalla discriminante amico/nemico e dalla rassicurante “uniformità” dei comportamenti del gruppo. Il gruppo ultrà offre infatti non solo modelli di comportamento, ma anche ricompense sotto forma di criteri di autovalutazione positiva; non solo opportunità d’incontro, ma anche occasioni di dare prova della propria valentia. Uniformità significa semplicemente condivisione dello stesso rito. Il piacere di un ultrà consiste esattamente nel partecipare a un rito, di cui impara a conoscere rapidamente tutti i dettagli, che gli produce delle aspettative nel corso della vita ordinaria che ovviamente struttura il suo tempo e gli conferisce un’identità” .
I rituali trovano così una loro giustificazione: “All’esclusione della società dei consumi, cadute le speranze nelle capacità emendatrici dell’azione politica e solidaristica, il gruppo reagisce rafforzando i propri vincoli interni e adottando atteggiamenti aggressivi ai limiti della paranoia, influenzati sia dalle forme più deteriori delle culture subalterne e, in alcuni casi, di quelle delinquenziali, sia dal desiderio di compensare i proprio stato di invisibilità sociale con una provocatoria dichiarazione di identità, che si manifesta sia attraverso l’adozione di segni e simboli autoreferenziali, sia adottando comportamenti che, pur se a livello inconscio, tendono ad attrarre l’attenzione sul proprio stato di evidente sofferenza” .
Anche l’abbigliamento sfoggiato è espressione della mentalità e delle regole ultras, un simbolo di appartenenza, un linguaggio: “Essi sono una combinazione di abbigliamento, musica, gergo, mezzi di trasporto, taglio di capelli e così via, in cui esistono omologie tra l’autoconsapevolezza del gruppo e i possibili significati degli oggetti disponibili” .
Un look diverso dal tifoso “normale” è ciò che si prefissarono i pionieri di questo movimento, seppur all’epoca fosse generato da motivazioni politiche; “
Un altro valore che differenzia notevolmente gli ultras dai tifosi “normali” è la presenza costante al seguito della squadra anche nelle città più lontane. Nelle trasferte l’ultrà si sente ancora più fiero di esibire i propri vessilli; considerando che tra gli ultrà, la squadra e la città viene a crearsi un rapporto di identità pressoché spontaneo, nella mente del tifoso nasce la consapevolezza di rappresentare la propria terra, di dover portare in alto il prestigio delle sue origini. Nella mentalità ultrà l’identificazione tra squadra e città assume significati quasi sacrali, tanto che la curva stessa diventa un territorio da difendere ad ogni costo, un territorio esclusivo con un elevato valore simbolico.
Nelle trasferte l’ultrà si sente ancora più fiero di esibire striscioni e stendardi raffiguranti lo stemma cittadino, perché si sente orgoglioso di rappresentare la propria città: “I tifosi in gruppo godono di un senso di potenza che la vita quotidiana di solito non assicura loro. E quando vengono spinti in corteo lungo le strade è come se l’intera curva che rappresentano, l’unico luogo in cui hanno veramente diritto di cittadinanza, si muovesse con loro come uno spazio libero”
La trasferta rappresenta un vero e proprio “banco di prova” per gli ultrà, data la somma di valori che essa sottintende: coraggio (specie in quelle più pericolose), orgoglio, costanza, fedeltà: “La trasferta diviene un momento fondamentale nella vita di un ultrà, a cui partecipano solo i tifosi più fedeli e incuranti del pericolo che essa può comportare” .
Da questo punto di vista gli ultras della Roma sono encomiabili. La tifoseria giallorossa è, in Italia, una delle più presenti in trasferta, anche se molte squadre del campionato di “serie A” giocano in città molto lontane dalla capitale: “Dico sempre che una trasferta vale tre partite in casa. La trasferta è un momento splendido in cui viaggi verso l’ignoto – perché spesso non sai cosa ti aspetta – con quello che consideri la tua legione, il tuo gruppo, la tua banda. Porti il tuo essere, il tuo dialetto, la tua romanità a mille chilometri da casa, dove in un altro gruppo c’è qualcuno come te, ma diverso da te, che non sopporta di vedere il proprio territorio invaso. Nella trasferta speri di sconfiggere la tifoseria avversaria dal punto di vista del tifo e, se attaccato, speri anche di farti valere. Sempre e soltanto nel nome della tua città. Il calcio, tuttavia, non è un contorno ma è un elemento essenziale. Se la Roma non giocasse in trasferta non avrebbe senso andarci, tanto per andare. Come dire? La Roma è una fede e gli ultras sono i suoi seguaci”.
Basti pensare che, nonostante i recenti risultati non eccezionali della squadra, la maggior parte dei tifosi romanisti seguono “Sempre” (23%) o “Quasi sempre” (34%) la formazione capitolina fuori casa e solo il 12% di loro assiste unicamente alle partite casalinghe.

 

E’ come se gli ultras giallorossi sentissero il “dovere morale” di seguire la squadra in trasferta e la conferma di questo è che molti di loro (38%) si mettono in marcia con “Qualsiasi mezzo”. In passato era il treno il mezzo più utilizzato, ora invece i tifosi preferiscono spostarsi con “Pullman” (26%) o “Mezzi propri” (19%).

 

 

 

CAPITOLO 3
La curva che comunica

 

Abbiamo visto nel precedente capitolo come lo stadio costituisca, per gli ultras, un’ottima occasione per rendere visibile le proprie azioni. Con il passare degli anni cresce l’attenzione che i media, soprattutto televisione e carta stampata, rivolgono al mondo del calcio; contemporaneamente aumenta la voglia del pubblico di essere soggetto attivo in questo mondo. Durante lo spettacolo della partita è come se ci fossero due tipologie di attori: da una parte le squadre in campo, dall’altra le tifoserie al seguito, tutti protagonisti alla stessa maniera.
In questo capitolo proveremo a dimostrare come l’essenza dei gruppi ultras vada ricercato nella loro capacità di convertire lo spettacolo da calcistico a coreografico, e di convertirsi, nello stesso tempo, da spettatori a osservati.
Parleremo, perciò, di come gli ultras cerchino, ogni domenica, di trasformare la propria curva in un unico organismo in cui si fondono migliaia di corpi, voci e colori; un organismo che possa fornire allo spettatore che occupa gli altri settori dello stadio, un colpo d’occhio che incanti e sia da stimolo per l’incitamento verso la propria squadra.
In secondo luogo prenderemo in esame i rapporti tra la curva e l’esterno: vedremo come la politica continua ad essere un punto di riferimento per una consistente fetta di ultrà, i quali se da un lato subiscono determinate influenze, in certi casi arrivano essi stessi ad esercitarne delle loro.
Successivamente vedremo come il rapporto tra la curva e le società calcistiche non sia sempre basato sulla fiducia e sulla cooperazione, arrivando al contrario a situazioni di aspra conflittualità. Rapporti che si sono inaspriti con il passare del tempo a causa della sempre maggior importanza che riveste, nel mondo del calcio, il fenomeno della tv a pagamento.
Anche con i calciatori, con i propri beniamini, la situazione non è per niente stabile, nel senso che si passa da manifestazioni di grande affetto reciproco a episodi di insofferenza e distacco.
Il rapporto che esamineremo tra ultrà e forze dell’ordine sarà invece privo di queste ambivalenze, dato che la mancanza di dialogo tra le due parti ha molto spesso giocato un ruolo decisivo nello scoppio di incidenti dentro e fuori gli stadi.
Lo stesso dicasi per l’opinione che ultras e mass media hanno l’uno dell’altro; i primi non accettano ciò che di brutto viene detto e scritto su di loro, cosa che li ha spinti ad indossare in prima persona i panni dei comunicatori, avvalendosi di stazioni radio autogestite e siti internet; i secondi “costretti” ad occuparsi con troppa frequenza delle intemperanze causate dalle frange più violente del tifo organizzato.

 

    1. Lo stadio, una cornice simbolica

 

Nel gioco del calcio la contrapposizione tra due squadre permette la netta dicotomizzazione e categorizzazione tra “noi/voi”. La stessa cosa avviene sugli spalti, dove, tra gli ultras, tale contrapposizione viene facilmente trasformata in un’identificazione “amico/nemico”. Come sul campo si disputa una partita che vede due squadre che si affrontano per vincere, allo stesso modo sugli spalti due gruppi ultras si affrontano per affermare la propria superiorità sulla base di altre regole e norme. Si può dire che ogni domenica la competizione non sia solo sportiva ma coinvolga, in un campionato indipendente e parallelo, gli ultras delle squadre in campo.
Quello che è in gioco è l’identità sociale degli appartenenti ai gruppi, che competono per una supremazia più simbolica che reale. Nelle curve dominano valori come la capacità di impressionare gli avversari con le coreografie più spettacolari, superarli nella qualità e quantità di tifo, e nel caso di scontri far scappare gli ultras rivali. La matrice situazionale è uno schema, un riferimento cognitivo, attraverso cui i protagonisti dell’interazione danno vita alla comunicazione e la organizzano, dando al comportamento il giusto livello di significato. Erving Goffman, utilizzando un’intuizione di Gregory Bateson, ha chiamato questo schema frame. Il frame è quindi una matrice per costruire situazioni ma anche una cornice attraverso cui attribuire significati agli eventi.
I tifosi ultras sono in grado di erigere diverse cornici situazionali a seconda di chi siano gli interlocutori. Se essi entrano in contatto con i tifosi moderati, piuttosto che con altri ultras, cambia la lettura scenica del frame. I tifosi di curva sono poco interessati ai tifosi moderati dell’altra squadra o della propria, i frame appropriati vengono attivati verso gli ultras del gruppo rivale. A tale proposito è interessante l’analisi di Dal Lago che ha rilevato le interazioni comunicative tra i vari attori all’interno della “cornice” dello stadio. I flussi sono divisi in positivi (applausi, cori d’incoraggiamento verso giocatori o squadra) e negativi (insulti, fischi, proteste). Gli ultras (di casa e in trasferta) sono i principali attori, essi infatti sono gli unici con tutti gli attori presenti nello stadio, insultando gli avversari e incoraggiando la propria squadra o i singoli giocatori in maniera costante. Gli spettatori degli altri settori (siano essi tifosi dei distinti o della tribuna) sono invece interessati principalmente alla partita, esprimendo disappunto verso l’arbitro per eventuali decisioni sfavorevoli. Proprio quest’ultimo soggetto, infatti, è al centro di flussi negativi da parte di tutti i settori dello stadio e anche da parte dei giocatori delle due squadre
Gli ultras sono molto spesso i primi attori di tale frame. Gli stessi cercano con il loro comportamento di influenzare l’andamento della gara (spesso vengono definiti dai giocatori stessi come il “dodicesimo giocatore in campo”), rimanendone in misura minore influenzati.
La partita, o il suo svolgimento, ha un ruolo secondario rispetto a quella che è la rappresentazione che vede come protagonisti i militanti delle curve. Questo spiega anche come molto spesso incidenti o atti teppistici, fuori e dentro gli stadi, siano in larga misura indipendenti dal risultato o dalla posizione in classifica delle squadre. Non intendo affermare che la partita o il suo andamento non abbia influenza su tali fatti, ma che molto spesso non li scatena, semmai, contribuisce ad accrescere l’attivazione emotiva degli spettatori.
In questi termini è comprensibile il fatto che quello che accade in campo risulti agli occhi degli ultras secondario rispetto a quelli che sono gli obiettivi che il tifo permette di perseguire.
I significati agonistici della partita sono tradotti dagli ultras in un altro sistema di significati rispetto al tifoso “normale”: la competizione diviene uno scontro, il linguaggio tecnico che parla di difesa e attacco viene preso alla lettera così come i temi del trionfo, della superiorità e della sconfitta vengono spinti oltre la finzione: “Il tifo ultras è un comportamento prevalentemente orientato ad un agire comunicativo. Come tale consiste in processi atti a definire la situazione estraendone dei significati in cui viene messa in gioco l’identità degli spettatori/attori piuttosto che il risultato della partita” .
La differenza tra ultras e “tifosi normali” ci viene confermata dalle risposte dei primi alla domanda “Come consideri i tifosi degli altri settori dello stadio?”: il 32% dei ragazzi di curva ritiene siano “Calorosi, ma meno di noi”, molti altri (28%) “Solo dei brontoloni”, mentre alcuni ultras (18%) pensano ci sia addirittura “Ostilità” tra loro e il resto della tifoseria romanista.
Tornando all’agire comunicativo del tifo ultrà, bisogna aggiungere che gli effetti scenici e la costruzione del copione comportamentale si appoggiano alla rappresentazione di sé utilizzando le diverse componenti simboliche dell’aspetto. Questo non è solo affidato all’esibizione di maglie con i colori della propria squadra, sciarpe e simboli ultras, ma anche alla coreografia ed ad un’espressività dotata di particolari risorse gestuali. In questo, ciascun gruppo esibisce uno stile, ovvero un mezzo che consente loro di controllare in maniera unitaria la propria presentazione sulla ribalta delle gradinate, conferendo ai singoli attori la possibilità di manifestazioni corali ed emotive che solo la drammatizzazione mimica del gruppo riesce ad esprimere.
L’aspetto di sé e lo stile che lo guida implica uno schema condiviso attraverso cui dare certi significati alla situazione e agli episodi a cui il tifoso partecipa; una costruzione che richiama l’impegno a produrre certi stati d’animo e ad essere all’altezza del personaggio dichiarato; dei riferimenti per avere delle opinioni e dei modi di reagire a quello che avviene in campo.
Il tifo calcistico, con le sue semplici ed efficaci tipizzazioni, consente di produrre una realtà governata dallo schema identificazione e differenziazione. Simboli e norme, valori e linguaggi, emozioni e comportamenti nascono da questo schema generativo (o frame) ponendoli al servizio di un’identità ovvero di un personaggio e della sua scena e copione .

 

    1. La curva, che spettacolo

 

 

Abbiamo già parlato della fase preparatoria all’incontro che coinvolge gli aderenti ai gruppi per tutto l’arco della settimana; bisogna sottolineare però come in questa fase emerga la creatività e lo spirito d’iniziativa degli ultras. La continua ricerca di originalità sta alla base delle coreografie che ogni domenica colorano gli stadi, e non si tratta sicuramente di un compito facile. Bandieroni di ottanta metri quadrati, fumogeni, torce da segnalazione marina, palloncini e cartoncini colorati, sciarpe e striscioni richiedono un impegno costante e duraturo affinché possano armonizzarsi tra loro e trasformare la curva in un unico “superindividuo”. L’unità della curva, non solo intesa in senso organizzativo, ma anche come volontà di esaltare una comune visione, uno stile, una mentalità, è un grande valore che l’intero movimento ultrà cerca di salvare ed affermare. Questo obiettivo, però, molto spesso risulta una chimera, perché all’interno degli stadi sono molti i gruppi che si contendono l’egemonia senza mancare di contrastarsi gli uni con gli altri. A volte questa divisione risulta, paradossalmente, funzionale allo spettacolo, in quanto ogni gruppo cerca di emergere dalla massa, rendersi visibile, sfoggiando coreografie che, dovendo risultare migliori delle altre, finiscono per “spettacolarizzare” sempre di più la curva.
Il momento coreografico che si svolge all’inizio dell’incontro è quello che offre più stimoli e che generalmente viene preparato con più cura. Ogni gruppo, infatti, cerca di vincere fin dall’inizio il confronto con la tifoseria avversaria e cerca di farlo “spettacolarizzando” il più possibile; questo momento coincide con la fine della fase di preparazione alla partita e svolge un ruolo liberatorio nell’animo degli ultras perché è il momento nel quale ognuno sfoga le tensioni accumulate durante la settimana. Generalmente il gruppo prepara la coreografia anche per l’eventuale gol della propria squadra, ma in pratica quello è il momento in cui si da libero sfogo alla propria gioia, e in quanto tale non si riesce a razionalizzarlo più di tanto.
Il suono incessante dei tamburi, d’importazione latinoamericana, scandisce il ritmo del tifo e tiene alta la tensione emotiva per tutto l’arco dell’incontro. Gli slogan, i cori e gli striscioni, invece, non solo permettono alla curva di manifestare il proprio attaccamento alla squadra, ma sono soprattutto i mezzi di comunicazione più efficaci per recapitare messaggi di ogni genere ai giocatori, alla tifoseria avversaria, ai media.
Lo slogan, inteso come sintesi significativa di un concetto o un’idea, occupa da sempre il primo posto nella graduatoria dei mezzi comunicativi più utilizzati. L’uso degli slogan, dalla propaganda politica di epoca romana alla moderna pubblicità, ha scolpito tratti di storia: le crociate contro i saraceni si svolsero al grido “Dio lo vuole” scritto sugli scudi dei cavalieri cristiani, lo slogan rivoluzionario “Liberté, Egalité, Fraternité” rimane tuttora la sintesi più efficace del pensiero democratico.
Non è un mistero che i gruppi ultras si siano modellati sullo stampo organizzativo dei movimenti rivoluzionari e oltranzisti, riprendendone nomi, simboli, strutture e abbigliamento.
Oggi l’analisi del rapporto ultras/partita non può prescindere dallo studio del modo di comunicare all’interno degli stadi.
I gruppi organizzati tendono a dare un’immagine di se fortemente unitaria sia al proprio interno che nel rapporto con gli altri spettatori presenti allo stadio. La dialettica ultras/calciatori e quella ultras/ultras segue percorsi comunicativi fortemente standardizzati; i messaggi vengono veicolati attraverso l’uso della voce o del messaggio scritto. Durante la partita gli slogan tendono a sintetizzare gli stati d’animo dei tifosi sugli spalti, rafforzando nel contempo l’unità del gruppo. L’uniformità del comportamento degli ultras all’interno della curva risponde semplicemente all’esigenza di condivisione di uno stesso rito. In questo senso, l’uso dei simboli assume un notevole rilievo; l’opposizione simbolica richiama molto spesso simboli culturali estranei alla curva che vengono materializzati all’interno degli stadi e utilizzati per manifestare appartenenza o dissenso. Il rituale di curva assume quindi connotati stabili e ripetitivi in ogni stadio d’Italia. Ovviamente, ciò non toglie che le varie tifoserie dispongano di etichette differenziate e che siano sempre alla continua ricerca di simboli nuovi, mutuati da ogni aspetto della vita sociale, che diano loro una certa originalità.
L’uso dei canti all’interno degli stadi, invece, è stato importato, nel nostro paese, dalle curve inglesi. Il caso italiano, però, presenta alcune sostanziali differenze: mentre i cori inglesi sono espressione di motivi musicali locali e tendono quindi a connotare una determinata tifoseria differenziandola dalle altre, i canti degli ultrà italiani hanno la caratteristica di provenire da qualsiasi ambito musicale e di essere utilizzati in maniera indifferente da tifoserie diverse. Ogni gruppo, ovviamente, adatta alla musica o al testo i propri slogan, ma sostanzialmente i cori sono pressoché uguali in ogni curva. I canti, intonati dalla curva per tutto l’arco della partita, fungono da strumento di stimolo nei confronti dei calciatori e sospingono la squadra verso la vittoria. Ogni canto assume comunque un preciso significato: se la squadra è in difficoltà, dalla curva si alzerà un coro dai toni forti, che inciti i giocatori in campo e intimidisca la squadra avversaria; al contrario, se la squadra sta vincendo, le canzoni saranno più sobrie, allegre e tenderanno a conquistare tutti i settori dello stadio. I cori si adattano quindi al clima della partita e fanno riferimento a precisi episodi o a reiterati comportamenti che connotano la tifoseria avversaria. Purtroppo, capita che l’insulto agli avversari assuma anche toni razzisti, colpendo la città di origine dei tifosi ospiti; dello stesso tono risultano i cori indirizzati ai giocatori di colore che militano nella formazione della squadra avversaria. Di recente, la Federazione Italiana Gioco Calcio ha adottato una linea dura per combattere il razzismo nei nostri stadi, dando la possibilità all’arbitro dell’incontro di sospendere la partita in caso di cori razzisti o di esposizione di striscioni particolarmente offensivi.
Razzismo a parte, gli scontri verbali tra le curve, assumono i connotati di una conversazione a distanza stereotipata. Ad insulti obbligati si risponde con altrettanti insulti, che rientrano nell’ambito delle manifestazioni convenzionali di ostilità. L’evento sportivo si carica di una forte valenza simbolica e le tifoserie si affrontano in un combattimento verbale che evoca scenari di guerra.
La curva “lancia” cori offensivi non solo alla tifoseria avversaria, ma anche alle forze dell’ordine presenti allo stadio; cori che da una lato attaccano il “nemico forze dell’ordine” e dall’altro ostentano forza e coraggio nei confronti degli ultras avversari anche dinanzi ai manganelli. L’interazione tra le tifoserie sugli spalti e le forze di polizia preposte al controllo all’interno dello stadio assume connotati diversi da partita a partita, ma in generale lo si può schematizzare secondo una formula che vede le due tifoserie scontrarsi verbalmente, non dimenticando, nei loro cori, slogan contro le forze dell’ordine, viste come un ostacolo alla piena realizzazione dei propri istinti.
La peculiarità del tifo nostrano si esprime anche attraverso un massiccio uso di striscioni che spesso ricoprono l’intero perimetro dello stadio. Queste strisce di tessuto recano scritte di vario genere, ma in generale possiamo dire che servono a distinguere il proprio gruppo in mezzo ai tifosi della propria squadra, oppure a lanciare messaggi, non solo ai giocatori o ai tifosi avversari, ma anche al resto degli spettatori, anche quelli a casa, per comunicare la posizione della curva su determinati argomenti pubblici, tenendo ben presente l’attenzione che i media rivolgono a ciò che avviene ogni domenica negli stadi. Ad esempio, non mancano episodi di solidarietà da parte degli ultras in occasioni di tragedie occorse nel nostro paese; tra i tanti possiamo citare lo striscione apparso in Curva Sud a Roma dopo che un terremoto colpì il Molise uccidendo, all’interno di una scuola, diversi bambini: “Vicini e solidali con chi a perso tutto, Roma piange le vittime di San Giuliano”. L’ultimo grande evento, in ordine cronologico, che le curve di tutta Italia hanno voluto “commentare” è stato la morte dell’amato Papa Giovanni Paolo II, ricordato in tutti gli stadi da striscioni di grande affetto e riconoscenza.
Ovviamente, però, la maggior parte degli striscioni “alzati” dalle curve la domenica , riguardano la sfera calcistica. Per quanto riguarda i nomi e i simboli adottati dai gruppi, possiamo affermare che essi tendono a stratificarsi secondo una fisionomia ben definita: gruppi quali le Brigate Nerazzurre dell’Atalanta riprendono le denominazioni dei movimenti estremisti degli anni ’70; oppure gruppi quali il Commandos Tigre del Milan richiamano a valori quali l’eroismo o il combattimenti. Lo striscione rappresenta per il gruppo il vessillo dietro il quale trincerarsi, per questo motivo esso si carica di una forte valenza simbolica e il suo danneggiamento o la sua sottrazione da parte di un gruppo avversario equivale ad una sconfitta sul campo di battaglia. Un eventuale furto, infatti, comporterebbe una reiterata umiliazione da parte della tifoseria avversaria, realizzata attraverso l’esposizione dello striscione rubato, molto spesso in posizione capovolta.
Spesso gli striscioni ultras evocano valori quali la fede nei confronti della propria squadra, il senso del dovere e l’onore, testimoniando un “attaccamento ai colori” che assume i connotati di una leggenda: “Se solo lontanamente capiste cosa significa per me quella maglia, oggi morireste in campo per darmi la vittoria” scrivono i tifosi romanisti in occasione della delicata partita interna contro il Brescia del 1 maggio ’05, confermando  anche la presenza non  indifferente di striscioni che incitano al combattimento, portando all’interno degli stadi la simbologia rituale della battaglia.
Inevitabili sono poi i riferimenti politici che con diverse connotazioni ritroviamo un po’ in tutti gli stadi  d’Italia, così slogan come “Hasta la victoria, siempre” o “Boia chi molla” vengono utilizzati con cadenza fissa da alcuni gruppi per assumere una determinata collocazione politica, o sporadicamente, da frange isolate di tifosi tendenti a politicizzare la curva.
La casistica degli insulti scritti, nei confronti  degli avversari, è molto vasta, ma c’è da sottolineare che le curve italiane puntano molto sull’aspetto goliardico, che si  esprime bene in striscioni che tendono a provocare gli avversari cercando di metterli in ridicolo; ad esempio così i tifosi della Fiorentina fanno ironia a Como scrivendo :” Se i conigli avessero le ali Como sarebbe un aeroporto”.
Come sono numerosi gli striscioni che incitano la propria squadra o ne testimoniano l’attaccamento ai colori, lo sono altrettanto quelli di contestazione, nei confronti della società e soprattutto nei confronti dei giocatori che spesso, nel calcio odierno, sono ritenuti solo dei mercenari per nulla attaccati ai colori sociali.
Nel “calcio moderno” sono presi di mira anche gli organi d’informazione e i mezzi di comunicazione, in particolare la tv a pagamento, perciò sono molti gli striscioni che con ironia, ma molto più spesso con toni forti, si riferiscono proprio ai media: Questo calcio ci fa Skyfo”, con evidente riferimento a Sky, è non solo la scritta più presente nelle curve di tutta Italia, ma è ormai diventato un vero e proprio slogan che accomuna tutti i gruppi ultras nella lotta al “calcio moderno”, di cui la pay-tv è parte integrante.

 

 

    1. Gli ultras e la politica

 

Il movimento ultras è un ricco microcosmo al cui interno si rintracciano molti aspetti della vita sociale; le esperienze politiche di curva riflettono una serie di mutamenti, fortemente contestualizzati, di cui è stata spettatrice l’intera società. I rapporti tra tifo e politica, in generale, tendono ad assumere una sorta di reciprocità; se da un lato la curva viene utilizzata come laboratorio di manovalanza politica da più o meno noti partiti o movimenti, dall’altro la curva stessa riflette al proprio interno tutte le contraddizioni che porta con se la società contemporanea, prestandosi così bene a questo genere di sperimentazioni.
Sin dalla loro comparsa negli stadi gli ultrà non hanno mai negato una precisa connotazione politica, esprimendola attraverso simboli e slogan inequivocabili. Anzi, le convinzioni politiche dei membri di un gruppo influenzano spesso il comportamento e le scelte più importanti, dalle amicizie con altre tifoserie ai rapporti con la società calcistica.
I caratteri distintivi della sottocultura ultras, lo ricordiamo, apparvero in Italia nei primi anni Settanta, in un periodo fortemente segnato dalle esperienze e dalle attività delle organizzazioni politiche di matrice sessantottesca e, in particolare, dei gruppi più estremisti. E’ dalle controculture politiche che il movimento ultras assorbe, pur riorganizzandoli, i propri simboli e strutture organizzative .
Questo legame con la politica viene manifestato principalmente dal punto di vista estetico: “Viene creato un particolare abbigliamento da stadio che però in Italia ha la caratteristica di essere una trasformazione e un adattamento dell’originaria divisa dei movimenti studenteschi. Eskimo e giacche mimetiche, ornati di fregi e simboli calcistici, caratterizzano infatti il modo di vestire dei primi giovani ultras, a testimonianza di quanto il clima di quella stagione politica si rifletta nell’atmosfera della curva” .
L’influenza del movimento hooligan, in questo ambito, è assolutamente marginale: “A differenza del modello inglese, dove il gruppo di hooligans riproduce, almeno inizialmente, lo schema comportamentale della “banda del quartiere”, in Italia il gruppo ultrà si conforma ai canoni delle organizzazioni politiche: tra gli inglesi  prevalgono le attività spontanee e immediate (i cori, le “sciarpate”, tutto s’inserisce nel rito della partita), tra gli italiani la preparazione degli striscioni, bandiere di grosse dimensioni, di coreografie che coinvolgono l’intera curva postulano un’organizzazione che va oltre la domenica e che si nutre di riunioni infrasettimanali, di responsabili di settori, di risorse economiche. La stessa tendenza al proselitismo (campagne di tesseramento, ecc.) acquisisce forme più politiche che sottoculturali; lo stesso si può dire per la presenza femminile che, al contrario di quanto avviene nel modello hooligan, trova un proprio ruolo in quelle attività “logistiche” infrasettimanali che risultano semi-assenti tra gli ultras d’oltre Manica” .
Tali caratteristiche sono giustificate dal fatto che per molti ultrà la differenza tra le manifestazioni di piazza e l’attività curvaiola è minima: “Il fatto che gridiamo allo stadio  alcuni slogan che possono ricordare manifestazioni politiche, è una cosa abbastanza naturale, che viene abbastanza spontanea, sia perché sono slogan orecchiabili che si possono gridare in tanti, e poi perché è una cosa naturale, no? Viene naturale gridare le stesse cose che possiamo gridare per esempio in piazza. Diciamo che usiamo un certo linguaggio che per noi è naturale, i nostri slogan e le nostre frasi sono sempre quelle, come il nostro modo di esprimerci: non è che andando allo stadio lo cambiamo, non ci trasformiamo andando allo stadio, siamo sempre noi” .
Lorenzo Contucci ammette che fare politica allo stadio è normale: “Non credo che lo stadio sia diverso da una piazza e non si tratta, credo, di giusto o sbagliato. L’uomo è un animale sociale e, come dicevano i latini, similis cum similibus. E’ naturale che il ragazzetto di destra si trovi meglio con chi la pensa come lui, così come è ovvio l’inverso. La politica allo stadio c’è sempre stata, nel senso che è impensabile che una persona possa pensare politicamente per 6 giorni su 7 e dimenticarselo la domenica. La politica, poi, c’è anche nelle tribune con le poltroncine di pelle, solo che lì è una politica in giacca e cravatta. Al potere dà sempre fastidio il lato proletario, di sinistra e di destra, delle cose”.
Un dato di fatto è che le prime amicizie e rivalità venutesi a creare avevano come presupposto e come “metro di giudizio” la simpatia verso una determinata area politica; di conseguenza numerosi scontri hanno avuto come unica causa la diversa fede politica.
Non a caso diversi gruppi ultras vennero costituiti da ragazzi impegnati in attività politiche anche estremiste: “Parecchi giovani risultano già aggregati in gruppi e movimenti politici. E sono proprio alcune caratteristiche dei gruppi politici estremisti, quali il senso di coesione e di cameratismo, la sfida all’autorità costituita, il senso di conflittualità, a dare sostanza ai gruppi ultrà, che in breve tempo riescono a radunare decine e decine di giovani” .
Il movimento politico di curva, così, non fu altro che la naturale prosecuzione della propria militanza e riuscì a fondere passione politica e fede calcistica in un binomio ampiamente riconducibile alle logiche di appartenenza.
Se questa forte matrice politica rappresentò un fortissimo impulso per i “novelli” ultrà degli anni Settanta, nel successivo decennio questa influenza registra una certa flessione; nei primi anni Ottanta, infatti,  il collegamento tra ultrà e politica sembra affievolirsi. Nascono tifoserie che si dichiarano apertamente apolitiche e tendono a lasciare fuori dai cancelli dello stadio appartenenze politiche di qualsiasi genere, aderendo così  alla “politica dell’apoliticità”. Lorenzo Contucci conferma questa tesi: “Per quanto mi riguarda, e per ciò che concerne i miei trascorsi di curva, ho sempre cercato di mettere da parte la politica, perché  allo stadio rappresenta un fattore di divisione. Negli anni ’80 a Roma ci si riuscì, ma perché il valore “Roma” era ancora predominante. C’erano le bandiere, giocatori che sembravano affezionati alla maglia. C’era qualcosa da amare, e la politica per quelle poche ore tutti se la dimenticavano, offuscata da quella maglia giallorossa. Oggi che il valore “Roma” è mortificato da giocatori senza bandiera e senza rispetto per chi li segue, capisco che altri valori abbiano più spazio” .
Ciò che invece ha caratterizzato gli anni Novanta sono stati due comportamenti in antitesi tra loro, ma entrambi molto pronunciati. Da una parte abbiamo non solo un’intera generazione di giovani che non crede più alla politica come possibilità di intervento sulla realtà sociale, ma anche un paese sempre più preda del degrado morale e politico; dall’altra, invece, gli atteggiamenti politici vengono esasperati ed estremizzati: “E’ altresì certo che l’estremismo politico costituisce comunque un esempio affascinante per i giovani ultrà, non solo perché esibisce una simbologia corrispondente all’immagine di durezza che questi vogliono dare di sé, ma anche perché rappresenta un modello organizzativo e comportamentale che risponde pienamente ai loro  obiettivi” .
Gli intrecci tra tifo e politica divengono sempre più fitti e cominciano a manifestarsi rancori etnici e xenofobi che saranno causa di episodi di intolleranza dentro e fuori gli stadi.
Restando nel nostro paese è sufficiente citare un episodio che turbò l’opinione pubblica, quello, cioè, relativo alla partita Lazio-Bari del 30 gennaio 2000, allorché i tifosi laziali esposero lo striscione “Onore alla tigre Arkan” : “Tutto è cominciato con uno striscione apparso in Curva Nord, ieri all’Olimpico, “Onore alla tigre Arkan” c’era scritto. Il “comunicato” era completato da un effigie di Mussolini e dall’immancabile croce celtica. “Se non hai una svastica o un tatuaggio, insomma, se non hai  nulla che dimostri la tua appartenenza al fascismo al nazismo, con loro non puoi vedere la partita” dice uno degli Irriducibili della Lazio [...] Tristissimo Alen Boksic, attaccante croato della Lazio: “Sto male, sono deluso, quella scritta era dei miei tifosi. Non sanno neppure di cosa parlano, hanno reso onore a uno che tutto il mondo considera un criminale di guerra contro il mio popolo. Se fossi stato in campo mi sarei tolto la maglia e me ne sarei andato via” .
Questo episodio provocò molte reazioni di sdegno e fece riflettere l’opinione pubblica sull’elevato livello di  politicizzazione dei giovani ultras.
Attualmente un numero elevato di  gruppi di tutto il panorama calcistico nazionale risponde alle parole d’ordine dell’estrema destra: sciovinismo, passione per la violenza, senso esasperato per la “territorialità”, sessismo, sono questi i valori della destra radicale che riescono a penetrare nelle curve, ispirando gruppi come gli Skin dell’Inter, i Boys della Roma, gli Irriducibili della Lazio, i Drughi della Juventus.
Lo conferma un rapporto della Direzione centrale della Polizia di prevenzione, basato sull’osservazioni delle “Sezioni tifoserie” durante i campionati 2003-2004 di serie A, B, C1 e C2. Dei 74.000 tifosi raccolti in 445 gruppi ufficiali, 43.000 (il 59%), secondo la polizia, sono orientati politicamente e fanno parte di 192 organizzazioni. Di questi ultimi, 39 sono su posizioni di estrema destra, 74 genericamente di destra, 22 di estrema sinistra e 57 genericamente di sinistra.
I club di destra e di estrema destra raccolgono la maggioranza dei tifosi e sono concentrati in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Lazio, Marche e Sicilia; le tifoserie di sinistra, invece,  nascono generalmente in contesti socioeconomici che fanno riferimento o alle grandi aree industriali del centro-nord o a piccoli centri che rispecchiano tradizioni e forti tendenze politiche di sinistra. L’orientamento verso sinistra ed estrema sinistra, comunque, è egemone solo in Toscana, con tifoserie, quella Livornese in testa, che mantengono viva al proprio interno la forte carica simbolica che deriva dall’appartenenza politica e soprattutto dai suoi miti (Che Guevara su tutti) . Sicuramente furono gli anni di piombo, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, grazie alle forti cariche simboliche di cui si fecero portatori, ma soprattutto al clima di tensione che animava le piazze, il contesto socio-culturale in cui migliaia di giovani di estrazione proletaria entrarono a far parte di gruppi ultras di sinistra, convinti che il clima di contestazione dovesse trovare nello stadio un luogo privilegiato di scontro.
Ma le divisioni politiche o di campanile possono essere agevolmente superate in nome del “credo ultras” e di un interesse unico  che, spesso, si materializza nella lotta al calcio moderno, visto come un sistema corrotto che ha sacrificato gli ideali, e ai comuni nemici delle forze dell’ordine . Il “senso di appartenenza” diventa un dogma, più forte ed importante della fede calcistica.
Attualmente la relazione tra calcio e politica è divenuta così stretta che il peso di coloro che si pongono fuori dallo spazio politico - i disillusi, i disinteressati – cala in proporzione al crescere dell’intensità del tifo: questo è ciò che riferisce un sondaggio di La Polis-Limes del giugno 2005. Secondo la rivista italiana di geopolitica, fra i militanti del tifo, la quota di persone che si estraniano dallo spazio politico fra destra e sinistra risulta minima; mentre è massima fra coloro che non provano passione per una squadra di calcio. Calcio e politica attualmente, in Italia, sembrano rinforzarsi reciprocamente, nell’esperienza e nella sensibilità sociale .
Spostandoci all’estero possiamo notare come certe tifoserie mettano in atto atteggiamenti sistematicamente provocatori e come altre sfruttino l’ambito calcistico per rivendicare i propri diritti o per acuire certi contrasti. Nel primo caso citiamo ad esempio i tifosi tedeschi, non molto dissimili in questo dagli hooligans inglesi: “Criminalità, atti anticostituzionali consistenti nella provocazione mediante simboli anarchici o fascisti, turbamenti e minacce per l’ordine pubblico e la sicurezza, tutto ciò si è esasperato sino a diventare prima un fenomeno sociale innegabile e poi un vero e proprio problema sociale” .
Anche in Spagna viene confermata questa tendenza provocatoria: molti ultrà prendono parte a manifestazioni politiche e studentesche, provocando violenti scontri con la polizia.
In Grecia la situazione non è certo più tranquilla: “Nel movimento greco il modello britannico del boot-boy perde quasi completamente ogni riferimento “formale”: bande di hooligans in cui convivono teste rasate e capigliature lunghissime, fortemente politicizzati, rendono lo scenario particolarmente cruento. E poi stadi continuamente danneggiati e tanta, tanta propaganda politica” .
Numerosi invece sono i casi di tifoserie che “trasferiscono” allo stadio conflitti politici ed etnici, primi su tutti i tifosi dell’ex Jugoslavia, nella quale la contaminazione tra tifo calcistico e politica raggiunge livelli pericolosi con la guerra civile del 1991: “La politicizzazione dei tifosi – e in primo luogo dei giovani delle curve – è resa ancora più drammatica dalla conseguente partecipazione di questi tifosi alle diverse fasi della guerra civile [...] Il primo passo in questa direzione lo si è compiuto allorché i gruppi ultrà delle principali squadre jugoslave si sono schierati, all’inizio della crisi balcanica, per le forze di estrema destra presenti nello schieramento politico delle rispettive repubbliche. La vera novità sta nel fatto che i tifosi ultrà appoggiano direttamente alcuni partiti: di regola con programmi politici di destra e di impronta nazionalista” .
Concludiamo questo paragrafo con l’analisi di ciò che emerso dalla ricerca effettuata nella realtà della Curva Sud di Roma.
Le domande riguardanti la politica hanno avuto un esito contrastante, perché se è vero che la maggior parte degli intervistati (51%) la ritiene “Una necessità”, è pur vero che molti altri hanno un’opinione tutt’altro che positiva del mondo della politica, visto che alcuni (25%) la considerano “Uno strumento sempre al servizio delle classi al potere”, altri (15%) “Un affare sporco che non mi riguarda”.
Agli ultrà della Curva Sud è stato poi chiesto di indicare i problemi che secondo loro dovrebbero affrontare le organizzazioni politiche, prima specificando il problema più importante in assoluto, poi segnando eventuali altri, senza nessuna gerarchia. Ebbene, la “Disoccupazione giovanile” è il principale problema da risolvere per il 38% degli ultras romanisti, ma hanno ottenuto buone percentuali anche le questioni riguardanti “Problemi sociali” (29%) e “Sicurezza della città” (21%).
La terza domanda riguardante la politica verteva sull’ideologia dominante in curva, almeno in tempo di elezioni. Ben il 48% degli ultrà romanisti ha risposto che voterebbe per un partito di destra, cosa che conferma quanto già detto, e cioè che la Curva Sud, dopo la definitiva scomparsa del CUCS, ha subìto forti spostamenti verso la destra politica: “La Curva Sud non è “politicizzata” perché non esiste una politica della curva, come accade ad esempio a Livorno o, sull’altro fronte, a Verona. Posso però dire che la maggior parte di coloro che la frequentano sono definibili di destra, mentre negli anni ’70 il rapporto era inverso. La curva altro non è che lo specchio della città, a livello giovanile, anche perché nei gruppi ultras il concetto di moderazione, tutto sommato, non esiste. In un gruppo ultras, o sei di sinistra o sei di destra. Puoi essere al limite apolitico, ma non un moderato di centro”.
Sono il 27% coloro che invece voterebbero a sinistra, anche se c’è da sottolineare che ben il 15% ha preferito non rispondere a questa domanda. In netta minoranza coloro che sono indecisi sul partito da votare (7%) e coloro che non andrebbero proprio a votare (3%).



I dati appena riportati non sono in sintonia con quanto risposto alla domanda riguardante il grado di fiducia riposta negli uomini politici del nostro paese, visto che il 36% degli intervistati non si fida “Per niente” e il 25% si fida “Poco”. Questo dato ci suggerisce che gli ultras romanisti, ma probabilmente i giovani in generale, hanno le idee chiare, o pensano di averle, per quanto riguarda il proprio credo politico, ma non ripongono fiducia nei confronti degli uomini che attualmente lo rappresentano.

 

 

    1. I rapporti con le società calcistiche e con i calciatori

 

 

Un gruppo ultrà difficilmente riesce ad instaurare un rapporto di duratura collaborazione con la propria società calcistica. E’ altrettanto vero che i contrasti che si vengono a creare possono essere per lo più transitori e legati a un avvenimento e che tra le due parti venga stabilita una sorta di “tregua” a tempo indeterminato.
Questo dualismo, questo rapporto di “amore e odio”, scaturisce da due contraddizioni insite sia nella mentalità ultrà sia in quella dirigenziale. L’aspetto positivo degli ultras è il loro smisurato attaccamento alla squadra, il loro tifo e tutta quella serie di elementi che ne fanno il “dodicesimo giocatore in campo”. I giocatori continuamente acclamati ne giovano sotto il profilo psicologico ed agonistico e di conseguenza le società calcistiche ben si  guardano dallo scalfire questo idillio. Anzi, più s’intensifica il feeling con i tifosi più alti sono gli incassi, migliori sono le prestazioni e le condizioni morali della squadra, migliore è l’immagine della società stessa. I problemi nascono quando gli ultras commettono atti di teppismo, soprattutto quando sono i giocatori o la stessa dirigenza a trovarsi  nell’occhio del mirino. In questi frangenti gli ultrà sono “scomodi”, fanno del male a tutto l’ambiente e rischiano di compromettere gli sforzi compiuti dalla società.
Da parte loro i dirigenti assicurano a una città l’esistenza di una squadra che la rappresenti, permettendo a molti giovani ultrà di socializzare, di confrontarsi e vivere emozioni molto forti. Inoltre, non è raro che gli ultras, in occasione di certi avvenimenti come le trasferte, ricevano agevolazioni considerevoli, quali biglietti omaggio, sconti, protezioni. Lo scopo principale è quello di garantire alla partita un normale svolgimento e, allo stesso tempo, di venire incontro alle esigenze dei tifosi, a volte anche attraverso incontri e riunioni. In molti casi, però, da parte dei dirigenti c’è la precisa volontà di non scendere ad ogni tipo di compromesso, facendo sì che i rapporti restino a un grado di  “prudente” formalità; di sicuro il rapporto tra società e gruppi ultras è molto più delicato rispetto a quello che le società stesse hanno con l’ala moderata delle tifoserie: “In ogni società ci sono persone addette ai rapporti con la tifoseria, intesa però soltanto come centri di coordinamento. Quello con gli ultrà, invece, è un legame più difficile da delineare. In alcuni casi il rapporto è fondato sulla dipendenza economica, con gli ultrà che si servono di aiuti societari per finanziare le loro attività (coreografie sugli spalti, trasferte, affitto di locali per riunioni e assemblee, ecc.). Alle volte, invece, sono le società stesse ad appoggiare i tifosi, onde evitare contestazioni in caso di risultati negativi, sebbene esse neghino categoricamente – e costantemente – di subire pressioni esterne [...] Si può comunque affermare con certezza che molti  gruppi sono realmente indipendenti e che i loro rapporti con le società si limitano a una fattiva e cordiale collaborazione” .
L’episodio che abbiamo citato nel precedente paragrafo riguardante lo striscione su Arkan, non può che sollevare una questione di primaria importanza, quella cioè relativa agli effettivi legami esistenti e alle “trame” che possono esserne dedotte, con interessanti confronti con il mondo politico: “Il fatto di aver assegnato agli Irriducibili della Lazio il ruolo di “servizio d’ordine” per vigilare sui comportamenti dei tifosi (e dei loro striscioni) ha stupito molti e scandalizzato qualcuno [...] Chi ha adottato una scelta del genere (il presidente della Lazio in questo caso), ha sottovalutato un fatto: essa corrisponde a una vera e propria confessione. Ovvero all’ammissione di quanto siano strettissimi i rapporti tra società sportive e tifoserie organizzate. Il che può sembrare fin troppo ovvio. Meno ovvio è dedurne che poco o nulla le società hanno fatto, finora, per evitare che le tifoserie organizzate si trasformassero in una minaccia sociale. [...] Le tifoserie organizzate sono, in parte, alimentate, foraggiate, controllate dalle società sportive. E il modello di rapporto è esattamente lo stesso che governa le relazioni tra leadership di partito e il quadro militante, cioè tra i vertici e la base delle formazioni politiche. Esattamente quello. Il gruppo dirigente (di società sportiva, di partito) decide la politica generale (in un caso come nell’altro, il programma, gli obiettivi, le alleanze) e indica la tattica: come ottenere consenso, come indebolire il concorrente, come sconfiggere l’avversario. Per raggiungere questi scopi il ruolo dei militanti è fondamentale in entrambi i campi. Spetta a essi il compito cruciale di costruire un’identità per i sostenitori  (tifosi, quadri di partito), capace di esaltazione nelle fasi positive e rassicurazione in quelle negative. Spetta a essi la funzione di elaborare un sistema di riti, in grado di rafforzare l’appartenenza, attraverso atti, parole, simboli (gerghi, slogan, canzoni, bandiere, sciarpe, distintivi). E, soprattutto, attraverso quella procedura essenziale che è l’individuazione di amici e nemici. Importante, importantissima è, in tale schema, la funzione del leader (campione, dirigente politico): oggetto di identificazione e di “proiezione amorosa”, motivo di coesione e di integrazione nel gruppo e nella comunità più ampia (sportiva e politica), simbolo vivente di quest’ultima (non a caso la vita dell’ex è difficile nel calcio come in politica). Come si vede, le affinità tra i due sistemi si fondano sui medesimi meccanismi di acquisizione del consenso sociale. Non esiste alcuna possibilità che una squadra di calcio (o un partito politico) consegua un successo senza che questo implichi, e richieda, un aumento dei sostenitori (tifosi elettori). Questo dà ai sostenitori più vicini al gruppo dirigente (sportivo o politico) un grande potere: dal momento che funzionano come “massa di manovra” contro gli avversari della leadership (arbitri, dirigenti non allineati, allenatori e giocatori da sostituire; e, in politica, concorrenti interni ed esterni), quei sostenitori agiscono, a loro volta, come un gruppo di pressione nei confronti dei presidenti delle squadre di calcio (e dei dirigenti di partito). Sono i principali alleati della leadership, ma ne condizionano le scelte. Dipendono dal gruppo dirigente della società, che tuttavia influenzano in misura assai rilevante. Fino al “ricatto”. E’ qui – in questa reciproca dipendenza e in questa vicendevole “ricattabilità” – che si sviluppa il rapporto, saldissimo, tra società di calcio e tifoserie organizzate. Di quel rapporto fanno parte la disponibilità di biglietti, le trasferte collettive gratuite (o quasi), le percentuali sul merchandising e la partecipazione morale e materiale ai successi della squadra: basti pensare alle gratificazioni offerte dalla “prossimità” ai giocatori (allenamenti, feste, cene sociali). Di quel rapporto fanno parte anche gli slogan e gli striscioni, compresi quelli “violenti”, che contribuiscono a dare identità (tanto più forte quanto più “scandalosa”): delimitano il territorio “nostro” e segnano la differenza e la distanza rispetto a “loro”. Per altro verso, slogan e striscioni “violenti” selezionano i sostenitori e verificano il loro tasso di militanza. Insomma, lo striscione su Arkan non ci parla del culto di Arkan (cosa che riguarda due o tre persone), ma del culto della Lazio. In altri termini, i più “violenti” sono anche i più fedeli. E si può arrivare a dire che i più “violenti” sono i più vicini ai gruppi dirigenti delle società; o si sentono i più vicini o aspirano a essere – anche attraverso quei comportamenti – i più vicini. Ne deriva una conseguenza secca: sono le società sportive, le uniche autorità in grado di ammainare quei striscioni. Ma questo può comportare, per le società sportive, una perdita (relativa) di potere nei confronti delle tifoserie organizzate e una riduzione del loro tasso di fedeltà e di militanza” .  
Negli ultimi tempi sembra però che le società di calcio abbiano più cura degli interessi commerciali, e la televisione a pagamento ne è un chiaro esempio, cosa che in molte piazze e realtà anche importanti ha causato un distacco tra ultras e società d’appartenenza: “La nuova svolta del calcio, quella che ha trasformato nel business televisivo la prima fonte d’introito dei club, ha modificato i rapporti tra le società e il tifo organizzato. Lo stadio virtuale, quello piazzato nel salotto tv, sta soppiantando quello reale. La “forza tifo”, la classe operaia del calcio, è oggi molto meno importante di un tempo. Logico che i club tentino di ridimensionare i loro rapporti con il tifo organizzato. Spariscono gli abbonamenti gratuiti, da rivendere sotto costo gara per gara; addio trasferte agevolate; addio soldi ai capi ultrà per  acquistare sciarpe, preparare striscioni e sostenere le attività dei loro gruppi. Questo mondo di rapporti sotterranei e di piccole grandi convivenze si sta pian piano frantumando” , lo conferma il fatto che il 54% degli ultras romanisti pensa non sia giusto instaurare rapporti di stretta collaborazione con la società, risposta probabilmente dettata dall’impossibilità di averne. Abbiamo inoltre chiesto ai tifosi giallorossi di darci una valutazione (da 1 a 10) del rapporto attuale tra la Curva e la società, rapporto che ha raggiunto una valutazione media insufficiente (5).
Fabio Massimo Splendore non è molto  convinto del fatto che attualmente ci siano rapporti meno stretti tra società e gruppi organizzati: “Non credo che i rapporti tra i gruppi ultras e i club siano esauriti. Credo anzi che ci siano, e siano in alcune realtà molto forti, anche con i calciatori più rappresentativi. Per certi versi ritengo anche che i contatti siano inevitabili e anche “giusti”. L’importante è che siano rapporti paritari , nel rispetto dei ruoli. Questo non sono certo che avvenga sempre. Mentre questo rapporto esiste da sempre ma prima non era acclarato, in questa stagione il verificarsi di determinate situazioni fa effettivamente riflettere: a Cagliari c'è stato un tecnico, Arrigoni, richiamato dal presidente Cellino dopo l'esonero di Tesser e costretto ad andar via perché sgradito agli ultras con i quali (non ci sono conferme vista la delicatezza del tema ma le informazioni sono piuttosto fondate) ci sarebbero stati anche un paio di incontri ravvicinati “pesanti" per il tecnico. E a Lecce gli stessi ultras incontrando la squadra hanno “chiesto” e ottenuto che il capitano non fosse più il centrocampista argentino Ledesma ma il difensore Stovini, con tanto di conferenza stampa del capitano uscente. Soprattutto questa seconda vicenda apre una breccia probabilmente epocale sul fronte delle ingerenze delle frange più estreme del tifo in determinate situazioni: ingerenza favorita quando le cose in campo non vanno bene e c'è bisogno di tenere il più possibile tranquilla la tifoseria più intransigente”.
Anche le relazioni tra gli ultras e i loro beniamini sono spesso ambigue. Fino a qualche tempo fa i giocatori, specie i fuoriclasse e i bomber,venivano idolatrati dalle folle degli stadi e difesi a spada tratta contro chiunque, dalle squadre avversarie agli articoli di giornale. Molti calciatori erano infatti delle “bandiere”, dei simboli, coloro che incarnavano una squadra intera grazie ad un eccezionale spirito di abnegazione e sacrificio, oltre che all’amore per la maglia indossata. Nel nostro paese questo viscerale attaccamento al campione di turno (Rivera e Mazzola prima, Maradona, Baresi e Baggio dopo) è sempre stato espresso attraverso cori “personalizzati”, striscioni e bandiere con su scritto il nome del giocatore, ecc. Tutto questo a differenza di quanto accade in Gran Bretagna, dove più che altro conta il collettivo, la squadra. Dato che nel corso della sua storia una squadra deve per forza cambiare giocatori e i propri dirigenti  societari, i supporters inglesi ritengono che i cori e il tifo in generale debbano essere indirizzati alla maglia, al nome della squadra e alla città.
Dagli anni Settanta fino ad oggi si  è assistito ad un’escalation dell’aspetto economico del gioco del calcio, con stipendi arrivati a livelli altissimi , ingaggi faraonici e conseguenti atteggiamenti per niente umili e genuini da parte dei calciatori, diventati delle vere e proprie “stelle” dello spettacolo.
Quello che gli ultras disapprovano profondamente è la scarsa considerazione che i giocatori  hanno di loro, come se solo il denaro desse loro quelle soddisfazioni che i cori intonati a squarciagola non sono più in grado di garantire. Per i ragazzi delle curve, che tuttavia non fingono di  non conoscere il “potere” del denaro, i comportamenti tenuti dai calciatori dentro e fuori dal campo hanno smesso di avere quella caratteristica “empatica” di una volta, dato che le suddette “bandiere” ormai non si trovano più in nessuna squadra : “I giocatori passano ma la maglia, il simbolo, resta. Non giustifico il divario di stipendio tra quello che percepiscono loro e quello che percepisco io, sono differenze sociali esagerate, non solo per quanto riguarda i calciatori. I calciatori fanno parte di una classe privilegiata, e non è giusto” .
Inoltre, nel calcio di oggi, i calciatori  hanno una forza contrattuale che un tempo non avevano. Prima erano le società a decidere eventuali cessioni ad altre squadre e le relative condizioni, ed i calciatori, a parte rare occasioni, rispettavano il volere della dirigenza. Ora, invece, grazie alla legge Bosman che ha cambiato radicalmente lo scenario relativo ai trasferimenti dei calciatori, sono proprio quest’ultimi a “dettare legge”, cercando in continuazione società che possano pagarli meglio. I continui trasferimenti da parte dei calciatori da un club all’altro rappresentano dei veri e propri tradimenti, ed è abbastanza frequente che stadi interi accolgano con sonori fischi un ex calciatore che si presenta in veste di avversario. Proprio la realtà di Roma ci presenta un esempio recente di quanto detto: durante la campagna acquisti e cessioni dell’estate 2004, l’allenatore Fabio Capello e i calciatori Emerson e Zebina, protagonisti dell’ultimo scudetto romanista, lasciano la società capitolina per accasarsi alla Juventus, la squadra più odiata dalla tifoseria giallorossa, il “nemico” per eccellenza. Non è una tifoseria ma una città intera a sentirsi tradita e il 5 marzo 2005, in occasione della partita Roma-Juventus, lo stadio Olimpico fa registrare il tutto esaurito, perché nessuno vuole mancare al ritorno dei “traditori”. Fischi, insulti, cori e striscioni offensivi, questa l’accoglienza del pubblico di Roma, durante il riscaldamento in campo delle squadre, durante la lettura delle formazioni e per tutto l’arco della partita; un ambiente totalmente ostile, qualcosa di mai visto, per uomini che, fino all’anno precedente, erano eroi del terzo scudetto romanista. Forse scottati da questi recenti avvenimenti, i tifosi della Curva Sud considerano fortemente negativo il loro rapporto con gli attuali calciatori della Roma (valutazione media: 4,5), a parte pochi casi tra cui il capitano Francesco Totti.

 

Ciò nonostante per molti tifosi  la persona del calciatore continua ad esercitare un’influenza molto forte: “Di solito gli idoli del calcio sono personaggi ambigui, che accendono passione ed odio, ammirazione ed invidia con identica facilità. La storia miliardaria del campione sembra fatta apposta per rafforzarne l’appeal, il potere di suggestione sulla gente” .
Il motivo di  questa forte attrazione può essere ricercato nell’immagine che ogni calciatore trasmette ai suoi tifosi, spinti  ad emularli: “Il calcio significa soldi perché i giocatori sono ricchi e non nascondono i loro status symbol da ricchi. Il calcio significa bellezza perché i giocatori sono giovani, in forma, sempre reduci da una vacanza esotica, quindi  facilmente abbronzati e belli. Il calcio significa successo, strada possibile a tutti per arrivare al massimo. Non servono lauree, specializzazioni, genialità particolari. In teoria nessuno è escluso dalla corsa a diventare un campione. Ma il calcio è anche sentimento, passione senza freni, disponibilità reale a crearsi un mito. Nel calci non conta l’evidenza, conte quello che si vuole credere. Nel calcio non si discute, si ama. L’eccesso del calcio è la dimostrazione che vogliamo sopravvivere in un mondo eccessivo” .

 

    1. La sfiducia nelle autorità

 

 

C’è qualcosa di illuminante nella vicenda che ha portato alla sospensione del derby di Roma numero 154 del campionato di calcio di serie A.
Torniamo al 21 marzo 2004: la partita si interrompe al 3' e finisce al 28' della ripresa. All'Olimpico si sparge la voce che negli incidenti che hanno accompagnato il prepartita e tutto lo svolgimento della gara fino alla sospensione, sarebbe morto un bambino travolto da un auto della polizia. A nulla sono valsi i ripetuti appelli della Questura che ha più volte negato, anche attraverso l'altoparlante, che l'episodio si sia verificato davvero. Nulla lasciava pensare che la situazione sarebbe degenerata fino a questo punto. Prima della gara, come purtroppo è abitudine in questi frangenti, si erano sviluppati incidenti tra forze dell'ordine e tifosi delle due sponde.
Poi la partita ha inizio e tutto sembra rientrare nella normalità. L’arbitro della gara,il signor  Rosetti , fischia la fine del primo tempo addirittura con due secondi di anticipo. Al ritorno delle squadre in campo, sugli spalti delle due curve, la Nord laziale, la Sud romanista, un fremito percorre le tifoserie, gli striscioni spariscono e dal settore biancoceleste parte il coro "assassini" all'indirizzo delle forze dell'ordine. Piovono petardi e razzi in campo, Rosetti sospende la gara. Inizia un lungo conciliabolo fra direttore di gara, giocatori e dirigenti. Alcuni tifosi giallorossi, riescono a entrare in campo, parlano con Totti e Cassano, il labiale fa capire che la richiesta della curva è di sospendere la gara. Sembra che ci sia anche una minaccia: "Se non sospendete noi qualcosa facciamo...". Minuti che sembrano secoli, lo smarrimento passa da uno sguardo all'altro. Nessuno sa cosa fare, quale decisione prendere.
Un funzionario della questura si avvicina all'arbitro. Lo speaker dello stadio prova a calmare gli animi: "In merito alle voci che si sono diffuse, cioè che un bambino sarebbe morto perché travolto da un'auto della polizia, la Questura comunica che la notizia è assolutamente infondata".
Sembra che si ricominci, ma l'atmosfera è quella di un funerale. Altre voci si rincorrono: i giocatori della Lazio vogliono proseguire, quelli della Roma no. Chissà se è vero. La faccia di Totti va dalla perplessità alla paura. Cassano si lascia scappare: "Così non si può giocare". Capello si avvicina a Rosetti e gli fa un cenno, come dire: "Andiamo via". L'arbitro esita, qualcuno gli porta un telefonino, schermandosi le labbra, il direttore di gara parla fitto con qualcuno. Più tardi si scoprirà che era il presidente di Lega, Galliani, che prendeva la decisione di far sospendere definitivamente la partita. Minuto 28' Rosetti si infila il fischietto in bocca e decreta che la gara è definitivamente sospesa. Fuori l'inferno continua.
Ma perché le circa settantamila persone presenti quella sera allo stadio hanno preferito credere ad una voce infondata piuttosto che alle smentite ufficiali della Questura di Roma?
La risposta può essere rintracciata nell’attuale sfiducia e diffidenza da parte dei tifosi stessi nei confronti delle autorità, da non intendersi solo come forze dell’ordine. Gli ultras, infatti, non perdono occasione di manifestare la loro totale disapprovazione nei confronti delle autorità federali, incarnate dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC). Gli ultrà considerano i dirigenti federali, a torto o a ragione, delle emanazioni di un potere politico-sportivo che tende a favorire i club economicamente potenti a scapito di quelli meno rappresentativi. L’elezione di Adriano Galliani, già amministratore delegato del Milan, alla carica di presidente di Lega, non ha che aumentato questa conflittualità, per  cui alla prima direzione arbitrale contestata, nascono discussioni sulla regolarità del campionato, il cui andamento, questo il pensiero comune della maggior parte delle tifoserie italiane, è gestito dalle società più potenti del nostro calcio, Milan e Juventus in particolare. Il tifo nel nostro paese si alimenta di  un’importante componente “negativa”; in molti casi l’antipatia per gli avversari sembra quasi superare, per intensità, l’attaccamento ai colori della propria squadra. Le ampie proporzioni del tifo “negativo” in Italia sono dimostrate da un sondaggio effettuato recentemente dalla rivista italiana di geopolitica La Polis-Limes: tra chi si dichiara tifoso, infatti, circa una persona su due riesce ad individuare almeno una squadra come particolarmente “antipatica”. Tale sentimento, inoltre, cresce vistosamente in base all’intensità del tifo calcistico: tanto più forte è l’attaccamento ai colori di una determinata squadra, tanto più tendono a svilupparsi atteggiamenti di contrapposizione verso altre formazioni e altre tifoserie. Le antipatie, peraltro, possono generare da conflitti che vanno ben oltre il confronto agonistico sul campo. La rilevanza assunta, in ambito calcistico, dai mezzi di comunicazione attribuisce un ruolo di crescente centralità agli aspetti legati alla comunicazione. Di conseguenza, iniziative sfavorevoli o dichiarazioni polemiche nei confronti di una determinata società, da parte di giocatori, allenatori e dirigenti, vengono immediatamente amplificate dal megafono dei media, generando tensioni tra tifoserie (e società) che approfondiscono fratture preesistenti, oppure contribuiscono a crearne di nuove. Il modo in cui gli italiani vivono il calcio, questa propensione al particolarismo, influenza in modo non trascurabile gli atteggiamenti delle persone verso il funzionamento del pianeta calcio e delle sue istituzioni: una visione costantemente filtrata attraverso la lente dell’appartenenza individuale e degli interessi di squadra. La lettura delle vicende calcistiche, di conseguenza, risulta dominata dalla dietrologia, dalle teorie del complotto e, in ultima analisi, da una profonda sfiducia nel sistema. Un approccio, quello al calcio, che sembra richiamare la cronica lontananza dalle istituzioni, la nota diffidenza nei confronti della classe politica espresse, tradizionalmente, dai cittadini italiani .
Tornando al rapporto tra gli ultras e le forze dell’ordine, c’e subito da dire che in tale rapporto non c’è nulla di ambiguo: è pessimo. Ricollegandoci a quelle che furono le origini del movimento ultrà, si può intuire come un periodo di generale protesta contro le istituzioni statali, le forze di polizia, che rappresentano lo Stato, la legge e l’ordine, facessero parte del “nemico” da combattere. Fino agli anni Settanta la presenza di agenti allo stadio era esigua, dato che le turbolenze causate dai tifosi erano per lo più sporadiche e si limitavano a scazzottate per niente preoccupanti. Verso la fine di quel decennio, però, si  verifico la tragedia dell’Olimpico, di cui abbiamo già parlato, che portò alla morte di un tifoso laziale colpito da un razzo. Si trattò di un fatto “storico” sotto due punti di vista: in primo luogo la violenza da stadio cominciò, di domenica in domenica, a diventare un problema sociale di  assoluta gravità, coinvolgendo tanto le tifoserie di serie A quanto quelle dilettantistiche; in secondo luogo i controlli della polizia si intensificarono a dismisura, attraverso atti di prevenzione e repressione che portano inevitabilmente a un conflitto con gli ultrà, tuttora cruento, che sembra non avere positive vie di sbocco.
Una comune convinzione degli ultrà è che spesso  i tutori dell’ordine siano “costretti” a surriscaldare gli animi per colpa di un lavoro, il loro, che non dà  molte gratificazioni : “Questi giovani poliziotti, magari di leva, che stanno tutta la giornata nella camionetta, non sanno cosa fare, si  devono sfogare, ci sono degli ufficiali che li spingono, li strattonano, ma loro...non so come dirti. Questo più che altro sono i carabinieri. La polizia, non so perché, non ci prova quasi mai, forse perché si sentono depressi, si sentono presi in giro, sono malvisti, allora si sfogano così. Difatti molte volte, quando intervengono, non si curano di proteggere la gente per bene o le macchine, loro se ne sbattono, cercano solo di picchiare chi beccano” .

 

Gli ultrà sostengono infatti che ci sono situazioni in cui sarebbe più opportuno evitare certe reazioni energiche, anche perché sono moli quei ragazzi che poi si ribellano a tali comportamenti: “Si sono viste delle scene violente causate solo dal comportamento inconcepibile della polizia. Molte volte si può aver ragione nell’intervenire con la forza, però fatti come questi fanno passare dalla parte del torto e senza scusanti, perché è naturale che così facendo si provochi una reazione nella gente” .
Lorenzo Contucci è molto chiaro su questo argomento: “Attualmente le forze dell’ordine sono considerate dagli ultras il primo nemico, che ha soppiantato tutte le antiche rivalità. L’accusa che viene loro fatta è quella di essere degli ultras in divisa che tutto fanno tranne che tutelare l’ordine pubblico, auspicando loro stessi che scoppino disordini in cui possano intervenire duramente con la garanzia dell’impunità. Chi non è mai andato in trasferta o non si è trovato in certe situazioni non potrà mai credere a quello che ho visto in tanti anni, quindi risparmio la fatica. Quelle rare volte in cui qualche “esterno” si è trovato in situazioni un po’ particolari ha completamente cambiato la propria prospettiva in ordine a tanti preconcetti. Se ci fosse una telecamera “neutra”, azionata da qualcuno non visto, salterebbe un questore per ogni giornata di campionato”.
Il mondo degli ultrà è pieno di contraddizioni, ma non è certo l’ipocrisia una delle loro caratteristiche, visto che molti sono quelli che ammettono certe loro responsabilità: “La polizia ha ragione ad essere prevenuta nei nostri confronti, perché ci siamo resi protagonisti di tanti episodi  violenti: troppi per pensare di passare inosservati. Questo non toglie che anche tra le forze dell’ordine ci siano tanti esaltati, i quali non aspettano altro che noi per sfogare la loro aggressività [...] Non sappiamo se la nostra fama sia poi così meritata, quel che è certo è che spesso ci vogliono dare una manica di  legnate anche se stiamo calmi: a volte ci riescono, ma a volte se la vedono brutta anche loro” .
Quest’ultima citazione vuole far ragionare su un concetto che pare avere una sua logica: sia i gruppi ultrà che le forze di polizia sono formate da migliaia di giovani, con le loro  speranze e le loro delusioni, le loro gioie e le loro paure. E’ proprio la paura la scintilla che molte volte porta ad assumere comportamenti decisi, energici, anche violenti: da parte dell’ultrà che molte volte preferirebbe il dialogo al manganello e da parte del giovane poliziotto che deve far rispettare l’ordine pubblico. Ripetiamo, abbiamo a che vedere con migliaia di giovani, con la sciarpa al collo da una parte e con una divisa blu dall’altra, è forse impensabile pensare che in entrambe le fila non ci siano le cosiddette “teste calde”, ragazzi esuberanti portati all’esagerazione che rischiano però, con la loro impulsività, di scatenare guerriglie da stadio a cui siamo troppo spesso abituati ad assistere.
Il problema è complesso, perché fin tanto che viene instaurato un dialogo tra il responsabile del gruppo ultrà e il responsabile delle forze dell’ordine, la situazione non ha quasi mai motivo di degenerare. Sono le persone difficili da controllare le vere cause dei tafferugli, così come lo sono le persone che non accettano il confronto verbale. Molti ultrà ammettono infatti di  aver incontrato degli agenti disposti ad  affrontare il problema anche solo verbalmente, lamentandosi invece di quelli che partono prevenuti: “Noi non ce l’abbiamo con le forze dell’ordine per partito preso, perché abbiamo incontrato commissari responsabili, preparati e comprensivi, i quali sanno fare il loro lavoro e afferrano al volo le situazioni, ma la gran parte dei funzionari e degli agenti non capisce un cavolo, conosce solo il linguaggio del manganello e con questi presupposti non può nascere nulla di  buono. Sarebbe bello trovare persone che dalle tue risposte intuiscono chi sei, che non vuoi disfare un treno o spaccare le vetrine, e che ti sai far rispettare senza bisogno di usare le mani, ma raramente va così e negli altri casi sarai sempre etichettato come un delinquente” .

 

    1. Ultras e mass media

 

 

Il calcio è diventato un fenomeno sociale a tutto campo; ogni domenica migliaia di tifosi assistono direttamente sugli spalti degli stadi all’evento sportivo. Ma ancora di più sono quanti, in maniera indiretta, mediata, seguono il calcio attraverso la televisione, a pagamento e non, e leggono le cronache sportive attraverso i quotidiani. L’amplificazione che il calcio assume, grazie alla risonanza data dai media, lo colloca indissolubilmente come evento sociale di primaria importanza. Accanto alla televisione, che da sola dedica nei palinsesti ampio spazio al calcio, grazie soprattutto ai canali tematici della pay – tv, in Italia vi sono tre testate sportive che trattano dell’argomento in maniera approfondita e, allo stesso tempo, il lunedì, tutti gli altri quotidiani escono con un inserto dedicato allo sport.
Il particolare rapporto di conflittualità che oppone gli ultras e i mass media prese corpo dal momento in cui gli stadi di calcio cominciarono ad essere frequentati da tifosi più “accesi” e scalmanati. La stampa infatti mise in allerta l’opinione pubblica, il mondo politico e sportivo e la società in generale, divulgando notizie inerenti quasi esclusivamente gli episodi di violenza.
In Inghilterra, ad esempio, paese natio del tifo calcistico, le testate giornalistiche si preoccuparono solo di rendere più spettacolare il nuovo fenomeno dei supporters: “Ogni quotidiano inizia a dedicare ampio spazio alle vicende dei Gates (le curve), quasi esclusivamente legate ad avvenimenti degni della cronaca nera, aumentandone ulteriormente la celebrità” .
Non essendo raro che certi giornali “gonfino” le notizie da riportare, possiamo immaginarci come in quegli anni l’eco causata dagli avvenimenti provenienti dagli stadi abbia in poco tempo contagiato intere nazioni: “Un aspetto fondamentale è il ruolo svolto  dai mass media, per mezzo di una stampa scandalistica, pronta ad amplificare e a spettacolarizzare ogni fenomeno, causando il cosiddetto “moral panic”, l’ansia sociale, che arriva a dominare lo stesso sistema massmediale” .
Pur non considerando gli hooligans inglesi un modello (in termini di compostezza), c’è da rilevare come “gran parte degli incidenti provocati dagli ultrà inglesi non sono così violenti come si immagina che siano e la diffusa idea della loro pericolosità è soprattutto il frutto dell’allarme sociale provocato dalla stampa e dai mass media, i quali, rendendoli visibli e vistosi, portano ad una sopravvalutazione del fenomeno” .
L’effetto dell’approccio che i mass media adottarono e continuano ad avere nei confronti del movimento ultrà è stato quello di “caricare” gli stessi ultrà, almeno i più esagitati, i quali non perdono mai l’occasione di finire in prima pagina, sfruttando a proprio vantaggio la notorietà di un giornale o il clamore che un servizio in tv è in grado di suscitare: “Come ben sappiamo, non c’è oggi possibilità egemonica senza un adeguato “cono di attenzione” massmediale: sono i riconoscimenti della stampa e della televisione a sancire lo status dell’ultrà, che nelle cronache allarmate (per la violenza) o in quelle di elogi (per  le coreografie) trova sia quella visibilità sociale altrimenti negata, sia la controprova dell’avvenuto ribaltamento dei rapporti tra classi instaurato nello stadio. Tuttavia gli effetti della comunicazione di massa si manifestano soprattutto nell’ambito degli involontari processi di fascinazione suscitati nei più giovani: quel che nelle intenzioni vorrebbe essere un messaggio di condanna e di rifiuto si trasforma spesso in una sorta di riconoscimento delle capacità egemoniche (sia a livello militare che creativo) dei gruppi ultrà, che affidano le proprie capacità di aggregazione proprio a un’immagine aggressiva e “vincente” [...] L’attenzione dei mass media, per quanto negativa, si trasforma nell’immaginario ultrà in un oggettivo  riconoscimento delle doti e della valentia del singolo o del gruppo” .
Nella maggior parte delle piazze il rapporto tra i direttivi delle curve e i mass media continua ad essere frizionale, perché da sempre caratterizzato da un dialogo sterile ed incomprensibile; gli ultras vedono soprattutto nella pay-tv la maggiore causa dell’avvento del cosiddetto “calcio moderno”, non più uno sport ma solo un grande business, del quale il tifoso si sente l’ultima componente in ordine d’importanza: “Perché se il calcio è ridotto così male, sballottato fra fidejussioni false e sentenze dei vari TAR, la colpa risiede nel fatto che sono stati anteposti gli interessi economici alla passione sportiva, e questo anche per l'avvento delle pay-tv. Senza considerare che sono proprio queste ultime a stabilire gli orari delle partite, gli anticipi del sabato ed i posticipi, per ridurre i tifosi di qualunque squadra a robot in poltrona con telecomando incorporato. I tifosi si ribellano a questo concetto, certe sensazioni si possono provare solo allo stadio e non a casa propria, ma al monopolio Sky questo non interessa, anzi, rimanendo in salotto a gustarsi la partita con un tè non si rischia di fare brutti incontri” .
La citazione di Di Rita ci serve per comprendere bene lo stato attuale delle cose: per gli ultras “combattere” il calcio moderno significa tornare indietro nel tempo, tornare al calcio di una volta, al calcio delle magliette numerate dall’uno all’undici, al calcio da seguire allo stadio o per radio, con le partite tutte in contemporanea la domenica, al calcio delle “bandiere”.
Ancora un articolo de “Il Megafono” ci aiuta a capire la netta opposizione degli ultras al cosiddetto “calcio business”: “C'era una volta... il calcio!!! No, non è una provocazione, ma la cruda e triste verità. Ce ne vuole di coraggio a chiamare “calcio” quello che una volta era il gioco più bello del mondo e che adesso deve sottostare a logiche economiche, più di quanto non abbia mai fatto. Il calcio di una volta sta morendo, al suo posto il “football business”: pay-tv, pay-per-view, mercato aperto tutto l'anno, numerazioni dall'uno al 99, fallimenti societari, calciatori-bandiera “ammainati”, Zamparini che se ne va dal Venezia al Palermo portandosi dietro l'intera squadra, Juve-Parma (Supercoppa Italiana) giocata a Tripoli! Chi più ne ha, più ne metta! Il caro e vecchio gioco del calcio si è da tempo “imbastardito”, e se continua di questo passo il rischio di un ulteriore peggioramento dell'attuale situazione è reale e concreto. Gli ultras avevano già lanciato il grido d'allarme, si erano resi conto che il pallone stava scoppiando e che il tifoso stava velocemente diventando l'ultima ruota del carro: alle società gli introiti che derivano dalla gente che va allo stadio importano sempre meno, ciò che conta è l'accordo con le pay-tv, o magari gli sponsor o i punti vendita ufficiali, ma non il tifoso che munito di sciarpa e bandiera versa i suoi venti, quaranta o settanta euro. I soldi del tifoso sono, nella maggioranza dei casi, granelli di sabbia nel deserto.
Dicevamo degli ultrà che avevano preso coscienza in anticipo di una situazione ormai degenerata, sfuggita di mano un po' a tutti, addetti ai lavori compresi, sempre più attenti solo al “dio denaro”. Il sito degli AS Roma Ultras vede al suo interno, già da tempo, il cosiddetto “Manifesto contro il calcio moderno”, in cui vengono messi a nudo molti dei “mali” del mondo del calcio. Non dovrebbe esserci neanche bisogno di spiegare che il calcio allo stadio è un'esperienza unica per l'atmosfera e le sensazioni che si respirano, per come si riesce a vivere in simbiosi con i 22 in maglietta e calzoncini, con lo sguardo calamitato sulla palla ed il cuore che batte forte per quei colori. Le televisioni stanno mettendo a repentaglio proprio questa visione romantica della partita di pallone, annullando o quantomeno limitando la Componente - con la C maiuscola - di questo bellissimo sport. Significative le parole di John King, autore del libro “Fedele alla Tribù”: “A nessuna industria della televisione sembra che interessi dei tifosi, ma senza l'urlo e il movimento del pubblico il calcio sarebbe uno zero. E' una storia di passione. Sarà sempre così. Senza la passione il football è morto. Solo 22 uomini grandi e grossi che corrono su un prato e danno calci ad una palla. Proprio una gran cagata. E' la tifoseria che lo fa diventare una cosa importante”. I “signori del pallone” dovrebbero leggere e rileggere la sopra citata frase, impararla a memoria e riflettere, in modo da scoprire quello che è il rispetto per il pubblico, senza il quale niente di tutto ciò che ruota intorno al pianeta calcio avrebbe ragione di essere .
La “Maratona” di Empoli in occasione di Empoli-Juventus dello scorso 22 settembre 2002 ha esposto uno striscione il quale recitava “Basta miliardi sponsor e televisioni, il calcio è del popolo e non dei padroni”. E invece ogni anno il “popolo” si ritrova - gli ultras in primis - a dover dibattere e “combattere” contro un problema che solo chi va allo stadio considera tale; per chi governa lo sport, invece, il calcio in tv è semplicemente un modo per incrementare gli introiti e porre fine alla spinosa questione del teppismo calcistico, come se chi è follemente innamorato della propria squadra potesse essere persuaso a non recarsi alla partita “perché tanto la danno su Sky”.
Queste le parole, ovviamente di parte, che leggiamo sulla rivista “il Megafono”; vediamo ora la posizione dei tifosi romanisti in riferimento a questo discorso: “E' necessario che tutte le tifoserie prendano coscienza di quello che la Federazione Italiana Giuoco Calcio sta facendo, in collaborazione con le multinazionali delle teleradiocomunicazioni e con gli ingordi vecchiardi che reggono la FIFA e l'UEFA. L'obiettivo dei potenti del calcio è quello di creare un campionato europeo per clubs dove troverebbero posto soltanto le squadre maggiori di ogni nazione. Un campionato di questo tipo garantirebbe loro enormi introiti televisivi ed anche stadi sempre pieni, perché nelle grandi città la gente comunque affollerebbe gli stadi. Ovviamente verrebbero sacrificate le squadre minori che non hanno pubblico televisivo ed hanno scarso pubblico “da stadio”. La lotta è quindi ormai tra pubblico televisivo (la maggioranza) destinato ad aumentare e pubblico da stadio (la minoranza) destinato a scomparire ovvero ad essere ridotto ad elemento di contorno.
Non manca molto al giorno in cui il terreno verde del campo di calcio sarà sponsorizzato e sulle tribune sarà vietato esporre gli striscioni perché potrebbero coprire la pubblicità (vedi il nuovo stadio dell'Ajax).
Cercheranno, anche da noi in Italia, di introdurre decine e decine di “controllori del tifo”, come già avviene in nord Europa, con l'obiettivo di impedire l'uso di bandiere troppo grandi, di striscioni, di torce e “fumoni”.
Il tutto con la servile complicità dei mass-media che - diretti da personaggi con interessi concreti nelle multinazionali e quindi nel loro personale arricchimento - ormai, per un pugno dato allo stadio, fanno un articolo a nove colonne.
E neppure manca molto al giorno in cui le maglie delle nostre squadre (già, le maglie, l'ultima cosa che ci è rimasta) saranno piene di sponsor, come le macchine di Formula Uno.
Il futuro è già stato deciso: è del tifoso moderato, quello che vorrebbe seguire la propria squadra allo stadio come se fosse a teatro. Quello che si lamenta se la bandiera per un secondo gli ostruisce la visuale. Addirittura già esiste una normativa UEFA che impone agli spettatori di stare seduti, cosa che già in nord Europa si tenta di applicare. Per gli ultras non c’è più posto. Non si vuole più un sostegno  attivo ma quel tipo di partecipazione che si può trovare in un teatro o in un cinema. I signori non hanno capito che per gran parte di noi le nostre squadre sono una fede, che i loro simboli ce li abbiamo tatuati sulle braccia e che le loro maglie, per gente come noi, rappresentano le nostre città. Tutte le curve del mondo dovrebbero prendere concordemente (per una volta) iniziative clamorose contro il calcio-industria” .
Alcune iniziative per  manifestare il proprio distacco dall’attuale sistema-calcio, gli ultras le hanno organizzate: su tutte ricordiamo le due manifestazioni, a Roma e Bologna, nelle quali i gruppi ultras di tutta Italia si sono dati appuntamento per difendere i valori del tifo organizzato. Mentre la manifestazione di Roma del 4 aprile 2003 ha significato un passo significativo, ma non ha fatto registrare la partecipazione che ci si attendeva, a quella di Bologna del 19 giugno 2004 erano presenti ultras provenienti  da tutte le regioni d’Italia , in rappresentanza di 84 gruppi, per una presenza numerica complessiva di 8.000 persone.
La maggioranza delle tifoserie ha scelto di indossare magliette con slogan contro il calcio moderno, contro Sky e contro la repressione e durante il corteo, gli ultras, hanno sfilato portando tantissimi striscioni che sottolineavano i temi della contestazione: “In marcia per la libertà degli ultras”, “Divisi dai colori, uniti dai valori”, “Contro il calcio moderno, ultras all'antica”, “Spegniamo la tv, accendiamo la curva”, “Boicotta la pay tv”, “VOI rubate i soldi, incastrate la gente - NOI ultras adesso, ultras per sempre”, “Ultras ultimo grido di libertà” e ancora molti e molti altri cori e striscioni per ribadire il “no” degli ultras a questo sistema-calcio, all’attuale gestione fallimentare dello stesso e al proliferare di leggi speciali e la conseguente repressione.
La passione dei tifosi, nonostante tutto, sopravvive ed è ancora
molto forte; i dati degli abbonati della stagione in corso dimostrano che il vero tifoso risponde sempre e comunque “presente”: non ci sono contratti televisivi che tengano, l'appassionato non baratta le emozioni vissute in presa diretta con nessuna offerta, nemmeno la più allettante, da parte delle tv satellitari” .
Il calcio appena rievocato è scomparso, secondo la mentalità ultras, a causa dei troppi interessi economici che sono entrati a far parte del sistema, primo fra tutti il potere della pay-tv: La tivù a pagamento ha snaturato il rito domenicale. I mass media ci sono sempre stati, è la pay per view che ha distrutto un certo modo di vivere il calcio. Non ha scoraggiato gli ultras, gli ha solo reso la vita impossibile per via delle partite di lunedì, di martedì e via dicendo, agli orari più impensati”.
Per Fabio Massimo Splendore anche l’opposizione degli ultras al “calcio moderno” è dovuta a motivazioni di carattere economico: Credo sia una contraddizione in termini, credo che in questa opposizione ci sia la ricerca di un appiglio che giustifichi lo spirito contestatore di cui si nutrono gli ultras e per cui possono legittimare i loro gesti. La verità è che questo sistema li danneggerebbe se si arrivasse in maniera più generalizzata alle gestioni dei marchi solo dai parte dei club: le famose cittadelle delle sport di cui parlano molti club (e molto se ne parla a Roma) renderebbero necessario da parte dei club, per riuscire ad esempio ad abbassare i prezzi dei biglietti, l’avocazione a se stessi di tutte le attività commerciali riferite alla società e alla squadra. In queste attività commerciali spesso si trovano gli interessi dei gruppi ultras. Credo che questo non sia l’unico nodo, ma sicuramente un grande nodo nell’insoddisfazione che gli ultras manifestano per questo calcio. Ma c’è dell’interesse concreto all’interno di questo discorso”.
Proprio la pay-tv con le sue innumerevoli telecamere a bordo campo e i media in generale, con tutta l’attenzione che rivolgono al mondo del calcio, sono indispensabili per gli ultras stessi per renderli ciò che sono: protagonisti di questo mondo.
Stiamo cercando di dire che se da una parte gli ultras condannano duramente i media per il ruolo che attualmente questi ultimi ricoprono nel sistema-calcio, e per l’immagine che essi danno delle loro curve, dall’altra proprio gli ultras hanno bisogno dei media stessi per rendere visibili le proprie azioni, sia facendosi soggetti osservati tutte le domeniche, sia rendendosi protagonisti in prima persona, conducendo, ad esempio, trasmissioni radiofoniche o allestendo siti internet.
I mass media come cassa di risonanza, l’utilizzo di striscioni ad uso di telecamere e fotografi, il rapporto con la carta stampata, l’uso di internet e delle trasmissioni radiofoniche: anche il fenomeno ultras, e non solo il calcio, è cambiato, forse inconsapevolmente, all’interno dell’attuale “mondo mediato”.
Secondo Contucci, l’utilizzo dei media anche da parte degli ultras spaventa “i padroni del calcio”: “Se è vero che internet regola ormai la comunità al suo interno, facendo sì che i vari gruppi possano “spiare” ciò che fanno gli altri praticamente in tempo reale, è anche vero che una telecamera di Sky raggiunge milioni di non-ultras, e quindi il messaggio mediatico è assai più efficace. Molti gruppi, infatti, mettono ben in vista striscioni contro il calcio moderno, tanto che la telecamera – pur volendolo - non può non inquadrarli. Quello che terrorizza il sistema calcio, che giudico rappresentato da persone assolutamente amorali e corrotte, è proprio il fatto che non si riesca ad impedire che i tifosi esprimano “visibilmente” il dissenso, che conducano trasmissioni radio e televisive, che scrivano su internet. Tutto questo per loro rappresenta una spina nel fianco, proprio perché costoro sono liberi di dire quel che pensano”.
Anche Splendore ammette che ci sono stati dei cambiamenti  del fenomeno ultras dovuto alle nuove forme di comunicazione, ma il suo punto di vista è ben diverso: “Il progresso, non solo la comunicazione, ha modificato il mondo e tutti i processi che vi si muovono all’interno. Quindi anche l’universo ultras, che ha sfruttato i mezzi di comunicazione (almeno ha provato a sfruttarli) a proprio vantaggio, sia per attività remunerative e utili a autogestirsi, sia per avere più visibilità. E’ chiaro, ad esempio, come un episodio come quello accaduto al derby romano di ritorno della stagione 2003-2004, quello sospeso per la diffusione della falsa notizia di un bambino investito da un mezzo della Polizia, con l’eco dei media (e lì non tanto la stampa, quanto le immagini televisive) è un episodio che nasce proprio come atto dimostrativo da parte degli ultras, una manifestazione di forza in piena regola”.
Alla stampa, in particolare, gli ultrà rinfacciano soprattutto l’errore di avvicinarsi al loro ambiente con pregiudizio e superficialità, cosa che ha portato molti gruppi importanti a prendere posizioni di rottura. Se da un lato il mondo degli ultrà è arrivato a farsi conoscere dentro la società, dall’altro la disinformazione ne ha spesso distorto sia gli aspetti che i contenuti, portando ad un livello di tensione di non facile soluzione.
I gruppi ultras ripongono pochissima fiducia nei servizi giornalistici, perché ritengono che i resoconti dei mass media sono spesso unilaterali e tendono ad enfatizzare troppo gli aspetti violenti e più negativi:  “ Il giornalista non è un uomo libero, perché risponde a un direttore. E il direttore risponde a un gruppo politico. Il giornalista è un uomo limitatamente libero. Lo stesso discorso vale per i media, ovviamente. La prima cosa che faccio quando leggo un giornale è verificare chi è il direttore. La vera libertà è – per ora - su internet”.
Per Fabio Massimo Splendore il motivo di tale sfiducia è molto diverso: “Sono cambiati gli obiettivi del movimento ultras. Hanno capito, hanno deciso, che scontrarsi tra loro non avesse più troppo senso e che non desse risonanza. E allora il livello dello scontro è stato alzato con i giornali e con le forze dell’ordine. Conosco purtroppo personalmente colleghi minacciati o aggrediti da movimenti ultras. Il fatto è che trovarli ai campi d’allenamento favorisce il contatto e in questo credo che dovrebbero essere più attente anche le società. La mia esperienza personale nel periodo in cui ho seguito la Lazio per il Corriere dello Sport, però mi porta a dire che con gli Irriducibili della Lazio il mio è stato un rapporto tranquillo. Con molti di loro parlavo, con uno dei loro capi, Toffolo, scambiavo idee per sms. Da questo punto di vista mi ritengo solo un fortunato”. E ancora: “Ci si chiede sempre quale sia il confine tra il diritto di cronaca e l’esaltazione che certe persone possono provare nel vedere le loro gesta raccontate sui giornali. Ma il diritto di cronaca va difeso sempre e comunque e probabilmente gli strumenti per colpire l’esaltazione dei capi di certi gruppi dovrebbero essere altri”.
Abbiamo chiesto agli ultras romanisti di darci la loro opinione sulla categoria dei giornalisti e le risposte, come prevedibile, manifestano un rapporto conflittuale tra le parti, visto che solo una netta minoranza (11%) ritiene che “Quasi tutti svolgono onestamente il loro lavoro.

 

Nonostante il loro giudizio negativo gli ultras danno comunque grande peso alla possibilità di attirare l’attenzione dei mass media mediante un contatto diretto. L’opinione che i tifosi hanno dei giornalisti è quindi in contraddizione con il modo in cui quest’ultimi trattano il teppismo calcistico. Il che è comprensibile. Gli ultras possono infatti migliorare il loro status se vengono descritti o intervistati personalmente dai mass media oppure se si fa menzione della loro curva.
A conferma di quanto detto, possiamo prendere in considerazione il già citato episodio dello striscione degli ultrà laziali in favore di Arkan: “In questi giorni mi diverto un sacco a leggere, vedere, sentire gli infervorati giudizi sul famigerato striscione dei laziali dedicato ad Arkan. Penso proprio che tra corsivi inorriditi, provvedimenti ministeriali, minacce di partite sospese, i miei amici “Irriducibili” siano entusiasti del lavoro compiuto. D’altronde per l’ultrà, come per il vip, vale una celebre “regola”: “Purché se ne parli”. E anzi, per un gruppo come quello laziale – forte, rispettato, tosto, schierato, “avanti” – più la sua presa di posizione è dura, più viene scandalisticamente rimarcata, e conseguentemente maggiore è il prestigio che l’icona “Irriducibili” acquisisce. Roba da entusiasmare i più quotati strateghi di marketing” .
L’accanimento degli ultras, contraddittorio per un verso e coerente con la loro mentalità per un altro, riguarda invece quella parte dell’informazione che non riporta i fatti accaduti in modo fedele: “I giornalisti devono pur giustificare in qualche modo le cose che succedono, poi devono dare addosso a qualcuno, allora danno addosso a noi. Come possono, come può uno che non sa niente, che non c’era, che magari era seduto in poltrona, giustificare dei ragazzi che si prendono a botte? Dice: “Sono dei teppisti...”” .

Gli ultras romanisti, a conferma di questa tesi, non accettano il modo di fare comunicazione sui fatti riguardanti la propria curva: come abbiamo visto grazie al precedente grafico, alla domanda “Cosa pensi degli articoli di giornale riguardanti il tifo nella tua città ?” nessuno ci ha risposto che “Riportano fedelmente i fatti accaduti” o tanto meno che “Difendono la causa degli ultrà”, mentre la maggior parte (39%) pensa che i giornalisti “Si accaniscono sui fatti di curva” e molti altri (33%) che “Gonfiano le notizie sia nel bene che nel male”.
Agli ultrà è stato chiesto anche di indicare quelli che secondo loro sono i motivi che spingono certi giornalisti ad omettere i fatti di curva oppure a “gonfiarli”: il dato allarmante è che solo il 3% crede nella “buona fede” dei giornalisti e ha risposto “Per evitare allarmismi (in caso di eventi negativi)”. Gli ultras pensano che la stampa amplifichi appositamente i fatti che li riguardano, soprattutto “Per ostilità verso la curva” (41%), ma anche “Per precise disposizioni editoriali” (29%) e “Per mancanza di informazione” (22%).


D. SEGRE, Ragazzi di stadio,cit., p. 39.

SEVE & CLAUDIO, Il gruppo,cit., p. 143.

C. FURNARI, La domenica dei ragazzi di stadio, in S. Cametti, I guerrieri di Verona, cit., p. 140.

D. SEGRE, Ragazzi di stadio,cit., p. 13.

C. FURNARI, La domenica dei ragazzi di stadio,cit., p. 140.

A. SALVINI, Il rito aggressivo. Dall’aggressività simbolica al comportamento violento: il caso dei tifosi ultras, Giunti, Firenze, 1988, pp. 119-123.

A. ROVERSI, Il sociologo e l’ultrà, cit., p. 26.

Ivi, p. 36.

J. BAUDRILLARD, Heysel, in “Autrement”, n. 80, 1986, p. 161.

A. EHRENBERG, La rage de paraitre, in “Autrement”, n. 80, 1986.

A. DAL LAGO, Descrizione di una battaglia, cit.

E. GOFFMAN, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino,  Bologna, 1969.                                                                                             

K. WEIS, Tifosi di calcio nella Repubblica Federale Tedesca: violenze e provvedimenti,in A. Roversi, Calcio e violenza in Europa, cit., p. 64.

A. DAL LAGO, Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, Il Mulino, Bologna, 1990, pp. 97 e 102.

V. MARCHI, Italia 1900-1990: dal supporter all’ultrà, cit., p. 198.

D. LAING, Il Punk. Storia di una sottocultura rock, EDT, Torino, 1991, p. 162.

K. WEIS, Tifosi di calcio nella Repubblica Federale Tedesca: violenze e provvedimenti,in A. Roversi, Calcio e violenza in Europa, cit., p. 67.

F. BRUNO, Vita da ultrà, Conti, Bologna, 1992, p. 26.

A. DAL LAGO, Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, cit.

A. SALVINI, Il rito aggressivo. Dall’aggressività simbolica al comportamento violento: il caso dei tifosi ultras,cit., p. 104.

A. SALVINI, Il rito aggressivo. Dall’aggressività simbolica al comportamento violento: il caso dei tifosi ultras,cit.

V. MARCHI, Italia 1900-1990: dal supporter all’ultrà, cit., p. 156.

A. ROVERSI, Calcio, tifo e violenza. Il teppismo calcistico in Italia, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 47.

D. SEGRE, Ragazzi di stadio, cit., p. 26.

Ivi, pp. 10-11.

F. BRUNO, Storia del movimento  ultrà in Italia, cit., p. 218.

A. ROVERSI, Calcio, tifo e violenza, cit., p. 49.

Zeljiko “Arkan” Raznatovic era il capo degli ultras della Stella Rossa di Belgrado e delle “Tigri” serbe durante la guerra in Jugoslavia. Fu ucciso a Belgrado nella notte del 19  gennaio 2000.

D. COSTA, Se il mostro Arkan diventa un idolo, in “La Nazione”, 1 febbraio 2000.

G. GUASTELLA, L’esercito dei 74 mila ultras, in www.corieredellasera.it, 16 settembre 2005.

Ne è un chiaro esempio il derby Lazio-Roma del 21 marzo 2004 interrotto su richiesta dei tifosi di entrambe le squadre per un presunto, falso, incidente mortale.

I. DIAMANTI, Foot politics: tifo dunquer voto, La Polis-Limes, maggio-giugno 2005.

K. WEIS, Tifosi di calcio nella Repubblica Federale Tedesca, cit., p. 55

F. BRUNO, Vita da ultrà, Conti, Bologna, 1992, p. 120.

F. RADIN, Gli ultras in Jugoslavia: tra tifo e politica, relazione presentata al convegno “Calcio e violenza in Europa. Cause e rimedi”, Bologna, 31 maggio – 1° giugno 1990. p. 5. Radin è un affermato sociologo jugoslavo.

F. BRUNO, Storia del movimento ultrà italiano, cit., p. 241.

L. MANCONI, Ecco i leader della tribù del tifo, in “La Nazione”, 11 febbraio 2000, p.25.

G. TASSI, Il calcio ostaggio degli ultras, in “La Nazione”, 14 ottobre 1999.

Solo da poco alcune società, visto il momento di profonda crisi economica del calcio italiano, hanno adottato una politica di riduzione degli ingaggi, fissando un tetto salariale oltre il quale la società stessa decide di non andare.

Fanno eccezione solamente casi come Paolo Maldini e Francesco Totti, rispettivamente capitani di Milan e Roma.

D. SEGRE, Ragazzi da stadio, cit., p. 18.

G. TASSI, Gli schiavi miliardari, in “La Nazione”, 14 aprile 2000, p. 21.

M. SCONCERTI, Calcio e pay per view compagni di viaggio, in “Stream – maggio”, a. IV, n. 5, maggio 2000, pp. 12-13. Sconcerti è opinionista di Sky.

F. BORDIGNON, L. CECCARINI, Gli italiani nel pallone, La Polis-Limes, 2005.

D. SEGRE, Ragazzi da stadio, cit., p. 29.

F. BRUNO, Toscanatifo, in “Supertifo”.

F. BRUNO, La provincia alla riscossa, in “Supertifo”.

F. BRUNO, Irriducibilmente Lazio, in “Supertifo”.

F. BRUNO, Il movimento ultrà nell’Europa continentale, cit., pp. 139-40

G. MARSHALL, Spirit of ’69. A Skinhead Bible, in “Skinhead Times Publishing”, Dunon, 1991, p. 124.

A. ROVERSI, Il sociologo e l’ultrà, cit., p. 24.

V. MARCHI, Conclusioni, cit., p. 264.

DI RITA, Palinsesto televisivo per un monopolio annunciato, in “Il Megafono”, num 3, anno 2003.

M. NATALINI, Benvenuti nel football business. Accendi il tuo entusiasmo, spegni la tv!, in “Il Megafono”, num. 1, 2003.

Contro il calcio moderno, in www.asromaultras.it. Per approfondimenti il  “Manifesto contro il calcio moderno” è riportato per intero in appendice.

M. NATALINI, Benvenuti nel football business. Accendi il tuo entusiasmo, spegni la tv!, cit.

R. GIRARDI, L’ultrà racconta, in “La Nazione”, 2 febbraio 2000.

D. SEGRE, Ragazzi di stadio, cit., p. 20.

 

Una delle accuse più frequenti che vengono rivolte ai giornalisti è il modo  in cui vengono descritti i giovani delle curve e il pericolo che le parole usate possono essere indiscriminatamente generalizzate: “Il loro unico interesse nei nostri confronti è sempre stato limitato alle occasioni in cui si sono verificati scontri. Le notizie sono sempre state riportate in modo distorto e tendenzioso. L’importante è, per i media, identificare sbrigativamente carnefici e vittime, per far colpo su lettori o spettatori, finendo così col raccontare storie completamente diverse da quelle accadute. E’ evidente che a loro interessa solo questo lato della mentalità ultrà e non sono per nulla interessati a quanto di positivo, qualche volta, proviamo a costruire” .

 

 

    1. Vecchie e nuove forme di comunicazione: dai fanzines a Internet

 

 

Nel precedente paragrafo abbiamo accennato all’uso in prima persona che gli ultras fanno dei mezzi di comunicazione: in questo ambito va inserita la fitta produzione di “fanzines”, che vanno ad aggiungersi agli “house organs” legati alla società. Le house organs sono riviste ufficiali rivolte ai tifosi in generale, che puntano ad un’immagine familiare della squadra e dei singoli calciatori, e svolgono un ruolo di contenitore pubblicitario per tutti gli accessori che riportano il marchio della società (capi d’abbigliamento, mascotte e gadgets). I fanzines, come recita il nome stesso, sono dei periodici prodotti dai fans, mirati di solito alle attività di un singolo argomento. Sono riviste autoredatte dai gruppi ultras, i più appassionati,  per lo più costituite da fotocopie impaginate in maniera artigianale, con i testi battuti a macchina, con un’iconografia limitata a disegni più o meno accurati, destinate a pochi lettori, dalla periodicità altalenante e dalla vita breve. Questi fanzines non dedicano molto spazio alle vicende strettamente calcistiche, ma analizzano piuttosto il comportamento del pubblico e forniscono resoconti sulle trasferte effettuate, spiegazioni su quelle da affrontare, critiche e opinioni sul l’apporto del tifo nei risultati domenicali.
L’Italia può comunque rivendicare la paternità delle cosiddette “riviste per tifosi organizzati”. L’idea di  dedicare uno spazio fisso ai gruppi ultras, ospitando lettere, annunci e fotografie delle curve, risale ai tardi anni Settanta, quando il “Guerin Sportivo” lancia la rubrica “La palestra dei lettori”. Riprendendo brillantemente tale spunto, nasce “Supertifo”, prima come inserto del periodico “Tuttocalcio”, diventando poi rivista autonoma nel 1986. Con il passare degli anni la rivista diviene un punto di riferimento anche per gli ultras europei, vista la mancanza di prodotti similari nelle altre nazioni, almeno fino agli anni Novanta. Nel  1991 compare una seconda rivista per ultrà, dal nome “Hooligans”, che si caratterizza immediatamente per le proprie posizioni violente e trasgressive, come risposta “dura” alla positività di “Supertifo”: skinheads in anfibi e tuta mimetica, risse cruente e rubriche destinate agli insulti tra tifoserie avversarie. Dopo tre soli mesi dal suo esordio, “Hooligans” ha dovuto sospendere le pubblicazioni, riciclandosi sotto una versione meno aggressiva dal nome “Ultrà” .
L’importanza di questi fanzines consiste quindi  nel rafforzare l’identità di gruppo e nel diventare un importante veicolo di comunicazione.
Con questi obiettivi, nasce nel 2003 la rivista “Il Megafono”, della quale precedentemente abbiamo citato alcuni articoli, pubblicazione che affronta i temi legati al mondo del calcio o del tifo organizzato (leggi speciali, crisi del sistema calcio, commercializzazione e calcio business, ecc.), differenziandosi dai media tradizionali per l’approccio critico e spesso ironico, e proponendo quando possibile soluzioni alternative ai problemi odierni.
Ecco come la rivista si presenta ai suoi lettori nell’editoriale del primo numero: “Stanchi di sentire sempre e solo coloro che hanno contribuito alla crisi del calcio dibattere su diritti tv, ammortamenti e plusvalenze - e poi ancora - di società in borsa e stadi modello inglese.  Stanchi di vedere decine di migliaia di tifosi e ultras sottomessi ai tempi dettati dalle esigenze televisive (anticipi, posticipi e spostamenti), che avvantaggiano solo il telespettatore da palinsesto e umiliano e scoraggiano chi allo stadio ci va veramente. Stanchi di sentir dire troppo spesso in tv che il calo degli spettatori è colpa esclusiva della violenza di certi tifosi, dimenticando - forse colpevolmente - l'incidenza del caro biglietti ed il problema delle partite giocate in giornate ed orari impossibili. In quanti vanno allo stadio il venerdì ed il lunedì sera? Ed in quanti rimangono a casa per evitare ghiaccio e nebbia durante i posticipi serali d’inverno? Stanchi di sentire invocare, da chiunque si pavoneggi in tv, nuove leggi speciali (già ne sono state fatte tre e non hanno risolto nulla), tolleranza zero e repressione selvaggia per sconfiggere la violenza negli stadi. Stanchi di vedere quegli stessi personaggi minimizzare invece su altre "piccole" magagne di questo mondo, quali i conti in rosso ed i bilanci poco chiari delle società, le partite truccate, i passaporti falsi, il doping, le risse tra i giocatori e quelle tra i presidenti, le trasmissioni fatte apposta per alzare il livello di tensione scatenando veleni e polemiche.
Stanchi di chi blatera di sicurezza negli stadi riferendosi solamente a misure atte a reprimere, contenere ed ingabbiare i tifosi, e non dice niente sulla pericolosità, per gli spettatori, di alcune di queste misure, ormai vetuste e superate. Ci si riferisce in particolare ai fossati, che nel corso degli anni hanno mietuto decine e decine di vittime tra i tifosi. Stanchi di un sistema che si disinteressa completamente delle esigenze dei tifosi - unico reale patrimonio di questo sport - facendo anzi di tutto per trasformarlo in cliente danaroso da spennare e spesso da fregare, trattando il calcio come un qualsiasi prodotto da vendere, e non anche come uno sport che possiede una forte valenza sociale e radici culturali profonde da preservare. Stanchi di tutto questo, un gruppo di persone/tifosi/ultras, supportati da Progetto Ultrà, ha deciso di fondare "il Megafono", un misto tra fanzine e rivista, che intende dar voce alle esigenze ed ai bisogni dei tifosi, vale a dire di coloro che da questo sistema sono messi troppo spesso ai margini.
Il MEGAFONO è uno spazio contro il modo attuale di intendere e gestire il calcio, ma è anche e soprattutto un laboratorio d'idee e proposte alternative per promuovere un calcio più a misura di tifoso. E' un tentativo, insomma, di RIPRENDERSI IL CALCIO” .
Il Megafono viene redatto da un gruppo di persone che vive l’esperienza dello stadio e della curva in modi diversi e tenta di trasferire tale apertura e varietà di vedute sulle pagine della rivista, cui si  affiancano spesso collaboratori esterni (ultras, tifosi, giornalisti ed esperti) che contribuiscono con articoli, idee, foto e quant’altro ancora. La rivista ha così suscitato risposte decisamente positive e notevole interesse sia nelle curve che tra gli addetti ai  lavori.
Il Megafono nasce all’interno di quel movimento che prende il nome di Progetto Ultrà, il quale opera nel settore del tifo sportivo e nasce nel 1995 all'interno dell'U.I.S.P. (Unione Italiana Sport per Tutti) dell'Emilia-Romagna con due obiettivi di fondo: difendere la cultura popolare del tifo e limitare la violenza e l’intolleranza attraverso un lavoro di tipo sociale rivolto ai  tifosi e portato avanti insieme a loro.
Per poter lavorare in queste direzioni, sin dalla nascita Progetto Ultrà si avvale di risorse proprie o di contributi pubblici ottenuti attraverso la presentazione di progetti a bandi o capitoli di spesa stanziati sulle leggi per l'aggregazione giovanile, lo sport, la lotta alle discriminazioni, la cultura ecc.
Progetto Ultrà è inoltre partner e socio fondatore dei networks europei F.A.R.E. (Football Against Racism in Europe) e F.S.I. (Football Supporters International).
Con il passare degli anni, la struttura di Progetto Ultrà si sviluppa in maniera più articolata e vede delinearsi vari ambiti d'intervento. Da un nucleo di contatti e relazioni inizialmente più ristretto e circoscritto geograficamente, i rapporti con i vari gruppi Ultras e di tifosi aumentano notevolmente sia in Italia che all'estero. Parallelamente, aumentano anche i contatti e le collaborazioni con enti ed istituzioni locali nazionali ed internazionali. Gli ambiti d'intervento sono di conseguenza in
costante mutamento, ma si modellano principalmente in quanto segue.
L'Archivio sul Tifo raccoglie e cataloga materiale da tutto il mondo: libri, fanzines, riviste, tesi di laurea, foto, rassegna stampa quotidiana sul tifo e sullo sport, materiale autoprodotto dai gruppi, documentazione su culture giovanili, violenza, razzismo. Attualmente l'archivio raccoglie più di 19.000 titoli fra libri, fanzine, video, tesi di laurea, ecc. e più di 10.000 foto che raccontano la storia del tifo.
La sezione specifica sugli episodi di razzismo avvenuti nel mondo dello sport e sulle iniziative di carattere antirazzista in Italia e in Europa, creata nel 2000, si arricchisce notevolmente di anno in anno, ed è arrivata a comprendere oltre 500 titoli.
Si tratta di un patrimonio davvero unico nel suo genere, sia in Italia che in Europa, una fonte di informazioni inestimabile per studiare e comprendere il fenomeno sociale del tifo organizzato e la passione sportiva più in generale. Testi altrimenti introvabili, quindi, libri autoprodotti non in commercio, rassegna stampa: l'Archivio sul Tifo consente ai suoi utenti di reperire le risorse necessarie per affrontare ricerche su queste tematiche. Proprio per questo sono sempre di più gli studenti ed i professionisti del settore che frequentano l'Archivio: circa 30 laureandi si presentano più volte ogni anno, ma sono molti anche i giornalisti o i ricercatori che contattano l'archivio in cerca di informazioni. Più in generale, l'Archivio viene ad essere un vero e proprio Osservatorio sul mondo del tifo, tramutandosi spesso in luogo di incontro, di lettura e di ricerca per ultras e tifosi stessi, oltre che per gli studiosi del settore. Si trasforma quindi in uno spazio in cui discutere di calcio e di tifo, in cui visionare video e materiale, o anche preparare volantini e fanzines da distribuire poi alla partita, coinvolgendo così in maniera attiva gli Ultras di diverse squadre.
Anche grazie a queste peculiarità del suo archivio, Progetto Ultrà ha potuto sviluppare ricerche o articoli su varie tematiche legate a questo ambito (storia del movimento ultrà in Italia e in Europa, violenza nel calcio, business e commercializzazione, discriminazioni nello sport, accoglienza dei tifosi all'estero, ecc.). Gli ultimi contributi, ad esempio, uno sulla storia degli ultras in Italia, uno sulla rete FARE, sono stati pubblicati nel numero di ottobre 2004 dei "Quaderni di Sociologia".
Dalla fine del 2001, inoltre, è online il sito web del Progetto Ultrà: www.progettoultra.it. Vi si trovano diverse sezioni specifiche a seconda delle aree tematiche trattate (diritti e doveri dei tifosi, commercializzazione nel calcio, attività contro il razzismo, ecc.) ed è possibile svolgere una ricerca su tutto il materiale presente in archivio attraverso l’apposito motore di ricerca. Il sito viene aggiornato  quotidianamente tramite le news, ed è frequente l’inserimento di  nuove sezioni e di materiali utili per tifosi, studiosi e giornalisti. Nel 2004 il sito  ha avuto una media di accesso giornaliera di 150 visite e in un anno ha oltrepassato i 6 milioni di contatti.
Una delle funzioni principali di Progetto Ultrà è quella di porsi come luogo di comunicazione e confronto, tra le varie componenti dell'aggregazione spontanea (gruppi di ultras anche rivali) come tra ultras e istituzioni. Per questo, quando è possibile e richiesto dalle parti, cerca di fungere da mediatore: sia tra gruppi Ultras tra i quali sono nati contrasti che potrebbero degenerare ulteriormente, sia tra gruppi ed istituzioni o forze dell'ordine per cercare di risolvere particolari situazioni ed impedire che si inneschino pericolose tensioni. Proprio con questa finalità nel corso degli anni si sono formate persone, conosciute e rispettate all'interno della curva stessa, capaci di svolgere quel lavoro di mediazione spesso necessario specie nelle cosiddette partite "a rischio".
Oltre che in occasione delle partite, il lavoro di mediazione dei conflitti consiste anche nel cercare di instaurare un rapporto profondo e duraturo con i singoli ragazzi e nel valorizzare le risorse presenti in curva dando spazio alla creatività degli Ultras, singolarmente e come gruppo. L'Archivio in questo senso è decisamente utile, come detto, ma anche dar vita a particolari attività in cui i ragazzi possano essere coinvolti, contribuisce a far crescere ed a far riflettere su determinate tematiche.
Nel 2001, ad esempio, il Progetto Ultrà ha collaborato al progetto "Shooting your area. La doppia visione", il laboratorio cinematografico creato all'interno dello stadio Dall'Ara di Bologna dalla regista bolognese Enza Negroni e finalizzato alla realizzazione di mediometraggi scritti, diretti e interpretati dagli stessi tifosi.
Un particolare ambito di intervento di Progetto Ultrà, sempre legato alla mediazione dei conflitti, si sviluppa sul piano internazionale nel sostegno ai tifosi che seguono la propria squadra o la Nazionale all’estero. Gli Europei del 2000 in Belgio e Olanda hanno visto per la prima volta concretizzarsi strutture di supporto per i tifosi autonome ed indipendenti, chiamate Fans Embassies. Progetto Ultrà ha organizzato la Fan Embassy italiana, garantendo un servizio di strada nelle città in cui giocava la Nazionale, in modo da fornire assistenza ai tifosi in merito a reperimento biglietti, alloggio, informazioni e risoluzioni di particolari problemi. Nel 2002 si è consolidato il rapporto di collaborazione con alcune associazioni europee simili al Progetto Ultrà (KOS in Germania, Football Supporters Federation in Inghilterra, Eurosupport in Olanda) tanto da costituire una rete chiamata F.S.I. (Football Supporters International), con lo scopo di organizzare in maniera sempre più sistematica e completa tali strutture di supporto e mediazione.
Oltre a eventi speciali come possono essere le competizioni internazionali, il lavoro di Progetto Ultrà si sviluppa quotidianamente all'interno delle curve e in costante comunicazione con esse. Pubblicazione e divulgazione di materiale informativo sui diritti e sui doveri dei tifosi e sugli eccessi del business nel mondo dello sport; presentazione di esperienze e proposte alternative anche riprese da contesti esteri; organizzazione di incontri tra tifoserie su tematiche specifiche (leggi speciali, carobiglietti, ecc.); coordinamento e/o sostegno per iniziative a difesa della cultura popolare del tifo (contro la criminalizzazione del tifo organizzato e contro l'eccessiva commercializzazione del calcio). Il rapporto con molte tifoserie è quindi costante, ci si confronta spesso, e Progetto Ultrà si trova ad essere spesso nella posizione privilegiata di anello di congiunzione tra gruppi, anche rivali, per cercare di unire le forze in varie iniziative. Anche in caso di problemi o di particolari esigenze, sono gli stessi gruppi a mettersi in contatto con il Progetto Ultrà per discuterne o chiedere consigli. Nel 2001, in seguito all'approvazione della legge speciale 377/01 in merito alla violenza da stadio, si è realizzato "377/01 Istruzioni per l'uso. Manuale di sopravvivenza per i tifosi", una pubblicazione composta in collaborazione con un pool di legali e dall'approccio immediato, grazie anche alla presenza di vignette spesso ironiche, tesa ad informare sulle novità introdotte dalla legge ed a spiegare in maniera semplice norme e diritti per i tifosi. Il Manualetto è stato distribuito a moltissime tifoserie e reso disponibile a tutti attraverso il sito web. Alla fine del 2003 si è poi prodotto un aggiornamento del Manualetto che considerasse le modifiche introdotte dal nuovo Decreto Legge (24 febbraio 2003, n° 28), allegato in primo luogo alla rivista "Il Megafono" e immediatamente disponibile on line. Tra le tante iniziative portate avanti da Progetto Ultrà nelle curve si può infine ricordare anche la campagna contro lo strapotere dilagante delle pay-tv "Noi la Faccia non la mettiamo", lanciata nell'ottobre 2002 con una provocatoria raccolta di firme tesa a diffidare le tv dall'utilizzo delle immagini delle curve, per far capire che le curve sono parte integrante e fondamentale dello spettacolo offerto da una partita di calcio, e non semplici spettatori.
Altro aspetto fondamentale è il tentativo di informare e sensibilizzare l'opinione pubblica sul mondo del tifo organizzato, cercando di fornire una lettura meno superficiale del fenomeno e di affiancare all'immediata semplificazione "ultras = violenza" altre immagini e altri punti di vista. In questo senso Progetto Ultrà è probabilmente il principale referente nazionale per media e istituzioni per quanto concerne il tifo organizzato. Progetto Ultrà si impegna quindi costantemente nell'organizzazione di incontri e lezioni nelle scuole, convegni o seminari, nella realizzazione di eventi come mostre sul tema o di filmati, nella produzione di articoli e saggi. Viene spesso contattato, inoltre, dai vari media per interviste e commenti su particolari situazioni che possono venire a crearsi. A livello macro-istituzionale l'obiettivo è spostare l'approccio dominante per quanto riguarda il tifo organizzato da un piano che considera tale fenomeno unicamente come problema di ordine pubblico ad uno che lo concepisce in maniera più profonda come un fenomeno sociale che può generare sì violenza, ma che sviluppa quotidianamente socialità e aggregazioni profonde. A livello locale, ci sono realtà e istituzioni interessate a sperimentare e dar vita a nuovi progetti/approcci per quanto concerne il tifo calcistico e l'aggregazione giovanile in generale. Progetto Ultrà, vista la sua posizione e la sua unicità, si trova ad essere spesso referente primario nella programmazione e nella realizzazione di tali iniziative. Negli ultimi tempi, in particolare, si sta proponendo una serie di moduli nelle scuole: sulla lotta alle discriminazioni e sui valori etici dello sport da un lato, sulla rilevanza del tifo nell'aggregazione giovanile degli ultimi decenni dall'altro. Dalle prime esperienze in alcuni istituti medi superiori si è potuta riscontrare una risposta generalmente positiva ed un notevole interesse da parte dei ragazzi coinvolti, il tutto nella direzione di un apprendimento e di una più profonda conoscenza del fenomeno. Durante le lezioni si cerca infine di far intervenire alcuni Ultras locali per permettere un confronto e un dialogo aperto e costruttivo, mentre i temi emersi dagli incontri vengono raccolti in una fanzine realizzata dagli stessi ragazzi.
Il Progetto Ultrà, infine, è socio fondatore della Rete europea F.A.R.E. (Football Against Racism in Europe), una rete di organizzazioni e associazioni europee impegnate contro le discriminazioni nel mondo del calcio, che ogni anno organizza seminari d'incontro internazionali, attività di informazione ed iniziative comuni. Fra le varie iniziative promosse dalla rete FARE, ogni anno viene organizzata la Action Week - Settimana d'Azione Antirazzista Europea. Questa iniziativa, sostenuta ufficialmente dalla UEFA nel 2004 con il coinvolgimento delle squadre della Champions League, coinvolge società calcistiche, tifoserie e tutte le associazioni che si occupano di lotta al razzismo ed alle discriminazioni.
Evento principe della rete FARE sono comunque i Mondiali Antirazzisti, manifestazione ideata nell'ormai lontano 1997 da Progetto Ultrà, in collaborazione con Istoreco, da un'idea molto semplice ma dimostratasi poi efficace e vincente: organizzare una vera e propria festa che vedesse il coinvolgimento diretto e la contaminazione fra realtà considerate normalmente contrastanti e contraddittorie, quella dei gruppi ultrà, spesso etichettati come razzisti, e quella delle comunità di immigrati. Si è fatta molta strada dalla prima edizione dei Mondiali, nati quell'anno con 8 squadre e un'ottantina di partecipanti. La formula che ha voluto coniugare calcio non competitivo, tifo e colore sugli spalti, concerti di trend musicali eterogenei, in un'esperienza di vita comune in campeggio, è risultata di per sé vincente. Tant'è che il numero di partecipanti e delle squadre è aumentato in maniera esponenziale fino all’edizione del 2004, che ha fatto registrare l’iscrizione di 168 squadre e 6.000 persone.
Ultras sempre più protagonisti, quindi, come per dimostrare che il sistema-calcio può far di tutto per allontanarli dagli stadi, ma loro ci sono sempre, anzi, cercano nuovi strumenti per far sentire la propria voce;  la nuova frontiera, per la verità ormai abbondantemente esplorata, si chiama Internet. Popolano la Rete i siti dei gruppi ultras: un florilegio di fotografie, annunci, inni e cori. Dalla A alla C, non c'è curva che non abbia un proprio sito Internet. Sia ufficiali, gestiti cioè direttamente dai gruppi, sia amatoriali. Internet è una comunità virtuale che riunisce i supporters delle squadre di calcio di tutto il mondo. Gli ultras del 2000 comunicano anche così. Sfruttando la tecnologia e gli immensi spazi offerti dalla Rete che si trasformano in un rapido modo per conoscere e farsi conoscere: Internet ha in parte rivoluzionato la comunicazione anche nel mondo del tifo. Ormai tutti i gruppi ultras sono in contatto tra loro. Negli anni ’80 era impensabile conoscere un milanista, un doriano, un veronese. Ora si è creata la comunità ultras, che trascende i singoli gruppi, pur essendo assai litigiosa, ovviamente, al suo interno”.
Almeno per quanto riguarda Internet, Splendore è d’accordo con Contucci e aggiunge: “L’uso di internet credo che abbia inciso non solo nella diffusione del movimento e dei suoi principi ispiratori, ma anche nella divulgazione di certe attività commerciali; penso agli Original Fans che vendono maglie e gadgets della Lazio, gestiti dal gruppo Irriducibili”.
Il fulcro dell’attività in Rete è il collegamento e lo scambio di informazioni e di opinioni tra i tifosi on line attraverso gli spazi comunicativi delle mailing lists, dei messaggi settimanali distribuiti a tutti gli iscritti dei vari siti e degli incontri in chat.
Soprattutto la mailing list è un formidabile strumento di aggregazione perché permette di mantenersi in contatto con centinaia di destinatari spedendo un unico messaggio. Una mailing list, infatti, è un indirizzo elettronico al quale si mandano messaggi che vengono automaticamente rispediti a tutti gli iscritti alla lista e dal quale si ricevono, attraverso la stessa procedura, i messaggi degli altri iscritti; uno strumento che assicura freschezza ed immediatezza di informazioni. In ogni mailing list si discute di tutto ciò che riguarda una squadra ed i suoi tifosi: si possono discutere le scelte del tecnico, la campagna acquisti, offrire o cercare un passaggio per una trasferta, trovare una videocassetta di una certa partita che si vuole rivedere, incontrarsi per scambiarsi del materiale sulla propria squadra del cuore. La mailing list di un sito ultras, perciò, non solo permette ad ogni iscritto di scambiare opinioni e commenti con altri tifosi, ma rende anche possibile nuove forme di aggregazione. Entrare in un sito ultras vuol dire far parte di un gruppo, trovare tante persone in giro per il mondo, diverse ma tutte unite dalla comune passione per una squadra di calcio. Attorno a ogni centro di aggregazione ruotano infatti tante iniziative quali concorsi, sondaggi, collegamenti con i media, contatti tra organizzazioni di tifosi, commenti alle partite, news, FAQ, striscioni e gadgets dei club d’appartenenza e infine (per chi può) riunioni per le partite e i dopopartita.
Lo schema seguito dai webmaster curvaioli è simile. Sezioni dedicate alle foto del gruppo, al racconto delle trasferte, alla vendita del materiale, ai cori della curva, alle immagini da scaricare. Una sezione poi ha fatto la sua comparsa in tutti i siti, quella dedicata alla “repressione delle forze dell'ordine”. In Rete ci sono i consigli da seguire in caso di arresto o di diffida, un vero e proprio manuale dei diritti degli ultras. Poi c'è “Il Muro”, sezione dedicata ai messaggi in cui si sfogano gli umori curvaioli. A leggerli sembra di essere in presenza di una moltitudine di sanguinari teppisti. Insulti e minacce si sprecano. Gli appuntamenti per risse anche. Il più delle volte però sono solo parole: “Chi veramente fa casino allo stadio, non perde tempo a scrivere sul muro - giura un webmaster curvaiolo - Il problema è che la polizia li legge e noi ci troviamo nei guai per le cavolate scritte da quattro ragazzini esaltati”. Non a caso ci sono gruppi che filtrano i messaggi per evitare che i muri diventino un susseguirsi di insulti e minacce.
La presenza di un “moderatore”, cioè una figura che funge da filtro scegliendo, se necessario, quali messaggi eliminare e, nei casi estremi, che utenti espellere (nel caso non seguano un’etica di comportamento stabilita), è necessaria nelle chat, particolarmente degne d’attenzione, perché rappresentano un’interessante novità nel “panorama ultras”. Le chat permettono a diverse persone, nel nostro caso  tifosi, di entrare in contatto tra loro e discutere riunendosi in una “stanza virtuale”, facilitando il contatto e lo scambio di  opinioni; questo attualmente è molto importante perché molti gruppi ultras, anche di diversa fede calcistica, sono in stretto e costante contatto per portare avanti cause comuni. 
La panoramica sui siti del tifo organizzato potrebbe durare ore. Basta digitare la parola ultras su di un qualsiasi motore di ricerca e si apre una lista smisurata. A Roma sono due i siti principali: quello curatissimo degli Asr Ultras sulla sponda giallorossa e quello degli Irriducibili Lazio, sul versante laziale. Ci sono poi i siti generalisti, non riconducibili cioè ad un gruppo: “Tifonet”, “Ultras Inside”, “Mentalità ultras”. Dentro si trova un collage del panorama curvaiolo italiano. Infine, per gli amanti di cronache e foto di tafferugli bisogna saltare in Inghilterra. In un sito che si chiama “View from the terrace” si trova la rassegna completa e aggiornata di tutti gli incidenti tra tifosi di tutta Europa.

 

CAPITOLO 4
Il problema della violenza

 

In questo capitolo andremo ad analizzare l’aspetto più “sporco” del movimento ultras, quella che è la sua immagine più violenta.
Gli atti di teppismo non sono più una novità e ormai non c’è domenica in cui non si verifichi anche solo una piccola scaramuccia o scazzottata, per non parlare delle frequenti sassaiole tra tifosi e delle guerriglie urbane che hanno messo più di una volta in subbuglio intere città.
Come già ricordato, coloro che diffusero la “moda” di creare questi vandalismi da stadio furono gli hooligans inglesi, imitati in seguito da molte altre tifoserie, europee e non, che si impegnarono così in una sorta di emulazione, e, allo stesso tempo, competizione.
Nel primo paragrafo vedremo come gli episodi di violenza siano in qualche modo insiti nel genere umano, soprattutto quello maschile, e cercheremo di capire quali furono le cause del dilagare di questa indole “bestiale” anche nel mondo del calcio.
Il secondo passo sarà quello di affrontare questo grave problema da un punto di vista sociale, in modo da offrire un esauriente collegamento tra il comportamento teppistico e quella che è la vita quotidiana di coloro che lo attuano. Ritroveremo anche alcuni spunti presi in considerazione nei precedenti capitoli, quali il teme della visibilità sociale e dell’ossessivo protagonismo ricercato dalle frange di ultrà più scalmanate.
Esamineremo inoltre un particolare tipo di violenza da stadio, quello cioè fomentato dall’odio politico, razziale ed etnico. Una piaga che non accenna a diminuire e che coinvolge un numero sempre maggiore di giovani ultras. Pure in questo caso riprenderemo un argomento già affrontato, cioè le relazioni tra ultras e mondo politico, il tutto in un’ottica diversa e sicuramente più delicata.
Cercheremo, infine, di capire in che modo è possibile intervenire, iniziando prima di tutto dalla questione relativa agli stadi. La distanza necessariamente imposta alle opposte tifoserie, con il passare del tempo, ha dato sicuramente i suoi frutti, tranne alcuni casi isolati generati il più delle volte da carenze organizzative. Vedremo infatti come la maggior parte degli incidenti si svolga oramai tra ultras e forze dell’ordine e come siano sempre più frequenti gli scontri effettuati lontano dagli stadi. La nostra attenzione si sposterà anche verso tematiche politico-sociali concernenti gli interventi attuati o attuabili in questa direzione. Gli sforzi da compiere e gli approcci teorizzati da vari autori hanno sempre tenuto  presente il problema della “vita alle spalle dell’ultrà”, cercando di conseguenza di individuare i possibili metodi da adottare.
Senza dimenticare gli obiettivi che ci siamo prefissi, non mancheremo di citare i risultati ottenuti dalla ricerca sugli ultrà romanisti.

 

    1. La violenza negli stadi

 

La curva come un territorio a sé, come una roccaforte da difendere contro le intrusioni del “nemico”, rappresentato dal tifoso avversario, dalla squadra avversaria, dalle forze dell’ordine, dai mass media e da tutto ciò che, secondo l’ultrà, può essere in grado di minare quel senso di libertà e di invincibilità che solo la vita in curva è capace di assicurare.
E’ questo, principalmente, il pretesto che porta troppo spesso  l’ultrà ad assumere atteggiamenti violenti ed esasperati, ai quali dobbiamo anche aggiungere altri motivi che scatenano il teppismo calcistico, quali una sconfitta della propria squadra, vendette da portare a termine e rivalità  campanilistiche.
Nel nostro continente le prime notizie relative ad atteggiamenti violenti dentro uno stadio ci giungono dalla Gran Bretagna, paese degli hooligans, di quei giovani provenienti dagli strati più bassi della classe operaia, che vivono una comune condizione di disagio e marginalità sociale e riproducono nei gruppi hooligan l’appartenenza al proprio quartiere o al proprio rione. Il loro comportamento violento si spiega col fatto che essi hanno fatto proprio lo “stile maschile violento” tipico della cultura di vita dello strato operaio da cui provengono .
Nel modello inglese la violenza risulta essere il principale strumento di aggregazione e comunione; è il simbolo più manifesto della propria subalternità, a cui si risponde con un ribellismo teppista .
Taylor individua un altro motivo che spinse i supporters britannici ad adottare comportamenti violenti: “Il teppismo calcistico  è in realtà un movimento di resistenza dei tifosi più tradizionali di fronte ai cambiamenti intervenuti nel secondo dopoguerra nel mondo del calcio. Con “processo di internazionalizzazione” s’intende l’introduzione dei tornei internazionali su  larga scala e la nascita di sempre più  nuove competizioni nazionali, che fanno venire meno uno dei principali motivi di divertimento e interesse agli occhi dei vecchi  tifosi e cioè la competizione con le comunità vicine e rivali. In sostanza si crea una frattura tra mondo del  calcio e mondo dei  tifosi, i quali si trovano alienati di un bene per loro molto prezioso. Ed è dal conseguente senso di frustrazione per  la scomparsa di un modo di essere del calcio che sentivano come proprio e dall’incapacità di accettare passivamente dei processi che investono il loro forte legame con i colori del proprio team che nasce, come reazione  il teppismo calcistico” .
Con gli anni Settanta il modello ultras inizia a manifestarsi in termini attuali, e la sottocultura hooligan  inizia a trovare un riscontro oltre Manica, influenzando profondamente le tifoserie di tutta Europa. I gruppi ultrà che si sono ispirati alle “gesta” dei tifosi inglesi sono senza dubbio numerosi, com’è accaduto  ad esempio in Svezia: “Il movimento ultrà fa la sua comparsa nel 1977 on la nascita della Black Army, gruppo di sostenitori dell’AIK Stoccolma (per molti anni unico gruppo ultrà del paese) che si rifà apertamente al modello inglese. Il loro leader Paul Sodemark entra in contatto con gli hooligans inglesi, recandosi spesso in Gran Bretagna per imparare le principali strategie di guerriglia adottate negli stadi britannici” .
Il “fascino” dei supporters inglesi contagiò ben presto pure la Francia: “I primi problemi legati alla violenza nel calcio si manifestano nel 1984, anno in cui la Francia ospita i campionati europei di calcio. I boneheads parigini provarono un insano desiderio di “misurarsi” con quelli che vengono considerati i Campioni del mondo del teppismo calcistico, ossia gli inglesi” .
Uno dei pochi paesi a non essere intaccato dalla mentalità inglese è invece la Danimarca, grazie ai suoi correttissimi rooligans: “La Danimarca costituisce una nazione modello nell’ambito delle tifoserie europee [...] Il termine rooligan è un incrocio del termine Rolig (tranquillità) e il sostantivo inglese hooligan, dando dunque origine a una nuova parola, simpatica e significativa, che indica quei supporters che rifiutano a priori la violenza” .
Per il resto, invece, dobbiamo registrare un alto tasso di  comportamenti  violenti, a cominciare da un paese calcisticamente turbolento come la Grecia, dove il movimento ultrà rivendica con fierezza la propria aggressività.
C’è un altro paese in cui il clima all’interno degli stadi non è mai  stato dei più tranquilli, cioè l’ex Jugoslavia, dove le rivalità calcistiche passano in secondo piano e la violenza assume una valenza di scontro etnico: “Si potrebbe dire che il tifo calcistico violento sia stato in Jugoslavia la via più idonea per realizzare il trasferimento di tensioni e frustrazioni massicce sempre crescenti, prodotte dalla crisi, dal piano sociale al piano nazionale ed etnico, fissandosi peraltro esclusivamente, in modo naturale e molto forte, proprio su gruppi nazionali ed etnici specifici e prescelti” .
Più simili agli hooligans inglesi, gli ultras tedeschi nei loro atteggiamenti violenti mischiano motivazioni politiche e campanilistiche: “L’essere “tanto temuti” spinge ancora più giovani a seguire in modo aggressivo le sorti della nazionale, molto più di quanto non abbia fatto in precedenza. Gli ultrà tedeschi, sempre più legati alla propria nazionale e al verbo neonazista, iniziano ad autodefinirsi Hools e a costituire una sorta di supergruppo in cui confluiscono ultras di tutto il paese, pronti a dimenticare le rivalità cittadine in nome di un nazionalismo esasperato” .
Alcune ricerche effettuate nei Paesi Bassi, invece, hanno individuato tra le cause del teppismo degli ultras, la ricerca di attenzione nei loro confronti: “Le informazioni date prima della partita possono incentivare il teppismo. Anche l’accenno al fatto che sarà presente un numero più elevato di forze di polizia può funzionare da incentivo, giacché tutti penseranno che sta per succedere qualcosa di importante” .
Passiamo ora al nostro paese, coinvolto come molti altri in questa spirale di violenza che non accenna a diminuire. Il  clamore, a volte comprensibile e a volte esagerato, suscitato  dagli episodi  di teppismo è tale che altri fenomeni di  maggiore gravità rischiano di passare in secondo piano: “La violenza calcistica ha causato tra i giovani molto meno vittime di ogni singolo sabato sera “automobilistico”, per non parlare poi del costo in vite umane legato al consumo d’eroina. Pur dunque non rappresentando la prima e più importante “piaga giovanile” dell’attuale società il movimento ultrà riesce a “catturare” l’attenzione dei mass media come nessun’altra manifestazione turbolenta giovanile estranea alla sfera della politica. Questa sorta di “supervisibilità” è dovuta fondamentalmente a due fattori: la vasta cassa di  risonanza che caratterizza in Italia l’evento calcistico e l’incapacità di analizzare le differenti forme e peculiarità della “violenza ultrà”, ove si mescolano scontri rituali, in qualche modo “autoregolati”, e veri  e propri raptus di violenza omicida, che vanno oltre ogni possibile distinzione di ruolo e contesto” .
Questa piaga ha da sempre caratterizzato le partite di calcio, fin dagli anni Trenta e Quaranta, quando c’era la pratica dell’invasione di campo e città intere insorgevano per una retrocessione. Possiamo quindi affermare che non è cambiata la violenza, ma la sua matrice, la sua forma, diventata sempre più vandalica, gratuita, sempre più lontana insomma dalla vera “mentalità ultras”, quella che si basa sulle “sane” scazzottate e che non ammette né l’utilizzo di armi né la pratica di atti “vigliacchi” quali le imboscate e le sassaiole.
La violenza calcistica aumenta d’intensità dalla prima metà degli anni Cinquanta e la stampa inizia ad indicare questi episodi come sfoghi di irrazionalità che hanno come protagonisti persone che perdono ogni capacità di  giudicare con distacco ciò che accade davanti ai loro occhi e si  abbandonano alla propria tensione interna.
Le guerriglie da stadio diventano una costante allorché in Italia compaiono, negli anni Settanta, i primi gruppi ultrà, che mal si adattano al cliché della tifoseria tradizionale, e ciò non tanto  perché si caratterizzano come portatori di forme inedite e molto più vistose di tifo, quanto perché tendono ad esibire un atteggiamento sistematicamente aggressivo nei confronti degli analoghi gruppi avversari.
La già citata morte di Vincenzo Paparelli il 28 ottobre 1979 segnò definitivamente il consolidamento della violenza e rappresentò il primo (e, purtroppo, non unico) fatto di cronaca nera accaduto all’interno di uno stadio. Il caso Paparelli diede luogo, di conseguenza, alla prima forma di repressione su vasta scala del fenomeno ultrà definito “fenomeno socialmente deviante”. L’ondata di repressione costrinse molti gruppi a cambiare nome, a mimetizzarsi, a vivere in clandestinità.
In relazione a questo argomento gli ultras romanisti giudicano come “Tragici incidenti” (45%) o comunque “Episodi evitabili” (25%) gli eventi luttuosi accaduti negli anni in alcuni stadi, ma non vogliamo sottovalutare la gravità della risposta “Sono episodi inevitabili (violenza cronica)” (11%).

 

Già nei  primi anni Ottanta la violenza ultrà tende a perdere ogni  riferimento con l’avvento sportivo per rispondere invece a scelte “strategiche” che si collegano a una precisa politica delle alleanze e delle inimicizie. Ciò significa che i comportamenti di questi tifosi non di rado si rendono autonomi dalla matrice da cui erano originariamente scaturiti (il desiderio di  fornire un sostegno, seppure in forma esasperata, alla squadra del cuore) e imboccano con decisione la strada dell’antagonismo violento e dello scontro a ogni costo con il supposto nemico, gli ultras rivali. In secondo luogo, probabilmente come conseguenza diretta di questo “salto di qualità”, si ha una migliore organizzazione e una più accentuata militarizzazione dei gruppi ultrà .
Gli scontri e le ostilità tra gruppi, più precisamente, sono regolati dai meccanismi della cosiddetta “sindrome del beduino”, logica di amicizie e inimicizie riassumibile in: 1) io contro mio fratello, io e mio fratello contro i miei cugini, il mio clan contro la mia tribù, la mia tribù contro le altre tribù, tutte le tribù contro gli altri popoli; 2) l’amico del mio amico è mio amico, l’amico del mio nemico è mio nemico, il nemico del  mio amico è mio nemico, il nemico del mio nemico è mio amico .
Dagli anni Novanta fino ad oggi, il clima si è fatto sempre più esasperato e sovraeccitato; neppure i mass media, come già detto nel precedente capitolo, riescono ad evitare un uso esagerato di toni eclatanti e notizia altisonanti. In questi ultimi anni i giovani, ultrà e non, sembrano fare propri un insieme di valori negativi, eccessivi. La gioventù italiana appare così immersa in un processo degenerativo impressionante, in un imbarbarimento collettivo che si manifesta attraverso forme di rancore più o meno generalizzato.
C’è anche chi  considera, ma senza giustificare per questo gli ultras violenti, che il teppismo da stadio possa essere figlio sia della faccia “malata” della nostra società sia dell’esasperazione in seno allo stesso gioco del calcio, un calcio sempre più tattico e muscolare, sempre più legato al risultato, alla produzione, un calcio che sta perdendo ciò che lo fece amare.
Per quanto riguarda, invece, la relazione che talvolta lega la partita in campo e i comportamenti violenti degli ultras, Marchi scrive che “la violenza nel calcio è strettamente legata all’andatura del gioco e della partita: segue dunque degli schemi precisi, una sorta di “mappa dei momenti a rischio” che consente  di individuare preventivamente gli scenari di possibili esplosioni di violenza. L’importanza della partita ai fini della classifica rappresenta in questo  contesto il  primo e principale potenziale meccanismo d’innesco della violenza: una decisione arbitrale considerata ingiusta, un gol  considerato irregolare, un comportamento poco convincente della propria o dell’altra squadra possono scatenare forti carichi emotivi pronti a esplodere in atti di vandalismo e di turbolenza” .
Gli ultras romanisti sembrerebbero contraddire questa tesi perché solo il  7% di loro pensa ci sia un legame tra gioco in campo e zuffe sugli spalti, mentre la maggior parte (34%) ha risposto che non necessariamente esiste un legame tra la partita, il tifo e gli scontri tra ultras. Una certa contraddizione  scaturisce però dal fatto che coloro che considerano i tre elementi (gioco, tifo, zuffe) “assolutamente consequenziali” e coloro che invece li ritengono “concetti ben separati” hanno entrambi riportato gli stessi valori percentuali (22%). Viene considerata verosimile, invece, la relazione tra il gioco in campo e il tifo (15%), perché, anche se il tratto distintivo del tifoso ultrà è quello di sostenere la propria squadra sempre e comunque, è pur vero che le diverse fasi che una partita vive possono accendere o indebolire, almeno in parte, l’entusiasmo in curva.

 

Quanto accaduto alcuni anni fa può spiegarci il potenziale “distruttivo” dei carichi emotivi di cui parla Marchi: verso la fine del campionato italiano della stagione 1999-2000 i tifosi della Lazio manifestarono in modo inaudito la  loro rabbia verso sospetti favori arbitrali a vantaggio della Juventus: “Due ultrà feriti, venti agenti di polizia medicati in ospedale, cinque persone fermate tra le quali un minorenne. E poi cassonetti rovesciati, auto  danneggiate, lancio di sassi, uova e molotov, almeno tre. Di contro, lacrimogeni esplosi ad altezza d’uomo e cariche della polizia a colpi di manganello. La follia di un tranquillo pomeriggio romano parla di tutto questo e racconta di scatenati laziali disposti a tutto per protestare contro il gol del Parma annullato  domenica scorsa (7 maggio 2000) durante la partita con la Juve [...] Alla fine non è rimasto che contare i  danni e ricostruire gli avvenimenti. Ci hanno pensato gli agenti della Digos che vedono, dietro gli scontri di ieri, un piano ben organizzato e studiato da tempo che non avrebbe coinvolto solo gli ultrà laziali, ma anche capi delle tifoserie più accese di altre squadre a loro volta, in passato, penalizzate dalle vittorie juventine. Tra i facinorosi sarebbero stati riconosciuto diffidati interisti  e persino qualche romanista .

 

    1. Calcio e violenza: le possibili motivazioni

 

In questo paragrafo cercheremo di entrare nel complicato intreccio di motivazioni legate alla violenza da stadio. In precedenza abbiamo sottolineato come le vicende degli ultras siano in grado di avere una cassa di risonanza di gran lunga maggiore rispetto ad altri problemi, spesso anche più tragici.
La questione del teppismo calcistico catalizza, infatti, l’attenzione dei mass media e degli studiosi di sociologia e psicologia in maniera molto approfondita. Si è sempre tentato di  “scavare” nella vita dell’ultras violento e dagli studi effettuati di tutta Europa sono spesso giunte relazioni interessanti circa i legami tra la vita privata e la vita di curva.
In Gran Bretagna, ad esempio, è stato rilevato come i teppisti del calcio siano impegnati “in una ricerca di status ed eccitazione, o di stimolazioni emozionali, che l’eccitazione generata dalla partita per loro non è sufficiente e che il battersi è una fonte fondamentale di significato e gratificazione nella loro vita. In risalto c’è “l’eccitazione della battaglia” e “l’adrenalina che corre” .
Tale “eccitazione” viene spesso paragonata al desiderio di mettere in scena forme di violenza “rituali”, descritti dai mass media in chiave come sempre spettacolare: “Nelle loro gesta i  tifosi ultras celebrano in realtà la “metafora” della guerra e le loro azioni sono prevalentemente delle “sceneggiate” meno gravide di conseguenze di quanto in genere si ritiene. Il grado di violenza degli scontri tra football hooligans è esagerato dalla stampa dal momento che tali disordini non sono altro che un  “rituale aggressivo” in cui raramente si corre il rischio di fare vittime. Gli incidenti, infatti, avvengono secondo un “ordine simbolico” prestabilito e solo di rado sono davvero cruenti, se non intervengono fattori di disturbo ad alternarne lo svolgimento” .
Marsch, Rosser e Harré appartengono alla cosiddetta “scuola di Oxford”, la prima a descrivere le dinamiche interne e le forme organizzative di un gruppo di curva, scoprendo come esso sia un fenomeno altamente strutturato  e arrivando a distinguere la “violenza reale” o effettiva dalla “violenza rituale” o aggro: la prima consiste in una violenza fisica diretta in modo  cruento contro altre persone, la seconda invece è una violenza solo simbolica o metonimica, ed è quella a cui farebbero maggiormente ricorso i tifosi inglesi. La violenza verrebbe in questo modo trasformata, ritualizzata in forma simbolica e non praticata, dal momento che il carattere rituale dell’azione aggro deriva dal tacito consenso, da parte di entrambi i contendenti, circa le regole di condotta che definiscono quando è appropriato attaccare, come dirigere il corso degli incidenti, e quando è giunto il momento di porre termine ai disordini e secondo quali modalità. In realtà l’intenzione dei giovani tifosi responsabili degli atti di teppismo calcistico è prevalentemente quella di umiliare gli avversari, ottenendo  da loro una dimostrazione di sottomissione, e non quella di provocare danni fisici; raramente le regole vengono infrante a tal punto da provocare gravi lesioni. Se questo avviene può dipendere da una “distorsione” del corso normale dell’azione aggro,  provocata da un intervento esterno, ad esempio della polizia, che può alterare il delicato equilibrio da cui dipende il carattere rituale, e dunque “simbolicamente ordinato”, dell’azione aggro. Solo allora la violenza simbolica rischia davvero di trasformarsi in violenza reale.
Questo approccio “morbido” dei tre autori fu accusato, dalla stampa e dai circoli accademici, di giustificare il comportamento violento dei tifosi, ma la loro posizione non ha mai subito cambiamenti: il comportamento dei tifosi è un’attività ritualizzata e se il football hooliganism si  è spostato da un rituale verso un tipo più pericoloso di  comportamento, la causa è delle inappropriate misure che sono state introdotte per combattere il problema e della distorsione operata dai media nei resoconti degli incidenti sui campi di calcio.
Nonostante le critiche subite va evidenziato come gli autori  della scuola di Oxford non volessero negare la potenziale pericolosità di certe attività rituali (la metafora può non essere compresa, le regole possono essere disattese, la struttura normativa può dimostrarsi inadeguata in certe circostanze), quanto cercare di  evidenziare il senso e il  valore che i rituali svolgono nel controllare e dirigere l’aggressività dei propri membri.
Molto utile è pure il contributo della “scuola di Leicester”, rappresentata soprattutto da Murphy, Dunning e Williams, secondo i quali per descrivere la violenza nel calcio bisogna prestare attenzione agli aspetti strutturali delle classi più basse, e alla relazione tra i membri  di queste e il gioco del calcio. Ne deriva che la condizione di  disagio e marginalità  sociale che vivono i giovani provenienti dalla classe operaia inglese, è la prima delle cause dell’atteggiamento aggressivo degli hooligans. Il loro comportamento è spiegabile col fatto che essi hanno adottato lo “stile maschile violento” tipico della cultura di  vita dello strato operaio da cui provengono, una cultura che prevede un elevato livello di aperta aggressività nei rapporti sociali. Ad esempio, la relativa libertà del controllo degli adulti sperimentata dai bambini e dagli adolescenti di questo strato operaio e il fatto che gran parte della loro socializzazione primaria avvenga per strada, in compagnia  soprattutto dei loro coetanei, significano che essi tendono ad interagire aggressivamente tra loro e a sviluppare gerarchie di  dominio basate in gran parte sull’età, la forza e la prestanza fisica .
Un altro approccio è quello di Dunning ed Elias secondo cui nella società moderna lo sport, un tempo divertimento fine a sé stesso, si è svuotato del suo aspetto ludico per essere utilizzato come uno dei più importanti mezzi per creare situazioni di eccitamento piacevole. In questo discorso, un elemento di notevole importanza è il contesto familiare: i genitori della classe operaia bassa esercitano una pressione minore sui propri  figli e tendono a fare  ricorso a punizioni fisiche. Inoltre i bambini sono abituati fin da piccoli a vedere genitori ed altri adulti, soprattutto maschi, comportarsi in modo  aggressivo e non di  rado violento, con il fine di ottenere prestigio e autorevolezza nel proprio ambiente. Di conseguenza è facile che questi bambini crescano sviluppando un atteggiamento positivo nei confronti dell’aggressività e individuando nella capacità di “farsi rispettare” una fonte importante di significato, di status e di piacevoli emozioni. Nelle comunità della classe operaia “dura”, perciò, la violenza si manifesta pubblicamente e implica qualità “espressive” o “affettive” pronunciate, cioè qualità strettamente associate con l’insorgere di sensazioni gradevoli .
Anche Weis, in Germania, si è soffermato sulla mancata integrazione nella società da parte degli ultras violenti, i quali, secondo l’autore tedesco, cercano di compensare con il teppismo calcistico un generale deficit d’influenza. Durante le partite di calcio non soltanto i giovani tifosi, ma anche certi spettatori adulti mostrano un comportamento sorprendentemente aggressivo  che si  differenzia dal loro comportamento quotidiano e mira a risolvere o almeno scaricare i problemi derivanti  dai rapporti sociali della vita di tutti i giorni .
Come accennato all’inizio del paragrafo, di violenza calcistica se ne sono occupati studiosi di tutta Europa; studi e ricerche portate avanti in Olanda e Belgio hanno individuato anche nella carriera scolastica un basilare elemento d’influenza della mente del giovane teppista. Come ci insegna la sociologia dell’educazione, infatti, è soprattutto la scuola a giocare un ruolo decisivo nelle discriminazioni tra giovani; sono i giovani degli strati sociali più bassi a trarre i minori benefici dal sistema scolastico e ad avere un minor accesso alle informazioni, all’addestramento e all’assistenza che tale istituzione fornisce. Questi giovani hanno spesso l’idea di avere poche opportunità di mutare il loro status e sviluppano, di conseguenza, così basse aspettative sociali che cercano di  compensare unendosi a gruppi di compagni che hanno sperimentato la loro stessa sensazione di social losers e con cui pensano di conquistarsi uno status sfidando la conformità sociale. L’atteggiamento di provocazione dà infatti loro l’opportunità di accrescere l’autostima e di sentirsi  in primo piano. I tifosi violenti cercano di compensare la loro esperienza di vulnerabilità sociale e le loro basse aspettative sociali con l’eccitazione e un’identificazione di prestigio che può essere conquistato mediante delle bravate o con comportamenti improntati alla durezza e al machismo.
Questa teoria può aiutarci a capire perché su  questi giovani la reazione di disapprovazione sociale, e l’attenzione che i media rivolgono loro funziona più come incoraggiamento che come dissuasione.
La gran mole della ricerca belga è quasi interamente rappresentata dalla “scuola di Lovanio”, e in particolare da Walgrave e van Limbergen, che tracciano l’identikit del tifoso violento: “ha meno di 25 anni, è maschio, di status sociale inferiore rispetto a quello dell’operaio specializzato, con una carriera scolastica insoddisfacente e una bassa qualificazione e/o scarse opportunità sul mercato del lavoro. Questi giovani pertanto ignorano la generale e severa condanna che circonda il loro comportamento violento perché non s’identificano nel sistema di valori dominante, e non vi si identificano perché nella loro  breve carriera nelle istituzioni – scuola e lavoro – hanno accumulato innanzitutto esperienze negative e perché il loro ambiente primario, in cui sono diffuse esperienze negative del tutto simili, non li incoraggia a sufficienza a identificarsi con tale sistema di valori” . 
Ricordiamo infine che il Belgio fu, suo malgrado, teatro di una grave tragedia come quella dell’Heysel (29 maggio 1985), quando prima della finale di Coppa dei Campioni disputata tra Juventus e Liverpool, la furia cieca degli hooligans inglesi  provocò la morte di 39 tifosi italiani.
Per quanto riguarda gli studi sulla cultura e il comportamento degli ultras nel nostro paese, gli approcci teorici e le metodologie di ricerca degli studiosi italiani devono molto  alla vasta letteratura prodotta in Inghilterra.
Dal Lago , ad  esempio, evidenzia le caratteristiche rituali dei tifosi  di calcio e gran parte del suo approccio si origina direttamente dal lavoro della scuola di Oxford e dal concetto di aggro. Le partite di calcio non sono solo un incontro tra due squadre ma è per i tifosi l’opportunità di un confronto simbolico, sulla base  della divisione “amico/nemico” che il gioco stesso sembra promuovere. Lo stadio è qualcosa di più di un semplice luogo fisico, è la cornice simbolica nel quale il rituale amico/nemico viene rappresentato. Dal Lago sottolinea che gran parte del comportamento sociale degli ultras è ritualizzato attraverso l’utilizzo di azioni simboliche; i canti, gli insulti, sostituirebbero cioè l’aggressione fisica, che può tuttavia accadere in determinate circostanze. Esistono due fattori, secondo l’autore, che causano gli scontri: il primo fattore è quello  storico o la rivalità che si è creata nel tempo tra due gruppi, il secondo dipenderebbe da fattori situazionali che riguardano lo sviluppo del gioco sul campo. L’assunto  dell’autore è che gli ultras celebrano la metafora della guerra e che quindi le loro azioni sono prevalentemente metaforiche; così come i guerrieri medioevali, i tifosi hanno un codice d’onore, usano canti e slogan per esprimere la loro aggressività, e la cultura dello “scontro” a cui aderiscono, riguarda essenzialmente il comportamento simbolico, ostentato. Dal Lago, comunque, ammette che quando gli incontri avvengono fuori e non dentro gli stadi, essi possono diventare scontri reali e non più simbolici. La violenza è “reale”, per sconfiggere i gruppi rivali gli ultras adottano tattiche da guerriglia urbana, ma la violenza è limitata al lancio di sassi e attacchi sporadici alla polizia o ai tifosi rivali. Generalmente ciascun gruppo è soddisfatto dalla fuga del nemico dal proprio territorio o da una breve resistenza contro la polizia.
Anche Salvini prende in considerazione il modello suggerito da Marsch e colleghi, e dopo aver considerato appropriato il concetto di aggro da questi introdotto, offre un’analisi strettamente psicologica del fenomeno.
Diversamente da Dal Lago il rituale più che metafora bellica è visto come un tentativo di affermare la propria dominanza sul gruppo rivale. Secondo Salvini il gruppo ultras è oggi una tra le poche agenzie di socializzazione in grado di dare una risposta soddisfacente a quei giovani per i quali l’identità personale è un’entità precaria, imperfetta, per via dell’età o della condizione sociale e culturale. L’aggressività serve principalmente a incanalare il bisogno di identità dei giovani tifosi nella direzione della conquista di una reputazione maschile, intesa come esibizione di qualità virili e compimento di un’identità veramente adulta. In questo senso la propensione al compimento di atti violenti da pare dei gruppi ultras deriva dall’esigenza dei loro membri tanto di elevare la propria autostima e conquistare l’approvazione dei compagni, quanto di  affermare il prestigio del proprio gruppo.
L’analisi di Roversi, invece, vede la violenza degli ultras essere un comportamento meno ritualizzato, e quindi più pericoloso, rispetto a quanto sostenuto dalla scuola di Oxford e successivamente da Dal Lago. Roversi, infatti, sostiene l’esistenza di precise finalità aggressive nella pratica degli scontri e individua nell’essenza del calcio uno dei motivi scatenanti: “Il gioco duro, “maschio”, è l’ingrediente essenziale del calcio e chi lo pratica ha il riconoscimento pubblico della celebrità. Ed è qui che vanno ritrovati i principali motivi delle manifestazioni violente di tifo. Esse non sono altro che l’arbitraria trasposizione, da parte molto spesso di piccole frange, ma talvolta anche di consistenti masse di tifosi,  di quella violenza fisica che è intrinseca alla competizione in atto sul terreno di gioco o solo in questo  ambito consentita, al piano della loro realtà personale. Così l’errata decisione arbitrale, la sconfitta immeritata, la passività della propria squadra di fronte all’avversario sono vissuta come offese o ferite, per così dire, narcisisticamente intollerabili e, in quanto tali, richiedenti una risposta “virile”. La violenza rituale e simbolica della partita si rovescia in tale modo nella violenza non rituale, ma vera e spesso esasperata, dei tifosi” .
Roversi riconosce, comunque, che la propensione per gli atti cruenti non è mai fine a se stessa, nel senso che è guidata da un preciso repertorio di norme, non scritte e tuttavia condivise dalla maggioranza dei gruppi ultrà, in base alle quali solo certi comportamenti sono ammissibili. Questo repertorio di norme è ricavato  dall’esperienza di precedenti contese tra tifosi ed è fissato in convenzioni stereotipiche ben precise,  tali da infondere stati d’animo comuni e stili di condotta convergenti .
Roversi tiene poi a sottolineare che le opinioni tese a “giustificare” gli ultras violenti, specie nell’ambito degli studi effettuati in Inghilterra e Belgio, corrono il rischio di sottovalutare certe “gesta” o per lo meno di non giudicarle secondo la loro reale portata: “La scoperta, sociologicamente non sorprendente, che i gruppi di tifosi violenti obbediscono a delle regole di condotta non può essere considerata una prova del loro carattere in fondo “inoffensivo”. Il fatto che una qualsiasi attività umana sia governata da regole, non significa, ipso facto, che essa sia per questo non violenta. Assumendo l’ipotesi  che rituali e violenza si escludono mutuamente come categorie di comportamento, ci sembra che i teorici della “violenza rituale” non riescano a vedere come anche taluni rituali all’apparenza inoffensivi possono diventare all’improvviso cruenti, ovvero come rituali aggressivi di tipo non violento, dei “giochi di guerra”, possono, in determinate circostanze, sfociare in forma di violenza seria e distruttiva. Non è raro, ad esempio, osservare come molti comportamenti da stadio siano vissuti come un gioco,  ma ciò non toglie che essi si possano poi concretizzare, in altri  contesti, in forme e livelli di violenza molto più seri e reali di  quanto è ammesso da Marsch e colleghi. In altre situazioni, soprattutto prima della partita o dopo, ossia in quelle frazioni temporali che per gli ultrà costituiscono le “vere occasioni” per recitare la propria parte, possono aver luogo azioni di gruppo difficili da interpretare solo come esibizione simbolica di aggressività, priva dell’intenzione di infliggere una dura lezione all’avversario” .
Roversi si riferisce anche al fatto che è proprio nei dintorni dello stadio che “l’adrenalina” dei gruppi ultras trova l’ambiente ideale per essere scaricata. Di solito la marcia di avvicinamento comincia in luoghi come le fermate degli autobus o le stazioni ferroviarie. Spesso poi il percorso  passa attraverso il centro e sfiora dunque proprio quelle zone che i sociologi urbani e gli psicologi ambientali identificano come zone che eccitano e al contempo provocano stress fisici ed emozionali, ossia zone “dove qualcosa succede”. Nell’immaginario dei tifosi questa marcia offre contemporaneamente un nascondiglio e un palcoscenico.
In conclusione possiamo dire che il movimento ultrà sembra attraversare una fase di esasperazione dei suoi valori, e i motivi vanno forse ricercati nel maggior individualismo della nostra società. La reazione di molti giovani, di fronte a barriere e a preclusioni  sempre più marcate, assume espressioni fin troppo cruente. All’esclusione dalla società del benessere il gruppo reagisce chiudendosi in sé, erigendo una sorta di muraglia ed entrando  in aperto conflitto con il “nemico”, identificato in tutto ciò che è esterno al gruppo stesso. Quello che si manifesta in settori giovanili sempre più vasti è dunque il rifiuto paranoico, spesso violento, di ogni forma di diversità dai propri  canoni.
Inoltre, fino a qualche anno fa, andare in curva e appartenere ad un gruppo era qualcosa di importante. Ora, invece, i grandi gruppi tendono a sfaldarsi con rapidi processi di frammentazione e nascono microgruppi che si muovono autonomamente e talvolta in modo non del tutto trasparente. Questi “nuovi ultras” non riconoscono la figura degli “anziani”, che con la loro esperienza assicuravano una precisa formazione del ragazzo ultrà, coinvolgendolo nelle attività e iniziative di gruppo che hanno una fondamentale funzione di crescita. I nuovi gruppi che si vengono a creare si  prestano spesso a giochi di tensione e atti di violenza fini a se stessi sotto il  facile abito del tifo. Probabilmente qualcosa è cambiato nell’atteggiamento mentale, forse la vecchia generazione era più critica, più attenta alle problematiche curvaiole e agli aspetti del sociale. Riguardo al rapporto tra “vecchia guardia” e nuove leve è intervenuto Contucci: “Nella stessa Curva Sud di Roma ci sono ragazzi che hanno recepito gli insegnamenti “tribali” degli anziani così come ce ne sono tanti, forse la maggioranza, che hanno perso i valori di un tempo. La colpa non è loro. E’ difficile credere ciecamente, come facevamo noi, in un qualcosa che non c’è più, distrutto dal mercimonio. Quasi tutti i vecchi ultras sono assai delusi dalle nuove leve. Il motivo principale di dissenso, anche se questo non vale per la Curva Sud di Roma, è costituito dal fatto che alcuni gruppi hanno tradito i valori originari, tra cui il principale era che il tifo si fa per passione e non per denaro. Il calcio moderno ha generato, in alcune curve, gli ultras moderni.
Sicuramente il processo di  frammentazione del tifo è una delle cause dell’esplosione di violenza, ovvero il venire meno di quella unità d’intenti e di cultura che ha creato una crisi all’interno del movimento stesso e provocato l’aumento del numero degli incidenti gratuiti e fuori dalle regole.            

 

 

    1. Il razzismo

 

 

La violenza ultrà può manifestarsi in diversi modi: dalla monetina lanciata al guardalinee al sasso indirizzato al tifoso avversario, dall’aggressione ai giornalisti a quella verso i poliziotti, così come i numerosi battibecchi con i giocatori o gli allenatori. Stiamo considerando la violenza che ha per oggetto un’altra persona, un “nemico” contro cui scagliarsi, lasciando  da parte, perciò, i danni che spesso vengono arrecati ai servizi igienici degli stadi, agli autogrill, ai cassonetti bruciati, ecc.
Una categoria di persone che subisce in modo spropositato l’ira di frange ultrà, esigue o numerose che siano, sono i giocatori di colore.
La xenofobia dilagante negli stadi rappresenta un vero e proprio spaccato  della società, un fenomeno in continua ascesa messo in atto dai  gruppetti  più oltranzisti presenti nelle curve. Gruppi che non si limitano a manifestare le loro ideologie politiche mediante vessilli inequivocabili, ma che si  lasciano andare a comportamenti deprecabili che non fanno certo bene al mondo del calcio.
Il  famigerato movimento hooligan ha contribuito moltissimo a diffondere negli stadi le discriminazioni razziali, dando luogo, negli anni, a un rapporto sempre più stretto tra xenofobia e teppismo calcistico. Il fenomeno è abbastanza recente, basta infatti risalire agli inizi degli anni Ottanta, periodo in  cui si creano tutte le condizioni per  un tentativo di penetrazione dell’estrema destra nelle tifoserie: in un movimento hooligan già percorso da una serie di disvalori quali una xenofobia amplificata dalla crisi economica e dai crescenti flussi d’immigrazione, e il gusto per l’atto violento, il revival skinhead apre nuovi e insperati spazi d’intervento  alle organizzazioni neonaziste. Questi disvalori portarono le tifoserie, spesso non solo ragazzi ma anche adulti, padri ed intere famiglie, ad intonare il “verso della scimmia” ogni volta che un giocatore di colore della squadra avversaria entrava in possesso di palla durante il gioco.
Quanto detto ci fa capire come tra le “strategie” messe in atto dai gruppi ultrà xenofobi un ruolo fondamentale lo abbia rappresentato il clima esasperato e discriminatorio che aleggia in certe società. Chi vuole fare tale propaganda, in altre parole, sa bene che molte persone nutrono ostilità verso altri popoli e il  clima “battagliero” dello stadio e l’eccitabilità della folla rendono il tutto ancor più realizzabile.
Quando poi la nazione “maestra”, da ogni unto di vista,  è l’’Inghilterra, le conseguenze appaiono evidenti: molte tifoserie d’Europa, spinte da un forte desiderio di emulazione nei confronti degli hooligans, hanno fatto propri anche questi sentimenti  razzisti.
Per quanto riguarda l’area belga e olandese, Marchi parla di “paranoie xenofobe amplificate dai flussi d’immigrazione” .
I giovani tifosi volenti condividono un buon numero di pregiudizi  estremistici e antidemocratici, ma molti di questi pregiudizi e comportamenti (indossare fregi di estrema destra, fare il saluto  nazista, ecc.) non corrispondono ad una reale coscienza politica. Sono piuttosto stereotipi utilizzati per provocare un effetto scioccante. Probabilmente i contatti con i gruppi estremistici sono cercati perché hanno anch’essi una tradizione di scontri.
Un paese  dove invece i sentimenti xenofobi poggiano su basi solide è la Germania. Molti ultras sono membri di organizzazioni neonaziste e questo legame non ha mai avuto  bisogno di essere fomentato o propagandato.
Senza dubbio l’evento  storico della caduta del Muro di Berlino ha sancito un prepotente ritorno sulle scene di questi gruppi estremistici, eccitati dall’idea di una nuova “Grande Germania”: i neonazisti capiscono che da tempo, nei gruppi di tifosi, vi sono per loro buone possibilità  di influenzare i giovani alle loro idee. Promettono che nella loro organizzazione ci si comporta in maniera particolarmente cameratesca, fanno leva sulla forza, sulla coscienza tedesca, sull’aspetto militante. Nelle curve comincia a propagarsi lo  stile skinhead, prima come imitazione degli skinheads inglesi, poi arrivando  a sviluppare un senso  di fierezza per il proprio essere e sentirsi “skinheads tedeschi”. Diventa un processo di fascinazione basato sulla comune adesione a una serie di disvalori quali il gusto per la violenza, l’esaltazione dei comportamenti virili e “guerrieri”, il forte senso della territorialità e dell’appartenenza, le tendenze xenofobe. E’ la nazionale tedesca a suscitare il massimo interesse degli ultras, in particolare di  quelle fasce egemonizzate dai neonazisti; le trasferte all’estero divengono teatro di scontri e violenze, mirate soprattutto a strappare agli inglesi la supremazia continentale del teppismo .
La realtà tedesca sembra quindi essere la più preoccupante, ma anche in Spagna e nel nostro paese il  problema delle curve razziste sta assumendo dimensioni assolutamente incontrollabili.
Per quanto riguarda la penisola iberica, un episodio recente ha scosso l’opinione pubblica di tutta Europa: il 17  novembre 2004, in occasione della partita amichevole tra Spagna ed Inghilterra giocata a Madrid, il pubblico dello stadio Bernabeu si è reso protagonista di cori ed insulti razzisti nei confronti  dei giocatori di colore della nazionale inglese. Un evento del tutto inaspettato, visto anche il carattere amichevole della gara, che ha scatenato le proteste delle istituzioni inglesi e ha trovato la ferma condanna della FIFA: “Siamo molto determinati nel voler eliminare il razzismo, perché nelle ultime settimane e negli ultimi mesi il calcio è stato vittima una volta di più di manifestazioni razziste. Ma siamo consapevoli che abbiamo bisogno dell’aiuto dell’intera società”, queste le dichiarazioni del presidente Blatter, che ha confessato il suo shock per quanto avvenuto a Madrid ed ha ammesso che l'Inghilterra avrebbe fatto bene ad abbandonare il campo del Bernabeu in risposta agli “ululati scimmioneschi” indirizzati dal pubblico spagnolo ai nazionali inglesi di colore. Finora è successo solo in Olanda che una partita venisse sospesa per razzismo, il 17 ottobre 2004, quando l'arbitro, bersaglio degli insulti antisemiti, ha mandato a casa tutti, giocatori e tifosi dell'Ajax e del Psv .
In Italia, il fenomeno immigratorio e le tensioni etniche che la coinvolgono negli anni Novanta, portano i gruppi ultras a rendersi protagonisti di episodi di intolleranza dovuti alla presenza di “altri” nel proprio territorio, un’invasione a cui fare fronte, che finisce per assumere i contorni xenofobi.
In linea di massima il popolo italiano ha sempre dimostrato un’attitudine democratica e tollerante verso i cittadini degli altri stati, attraverso gesti di solidarietà riscontrabili in ogni frangente della vita quotidiana. Ma la grande varietà di pensieri ed opinioni esistenti non può evitare di includere sentimenti di avversione ed ostilità verso  tutto ciò che è “estraneo”, in particolar  modo di fronte ad episodi di criminalità o di malavita. La mancanza di  obiettività e di flessibilità di certi individui, incapaci di distinguere lo straniero onesto da quello delinquente, ha così dato origine a un’intolleranza dilagante in ogni ambito sociale.
Essendo lo stadio uno spaccato della società, molti tifosi trasferiscono sugli spalti le loro insoddisfazioni e insofferenze verso gli stranieri, sia che essi vestano una maglia avversaria sia che facciano parte del pubblico. In molti casi questi comportamenti non hanno niente a che vedere con questioni razziali: “Io credo che i calciatori siano diventati un punto paranoico su  cui i  tifosi proiettano un malessere sociale, che sta raggiungendo una soglia pericolosa. I tifosi sono gente che lavora. Ogni giorno vedono extracomunitari, prevalentemente africani, che chiedono strattonando, che scippano. E’ l’invasione dei nostri spazi vitali, è l’inquietudine con cui di sera giriamo per le strade, è la collera accumulata per le offese quotidiane che si esprime negli stadi. Non c’entra il colore della pelle né la nazionalità degli invasori, ma i loro comportamenti intollerabili. Ciò che accade negli stadi è solo un primo segnale che deve far riflettere” .
Pertanto ciò che caratterizza la diffusione a macchia d’olio di  questi sentimenti ostili è la crescente insoddisfazione della società in generale e una comune percezione “paranoica” verso il “diverso”. Il conflitto etnico assume, così, il ruolo di “comune valvola di sfogo” per certe frange di ultrà, rendendo tutt’altro che semplice la prospettiva di un miglioramento della situazione: “La xenofobia istintiva che da sempre accompagna le fasi di ansia sociale si trasforma in una sorta di parossismo paranoico in cui le figure della diversità assumono il ruolo di unico specchio della propria identità, e in cui il conflitto etnico non solo mantiene e rafforza l’identità del gruppo, ma lo crea. Il conflitto etnico svolge una funzione di identificazione, di reciproco riconoscimento tra attori sociali viventi nello stesso ambiente, ma privi del senso di una comune appartenenza [...] L’identificazione del nemico diviene il valore fondante, una sorta di corazza contro il senso di alienazione e di sradicamento. Questo perimetro culturale in cui interagisce il gruppo finisce per assumere la xenofobia e lo schema amico/nemico come principale vincolo comunitario e distintivo. [...] La commistione tra sottocultura ultrà e tematiche xenofobe assume in questo scenario  un ruolo cruciale: al richiamo  simbolico dei  primi anni, in cui l’utilizzo di icone e di slogan tratti dalla politica esprimeva l’adesione a valori come il coraggio, la combattività, la trasgressività e la “compattezza” si sostituisce in molte tifoserie un tipo di rapporto più complesso, in cui interagiscono una serie di elementi facilmente individuabili, tra cui: a) la caduta di una serie di valori “alti” quali le ideologie, i sensi di appartenenza radicati nella memoria storica, la fiducia nel proprio modello di sviluppo, i  sentimenti di solidarietà veicolati dalle due grandi culture, comunista e cattolica, della nostra tradizione popolare; ma anche i  sensi di gruppo e di identità elaborati nella prima fase del movimento ultrà e travolti dalla progressiva “etnicizzazione” dei sensi d’appartenenza; b) gli influssi di un sistema massmediale che pratica una semplificazione sistematica dei fenomeni giovanili e più genericamente sociali; c) il comparire e l’affermarsi, anche in Italia, di quel modello bonehead (lo skinhead razzista) che incarna, anche nello stadio, gli atteggiamenti xenofobi sempre più presenti in vasti strati giovanili: croci celtiche, bandiere naziste, saluti romani, slogan razzisti, insulti  a giocatori di colore, cori antisemiti intonati da migliaia di tifosi, striscioni che inneggiano apertamente all’odio  razziale” .
Un aggravante di quanto sta accadendo negli stadi è rappresentata dallo “spirito” delle nuove generazioni di ultrà, improntate sul forte desiderio di imporre la propria immagine e la propria “mascolinità”. Se prendiamo in considerazione, all’interno di queste nuove leve, che molti ragazzini, per lo più  diciottenni, sono affascinati dall’aspetto violento e “virile” dell’estremismo  politico, il quadro si complica ulteriormente: lo spostamento a destra di alcune frange della tifoseria ultras è in sintonia e ha prese sulla confusa e frammentaria ideologia ultras delle nuove leve di giovani, i quali appaiono sensibili all’immaginario di forte virilità e aggressività proposta da tali gruppi. In questo quadro appare sotto una luce diversa anche il processo di segmentazione e divisione delle curve. Esso, infatti, è responsabile, di  una ridefinizione del rapporto amico/nemico; criteri di  affinità politica, che attraversano longitudinalmente molte tifoserie ultras un tempo rivali, segnano una fase di  rottura senza precedenti  nelle logiche di azione dei gruppi ultras. Si registrano scontri contro la polizia a cui partecipano uniti ultras di gruppi nemici, ma i  cui protagonisti hanno in comune l’appartenenza a gruppi xenofobi e razzisti di tipo extraparlamentare: è il caos all’interno delle curve, alle prese con forti  problemi di identità e di coesione interna.
Secondo Marchi, comunque, “la germinazione dell’estrema destra nelle curve sembra più frutto di un’adesione sempre maggiore ai temi più deteriori di quello stile sessista, violento  e xenofobo che spesso  contraddistingue i giovani ultrà, che agli effettivi successi della propaganda neofascista, e nella maggioranza dei casi non porta a un conseguente impegno politico” .
Tra le manifestazioni razziste a cui assistiamo praticamente ogni domenica c’è da menzionare l’accanimento contro i giocatori di colore, vittime del “verso delle scimmia” e di altri ignobili insulti provenienti da curve storicamente “nere”, come, ad esempio, quelle del Verona e della Lazio.
Proprio nella città veneta, di recente, in occasione della gara della 17/a giornata di ritorno della Serie B 2004-2005 tra Verona e Perugia, la curva scaligera ha ricoperto d’insulti di stampo razzista un giocatore della squadra avversaria, il senegalese Coly. Secondo quanto riportato dal quarto uomo e dal collaboratore dell'ufficio indagini, “per tutta la gara” Coly è stato bersagliato da cori “di inequivoco significato di discriminazione razziale ogni volta che toccava il pallone”. Il Giudice sportivo Laudi, vista anche la tolleranza zero intrapresa dalla Federcalcio, ha deciso per un turno di campionato a porte chiuse per il Verona, tenendo conto del fatto che la società veneta era già stata multata altre quattro volte nello stesso campionato per comportamenti analoghi dei suoi sostenitori e che “non c'è stata alcuna reazione di dissociazione rispetto a tali forme di razzismo da parte degli altri tifosi del Verona”. Si tratta del primo caso in Italia di chiusura di uno stadio per insulti razzisti. Un provvedimento del genere era stato già preso dalla UEFA, ma mai in Italia.
Una sanzione simile l’organo disciplinare della UEFA lo ha inflitto alla Lazio: il club romano dovrà disputare la prossima gara di una competizione europea in uno stadio a porte chiuse a seguito del comportamento razzista tenuto dai propri sostenitori in occasione della partita del 25 novembre 2004 contro l’FK Partizan.
Di fronte ad episodi del genere il senso d’impotenza assume caratteristiche drammatiche, perché non si può più parlare di gruppetti minoritari di teppisti, ma di intere curve che intonano cori razzisti. La realtà è che, oggi, le curve degli stadi rappresentano il più vasto ed efficace serbatoio d’intolleranza razzista e di quello spontaneismo razzista che, a partire dal modello bonhead, sembra allargarsi a macchia d’olio nei settori giovanili culturalmente ed economicamente meno garantiti, e che tende a congiungersi facilmente con la destra più violenta.
Oltre ad adottare una linea dura contro tutti i club i cui tifosi si rendono protagonisti di episodi di matrice xenofoba, l’UEFA sta cercando di combattere il razzismo nel calcio dando pieno supporto al piano d’azione dell’organizzazione Football against Racism in Europe (FARE), nata nel febbraio del 1999 con la collaborazione delle federazioni calcistiche di 13 paesi europei. 
L’obiettivo di FARE è quello di combattere, grazie al gioco del calcio, ogni forma di discriminazione razziale nel mondo del calcio stesso - negli stadi, sul campo di gioco, negli spogliatoi, durante gli allenamenti, negli uffici e nelle scuole - perpetrata ad opera di tifosi, giocatori, manager, allenatori, dirigenti o personale didattico.
Proprio i giocatori, negli ultimi tempi, si stanno rendendo protagonisti di iniziative antirazziste, cercando di sensibilizzare i tifosi di tutta Europa grazie alla propria notorietà ed influenza. Esempio più recente ed importante è quello della campagna “Stand Up, Speak Up” di Nike, che gode del sostegno dei calciatori sponsorizzati dalla casa americana, tra cui Thierry Henry, Rio Ferdinand, Ronaldhino, Ruud Van Nistelrooy, Claude Makalele, Philip Mexes, Carlos Puyol, Roberto Carlos, Christoph Metzelder, Otto Addo, Adriano e Fabio Cannavaro. La campagna Stand Up, Speak Up di Nike intende dare ai tifosi del calcio la possibilità di dimostrare la loro opposizione al razzismo.
Il simbolo della campagna è il bracciale bianco e nero, portato per la prima volta in pubblico da Thierry Henry in occasione della consegna del Premio Runners Up al gala World Player of the Year a Zurigo nel dicembre 2004. “Porto questo braccialetto come un simbolo del mio sostegno a ogni iniziativa che combatta comportamenti razzisti da parte dei tifosi - ha spiegato Henry - i giocatori non possono far molto quando sono sul terreno di gioco, ma questo vuol essere un segno di quanto sentiamo. E forse possiamo contribuire a far sì che il pubblico stesso faccia qualcosa. Forse non possiamo cambiare la mentalità di queste persone, ma possiamo vincere almeno per un´ora e mezza ogni settimana. Il bracciale è sul razzismo. Il razzismo è uno dei maggiori problemi del calcio in tutta Europa. Anche se la gente pensa che questa piaga è scomparsa, ciò è lungi dall’essere vero. I giocatori in campo hanno bisogno del sostegno di tutti i fan per aiutare a combattere i razzisti e far loro capire che le loro azioni non sono accettabili”.
Il bracciale bianco e nero è stato creato per essere un simbolo di solidarietà tra i calciatori e i tifosi uniti nella determinazione di intraprendere un’azione positiva contro il razzismo nel mondo del calcio. La Nike ha inoltre lanciato una campagna televisiva d’accompagnamento di alto profilo.

 

 

Dall’analisi del problema del razzismo nel calcio emerge il solito “filo conduttore” di certa violenza ultrà, cioè il  bisogno di mettersi in  mostra, di compiere gesti che vanno oltre la matrice che li ha generati: per i teppisti il gioco del pallone rappresenta un’opportunità. D’altra parte, il calcio non è più un gioco: è un’attività sociale che tende ad invadere e sopraffare molte altre attività sociali; che tende a occupare gli spazi lasciati liberi  da altre imprese e da altre istituzioni (la politica, ad esempio); che tende a canalizzare quell’aggressività che non trova né mediazioni né sbocco altrove.
Per quanto riguarda la realtà della Curva Sud, le cose stanno peggiorando con il passare degli anni. Quando il cuore del tifo  giallorosso era rappresentato dal CUCS, la curva della Roma non destava particolari preoccupazioni in riferimento ad episodi di matrice xenofoba. Negli ultimi dieci anni, però, la gloriosa Curva Sud è stata gradualmente popolata da gruppi di estrema destra, per un “cambio di guardia” che è stato insieme generazionale e politico. Con questo non stiamo assolutamente dicendo che la curva della Roma è diventata una curva razzista; stiamo semplicemente certificando la crescita, all’interno della curva, di gruppi che si  dimostrano permeabili ai messaggi e ai valori della destra politica.

 

 

    1. Le operazioni di prevenzione e le possibilità d’intervento

 

Di fronte agli innumerevoli episodi di violenza calcistica, e alla matrice che accompagna alcuni di questi episodi, non è facile individuare un metodo efficace che possa fungere da deterrente. Le circostanze che possono dar vita a scontri tra tifosi, come abbiamo visto, sono molteplici: rivalità campanilistiche, ideologie politiche inconciliabili, sentimenti di matrice xenofoba, un risultato sul campo sfavorevole, ecc. Ancor più numerose sono le cause che spingono  ogni singolo ultrà a compiere atti di vandalismo, relative cioè alla sua vita personale, alle sue relazioni in famiglia, con gli amici, con gli altri membri della curva, oppure a sentimenti quali le delusioni nei confronti della vita, della scuola, del lavoro e così via.
Prima che gli ultras facessero la loro comparsa negli stadi, andare a vedere una partita di calcio allo stadio non comportava nessun rischio o pericolo per l’ordine pubblico. Era assolutamente inutile predisporre delle forze di polizia in vista di un match, data la genuinità e spontaneità di questo gioco. Poi, verso gli anni Sessanta, le cosiddette “scazzottate” tra tifosi cominciarono ad aumentare d’intensità, assumendo proporzioni allarmanti soprattutto in un paese “precursore” come l’Inghilterra.
Il problema della violenza iniziò così il suo corso, impegnando i vari governi in operazioni di controllo e prevenzione, con risultati più o meno soddisfacenti. Il  modello hooligan fu però recepito dalle gioventù turbolente di  diversi stati europei ed è in questo contesto che il movimento ultrà iniziò a stravolgere completamente il mondo del calcio.
Le forze dell’ordine furono costrette ad aumentare gli effettivi e all’interno di ogni stadio vennero presi i  primi provvedimenti volti ad impedire il contatto tra tifosi. E’ soprattutto negli anni  Ottanta che le opposte tifoserie cominciarono ad essere tenute opportunamente lontane a causa di un peggioramento del livello degli scontri.
Con il passare degli anni, il ruolo svolto dalle forze dell’ordine ha dovuto moltiplicarsi, attraverso le scorte dei tifosi nel tragitto stazione-stadio, le scorte ai pullman, le perquisizioni sempre più accurate ai cancelli dello stadio, l’utilizzo  di elicotteri nelle gare più a rischio, di telecamere per poter meglio identificare i responsabili di atti di violenza e predisponendo posti di blocco nei punti “nevralgici” della città.
Come conseguenza di queste operazioni preventive da parte delle forze dell’ordine, si è trasformata la violenza degli ultras, come ci spiega Bruno: “Lo scontro fisico tra i gruppi è pressoché irrealizzabile; i tifosi in trasferta vengono presi in consegna da scorte di agenti, sia nelle stazioni  ferroviarie che ai caselli autostradali, e subito  accompagnati dentro gli stadi, dove vengono posti in settori isolati ermeticamente dal pubblico di casa . A fare le spese dell’aggressività delle nuove leve sono soprattutto quei tifosi isolati che affrontano i viaggi per conto  loro e che spesso si ritrovano automobili e pullman danneggiati. L’aumento degli atti di vandalismo contro edifici e veicoli  è vertiginoso e alle “vecchi scazzottate” si sostituiscono piuttosto le sassaiole e gli insulti a distanza” .
Gli ultras stanno rispondendo con nuove e inedite tattiche e strategie all’azione repressiva delle autorità e delle forze dell’ordine: alla “blindatura degli stadi” reagiscono portando gli scontri nel territorio circostante, e ai controlli della polizia organizzandosi in microgruppi, vestendosi  da “bravi ragazzi”, colpendo singoli avversari isolati, abbandonando i “treni speciali” per altri  mezzi di trasporto.
Il trasferimento della violenza verso l’esterno dello stadio sembra comunque aver accomunato gli ultras di diversi paesi; molti hooligans olandesi, ad esempio, grazie alle distanze ridotte tra le città, iniziano a spostarsi con mezzi propri, altri partono di primissimo mattino per eludere i controlli, altri ancora si dividono in distinti gruppi .
La questione dei controlli allo stadio è estendibile anche a molti altri elementi, come ad esempio la rimozione degli striscioni estremamente provocatori come nel caso, lo ricordiamo ancora una volta, di quello a favore di Arkan esposto dagli ultras laziali. Come dura risposta a quello striscione, i ministri Bianco e Melandri decisero sulla possibilità di interrompere le partite per far rimuovere scritte razziste dalle gradinate, decisione che imposero alle Istituzioni calcistiche: “L’idea di censurare gli striscioni violenti raccoglie consensi unanimi. Il dilagare di svastiche, croci celtiche e simboli razzisti imponeva un’accurata “pulizia” degli stadi italiani. E’ sull’attuazione dei provvedimenti, e sulla modalità delle sospensioni, che nascono invece grandi perplessità, condivise  da Nizzola e dai vertici della Federcalcio [...] Sarà il responsabile della sicurezza (di solito il vicequestore) a impartire l’ordine attraverso il quarto uomo, che a sua volta informerà l’arbitro. Il direttore di gara diventa così una sorta di notaio, che formalizza e rende esecutiva una decisione presa per ragioni di ordine pubblico. Toccherà sempre al  vicequestore stabilire in che momento riprendere la partita [...] Se lo stop al gioco superasse certi limiti temporali (fissati a 45’), atleti, allenatori e dirigenti accompagnatori dovranno rientrare negli spogliatoi in attesa di nuove indicazioni. Lo spauracchio delle sospensioni resta il principale nodo dialettico. La Federcalcio teme che un uso  indiscriminato del provvedimento possa incoraggiare comportamenti devianti. Le frange del tifo ultrà cercano vetrina, vogliono diffondere via etere i loro messaggi, cercano le telecamere per riaffermare forza e compattezza. La censura degli striscioni può incoraggiare atteggiamenti di sfida aperta ai servizi di sicurezza [...] Il pericolo è quello di innescare nuove tensioni, di incoraggiare risse, tafferugli e comportamenti violenti nel tentativo di  rimuovere gli striscioni della vergogna. In più c’è l’aspetto squisitamente tecnico, che rischia di essere alterato. Un bello striscione razzista, sventolato ostinatamente sullo 0-3 casalingo, può far sospendere la partita e cancellare il risultato del campo. Per questa serie di motivi la Federcalcio si auspica che l’interruzione delle partite sia “l’estrema ratio”, un provvedimento finale e ultimativo. La Federcalcio è convinta che sia saggio lavorare sulla prevenzione. E’ fuori dagli stadi, agli ingressi, negli stanzini più o meno segreti, dove gli ultrà stipano il  loro armamentario, che si può vincere la partita” .
Dall’episodio dello striscione pro-Arkan, nessuna partita del campionato italiano di calcio è stata sospesa per l’esposizione da parte dei tifosi di scritte offensive o razziste, non tanto per l’assenza di quest’ultime sulle gradinate, quanto perché, pensiamo noi, non c’è stata mai la volontà e il coraggio di attuare il provvedimento in questione, cosa già prevedibile all’indomani del caso-Arkan : “L’eventuale intervento delle forze dell’ordine per rimuovere gli striscioni dagli spalti non è affatto semplice. In uno stadio è impensabile che, per respingere l’eventuale reazione dei tifosi estremisti, si possano gettare lacrimogeni e operare cariche che porrebbero in serio pericolo l’incolumità di spettatori che nulla hanno a che vedere con alcune frange della tifoseria [...] E’ indispensabile una seria collaborazione tra le società sportive, i club dei tifosi e le forze di polizia. E, soprattutto, porre in essere specifiche attività di ordine pubblico all’interno degli stadi” .  Non si è intervenuti, ad esempio, in occasione della partita di Serie A tra Lazio e Livorno, giocata allo stadio Olimpico il 10 aprile 2005, quando i tifosi delle due squadre hanno ostentato la loro ostilità politica (alcune frange sono notoriamente da un lato di estrema destra dall'altro di estrema sinistra) con striscioni, slogan e canti. I circa 200 tifosi livornesi hanno reagito ai cori e striscioni laziali inneggianti al fascismo con una bandiera con falce e martello e cantando “Bandiera rossa”. Il tutto si è concluso con un “Roma è fascista”, grande striscione apparso a coprire la curva Nord, insieme con croci celtiche e bandiere con svastica . E non sono mancati nemmeno scontri, dentro e fuori lo stadio, prima e dopo la partita, tra le due tifoserie, che cercavano di entrare in contatto, e le forze dell’ordine che effettuavano cariche per disperdere i tifosi e riportare la calma. La partita non è stata affatto interrotta, ma il giorno dopo sono arrivate, puntuali, le minacce di nuovi provvedimenti repressivi: “Debbo ribadire che se le circostanze mi costringessero a scegliere tra l'incolumità degli operatori di polizia e la presenza del pubblico alle manifestazioni calcistiche, non esiterei un istante a far chiudere gli stadi più a rischio”, ha detto il ministro dell’Interno Giovanni Pisanu. Una dichiarazione che suona come un ultimatum: un'altra domenica come quella di ieri, in cui negli stadi italiani ha prevalso la “violenza più becera” sullo spirito sportivo, e gli impianti più a rischio saranno chiusi. Ma l'affondo di Pisanu va oltre, e chiama in causa non solo i tifosi ma tutto il mondo del calcio. Il ministro si rivolge esplicitamente agli organi di giustizia sportiva, sollecitando il loro “contributo”, ovvero chiedendo squalifiche: “Mentre l'Italia offre al mondo dimostrazioni di civiltà , negli stadi torna a scatenarsi la violenza più becera. In occasione della partita di calcio Lazio-Livorno, si sono viste all'interno e all'esterno degli stadi barbarie di ogni genere che hanno duramente impegnato le forze dell'ordine. Scontri, denunce, arresti e ferimenti: un bilancio intollerabile. Ancora una volta risulta evidente che per arginare la violenza non bastano le sole misure di ordine e sicurezza pubblica, ma occorre anche il contributo rigoroso e determinato delle stesse società e, soprattutto, degli organi della giustizia sportiva”.
Da parte sua il ministro dell'Interno proprio per far fronte alla violenza ed evitare la drastica chiusura degli stadi al pubblico ha introdotto un decreto che dispone una serie di misure antiviolenza tra cui la “flagranza differita” che dà la possibilità di arrestare i responsabili degli scontri all'interno e all'esterno degli stadi, individuati grazie alle telecamere, anche nei giorni successivi a quelli in cui si sono verificati.                        Proprio il giorno dopo l’avvertimento del ministro dell’Interno Pisanu è andato in scena, a Milano, durante la partita di Champions League tra Inter e Milan, un fitto lancio in campo di fumogeni, uno dei quali ha colpito il portiere rossonero Dida, costretto ad abbandonare il campo. Il tutto ha avuto inizio al 26’, quando l’arbitro Merk ha annullato un gol di Cambiasso, scatenando l’ingiustificata reazione della curva interista. Dopo la lunga sospensione del gioco ordinata dall’arbitro tedesco, è svanito il tentativo di riprendere la partita, a causa del rinnovato lancio di fumogeni e bottigliette di plastica. E la gara non poteva che finire lì; una figuraccia in tutta Europa che potrebbe costare al nostro paese l’assegnazione dei campionati europei del 2012. All'indomani dello spettacolo indegno sugli spalti dello stadio milanese di San Siro, è intervenuto sul tema della violenza nel calcio il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che ha esortato il ministro dell'Interno a proseguire sulla linea di fermezza da tempo adottata, dedicando particolare impegno alle attività di prevenzione, senza però escludere, se necessario, il ricorso alle misure più drastiche. Nel corso degli anni, però, il mero inasprimento delle norme e delle sanzioni, non ha portato a nessun risultato reale: negli ultimi anni, la misura repressiva più adottata nei confronti degli ultrà è stata quella della diffida, secondo la quale i responsabili di episodi violenti non possono assistere a eventi sportivi di qualsiasi genere per mesi, se non per anni, proporzionalmente alla gravità del gesto commesso. La proliferazione delle diffide, però, sembra aver riscosso miseri successi, ed è appurato che la maggior parte dei tifosi colpiti da questo provvedimento si reca regolarmente allo stadio, anche se con mille precauzioni e “travestimenti” . Anche le società calcistiche hanno più volte preso provvedimenti, specie a svantaggio delle tifoserie in trasferta, con la speranza di diminuire l’eventualità di incidenti: “Un altro elemento di base per limitare le esplosioni di violenza ultrà è la disponibilità di biglietti per le partite in trasferta: per l’ultrà, che si sente “parte attiva” del gioco, la partita è un diritto inalienabile, un bisogno primario da estinguere ad ogni costo. La politica miope del “tutto esaurito” di quelle società che, gonfie di pubblico, limitano fortemente i posti designati ai tifosi ospiti, stimolano un meccanismo di rappresaglie che porta a una riduzione generalizzata dell’offerta di posti al “nemico”. Questa politica, lontana dal limitare il tasso di violenza attraverso una diminuzione degli ultras in trasferta, ottiene soltanto un aumento di giovani in viaggio senza biglietto, ma oltremodo decisi a far valere quel considerano un proprio inalienabile diritto: partecipare alla partita” . Anche Bruno è d’accordo sul fatto che, spesso, limitare i posti a disposizione dei tifosi ospiti non sia una giusta soluzione per arginare il teppismo ultrà: “Ridurre la presenza degli ultrà al seguito delle squadre in trasferta in parecchi casi finisce per creare ugualmente dei problemi di difficile soluzione. Accade spesso  infatti che le tifoserie si presentino in numero ben maggiore di quello dei biglietti loro riservati, costringendo la forza pubblica ad una vigilanza serrata, dato che impedire l’accesso allo stadio a migliaia di persone può dare opportunità agli esagitati di sfogare la loro rabbia lontano dagli impianti sportivi, nei centri cittadini” . Le misure adottate per debellare la violenza ultras nei dintorni degli stadi si basano, come abbiamo visto, su controlli capillari effettuati da un sempre maggior numero di forze dell’ordine e di responsabili delle società calcistiche. Se per un verso è diminuito il tasso di scontri sugli spalti, grazie anche a sofisticati metodi di identificazione dei teppisti, dall’altro riscontriamo un aumento degli incidenti in zone meno controllate. E’ stata assicurata una maggiore tranquillità alle persone che riempiono gli spalti, ma il problema del teppismo necessita di un’analisi e di un intervento più profondi: “Siamo di fronte a un problema che non riguarda semplicemente la gestione dell’ordine pubblico, bensì a un problema giovanile con più vaste implicazioni sociali, psicologiche e culturali, rispetto al quale è illusorio pensare che il ricorso alle sole misure di polizia possa fornire una risposta risolutiva” .
In Italia, il contributo nell’ambito delle ricerche sociali è ben rappresentato dal lavoro svolto dall’Eurispes, che ha il merito  di aver intrapreso un’analisi sociologica del vasto panorama ultras, tale da darci un quadro esauriente delle tappe seguite dai giovani delle curve attraverso gli ultimi decenni. Uno dei capisaldi  di questi studi è il voler dimostrare come gran parte del teppismo calcistico sia figlio dei meccanismi e delle degenerazioni della nostra società, evitando di accostare il connubio ultras – violenza al solo ambito calcistico e proponendo criteri di analisi molto più vasti.
Secondo lo studio dell'Eurispes, in Italia sta emergendo un fenomeno del tutto nuovo: il tifoso non subisce più il fascino delle organizzazioni di destra e dei naziskin ed è andato emancipandosi rispetto al modello oltre Manica degli hooligans. Sullo sfondo di questi gruppi di ultras c'è invece una situazione di malessere generale, di ansia, di incertezza e soprattutto la condizione subalterna che i giovani vivono nella società. L'atteggiamento degli ultras è semplice, quasi manicheo: esistiamo “noi” e gli “altri”, gli “amici” e i “nemici”. Di qui il bisogno di “marcare” il proprio territorio, di cercare disperatamente un modo per sentirsi “socialmente visibili”, che il più delle volte sfocia nella violenza negli stadi. La “tribù” degli ultras italiani quindi, essendo storicamente interclassista, trova il proprio collante in un approccio di tipo “militante”, “aggressivo” e “combattente”. Il movimento degli ultras in questo modo riesce a “catturare” l'attenzione dei mass-media come nessun altra manifestazione turbolenta giovanile estranea alla sfera politica riesce a fare.
In effetti una delle fondamentali cause del teppismo calcistico risiede nel rifiuto di questi ragazzi verso le regole della società e il modo in cui è governata. Il loro disadattamento è sintomo anche delle continue pressioni a cui sono sottoposti i giovani di oggi, in un mondo che chiede ogni giorno di essere “protagonisti” in qualsiasi ambito sociale. Gli ultras, allora, nel tentativo e nella speranza di stravolgere le regole, compiono atti che, a pensarci bene, rispecchiano gli “obiettivi” della società, “affamata” com’è di “eroi” da prima pagina.
Certo è che sono innegabili le conseguenze non solo sociali, ma anche politiche ed economiche che il fenomeno della violenza negli stadi crea al termine di ogni stagione calcistica. Le spese sostenute dallo Stato sono assolutamente esagerate, soprattutto se consideriamo l’elevato numero di agenti di polizia impegnati in ogni categoria, tant’è che sembra prendere piede l’idea di istituire dei servizi di vigilanza a carico di ogni singola società calcistica. La Polizia ha avanzato la proposta che ogni squadra adotti un proprio servizio d’ordine, come accade in Gran Bretagna. All’interno degli impianti sportivi del Regno Unito sono all’opera degli steward che aiutano gli agenti a mantenere l’ordine.
Se da una parte il contributo finanziario delle società calcistiche potrebbe alleviare le spese statali e rendere forse più responsabile il comportamento dei tifosi (ad eccezione dei cosiddetti “cani sciolti”), dall’altra non possiamo ignorare le disparità di capitali esistenti nel mondo del calcio: per gli squadroni si tratterebbe di una seccatura in più, aggirabile con qualche nuova sponsorizzazione, per le piccole società il problema sarebbe molto più serio.
Nella stagione calcistica in corso, la nuova “legge Pisanu” ha introdotto nuovi metodi per cercare di sconfiggere il teppismo da stadio: maggiori perquisizioni, biglietti nominali, pianificazione di politiche sociali, ecc .
Proprio il Ministro dell’Interno Pisanu presenta così i dati relativi alla sicurezza delle prime giornate del campionato di calcio della stagione 2005 – 2006: “I decreti ministeriali approvati lo scorso giugno per contrastare la violenza negli stadi hanno cominciato a produrre effetti positivi. Il confronto tra i dati sulle prime giornate del nuovo campionato e quelli dello stesso periodo dell’anno scorso mostra, infatti, che le partite con feriti si  sono quasi dimezzate, scendendo da 27 a 15 (-44%). Nello stesso tempo è aumentata l’efficacia dell’azione di contrasto, come testimonia l’aumento degli arresti (+35%) e delle denunce a piede libero, che sono quasi triplicate, passando da 111 a 319 (+187%). Le nuove misure organizzative, inoltre, hanno consentito di ridurre del 31% gli operatori di polizia in servizio negli stadi (dai 34.288 impiegati lo scorso anno siamo infatti passati a 23.604), aumentando così le risorse umane destinate ad altri compiti di sicurezza e ordine pubblico. Incoraggiante è anche il clima di fattiva collaborazione che si è creato tra forze dell’ordine, istituzioni sportive e società di calcio: ciò ha reso possibile individuare, di comune accordo, gli accorgimenti indispensabili per superare le criticità della prima attuazione della riforma. Si tratta dunque di proseguire su questa strada, per restituire finalmente ai veri appassionati di calcio la possibilità di recarsi allo stadio serenamente ed in condizioni di totale sicurezza” .
Parole chiare e confortanti, ma Lorenzo Contucci, che oltre ad avere esperienza di curva è attualmente un avvocato penalista, non è assolutamente d’accordo sui dati presentati dal Ministero dell’Interno: “Quei dati sono falsi. Ho esaminato personalmente, per conto di un quotidiano, i dati forniti dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive e non credevo ai miei occhi nel leggere come i dati che vengono sbandierati all’opinione pubblica vengano puramente e semplicemente modificati al fine di poter rendere certe dichiarazioni. Il dato è riscontrabile da tutti, basta andare sul sito della Polizia di Stato. E’ incredibile che vengano fatte delle leggi a seguito di dati assolutamente inattendibili proprio in base alla loro documentazione. Certamente non sono i rimedi del decreto Pisanu a far diminuire la violenza, che invece è sempre presente. Durante l’ultimo Lazio/Roma ci sono stati gravissimi incidenti, con feriti assai gravi per armi da taglio, ma nessun telegiornale ne ha parlato, semplicemente perché la questura vuol far vedere che il decreto funziona e quindi non fa uscire la c.d. “velina”! I biglietti nominativi sono assolutamente inutili, anche perché in nessuno stadio d’Italia i tifosi di curva siedono al proprio posto, e nessuno è in grado di imporglielo, proprio perché loro non vogliono. Figuriamoci se in una curva come la Sud di Roma, dove dal 1990 non entra un poliziotto, un ultras accetta che uno steward (che tra l’altro lavora ogni due settimane per due lire) gli dica quello che deve o non deve fare. Inoltre, chi mai compierebbe un reato stando al proprio posto?”
Queste dichiarazioni ci suggeriscono che probabilmente qualsiasi azione di prevenzione attuata dalle agenzie istituzionali, per sortire gli effetti desiderati, dovrebbe oggi essere accompagnata da azioni provenienti dall’interno dello stesso mondo ultras e da una collaborazione tra membri della curva e addetti al servizio d’ordine.
Partendo dal presupposto che probabilmente sarà impossibile eliminare totalmente atti di violenza, o turbolenza, tra gli ultras, perché “connaturali”con lo spettacolo calcistico di massa, Marchi ritiene che si possa comunque operare efficacemente per una sua attenuazione, coinvolgendo in modo più diretto gli stessi sostenitori. Alle forze dell’ordine, che non possono presidiare “in forza” tutte le partite che si svolgono ogni domenica, si dovrebbero in questo contesto affiancare strutture di sorveglianza organizzate dalle società sportive tra i propri sostenitori. L’azione di prevenzione dovrebbe dunque essere esercitata soprattutto da membri della stessa comunità del tifoso “turbolento”. E’ questo, in definitiva, il sistema rooligan per attenuare la violenza: isolare e far sentire un po’ “scemo” il turbolento, farlo sentire “fuori” dal proprio schema comportamentale collettivo, estraneo alla comunità. Potrebbe essere sviluppata una struttura formata da squadre di servizio d’ordine di tifosi, da situare sempre nello stesso settore dello stadio, in modo da incoraggiare sentimenti comunitari ancor più forti tra “sorvegliati” e “sorveglianti”, con l’ausilio della presenza di vigilanza pubblica e privata, soprattutto con compiti di coordinamento e supervisione, e garantire così una discreta soglia di tranquillità in quasi tutti i settori dello stadio .
L’analisi di Marchi tiene conto soprattutto del forte valore simbolico della curva. Il carattere “sacrale” della curva è uno dei fattori da tener massimamente presente: l’irruzione delle forze dell’ordine rappresenta per gli ultras un trauma, una profanazione. Qualsiasi intervento esterno non ottiene altro che sollecitare la “sindrome del beduino” negli ultras, pronti a riunirsi e combattere contro l’“esterno”. Il gruppo deve sviluppare dal proprio interno quelle forme di prevenzione e di sorveglianza che spettano a ogni forma di autorità di “autorità costituita”, per poter essere in grado di distinguere le manifestazioni di violenza simbolica da quelle di violenza reale attraverso l’istituzione della figura del “responsabile tifo”. Anche in questo caso il ruolo maggiore dovrebbe dunque essere svolto dagli ultras stessi, attraverso strutture di servizio d’ordine e in stretto coordinamento, ma in piena autonomia, con le Questure e le società sportive.
Quest’ultime dovrebbero uscire dalla tradizionale dicotomia confitto/complicità, instaurando un rapporto con il movimento ultrà basato sul riconoscimento della sua totale autonomia e sulla volontà di facilitarne le manifestazioni comunitarie non violente .
Secondo Marchi un  ruolo importante potrebbero ricoprirlo i capi ultras, i quali dovrebbero preoccuparsi di curare la  “personalità” del gruppo, cercando di rafforzare il legame città-squadra-curva in termini non solo di identità ma anche di civiltà, e dovrebbero “educare” gli ultras più giovani, molti dei quali, carenti di “memoria storica”, specie quella della curva, agiscono esclusivamente in funzione del “casino” e della spettacolarizzazione dell’evento teppistico: “Molti dei gruppi neonati sono ormai composti da adolescenti o poco più, si regista un forte abbassamento dell’età media in curva. Questo porta ad una serie di problemi rilevanti, fra cui quello della mancanza di controllo sui focolai di violenza. Per quanto possa apparire inverosimile, la presenza degli ultrà più anziani aveva garantito il rispetto di un “codice d’onore” secondo cui gli spettatori pacifici non dovevano essere coinvolti nelle risse. La mancanza di “apprendistato” delle nuove leve e il loro improvviso inserimento nelle curve stravolgono le regole del gioco, provocando spesso la reazione degli ultrà più maturi: “Per molti ragazzi oggi essere ultrà presenta solo un vanto nei confronti dell’amico. Cioè: io sono un ultrà e tu no, perché io ho la toppa, perché io ho la sciarpa, perché io vado in trasferta con gli ultrà. Cioè non sanno nemmeno cosa significa lo spirito ultrà, assolutamente” .
Alcuni metodi adottati in seguito ad episodi di violenza, come i periodici blitz nelle sedi dei gruppi ultras, le perquisizioni e le diffide “a pioggia”, difficilmente riescono ad “invogliare” gli ultras, a renderli partecipi di un vero e proprio dialogo. A parlare è ancora il Contucci avvocato: Per quanto riguarda le diffide, posso dire con certezza che lo strumento della diffida è giusto ma che è sbagliato l’abuso che se ne è fatto in questi anni. Di recente la Questura di Roma ha diffidato tutto un treno di tifosi del Livorno, a prescindere da chi ha tenuto comportamenti violenti e chi no. Invece di diffidare i 40 violenti accertati, ha diffidato 288 persone, tra cui padri con figli, ragazze e via dicendo. Tutto questo non può che generare violenza e risentimento in chi, dopo tre anni di firme apposte ingiustamente, tornerà allo stadio”.  
Forse è vero che le forze dell’ordine, salvo pochi casi o esperimenti falliti come l’Ufficio Stadio di Genova, parlano un “linguaggio” distante da quello degli ultras, ma anche vero che i direttivi dei maggiori gruppi ultras italiani hanno fatto poco per combattere la diffusione della violenza gratuita, accampando troppe volte la scusa dei “cani sciolti” e dell’ingovernabilità di una grande curva.
In conclusione di paragrafo vogliamo comunque sottolineare anche il lato umano e solidale degli ultras: quando una tifoseria, ad esempio, viene colpita da un grave lutto, specialmente quando le vittime sono personaggi molto carismatici e conosciuti, capita che gruppi ultras avversari confezionino striscioni commemorativi, anche in vista di una partita da giocare proprio contro quella squadra. Gli ultras sono soliti colpire l’opinione pubblica con tali manifestazioni, ma, al contrario degli atti di teppismo, in questi casi non c’è alcun desiderio di far parlare di sé, di essere citati nelle pagine dei giornali. E’ come se volessero esprimere questo particolare modo di essere soltanto all’interno del loro mondo, consapevoli che anche il loro peggior nemico (il gruppo rivale) è formato da giovani caratterizzati da comportamenti molto simili, nel bene e nel male.
Il paradosso degli ultras consiste proprio in questo: da una parte assistiamo a guerriglie scatenate il più delle volte in nome del “niente” (i motivi abbiamo comunque cercato di analizzarli nel corso di questa tesi), dall’altra si verificano episodi di solidarietà molto simili a una grande, enorme muraglia innalzata contro tutto ciò che gli ultras considerano “nemico”. E quando tali sentimenti sono condivisi da migliaia di ragazzi, di ogni estrazione e di ogni credo, risulta difficile ipotizzare interventi di carattere sociale o politico che possano “introdursi” in questa impenetrabile e volubile corazza qual è la mentalità ultras.
Il discorso della violenza è vecchio, ma non è stato mai affrontato in maniera appropriata; c’è bisogno di una cultura del dialogo e di una “educazione delle curve” a partire dalla base, per far si che la curva torni ad essere soprattutto un luogo di socializzazione. 

 

SEVE & CLAUDIO, Il gruppo, cit., p. 138.

F. BRUNO, Storia del movimento ultrà in Italia, cit.

Il Megafono,“Lettera aperta ai "signori del calcio" (... ed ai loro amici)”, n. 1, 2003.

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V. MARCHI, Conclusioni, Ultrà. Le sottoculture giovanili negli stadi d’Europa, cit.

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F. BRUNO, Il movimento  ultrà nell’Europa continentale, cit., pp. 110-111.

Ivi, p. 123.

B. PEITERSEN, Roligan.Un modo di essere dei tifosi danesi, in A. Roversi (a cura di ) Calcio e violenza in Europa, cit., p. 171.

S. VRCAN, Dal tifo aggressivo alla crisi del pubblico calcistico: il caso  jugoslavo, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, n. 1, 1992.

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H. van der BRUG, Il teppismo calcistico in Olanda, in A. Roversi (a cura di), Calcio e violenza in Europa, cit., p. 130.

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V. MARCHI, Italia 1900-1990: dal supporter all’ultrà, cit., p. 212.

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S. MASTRANTONIO, Ultrà laziali scatenati: guerriglia a Roma, in “La Nazione”, 12 maggio 2000, p. 21.

E. DUNNING, P. MURPHY,  J. WILLIAMS, Il teppismo calcistico in Gran Bretagna, in A. Roversi (a cura di), Calcio e violenza in Europa, cit., p. 44.

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A. DAL LAGO, Descrizione di una battaglia, cit.

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A. ROVERSI, Il sociologo e l’ultrà, cit.

Ivi, pp. 25-6.

V. MARCHI, Italia 1900-1990: dal supporter all’ultrà, cit., p. 155.

F. BRUNO, Il movimento ultrà nell’Europa continentale, cit.

E. MARRESE, La ribellione dei campioni: "Basta, punite chi ci insulta", repubblica.it, 23 novembre 2004.

R. ALBERONI, Lettere con  domanda, in “Sette”, n. 12, 23 marzo 2000, p. 167.

V. MARCHI, Italia 1900-1990: dal supporter all’ultrà, cit., pp. 198-200.

V. MARCHI, Italia 1900-1990: dal supporter all’ultrà, cit., pp. 201-202.

La partita di Coppa UEFA contro il Partizan  è stata anche l’ultima della stagione in campo europeo per la Lazio, perciò la squalifica dovrà essere scontata alla prossima partecipazione della squadra biancoceleste ad una delle competizioni europee.

La sempre più rigida compartimentazione degli stadi ha fatto si che molte tifoserie ospiti vengono relegate in “gabbie” che limitano sia le loro azioni vandaliche sia la visione della partita. Ciò non toglie che in certi casi l’effetto sia contrario a quello desiderato, perché misure del genere possono rendere l’ambiente particolarmente “elettrico”.

F. BRUNO, Storia del movimento ultrà in Italia, cit., p. 227.

F. BRUNO, Il movimento ultrà nell’Europa continentale, cit.

Al tempo Nizzola era presidente della FIGC.

G. TASSI, Il calcio obbedisce al governo, in “La Nazione”, 3 febbraio 2000, p. 21.

G. BASILICI, La polizia: “Ma così rischiamo i tumulti”, in “La Nazione”, 3 febbraio 2000, p. 23.

Il riferimento è alla perfetta gestione dell'organizzazione e della sicurezza dei funerali di Papa Giovanni Paolo II.

F. BRUNO, Storia del movimento ultrà in Italia, cit.

V. MARCHI, Italia 1900-1990: dal supporter all’ultrà, cit., p. 206.

F. BRUNO,  Storia del movimento ultrà in Italia, cit., p. 125.

A. ROVERSI, Il sociologo e l’ultrà, cit., p. 41.

In particolare, sono tre i nuovi decreti ministeriali firmati il 6 giugno 2005 per combattere la violenza negli stadi che entreranno in vigore dalla stagione 2005-2006 a completamento delle norme già previste dal decreto legge 28 del 2003 e la cui piena applicazione è stata più volte rinviata. Oltre a quello sui biglietti elettronici nominali, gli altri due decreti riguardano la videosorveglianza degli impianti sportivi e le misure logistiche e amministrative negli impianti sportivi. Il testo dei decreti  è riportato in appendice.

“Violenza negli stadi: risultati positivi dopo gli ultimi provvedimenti adottati”, in www.ministerointerno.it.

V. MARCHI, Italia 1900-1990: dal supporter all’ultrà, cit.

Ivi, p. 205.

A. ROVERSI, Calcio, tifo e violenza, cit., p. 131.

Fonte: testo tratto http://www.asromaultras.org/tesiultraszl6.doc

Sito web da visitare: http://www.asromaultras.org

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