Interazione dipolo-dipolo

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Interazione dipolo-dipolo

INTERAZIONI NON COVALENTI

Introduzione

Le interazioni deboli hanno una grande importanza in quanto definiscono e stabilizzano la struttura tridimensionale di una proteina e la sua interazione con altri partner molecolari. Le interazioni non covalenti (Fig. 1) sono estremamente deboli, e contribuiscono alla stabilizzazione della molecola per poche kcal/mol ed, in alcuni casi, anche per qualche decimo di kcal/mol. In una macromolecola le interazioni deboli sono numerose così che il loro contributo è determinante per la definizione della struttura. Esse sono: interazioni di Van der Waals, interazioni elettrostatiche, legami idrogeno, interazioni idrofobiche. Queste ultime, più che legami veri e propri, rappresentano la tendenza dei polipeptidi ad essere esclusi dall’interazione con le molecole d’acqua, fenomeno detto “effetto idrofobico”.

Figura 1. Tipologie di interazioni deboli.


Interazioni di Van der Waals

Ogni coppia di atomi ha una distanza ottimale. Quando gli atomi sono troppo vicini, gli orbitali degli elettroni più esterni tendono a sovrapporsi e respingersi reciprocamente e la repulsione cresce al diminuire della loro distanza; al di sotto di una certa distanza limite, c’è una vera e propria barriera: questa distanza definisce il raggio di Van der Waals di uno specifico atomo Ogni atomo ha un suo spazio inviolabile, ne deriva che i raggi di Van der Waals dei vari atomi fissano il limite di quanto la struttura possa essere compatta.

Figura 2. La molecola di acqua con i suoi raggi di Van der Waals.

Interazioni elettrostatiche

Le interazioni elettrostatiche possono essere:

interazioni di monopolo (di singola carica); oppure interazioni di dipolo



e quindi dovute a cariche opposte separate da una certa distanza.

I legami idrogeno avvengono tra un donore ed un accettore di atomi di idrogeno, nel caso in cui l’interazione avvenga tra gruppi carichi spesso viene denominata ponte salino ed ha un carattere sia elettrostatico che di legame idrogeno.

I legami deboli fra atomi con cariche opposte sono molto importanti perché in una proteina ci sono molti aminoacidi carichi: alcuni carichi positivamente ed altri negativamente. Il ruolo primario delle cariche è di rendere solubile la proteina in un solvente acquoso, inoltre svolgono una funzione fondamentale nella stabilità della macromolecola e nel riconoscimento di altri partner molecolari, come il riconoscimento enzima-substrato oppure proteina-proteina tramite la formazione di specifici ponti salini.

Il potenziale intorno ad una proteina può essere misurato attraverso la legge di Coulomb. Dalla distribuzione delle cariche sulla proteina e dalla loro relativa distanza è possibile calcolare il potenziale di interazione elettrostatica con la formula rappresentata in figura 3, dove ε è la costante dielettrica; q1 e q2 il valore delle cariche elettriche; R la distanza; ∆E il potenziale che agisce tra le 2 cariche. Al potenziale danno un  contributo anche i dipoli elettrici, costituiti da due cariche opposte separate da una certa distanza d. 

Figura 3. La legge di Coulomb ed il momento di dipolo.

L’ interazione dipolo-dipolo dipende dall’orientazione di un dipolo rispetto all’altro (parallelo, lineare, opposto) ed è massima quando i due dipoli sono lineari o opposti. L’analisi di una molecola come l’HCl (Fig. 4) permette di capire che cos’è un momento di dipolo. La distanza tra l’H e il Cl è 1.3 Å; se le cariche fossero poste a questa distanza, il momento di dipolo varrebbe 6 Debye, essendo il valore del momento di dipolo dato dalla carica moltiplicata per la distanza. Il momento di dipolo dell’HCl misurato sperimentalmente vale circa 1 Debye e questo significa che la delocalizzazione di carica è il 17% della carica totale. Due elettroni sono in comune nella molecola di HCl, ma l’atomo di cloro esercita un’attrattiva maggiore sugli elettroni di legame, per cui avverrà uno spostamento di carica che rende il cloro più negativo con conseguente formazione di un dipolo. La carica è quindi parzialmente delocalizzata e tanto maggiore è la delocalizzazione, tanto maggiore sarà il dipolo elettrico.

Figura 4. Momento di dipolo della molecola HCl.

Nelle macromolecole proteiche un momento di dipolo è associato ad ogni legame peptidico, quindi il numero di momenti di dipolo presenti è elevato. Il momento di dipolo di un legame peptidico vale circa 3.5 Debye. Il contributo totale dipende dall’orientazione dei singoli dipoli.

In un’α-elica i momenti di dipolo dei vari legami peptidici hanno la stessa orientazione l’uno rispetto all’altro (Fig. 5).

Figura 5. Schema del momento di dipolo del legame peptidico in un’α elica.

 

Ne deriva un rafforzamento dei vari momenti e del contributo finale. Il processo porta ad una forte delocalizzazione di carica positiva all’N-terminale e negativa al C-terminale, ovvero alla presenza di un grosso momento di dipolo. Molto spesso, in prossimità  dell’N terminale delle α-eliche si trovano gruppi carichi negativi che stabilizzano tramite interazione elettrostatica l’α-elica stessa. Gruppi carichi negativi possono essere aminoacidi, come glutammico e aspartico, o gruppi esterni come ad es. un gruppo fosfato. La preferenza di un’α-elica ad avere un gruppo carico negativo in prossimità dell N-terminale è stata verificata sperimentalmente misurando l’incremento di stabilità ottenuto in seguito all’introduzione di un gruppo con carica negativa tramite mutagenesi sito diretta.

In tabella I sono riportate alcune caratteristiche degli aminoacidi: in questo contesto la proprietà più interessante è rappresentata dal pK dei vari gruppi, in quanto determina lo stato di protonazione e deprotonazione e l’eventuale valore di carica del gruppo per diversi valori di pH. A pH neutro gli aspartici e i glutammici sono normalmente carichi negativamente, mentre le lisine e le arginine sono cariche positivamente; per quanto concerne l’istidina sarà determinante il suo microambiente perché il suo pK è prossimo alla neutralità. Il pK di uno stesso aminoacido presente in zone diverse della proteina, non è sempre uguale: una carica, ad esempio, è in grado di perturbare il pK di altri gruppi. L’interazione elettrostatica dipende dalla distanza, diminuendo all’aumentare della distanza.

 

Tabella I. Caratteristiche chimico-fisiche degli aminoacidi

Il fenomeno è descritto chiaramente nell’esempio in figura 6, dove viene rappresentata un’alanina in forma singola oppure sotto forma di dipeptide (2 alanine), tripeptide (3 alanine) o tetrapeptide (4 alanine). Per ognuna di queste situazioni è possibile misurare sperimentalmente, in soluzione, il pK di protonazione/deprotonazione del C- ed N- terminale.

Figura 6: pK dei gruppi N e C-terminale di un’alanina in forma singola, di dipeptide, di tripeptide e tetrapeptide.

Il pK del gruppo carbossilico nella singola alanina è 2.3 e quello dell’ammino gruppo è 9.6, per il dipeptide il pK del carbossile diventa 3.1 e quello dell’ammino gruppo diventa 8.3, per il tripeptide 3.4 e 8.0 mentre per il tetrapeptide non c’è nessuna variazione, essendo ancora 3.4 e 8.0. Se ne deduce che, procedendo da una situazione con tre alanine ad una con quattro alanine, i valori di  pK non cambiano, mentre c’è una variazione di più di un’unità di pH  passando dal sistema caratterizzato da una singola alanina a quello con la tripla alanina. Diminuendo il numero di alanine anche il pH deve decrescere per poter protonare il carbossile. In sintesi, è più difficoltoso protonare il carbossile della singola alanina che quello di una tetralanina. Il carbossile, infatti, preferisce restare in forma deprotonata, ovvero carico negativamente, per poter realizzare un’interazione stabilizzante con la carica positiva del gruppo N-terminale. Nel caso della singola alanina il carbossile e l’ammino-terminale sono molto più vicini che non in una situazione di tri-alanina perchè la distanza tra il C- e l’N-terminale aumenta all’aumentare del numero di alanine tra il carbossile e l’ammino-terminale. Il pK di una carica viene fortemente influenzato dalla presenza di un’altra carica, di conseguenza è necessario conoscere la distribuzione delle cariche presenti in una proteina per individuare il pK della carica di interesse. L’interazione elettrostatica dipende dalla distanza tra le cariche e questo esempio dimostra come il valore di pK sia influenzato dall’ambiente (che in questo caso corrisponde ad un’altra carica); se l’altra carica è di segno opposto è più difficoltoso cambiare lo stato di protonazione. Introdurre o eliminare nuove cariche per mutagenesi sito diretta è una strategia utilizzabile per modulare un ambiente chimico e quindi influenzare lo stato di protonazione dei gruppi circostanti.

Nell’esempio riportato, il sistema imperturbato è costituito dalla tetralanina perchè il gruppo C-terminale non avverte la presenza del gruppo N-terminale, mentre il sistema perturbato è costituito da una monoalanina perchè i due gruppi N e C-terminale si influenzano l’uno con l’altro. E’ possibile  misurare il contributo energetico associato alla variazione del pK dovuto alla presenza di una carica. Considerando il valore di pK del gruppo carbossilico nel sistema imperturbato (3.4) e perturbato (2.3), si è in grado di calcolare la variazione di energia libera accoppiata a questa variazione di pK, che risulterà essere pari a 2.5 kcal/mol (Fig. 7). Quindi le energie in gioco nelle interazioni elettrostatiche, (e ciò sarà vero anche per tutte le altre interazioni deboli), sono dell’ordine di qualche kcal/mol. Nel caso specifico del gruppo carbossilico, nella situazione perturbata il gruppo tende a dissociare più facilmente e ad essere protonato con più difficoltà.

Figura 7. Calcolo della variazione di energia libera associata alla variazione di pK.

Quando si parla di pK di un gruppo in una proteina, si intende il pK apparente in quanto riferito al valore sperimentale. Si tratta dunque non del pK effettivo del gruppo, ma di quello che il gruppo mostra in un determinato ambiente chimico. In una macromolecola proteica ci sono numerose cariche, infatti il 20/30% degli aminoacidi totali è costituito da aminoacidi carichi. Questi ultimi si trovano sulla superficie della proteina perchè devono interagire con l’acqua e rendere la molecola solubile. Approssimando un proteina globulare con una sfera, la maggioranza delle cariche si distribuirà sulla superficie della sfera e soltanto alcune all’interno di essa.

E’ possibile calcolare il valore del potenziale elettrostatico nei dintorni di una macromolecola applicando la legge di Coulomb. Misure più accurate vengono fatte risolvendo l’equazione di Poisson-Boltzmann e considerando la presenza di due dielettrici, uno ad alto valore (80), costituito dall’acqua e l’altro a basso valore (3-4), costituito dalla proteina. Il potenziale viene calcolato a pH neutro, determinando il contributo dei singoli gruppi con il loro stato di protonazione ed è rappresentato disegnando linee equipotenziali, ossia quelle in cui i valori di potenziale assumono lo stesso valore. Un esempio viene riportato in figura 8 dove è rappresentata la distribuzione del potenziale della superossido dismutasi (SOD) a rame e zinco. In questo modo si può osservare come una molecola esterna percepisce la macromolecola da un punto di vista elettrostatico.

Figura 8. Linee equipotenziali intorno alla superossido dismutasi.

Conoscere la distribuzione delle linee equipotenziali può rivelarsi fondamentale per comprendere i meccanismi di riconoscimento proteina-proteina o enzima-substrato. Nel caso della superossido dismutasi, ad esempio, il substrato è una molecola di superossido carica negativamente, che potrà interagire con l’enzima solo attraverso le regioni rappresentate in rosso che indicano la presenza di un potenziale positivo.

Modulazione dell’intervallo di pH di funzionamento di un enzima variando le caratteristiche elettrostatiche

 

Le proteasi a serina hanno un sito catalitico che è costituito da 3 aminoacidi (triade catalitica): serina, istidina ed aspartico; le proteasi effettuano un attacco nucleofilo sul gruppo carbonilico del legame peptidico che deve essere proteolizzato. L’attacco nucleofilo viene effettuato dalla serina della triade catalitica. La serina nella catena laterale ha un gruppo OH e, per poter effettuare l’attacco nucleofilo, la serina deve cedere il protone ad un altro aminoacido che è l’istidina. In seguito a questa cessione l’istidina diventa carica positivamente. Per funzionare la subtilisina deve quindi avere l’istidina nello stato non protonato, altrimenti la serina non sarebbe in grado di cedere il protone all’istidina stessa.

Questo significa che l’enzima nativo funziona in un intervallo di pH determinato, a valori di pH basso, dal pK dell’istidina. Se l’istidina è protonata, la serina non può cedere il suo protone e l’enzima non può funzionare. Al fine di ampliare l’intervallo di pH in cui l’enzima è funzionante, è necessario effettuare una o più mutazioni in modo da abbassare il pK dell’istidina della triade catalitica, e ridurre così il valore di pH per il quale la subtilisina è in grado di funzionare.

La subtilisina è una proteina a struttura nota; analizzando la struttura tridimensionale è possibile individuare un residuo di aspartico e di glutammico in prossimità dell’istidina stessa. Questi due aminoacidi sono stati mutati singolarmente e sostituiti con una serina. Il profilo di kcat/KM  in funzione del pH (Fig. 9) mostra che il mutante funziona a pH più bassi dell’enzima nativo, poiché, eliminando una carica negativa in prossimità dell’istidina 64, se ne abbassa il valore di pK.

Figura 9. Dipendenza di kcat/KM dal pH.

L’eliminazione di una carica negativa porta alla sottrazione di un elemento che stabilizza la carica positiva dell’istidina e, in tal modo, si riduce il valore di pH  per il quale l’enzima riesce a funzionare. Dunque è possibile diversificare le capacità enzimatiche modulando l’elettrostatica del sistema e il pK dell’istidina può essere diminuito eliminando cariche negative vicine ad essa. La variazione può essere predetta calcolando la variazione del potenziale sull’istidina in seguito all’eliminazione di una carica negativa in quanto essa è direttamente correlata con il valore del pK.

Un’ulteriore considerazione riguarda l’effetto della variazione del pK osservato al variare della forza ionica (Tabella II). L’effetto è evidente a bassa forza ionica, mentre è quasi nullo ad alta forza ionica in quanto la presenza di ioni porta ad una schermatura della carica e quindi ad un annullamento dell’effetto elettrostatico. Si delinea così la regola generale secondo cui per verificare se un parametro dipende dall’elettrostatica del sistema, occorre misurare tale parametro in funzione della forza ionica; se il parametro non varia risulta indipendente dall’elettrostatica del sistema.

 

 

 

Tabella II. Variazione di pK in funzione della forza ionica.

 

 

Riassumendo:

 

  • le interazioni elettrostatiche sono interazioni deboli e quindi dell’ordine di qualche kcal/mol;
  • le interazioni elettrostatiche possono essere utili nel  riconoscimento molecolare: infatti una definita distribuzione delle cariche sulla proteina crea un potenziale elettrostatico utile all’interazione con il suo partner molecolare;
  • introduzione o eliminazione di cariche possono essere utilizzate per modulare i pK di singole catene laterali;
  • la misura di un parametro in funzione della forza ionica permette di comprendere la sua dipendenza da fattori elettrostatici.

 

 

Effetto idrofobico

 

L’effetto idrofobico deriva dal fatto che le macromolecole biologiche si trovano in un solvente acquoso e l’acqua non ha un’interazione favorevole con atomi non polari. Questo effetto ha un ruolo dominante nella stabilità delle macromolecole biologiche e possiede alcune proprietà inusuali.

In figura 10 vediamo riassunte una serie di peculiarità dell’acqua che è uno dei pochi liquidi che si espande quando congela.

 

 

 

Figura 10. Legami idrogeno nel ghiaccio.

 

Il ghiaccio quando si scioglie comincia a contrarsi e questo fenomeno perdura fino ad una temperatura di 4°C, temperatura dopo la quale l’agitazione termica controbilancia il fenomeno di contrazione. Il fenomeno di espansione in seguito a congelamento avviene perché il ghiaccio è composto da molecole di acqua estremamente ordinate, che aumentano la loro distanza per ottimizzare i loro legami idrogeno.

Un’altra proprietà importante dell’acqua è quella di avere un momento di dipolo del valore di 1.8 Debye, che le permette di essere un ottimo accettore e donore di legame idrogeno. La presenza di legame idrogeno caratterizza infatti una serie di proprietà dell’acqua, sia a livello microscopico che macroscopico.

La rilevanza del legame idrogeno viene evidenziata in tabella III che riporta il punto di fusione e di ebollizione dell’H2O e H2S.

 

 

Tabella III. Paragone tra i punti di fusione ed ebollizione  per molecole di grandezza simile.

 

 

Il valore è molto diverso ed il motivo risiede nel fatto che le molecole di acqua formano un buon legame idrogeno e quindi è necessaria una maggiore temperatura, ovvero una maggiore quantità di energia, per separare le molecole ed avere fusione ed ebollizione. L’acqua forma dei legami idrogeno ideali nel ghiaccio dove le molecole di acqua sono fortemente ordinate e questo ordine, anche se non ottimale, permane in soluzione. Ciò comporta che le molecole di acqua sono parzialmente ordinate anche in fase liquida.

In figura 11 è rappresentata la funzione di distribuzione radiale, che indica la probabilità di trovare una determinata molecola ad una certa distanza da un’altra e poi un’altra ancora e così via. Dalla figura emerge che c’è un picco intorno ai tre Å ed un altro intorno ai 4/5 Å. Nella parte alta della figura, dove la distanza è espressa in termini del diametro di van der Waals della molecola, è possibile osservare la presenza di un picco per ogni multiplo del diametro, ad intensità decrescente. Il grafico indica che ogni molecola di acqua ha un ordine elevato determinato dalla presenza di altre molecole di acqua in prima sfera di coordinazione e che questo ordine va attenuandosi allontanandosi dalla molecola.

 

 

Figura 11. Distribuzione radiale dell’acqua.

 

La presenza di molecole ordinate in prima sfera ma anche in seconda e parzialmente in terza sfera, denota la capacità dell’acqua di creare un network di legami idrogeno in soluzione, sebbene non così perfetto e definito come nel caso del ghiaccio. Questo arrangiamento ha importanza dal punto di vista della solubilità e della capacità di molecole o macromolecole ad associarsi o meno tra loro. Per la comprensione del fenomeno occorrerà valutare l’energetica totale di questo sistema.

 

 

 

Tabella IV. Costanti di associazione per molecole di vario tipo.

 

 

Nella tabella IV è riportata la costante di associazione per una serie di piccole molecole, ovvero la capacità di associarsi l’una con l’altra quando vengono messe in solvente acquoso. La costante di associazione (che si misura in M-1) è abbastanza elevata per molecole che sono in grado di fare ponti salini ed è dello stesso ordine di grandezza per molecole che sono idrofobiche, in grado quindi di interagire fra di loro per interazione idrofobica, mentre è più bassa (con un fattore 10 di differenza) per molecole che sono polari e possono interagire tra loro solamente attraverso legami idrogeno. L’acqua è in grado di modulare la capacità di associazione delle molecole a seconda delle loro proprietà. In dettaglio: piccole molecole che sono in grado di interagire tra di loro così come con l’acqua avranno una costante di associazione di 1/55 M-1 = 0.02 M-1, perché 55 M è la concentrazione dell’acqua in fase liquida. Se ne deduce che a tal concentrazione queste molecole hanno una capacità di interagire con se stesse come con l’acqua, perché è identica la costante di associazione. Quest’ultima indica la tendenza di due molecole ad associarsi ed è data da:

 

KAB= [AB] / [A ] [ B]  M-1

 

Due molecole, per associarsi tra loro, devono superare un ostacolo entropico, riducendo il proprio grado di libertà, e necessitano di un’energetica migliore nell’interazione tra loro rispetto a quella tra ciascuna molecola e l’acqua. In figura 12 viene descritto il comportamento, in diversi solventi, del metilacetamide, impiegato come composto modello del legame peptidico, a causa del legame idrogeno che può instaurarsi tra il gruppo CO e NH.

 

 

Figura 12. Formazione del dimero del metilacetamide in vari solventi.

 

La figura 12 riporta la percentuale di N-metilacetamide in forma dimerica in funzione della concentrazione della molecola stessa. Per forma dimerica si intende la capacità di creare un legame idrogeno tra il gruppo CO ed il gruppo NH di due molecole. In un solvente come CCl4, già a bassa concentrazione, l’N-metilacetamide è in forma dimerica, mentre in un solvente come l’acqua è necessario aumentare la concentrazione a 10 M. Ciò è dovuto alla competizione che si verifica tra l’acqua e la molecola stessa nella formazione di un legame idrogeno, che impedisce al metilacetamide di assumere la forma dimerica. La capacità o meno di creare legami idrogeno viene studiata tramite la tecnica della spettroscopia infrarossa, osservando la banda di vibrazione dell’NH. La banda di vibrazione dell’NH risulta diversa a seconda che la molecola sia in forma monomerica od in forma dimerica, (il protone, interagendo con il carbonile di un’altra molecola, vibrerà diversamente).

 

 

 

Tabella V. Cambiamenti di energia libera per il trasferimento di vari composti dall’etanolo all’acqua a 25 °C.

 

 

 

I precedenti esempi mostrano come il solvente moduli in modo incisivo le proprietà dei soluti sciolti nel solvente stesso, e questo avviene anche quando i soluti sono gli aminoacidi. In particolare, ogni aminoacido possiede specifiche caratteristiche idrofiliche o idrofobiche determinate dalla composizione chimica della sua catena laterale. In tabella V viene riprodotto il cambiamento di energia libera ΔG per il trasferimento di una determinata molecola dall’etanolo in acqua. Il ΔG di trasferimento indica quanto una molecola gradisce ripartirsi in un ambiente acquoso oppure in un solvente più idrofobico come l’etanolo. La misura del ΔG di trasferimento per tutti gli aminoacidi permette di ottenere una scala relativa della caratteristica idrofobica o idrofilica di ogni aminoacido. Il ΔG di trasferimento può essere misurato valutando la solubilità della molecola in acqua e in etanolo e calcolando il logaritmo del rapporto delle due solubilità. Un valore di ΔG < 0 indica una molecola idrofilica, mentre un valore di ΔG > 0 indica una molecola idrofobica. Poiché ogni aminoacido ha il gruppo carbossilico ed il gruppo amminico, il suo ΔG di trasferimento dall’etanolo in acqua è negativo, perché la carica negativa e la carica positiva tendono a spingerlo verso il solvente acquoso. Il valore risulta quindi negativo per tutti gli aminoacidi riportati in tabella. La glicina può essere presa come riferimento, in quanto priva di catena laterale, e, sottraendo ogni volta il suo valore, è possibile ottenere il ΔG relativo di ogni singola catena laterale. E’ possibile così valutare le caratteristiche idrofiliche o idrofobiche di ciascuna catena laterale e costruire una scala relativa di idropatia. Similmente è possibile procedere, ad esempio, per altre molecole come l’etano ed il metano. I valori riportati in tabella indicano che ogni gruppo chimico dà un uguale contributo indipendentemente dalla molecola di provenienza. Nel caso del CH2, per esempio, tale contributo è identico qualora si ottenga sia per sottrazione tra etano e metano, sia tra alanina e glicina che tra leucina e valina. Ne deriva che il gruppo CH2 fornisce un apporto di 0.7 kcal/mol quale gradimento di ripartizione verso l’ambiente idrofobico indipendentemente dalla molecola in cui si trova.

Se si calcola il ΔG di trasferimento del metano dal benzene (situazione idrofobica) all’acqua, il valore risulterà positivo in quanto il metano non gradisce un ambiente idrofilico.

In figura 13 sono riportati il contributo entalpico ed entropico relativi a tale trasferimento.

 

 

Figura 13. Variazione di energia libera per il trasferimento di molecole da solventi idrofobici all’acqua.

 

 

 

 

 

La tendenza delle molecole idrofobiche a non voler essere trasferite verso l’ambiente idrofilico è dovuta ad una componente entropica. Il ΔH infatti è negativo, di conseguenza, dal punto di vista delle interazioni entalpiche, la molecola gradisce essere sciolta in acqua, ma risultando il ΔS fortemente negativo e sapendo che ΔG = ΔH-TΔS, il valore finale di ΔG sarà positivo. In figura 14 è rappresentato lo schema di una molecola idrofobica che viene disciolta in ambiente acquoso; a tal fine occorre creare un’opportuna cavità ove inserire la molecola, così che l’acqua intorno si ordini e formi una gabbia o clatrato. L’acqua che ingabbia la molecola idrofobica è fortemente ordinata e quindi l’effetto idrofobico ha una forte connotazione entropica.

 

 

Figura 14. Formazione di clatrati per dissolvere molecole idrofobiche.

 

Tale effetto si amplifica via via che la molecola apolare assume dimensioni superficiali maggiori. Il grafico di trasferimento della catena laterale di un aminoacido da acqua ad etanolo, in cui sia riportata la superficie accessibile al solvente (SAS) della catena laterale in funzione del ΔG di trasferimento, denota un andamento lineare (Fig. 15). L’aumentare della dimensione della catena laterale comporta valori di ΔG sempre maggiori e negativi, in quanto sempre più ampia dovrà essere la cavità nel solvente e maggiore sarà il numero di molecole che dovranno ordinarsi intorno a questa molecola. Le molecole idrofobiche tendono a minimizzare la superficie accessibile al solvente, interagendo tra loro. Il valore della pendenza di questa retta corrisponde a 25 cal/mol Å2. Ciò significa che ogni Å2 della superficie dà un contributo di 25 cal/mol relativamente all’interazione idrofobica, valore che è stato trovato anche da esperimenti di stabilità realizzati su macromolecole proteiche.

 

Figura 15. Trasferimento di catene laterali di aminoacidi dall’acqua all’etanolo.

 

Ad esempio, nel caso del lisozima è stata calcolata la variazione di stabilità in seguito ad una serie di mutazioni di aminoacidi idrofobici interni (Fig. 16).

 

 

Figura 16. Variazione della stabilità di una proteina in seguito alla creazione di cavità interna.

 

In dettaglio, sono state eliminati aminoacidi di leucina nel core idrofobico della proteina, mutandoli in alanina, al fine di creare cavità ed è stato misurato l’effetto sulla stabilità della proteina stessa. Detta analisi è stata attuata in modo sistematico, calcolando, per ognuno di questi mutanti, il ΔG di denaturazione, ovvero determinando la differenza di energia libera tra la forma nativa e quella mutata, per poi valutare l’effetto della mutazione sulla stabilità. La destabilizzazione è direttamente proporzionale all’area della cavità creata nella proteina (Fig. 16), e la pendenza della retta raffigurata ha un valore intorno a 20 cal/mol Å2. Ne consegue che superfici intorno a 100 Å2 offrono un contributo di stabilizzazione dell’ordine di 1-2 kcal/mol. In sintesi, quando un soluto idrofobico viene sciolto in un solvente acquoso si verificano tre eventi che determinano l’energetica totale del processo:

  • creazione di una cavità nel solvente;
  • introduzione del soluto nella cavità;
  • riarrangiamento del soluto e del solvente in modo da ottimizzare l’interazione.

Nella figura 17 è schematizzato il passaggio in un solvente acquoso a due differenti temperature di una molecola non polare in fase gassosa, liquida e solida rispettivamente.

 

 

Figura 17. ΔG di trasferimento di una molecola non polare nelle sue diverse fasi verso la soluzione acquosa.

 

Nella valutazione termodinamica del processo si deve tener presente che la variazione di entalpia ΔH riflette la differente ampiezza delle interazioni non covalenti tra le molecole nelle due fasi, mentre il cambiamento di entropia ΔS riflette modificazioni del disordine. La figura 17 (parte sinistra) mostra la transizione dalla fase liquida alla soluzione acquosa alla temperatura, prossima all’ambiente, per la quale si ha un ΔH pari a zero. Se ne deduce che la molecola interagisce parimenti sia nell’ambiente idrofobico che in quello idrofilico e quindi l’energetica delle interazioni entalpiche è comparabile. Il valore di ΔG è però positivo e questo è quindi dovuto a motivi entropici. Le molecole di acqua si ordinano intorno alla molecola idrofobica e, anche se questo avviene per ottimizzare la solubilità della molecola idrofobica, la riduzione del disordine comporta un costo energetico in termini entropici. Se si aumenta la temperatura l’agitazione termica fa muovere maggiormente le molecole di acqua rendendole più disordinate. E’ possibile incrementare la temperatura fino al livello in cui la variazione di entropia per la transizione dalla fase liquida alla soluzione acquosa sia pari a zero (Fig. 17, parte destra). Ciò implica che non vi è nessun costo energetico di tipo entropico nel passare dalla fase liquida alla soluzione acquosa. Anche in questo caso, il valore di ΔG è positivo, implicando che la penalizzazione energetica è di tipo entalpico. Tale penalizzazione è superiore all’esperimento effettuato a più bassa temperatura (Fig. 17). Ne consegue che l’effetto idrofobico è temperatura dipendente e si riduce al diminuire della temperatura.

La presenza di una scala relativa di idropatia per gli aminoacidi può essere sfruttata per predire quali sono i segmenti di una proteina che si trovano all’interno di una membrana. Infatti, una volta determinati i valori di ΔG di trasferimento per tutte le catene laterali, è possibile definire una scala relativa che indichi, ad esempio, quanto l’arginina sia più idrofilica rispetto alla glicina, alla leucina e così via. In tal modo si è in grado di predire dalla sequenza di una determinata proteina la presenza di segmenti che hanno una buona probabilità di trovarsi all’interno di un doppio strato lipidico. A questo scopo vengono analizzate sequenze di segmenti di lunghezza compresa tra 17 e 21 aminoacidi (corrispondenti al numero di residui necessari per attraversare da parte a parte una membrana in conformazione ad α-elica). Attraverso la scala idropatica vengono effettuate analisi utilizzando ad esempio finestre di 17 residui e viene costruito un grafico di idropatia in cui si rileva il grado di idrofobicità dei segmenti di questa lunghezza in funzione della sequenza. In pratica, vengono presi i primi 17 residui, assegnando a ciascuno il suo valore idropatico, i valori vengono sommati e mediati ed il valore medio del segmento viene riportato nel grafico, sulla metà del segmento.

Viene quindi analizzato il segmento seguente che va dal residuo 2 al 18, ricalcolato il valore idropatico medio e assegnato alla metà del segmento, procedendo poi con l’analisi dei successivi segmenti (Fig. 18).

 

Figura 18. Predizione di segmenti transmembrana attraverso il grafico di idropatia.

 

 

A titolo esemplificativo, in figura 19 viene rappresentata l’analisi predittiva dei segmenti transmembrana del centro di reazione fotosintetica  per la subunità M e per la subunità L. Il grafico mostra che ci sono dei segmenti che hanno una connotazione idrofobica molto forte, corrispondenti ai segmenti che hanno un’alta probabilità di trovarsi all’interno della membrana.

 

 

 

Figura 19. Predizione di segmenti trans membrana delle sub unità M ed L nel centro foto sintetico.

 

 

Va sottolineato che i segmenti transmembrana, benché abbiano una caratteristica idrofobica rilevante, possono contenere anche residui carichi che spesso sono utilizzati dalla proteina per interagire con il suo specifico substrato.

 

 

Legame idrogeno

 

L’altra interazione debole di grande rilevanza per le macromolecole biologiche è costituita dal legame idrogeno che assume un importante ruolo nel modulare la stabilità di una macromolecola, ma soprattutto ha un peso fondamentale nei processi di riconoscimento macromolecolare.

Il legame idrogeno è un’interazione polare in cui 1 atomo di idrogeno elettropositivo è parzialmente condiviso da 2 atomi elettronegativi. L’idrogeno può essere considerato come un protone che si è dissociato parzialmente da un atomo donatore, permettendone così la condivisione da parte di un secondo atomo accettore. La presenza o meno di un legame idrogeno può essere delineata semplicemente tramite criteri geometrici. Affinché vi sia un legame idrogeno la distanza tra il donore e l’accettore deve essere 3 Ǻ e l’angolo tra il donore l’idrogeno e l’accettore deve essere uguale a 180 ± 60° (Fig. 20). Quando l’angolo è 180°, tutti e tre gli atomi sono allineati, per cui il legame è ottimale.

 

 

Figura 20. Il legame idrogeno

 

L’angolo può variare, ma se diventa inferiore a 120° non c’è più possibilità di condivisione dell’ atomo di idrogeno da parte del donore e dell’accettore (Fig. 21).

 

 

Figura 21. Due diverse rappresentazioni del legame idrogeno.

 

 

Nelle macromolecole proteiche il legame idrogeno si può formare tra numerosi gruppi della catena laterale, ma spesso avviene a livello della catena principale tra il carbonile e l’ammide ed è proprio la formazione di questa tipologia di legami idrogeno che determina la preferenzialità delle strutture secondarie. La macromolecola è in grado di formare legami idrogeno anche con il solvente e con molecole esterne come il substrato e la preferenzialità di interazione conferisce stabilità che può essere valutata considerando l’energetica totale.

Nel caso in cui siano presenti, ad esempio, due molecole in grado di creare un legame idrogeno tra loro e con il solvente, è necessario determinare l’energetica di interazione prima e dopo che sia avvenuta l’interazione bimolecolare. Le due molecole potrebbero essere un enzima ed un substrato (SB). L’enzima ed il substrato in soluzione, prima di interagire tra di loro, avranno una serie di gruppi in grado di interagire con l’acqua attraverso legami idrogeno. L’interazione enzima-substrato permette la formazione di uno o più legami idrogeno tra enzima e substrato, in seguito allo spiazzamento di molecole di l’acqua che vanno a formare un legame idrogeno con l’acqua del solvente. Se il legame è favorevole da un punto di vista energetico, la reazione si indirizzerà verso la formazione del legame enzima-substrato. Per capire la direzione della reazione va quindi calcolata l’energetica totale del sistema, ovvero va calcolato il numero totale di legami idrogeno prima e dopo la reazione per valutare la reazione da un punto di vista entalpico. Similmente si dovrà procedere da un punto di vista entropico. In sintesi, più che determinare il valore assoluto del legame idrogeno, occorre valutare l’energetica prima e dopo il legame enzima-substrato, (ossia il numero ed il tipo di interazioni esistenti), verificando se sia più favorole per l’enzima ed il substrato interagire tra loro oppure con il solvente.

 

 

Valutazione del contributo del legame idrogeno da misure della costante di equilibrio e di cinetica enzimatica

 

Un metodo agevole per valutare l’effetto di un legame idrogeno nella determinazione del legame tra un ligando (L) ed una proteina (P), consiste nel comparare, per la proteina nativa e la proteina mutata, la costante di dissociazione proteina-ligando, dopo avere eliminato un singolo residuo, che partecipa nella proteina nativa all’interazione con il ligando tramite un singolo legame idrogeno. La mutazione perturberà infatti la costante di dissociazione e, tramite un’analisi comparata, sarà possibile individuare il contributo, reso da quello specifico legame idrogeno, alla costante di dissociazione e quindi alla capacità di legare un determinato ligando. La costante di dissociazione KD è data da: [P][L]/[PL] e può anche esprimersi come rapporto della velocità di dissociazione k-1 sulla velocità di associazione k1. Il rapporto tra le due velocità identifica la costante di dissociazione KD che è pari all’inverso della costante di associazione ossia KD=1/KA.

Il ΔG relativo all’equilibrio tra la forma libera e legata che determina la capacità della proteina nativa di legare un determinato ligando, è correlato alla costante di associazione attraverso la relazione ΔG = -RTlnKA oppure ΔG = RTlnKD.

KA può essere misurato sperimentalmente sia in condizioni native sia in condizioni mutate, fornendo la possibilità di determinare la differenza di energia libera associata al processo di legame. Tale differenza:

 

ΔΔG = RT (logKD prot nat/KD prot mut)

 

permette di valutare quanto la mutazione introdotta accresca o riduca la capacità della proteina di legare il ligando.

Se il ΔΔG è negativo il mutante ha una minore capacità di legare il ligando rispetto alla nativa. Questa ridotta capacità può essere ricondotta all’eliminazione del singolo legame idrogeno, delineando così il suo contributo nel riconoscere un partner molecolare (che in questo caso è un ligando). Concettualmente l’esperimento è molto semplice: la proteina riconosce il ligando attraverso una serie di interazioni, tra le quali un legame idrogeno, che viene ad essere eliminato attraverso mutagenesi sito diretta. La misura della costante di dissociazione prima e dopo mutazione permette di valutare il peso del singolo legame idrogeno sulla costante di affinità.

Una misura termodinamica relativa al contributo di un singolo legame idrogeno può anche essere determinata utilizzando come indicatore, non la costante di affinità, come nell’esempio precedente, bensì i parametri che definiscono una cinetica enzimatica come kcat, KM e kcat/KM. Nello schema seguente è rappresentato la struttura generale di una reazione enzimatica dove E, S e P rappresentano l’enzima, il substrato ed il prodotto, mentre k1 k-1 e k2 identificano le costanti di velocità associate ai diversi steps del meccanismo.

 

E + S ES  E + P

 

Il contributo che i gruppi funzionali di un enzima forniscono alla catalisi può essere valutato comparando i parametri della cinetica allo stato stazionario dell’enzima nativo e dell’appropriato mutante.

Ricordiamo che kcat/KM può essere considerata come una costante di velocità al secondo ordine. Questo implica che può essere utilizzata per descrivere il processo che procede dai reagenti allo stato di transizione. Lo stato di transizione è lo stato ad energia più alta nello schema di coordinata di reazione ed è indicato con il simbolo*. La barriera energetica ΔGT* associata a questo processo può essere determinata tramite

 

 

ΔGT=  RT ln ( kBT/h) – RT ln ( kcat/KM)

 

Il cambiamento dell’energia di legame enzima-substrato nello stato di transizione tra la proteina nativa (wt) ed uno specifico mutante è dato da:

 

ΔΔGT* = ΔGT(wt)  - ΔGT*(mut)

 

ΔΔGT* = RT ln ( kcat/KM)mut/( kcat/KM)wt

 

 

ΔΔGT* rappresenta il cambiamento, nello stato di transizione, dell’energia di legame enzima-substrato causato dalla mutazione; ΔΔGT* sarà negativo per mutazioni che hanno un effetto destabilizzante sul legame nello stato di transizione, ovvero per mutazioni che abbassano il valore di kcat/KM.

Analizzando lo schema riportato in figura 22, è possibile approfondire l’energetica della reazione al fine di verificare se l’effetto della mutazione si riflette sul legame enzima-substrato nello stato fondamentale e/o nello stato di transizione. ΔGT* è costituito da un termine energetico favorevole ΔGB, associato con il legame del substrato e da un termine sfavorevole ΔG*, associato con l’attivazione chimica.

 

 

Figura 22. Schema energetico di una reazione enzimatica

 

 

 

Una mutazione può perturbare uno solo o entrambi gli stati energetici, provocando una variazione energetica del complesso enzima-substrato nello stato fondamentale e/o nello stato di transizione. Per reazioni che soddisfano l’equazione di Michaelis-Menten, KM può essere usato per calcolare ΔGB, mentre kcat può essere utilizzato per determinare ΔG*.

Lo schema energetico di una mutazione che provoca una perturbazione in maniera uniforme, sia nello stato fondamentale che nello stato eccitato (Fig. 22, linea intera superiore), produce  un aumento di KM, ma nessun effetto su kcat, in altre parole, ΔGB risulterà maggiore mentre ΔG* rimarrà invariato. Se il fenomeno avviene soltanto nello stato di transizione (linea tratteggiata), KM non varierà, ma kcat risulterà minore, (ovvero ΔGB resterà immutato mentre ΔG* risulterà incrementato). In entrambi i casi il rapporto kcat/KM tende a diminuire, nel primo caso la riduzione è dovuta all’aumento di KM, mentre nel secondo deriva dalla diminuzione di kcat.

Consideriamo il caso in cui vengano utilizzate  misure di kcat e KM per l’enzima nativo e per una serie di mutanti, al fine di esaminare il ruolo di una singola catena laterale nel legare il substrato attraverso legame idrogeno. La misura delle costanti di cinetica enzimatica permette di ricavare l’energetica del singolo legame idrogeno che è stato eliminato. In sintesi, si esegue una misura di cinetica enzimatica allo scopo di calcolare un parametro termodinamico. L’enzima preso in considerazione è la tirosil-tRNA-sintasi che catalizza l’aminoacilazione del tRNA con la tirosina. La reazione avviene in due passaggi: il primo consiste nell’attivazione della tirosina per formare il tirosil adenilato con la liberazione di pirofosfato, il secondo nel trasferimento della tirosina al tRNA con il rilascio di AMP (Fig. 23).

 

 

Figura 23. Schema di reazione della tirosil-tRNA sintasi.

 

L’intermedio è generalmente instabile, ma l’incubazione dell’enzima con ATP in presenza di pirofosfatasi, che idrolizza il pirofosfato impedendo la reazione inversa, rende il tirosil adenilato legato all’enzima un intermedio estremamente stabile e cristallizzabile, consentendo di descrivere l’interazione a livello atomico. Il tirosil adenilato crea con l’enzima nativo un network di 11 legami idrogeno (Fig. 24). I legami idrogeno vengono eliminati selettivamente e singolarmente e l’effetto viene verificato misurando l’efficienza enzimatica, ossia viene calcolato il rapporto kcat/KM della proteina nativa e mutata al fine di ottenere una relazione relativa all’energetica del contributo dello specifico idrogeno eliminato. La figura 24 mostra la presenza di una vasta rete di legami idrogeno che avvengono tra gruppi carichi e gruppi polari ed è ipotizzabile che il contributo del legame idrogeno possa essere diverso a seconda che siano coinvolti gruppi polari o gruppi carichi.

 

 

Figura 24. Reti di legami idrogeno tra l’enzima e il tirosiladenilato.

 

 

Analizziamo l’effetto di alcune mutazioni. Le mutazioni tirosina à fenilalanina-34 e cisteina à glicina-35 riguardano gruppi polari della proteina che creano legame idrogeno con altri gruppi polari del substrato.

 

 

 

Tabella VI. Parametri cinetici della tirosil-tRNA sintasi.

 

 

 

 

 

La mutazione cisteina-glicina porta ad una variazione di kcat/KM di circa un fattore 3-4 da 3.7×106 a 1.1×106. La variazione è relativamente contenuta ed il contributo energetico, attribuibile al singolo legame idrogeno, è intorno a 1 kcal/mol (Tabella VI). La mutazione tirosina-fenilalanina porta ad una variazione di kcat/KM di circa un fattore 2-3 da 3.7×106 a 1.5×106 ed il contributo energetico relativo è intorno a 0.5 kcal/mol. La variazione di kcat/KM è quindi correlabile alla perdita del legame idrogeno che si ha ad esempio tra la cisteina ed il gruppo idrossile del ribosio.

La trasformazione dell’istidina 48 in glicina porta alla perdita di un legame idrogeno che avviene tra un residuo carico positivamente (istidina 48) ed un atomo polare del ribosio. In tal caso l’effetto della mutazione dovrebbe portare ad una maggiore variazione energetica, in quanto un legame idrogeno tra una carica positiva ed un gruppo polare dovrebbe essere più forte rispetto a quello tra due gruppi polari. Tuttavia, la tabella VI mostra che la modificazione di kcat/KM dovuta alla mutazione, è di circa un fattore 6 e che la corrispondente variazione di energia libera è di circa 1 kcal/mol, ovvero della stessa grandezza delle mutazioni precedenti.

 

Tale esito può essere analizzato costruendo un bilancio energetico della situazione dell’enzima e del substrato prima e dopo la loro interazione come riportato in figura 25.

 

 

 

Figura 25. Schema della formazione dei legami idrogeno tra l’enzima e il substrato.

 

Nel primo caso è stato eliminato un residuo polare (cisteina 35) che genera legame idrogeno con un gruppo polare del substrato. Nella situazione nativa, prima dell’interazione enzima-substrato, l’enzima ed in particolare la cisteina 35 forma legami idrogeno con l’acqua così come il substrato (a); quando enzima e substrato interagiscono, questi gruppi dell’enzima e del substrato danno origine ad un legame idrogeno e similmente si comporteranno le acque. La scomparsa della cisteina per mutazione produce l’eliminazione di un singolo legame idrogeno da parte dell’enzima sia a destra che a sinistra della reazione, ossia dell’interazione della cisteina sia con l’acqua sia con il substrato, mentre continuerà ad esistere un legame idrogeno tra il substrato e l’acqua e tra le molecole di acqua, perciò la reazione è isoentalpica.

Osservando la situazione che si determina in presenza di un gruppo carico come l’istidina, si rileva che (prima del riconoscimento tra enzima e substrato) la carica dell’istidina forma un legame idrogeno con l’acqua di tipo carica-dipolo, che è più stabile rispetto ad un legame idrogeno dipolo-dipolo. Ne consegue che a sinistra della reazione è presente un legame idrogeno carica-dipolo oltre ad un legame idrogeno dipolo-dipolo tra il substrato e l’acqua (c). Una situazione simile si verifica a destra della reazione, ove è presente sia un legame idrogeno carica-dipolo, (tra l’enzima ed il substrato), sia un legame idrogeno dipolo-dipolo tra le molecole d’acqua (c). La mutazione dell’istidina provoca l’eliminazione del legame idrogeno carica-dipolo, ma questa avviene sia a destra che a sinistra della reazione (d), rendendo quest’ultima isoentalpica. Ciò spiega perchè l’eliminazione dell’istidina (un residuo carico) determina una diminuzione del contributo al legame del substrato identico all’eliminazione di un residuo non carico: in tutti e due i casi, infatti, l’energetica a destra e a sinistra è la stessa ed il ΔG risulta dell’ordine di grandezza di 1 kcal/mol.

Osserviamo adesso l’effetto della mutazione della tirosina 169 in fenilalanina. Il residuo 169 forma un legame idrogeno con un gruppo  del substrato carico positivamente. L’effetto della mutazione sulla costante di specificità kcat/KM è estremamente rilevante, il valore passa infatti da 106 a 103 e la variazione del contributo energetico è dell’ordine di 4 kcal/mol (tabella VI). Dunque, la trasformazione di un residuo che forma un legame idrogeno con un gruppo carico del substrato, comporta una riduzione della specificità di un fattore mille, che da 106 passa a 103 ed ad una variazione del contributo energetico non più dell’ordine di 1 kcal/mol, ma di 4 kcal/mol. La motivazione si evince dall’analisi dell’energetica totale (Fig. 26).

 

 

 

Figura 26. Schema della reazione del legame idrogeno tra l’enzima e il substrato in seguito a delezione di un aminoacido che interagisce con un gruppo carico del substrato.

 

Prima dell’interazione enzima-substrato l’enzima nativo interagisce con l’acqua con un’interazione dipolo-dipolo, mentre il substrato  interagisce con l’acqua con un’interazione carica-dipolo, quindi particolarmente forte; successivamente al legame enzima-substrato è presente un’interazione carica-dipolo tra l’enzima ed il substrato ed un’interazione dipolo-dipolo tra le molecole di acqua. La mutazione del gruppo dell’enzima che interagisce con un gruppo carico del substrato determina un’ asimmetria delle interazioni a destra ed a sinistra della reazione. A destra della reazione non si verifica l’interazione carica-dipolo perchè la catena laterale della tirosina (con cui interagiva il substrato carico) non esiste più, mentre permane l’interazione dipolo-dipolo. La situazione è asimmetrica, in quanto a destra si è verificata una perdita energetica dal punto di vista entalpico, in altre parole, la situazione energetica di sinistra e più favorevole rispetto a quella di destra. La variazione del contributo dovuta alla perdita di questo legame idrogeno è quindi di 4 kcal/mol e ciò influisce in modo incisivo sul valore della specificità dell’enzima kcat/KM, che si riduce di un fattore mille. L’esempio descritto conferma che i legami idrogeno forniscono contributi energetici dell’ordine di qualche kcal/mol, ma dimostra anche la loro rilevanza in termini di specificità, soprattutto per legami idrogeno in cui sono coinvolti gruppi carichi. L’analisi dell’energetica totale del sistema è fondamentale per capire che l’effetto è dipendente dalla posizione della carica: se la carica è collocata sulla proteina (per es. l’istidina 48) la perdita di specificità è molto contenuta, ma se la carica è collocata sul substrato è elevata, perché l’energetica è asimmetrica.

Occorre sottolineare, inoltre, l’importanza dei legami idrogeno nei processi di riconoscimento. La mutazione della tirosina 69 in fenilalanina determina infatti una riduzione di specificità per il substrato di un fattore 1000, ossia diminuisce di 1000 volte la sua capacità di riconoscere e processare quel definito substrato.

Dipolo: sistema costituito da 2 cariche elettriche puntiformi, uguali e di segno opposto, poste ad una distanza d. Il prodotto del valore assoluto di una delle cariche del dipolo per la distanza - indicato in Debye - è pari al momento dipolare.

 

 

Fonte: http://structuralbiology.bio.uniroma2.it/sites/default/files/_interazioninc_noncov.doc

Sito web da visitare: http://structuralbiology.bio.uniroma2.it

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