DAL ROMANZO AL FILM:
IL CASO DI AURA DI CARLOS FUENTES
Introduzione.
Fin dalle sue origini, appena si rese conto di essere in grado di raccontare delle storie, il cinema guardò alla letteratura come ad un serbatoio inesauribile di storie e personaggi. Questo processo creò dei rapporti tra letteratura e cinema, che possono essere analizzati attraverso vari approcci. Da un lato, si può prendere in considerazione lo scambio che è avvenuto a livello dei testi e, cioè, vedere come le opere letterarie sono state trasposte nel cinema e che tipo di rapporto si sia venuto ad instaurare tra il testo letterario di partenza e il testo cinematografico d’arrivo, concentrandosi soprattutto sui singoli testi. Si è soliti parlare di trasposizione cinematografica, quasi sottintendendo che la letteratura preesista al cinema e che sia, dunque, quest’ultimo a modellarsi riadattandosi ad una forma espressiva ben più antica e collaudata. In realtà, il discorso è molto più complesso, dal momento che, da quando il cinema ha assunto un ruolo di rilievo nel sistema delle arti e dei mezzi di comunicazione, si sono andate sviluppando generazioni di scrittori che hanno desunto dal cinema una serie di modelli iconografici e caratteriali, mutando notevolmente la propria sensibilità narrativa. In questo modo, il legame tra le due arti è diventato, a tutti gli effetti, un legame di scambio biunivoco.
Dall’altro lato si può avere un approccio strutturalista che si propone di analizzare in maniera comparata il funzionamento dei due dispositivi - quello cinematografico e quello letterario - osservandone le modalità e le regole interne, cercando di ricavarne principi generali di cui i singoli casi non sono che delle occorrenze. Si osserva, quindi, quanto la differenza di modalità d’espressione influisca sullo e nello sviluppo della vicenda. Ci si sofferma, dunque, su come inevitabilmente cambi il punto di vista nel passaggio dalla scrittura alla ripresa.
Infine, bisogna tener presente che nel panorama attuale risulta difficile parlare di cinema e di letteratura senza considerare che entrambi si trovano ormai inseriti in una sorta di rete intermediale e che il loro rapporto non è più esclusivo, ma allargato a una serie di mezzi di comunicazione che si è soliti riassumere sotto la dicitura “nuovi media”. Volendo, quindi, essere più corretti si dovrebbe parlare di relazione tra forme letterarie e forme audiovisive, includendo anche la televisione, internet e i videogame.
In questo testo ci siamo proposti di analizzare un romanzo, anomalo per il modo in cui è stato scritto (seconda persona singolare, con tempi verbali presenti e futuri), e il film che da esso è stato realizzato. Pochi anni di distanza tra l’uno e l’altro (il romanzo è del 1962, mentre il film è del 1967), due autori appartenenti a due culture differenti (Fuentes è messicano, mentre Damiani è italiano), ma soprattutto due modalità d’espressione molto differenti. Ed è proprio partendo da queste conoscenze che si può effettuare una analisi di un adattamento cinematografico. Bisogna considerare tutto e non solo se la trama è stata trasposta fedelmente, anzi, questo è proprio uno degli ultimi fattori che si deve prendere in considerazione per vedere la riuscita di un adattamento cinematografico. Ciò che conta è vedere come l’idea di base racchiusa in un libro si modifichi per trasferirsi dalla carta al mondo delle immagini. Ad esempio, quando nel 1911 la casa di produzione Cines decise di realizzare il primo lungometraggio della sua storia, la scelta cadde su Pinocchio di Collodi, ma secondo i produttori, Pinocchio non doveva essere solo un’opera per l’infanzia, bensì un romanzo d’avventura; quindi, la storia di Collodi venne seguita solo fino ad un certo punto: il rapporto con la fonte letteraria venne arricchito e stravolto a proprio piacimento e il risultato furono delle avventure apocrife di Pinocchio che, però, riscossero notevole approvazione da parte del pubblico. Lo stesso avviene tutt’oggi con le avventure di Superman, Batman, ed altri supereroi presi in prestito dal mondo della carta stampata.
Fino a poco tempo fa, si era portati ad attribuire un maggiore potere formativo alla letteratura rispetto al cinema, basandosi sull’idea che essa stimolerebbe la fantasia del lettore, mentre il cinema lo coinvolgerebbe in una forma di narrazione in cui egli trova già tutto predefinito. È un approccio che, fortunatamente, pare essere stato superato. Dal momento in cui lo si pone nel panorama dei media dal flusso magmatico delle immagini televisive, il cinema finisce per essere inserito nell’insieme di quelle arti che, come la letteratura, prevedono una struttura testuale compiuta e che paiono offrire al loro fruitore un qualche spazio critico.
La maggior parte di coloro che si sono occupati della questione cinema/letteratura ha considerato i due poli del rapporto come delle forme d’arte, degli ambiti espressivi. In questa prospettiva è naturale vedere sia un libro che un film come il luogo dove un autore esprime la propria idea, il proprio stile. In questo senso si può vedere il rapporto che si instaura tra le due arti come un rapporto tra i rispettivi significati intrinseci nelle loro opere: quindi, si potrà dire che un adattamento è riuscito solo se al film verrà riconosciuta la medesima dignità artistica e culturale del libro da cui è stato tratto. Si può partire dal film e risalire al romanzo, per cercare di capire le intenzioni dell’autore e le sue caratteristiche stilistiche; oppure, all’inverso, da un testo letterario, si può cercare di comprendere che cosa esso è diventato in un film, e da qui cercare di capire cosa vogliono trasmettere con queste trasformazioni coloro che l’hanno realizzato e a chi si rivolgono; senza mai dimenticarsi, comunque, che il rapporto che intercorre tra cinema e letteratura è un rapporto biunivoco: il cinema trae dalla letteratura storie, trame, personaggi, tecniche narrative, ma è in grado di restituirle all’universo di provenienza del tutto nuove, rielaborate. Si può, quindi, dire che, come alle origini il cinema veniva condizionato dalla letteratura, ora è quest’ultima ad essere condizionata dal cinema. La letteratura può assumere il cinema come perno attorno al quale ruotare: può interpretarlo minuziosamente, metterne in rilievo le caratteristiche profonde, assumerne modelli; può criticarlo, utilizzarlo strumentalmente come finestra sul mondo e, persino, reinventarlo.
I.
I RAPPORTI TRA MONDO LETTERARIO E CINEMATOGRAFICO.
1.1 IN PRIMO PIANO: dalla letteratura al cinema passando per la fotografia.
«Precisamente gli artisti, e in particolare modo quelli del teatro, hanno dato all’uomo occhi e orecchi per vedere e udire con qualche piacere ciò che ognuno è, vive, vuole; precisamente essi ci hanno insegnato a stimare l’eroe che è nascosto in ciascuno di tutti i comuni uomini, e il modo in cui ognuno può considerare se stesso come un eroe, visto di lontano e per così dire semplificato e trasfigurato, l’arte di “mettersi in scena” davanti a se stesso. Unicamente così noi possiamo passar sopra ad alcune basse particolarità che sono in noi! Senza quest’arte noi non saremmo altro che creature messe in prima linea, completamente in dominio di quell’ottica che fa apparire enormemente grande ciò che è più vicino e comune, e come se ciò fosse la realtà in sé. […]» .
Di questo brano colpisce come, pur non parlando esplicitamente della fotografia, il filosofo sembri imputare la causa della perdita del senso della distanza e del precipitare nell’immensità delle “cose ingrandite” all’arte fotografica. Emerge, in particolare, il sentimento doloroso che il filosofo ha della dissacrante frantumazione dell’immagine umana, a causa del «primo piano, che fa apparire le cose più comuni smisuratamente grandi, quasi fossero la realtà in sé e il loro sostituirsi alla realtà stessa» .
Soprattutto questo brano è sorprendente perché, nel richiamare l’arte più prossima alla fotografia non evoca la pittura, ma il teatro: fa, quindi, riferimento ad un’arte in movimento e non ad un’arte statica. La fotografia, infatti, con il suo alterare le distanze e con il suo frantumare l’essenza delle cose, diviene emblema della trasfigurazione del reale; un fenomeno che con l’avvento del cinema verrà ad ampliarsi enormemente . Infatti, il cinema fornisce all’ingrandimento e alla frantumazione una visione più viva ed intensa, in quanto il movimento dona alle immagini l’illusione di vita.
Il movimento - l’utilizzo dell’immagine - che caratterizza l’arte cinematografica rispetto alla fotografia, impone inoltre una propria percezione dei fatti, risultato che la letteratura non riesce, invece, a realizzare in quanto offre solamente un’accurata descrizione di un qualcosa che rimane pur sempre una visione soggettiva del singolo .
«Che il cinema potesse diventare prima di ogni altra cosa una macchina atta a raccontare delle storie, ecco qualcosa che non era stato davvero previsto» , osserva giustamente Christian Metz, inserendo nell’insieme dei “non preveggenti” proprio gli inventori di quel “cinematografo” - mi riferisco ai Lumière e a Edison - che a tutto pensavano fuorché al fatto che, da lì a poco sarebbe diventato, come fa giustamente notare L. Albano , il più diretto erede del grande romanzo dell’Ottocento.
Il racconto cinematografico è obbligato, difatti, a far vedere molte più cose che il racconto letterario può permettersi di lasciare nell’indeterminato. Il cinema è il mezzo d’espressione più idoneo a dare forma al mondo moderno, alla nostra esperienza attuale del mondo: «i film più belli, più importanti sono forse quelli in cui il racconto scritto non soffoca il film, in cui la sceneggiatura è ingiudicabile» .
La rappresentazione audiovisiva deve, quindi, organizzare sul piano dell’espressione elementi che la rappresentazione verbale organizza solo sul piano del contenuto. Come spiega Ejzenstejn: «Io posso produrre molte rappresentazioni di una barricata, ma una buona immagine di una barricata sarà quella che maggiormente mi restituirà sul piano dell’espressione qualcosa di fondamentale del suo contenuto. E, forse, quella che maggiormente rimarrà impressa nella memoria collettiva» . Per citare anche il grande Tolstoj: «Il cinematografo ci ha rivelato il movimento. E questa è una cosa grande» .
Il cinema usa la letteratura in modo molto più libero di quanto la letteratura non faccia con se stessa. Infatti, il cinema non solo ha tratto un numero sostanziale di film da grandissimi romanzi, ma ha anche creato un incredibile numero di varianti, tante quante poteva offrirne il plot di partenza, e che vanno dalla continuazione e variazione sul tema all’attualizzazione, alla satira e alla parodia .
Altra differenza tra letteratura e cinema è che «la narrazione di un film si avvale primariamente dello spazio in cui si muovono gli oggetti che intendono riprodurre la realtà e la macchina da presa che gli ruota attorno; mentre la narrazione di un libro si avvale soprattutto del tempo in cui si snoda la scrittura» .
Per parlare più correttamente del rapporto esistente tra cinema e letteratura, è più opportuno parlare del rapporto tra cinema e romanzo, dal momento che il termine letteratura può includere diverse forme d’espressione scritta che il cinema ha solo marginalmente accolto come, ad esempio, la poesia, l’epistolario e la saggistica .
I rapporti tra letteratura e cinema sono stati nel corso degli anni al centro di numerosissime ricerche e riflessioni: si è andati dall’analisi delle differenze tra i segni - rispettivamente verbali ed audiovisivi - utilizzati dai due ambiti, all’indagine sulle strutture narrative utilizzate da romanzi e film, o dall’analisi degli adattamenti cinematografici, allo studio della sceneggiatura come forma letteraria impropria. Per quanto i temi messi a fuoco siano stati diversi, la gran parte dei contributi si è, tuttavia, collocata su di un terreno di fondo comune: sia la letteratura che il cinema sono stati considerati essenzialmente come degli ambiti espressivi e cioè come dei luoghi in cui si manifesta una capacità di dar forma ad idee, sensazioni e orientamenti personali. Se si vuole, come luoghi in cui alla sensibilità del singolo è dato di congiungersi alla volontà e alla necessità di dare un’immagine di sé e del mondo .
Sia testi filmici che letterari «hanno tanto una forte funzione escapista quanto una forte funzione modellizzante: sembrano giocare con il mondo ed insieme ne danno un ritratto vincolante, il che per molti aspetti è paradossale in quanto nel loro giocare con la realtà, contribuiscono a creare una nuova realtà virtuale che però deve rimanere pur sempre vincolata all’idea del suo creatore» .
E’ indubbio, infine, che i due piani, letterario e cinematografico, vengano ad intersecarsi e a condizionarsi vicendevolmente: da quando è nato il cinema niente è più come prima, neanche il testo letterario. Con l’avvento del cinema, infatti, il testo letterario modifica i suoi modi di descrizione. E questo fa sì che, col passare degli anni, si instauri tra i due generi un legame che diventa sempre più tenace e inscindibile: «Il fatto è che, a furia di scindersi da quelle forme espressive che sembravano più vicine, geneticamente e socialmente, il cinema ha finito molto presto con il ritrovarsi tra le braccia di qualcosa a cui forse era meno ovvio pensare, il romanzo» .
Già Tolstoj, infatti, davanti all’emozione della nuova invenzione vide una rivolta «contro i vecchi metodi dell’arte letteraria» e prefigurò la necessità di «una nuova maniera di scrivere» .
Inoltre da sempre, il cinema si è posto al servizio della letteratura contribuendo alla sua diffusione di massa.
1.2 DALLA PAGINA ALLO SCHERMO.
«Narrare è una delle capacità fondamentali dell’essere umano in quanto animale parlante» .
Secondo Barthés «le récit commende avec l’histoire même de l’humanité, il n’y a pas, il n’y a jamais eu nulle part aucun peuple sans récit» (il racconto comincia con la storia dell’umanità. Non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti…internazionale, transtorico, transculturale, il racconto è là, come la vita) .
La capacità di narrare può essere espressa sotto varie forme, che possono essere orali o scritte, auliche o popolari, mediante l’utilizzo di parole, gesti o immagini o della loro commistione. Inoltre, si può spaziare dall’epica alla storia, dal mito alla leggenda, dalla tragedia alla pantomima, dalla pittura al cinema.
A prescindere dalle diverse forme, l’essenza fondamentale del racconto rimane una sola: la rappresentazione di uno o più soggetti e del percorso di trasformazione che essi compiono da uno stato ad un altro. E, sia che si tratti di un racconto cinematografico o di un racconto letterario, si verrà ad instaurare un rapporto inscindibile tra il suo creatore-autore e il soggetto - da lui creato - nel proprio processo di trasformazione.
Il rapporto tra l’autore-creatore e la sua opera scaturisce, quindi, dall’esito di una serie complessa di elementi appartenenti al mondo dell’autore fino a che l’opera non si sarà totalmente formata e che andranno ad appartenere al nuovo mondo dal momento in cui esso verrà a costituirsi. Infatti, dopo la creazione, l’opera si stacca dal suo autore ed entra nel mondo dei suoi fruitori subendo, così, un’ulteriore trasformazione: ognuno, infatti, rielabora sempre dentro di sé il messaggio che un’opera gli ha voluto trasmettere, facendolo diventare un qualcosa di proprio .
Il discorso diventa più complesso quando si decide di prendere un “eroe di carta” e trasportarlo sullo schermo poiché quel personaggio possiede già una sua struttura autonoma, ben definita, che qualcun altro ha creato e di cui bisogna tener conto. Quindi, il regista si troverà di fronte ad un personaggio concreto, già pronto, a cui dover adattare un “contorno”. Dovrà scrivere una storia con gli elementi che trova nel testo letterario, che sia al tempo stesso uguale e diversa; e dovrà inventarsi uno stile che tenga conto di quelli dello scrittore e dei suoi personaggi. Queste sono le condizioni preliminari per una trasposizione in cui il regista sia autore-creatore e non solo il divulgatore di un’opera letteraria.
Così Pasolini descrive l’interazione tra fruitore e creatore: «Lo spettatore, per l’autore, non è che un altro autore…Se dunque parliamo di opere d’autore, dobbiamo di conseguenza parlare del rapporto tra autore e destinatario come di un drammatico rapporto tra singolo e singolo democraticamente pari» .
Il film deve proporre e richiedere una partecipazione attiva da parte del fruitore, secondo una strategia comunicativa che si avvalga, in questo caso, di quelle che Iser definisce «interruzioni nel testo» , che spingono il fruitore ad interagire col testo: ogni volta che egli «colma gli spazi vuoti, la comunicazione comincia. I vuoti funzionano come una specie di carrello sul quale gira la relazione testo-lettore» .
In ogni caso, non va dimenticato che, come ricorda Barthés, «l’autore non è colui che inventa le storie più belle, ma colui che padroneggia meglio il codice che condivide con gli ascoltatori» e cioè chi trova il modo e lo stile migliore per raccontarle utilizzando il famoso “linguaggio medio” di Pasolini. Quindi, l’autore sarà in grado di risolvere tutti quei piccoli problemi traspositivi che sorgono a tradurre con le immagini ciò che le parole descrivono. Ad esempio, in un’esercitazione con i suoi studenti, Ejzenstejn legge un brano da Il Cappotto di Gogol e chiede loro come renderebbero la frase «pareva in capo al mondo» . Trovare una risposta a questo quesito non è affatto facile, ma è fondamentale per la riuscita di una buona trasposizione dalla carta alle immagini. Infatti, la trasposizione altro non è che l’equivalente creativo dell’idea che l’autore voleva dare con il suo libro ed è solo penetrando nel mondo dello scrittore che il regista sarà in grado di compiere una trasposizione ben riuscita.
Sulla pagina scritta il lettore trova dei segni che provocano delle immagini mentali che, a loro volta, rappresentano gli oggetti significati da tali segni; nel film, invece, significante e significato si trovano a coincidere. Ad esempio: in un testo scritto, il fiore rosa è rappresentato dalla sequenza grafica “rosa”, sullo schermo, invece, è la rosa stessa che compare inquadrata, a significare se stessa. Anche se bisogna tener presente che il racconto scritto con delle accurate descrizioni può permettere al lettore di vedere ciò che in realtà non è assolutamente mostrato, come ad esempio con una descrizione così dettagliata di una rosa da non aver bisogno di utilizzare il termine rosa nemmeno una volta .
Alla fine di tutte queste riflessioni che cosa significa “fare il film di un romanzo?” Prima di fornire una risposta a questo quesito è opportuno soffermarci a delineare,
seppur in maniera sintetica, i caratteri semiotici del cinema, il che equivale a inquadrare il film come codice comunicativo, cioè come linguaggio, come paradigma di significati, indipendentemente dalla sua configurazione all’atto del processo di comunicazione.
Quello cinematografico è un codice comunicativo complesso, risultante cioè dalla
combinazione ed interazione di più codici comunicativi, nella fattispecie il codice iconico, o immaginativo (cui compete tutto ciò che compare sullo schermo), il codice linguistico (fornito dalle battute pronunciate dagli attori e da qualsiasi scritta a video) e il codice musicale (la colonna sonora e in misura minore anche gli effetti sonori). Quindi, una volta definita la complessità del codice cinematografico, risulterà facile cogliere che sussistono una serie di differenze tra i due sistemi - del cinema e del romanzo - di cui bisogna tener conto: la simbolicità delle forme linguistiche contro la verosimiglianza dell’immagine; la rigidità dei formati dei testi audiovisivi contro la libertà di quelli scritti; la rigidità temporale che caratterizza il consumo del testo audiovisivo (dove il tempo dell’enunciazione e quello della fruizione coincidono) contro l’autonomia del tempo di lettura .
Nel nostro caso si parla di traduzione intersemiotica tra due testi che, nonostante le loro diversità di stesura e di fruizione, presentano moltissime affinità. Ad esempio: entrambi mirano a trasmettere, sebbene con modalità differenti, il loro messaggio nella maniera più chiara possibile al maggior numero di persone; entrambi, quindi, mirano alla popolarità. Ed è proprio per questa necessità di popolarità che il cinema da sempre attinge indifferentemente sia dalla produzione letteraria alta che da quella di consumo: nel primo caso, chiedendo al testo letterario una legittimazione culturale ed un trasferimento di popolarità; nel secondo caso, confidando nel fatto che la trasposizione comporti anche il trasferimento del successo presso il grande pubblico.
Ma la popolarità dell’opera letteraria e la sua autorevolezza non sono sempre sufficienti a garantire la buona riuscita del film che, servendosi di un codice di comunicazione autonomo, diventa un’opera altra che solo in virtù del proprio linguaggio può pretendere la riuscita e di conseguenza la popolarità .
Come afferma Ricciotto Canudo: «Si vuol essere popolari ad ogni costo. L’unica preoccupazione è di conservare il livello dell’emozione artistica abbastanza basso affinché vi possa partecipare il più gran numero d’uomini possibile. In realtà, quale che sia l’altezza intellettuale o morale raggiunta, si può sempre abbassarsi per toccare per terra. Discendere è certamente più facile che salire. Che importa il prestigio naturale di una nazione? Bisogna toccare il maggior numero di persone: le leggi del commercio sono basate unicamente sulla quantità, la qualità può benissimo restare in second’ordine» .
Finora abbiamo parlato solo della traduzione da romanzo a film, ma esistono anche casi in cui è possibile la procedura inversa: Twin Peaks e The Blair Witch Project ,
possono esserne due esempi. In questo caso è stato l’enorme successo avuto dai
film a richiedere la nascita dei due romanzi e non il contrario.
Bisogna ammettere che la procedura che permette di tradurre le immagini in parole possa essere forse più semplice di quella che traduce le parole in immagini, perché in questo caso non si tratta di una visione soggettiva di quello che l’autore voleva dire, ma di una “riscrittura guidata” di ciò che si è visto in tutta la sua interezza. Ad ogni modo in nessuno dei due casi citati è corretto parlare di una traduzione, ma è più opportuno classificarli come un’ispirarsi all’opera per aggiungere qualcosa in più.
Si può ricercarne la causa nel fatto che gli autori dei due libri abbiano ritenuto superfluo riscrivere con le parole ciò che le immagini avevano già raccontato in maniera più che esauriente.
Forse l’unico vero esempio in cui si può parlare di traduzione da film a romanzo può essere considerato Billy Elliot , di cui Melvin Burgess ha scritto il testo basandosi appunto sulla sceneggiatura e di cui egli stesso ci spiega le ragioni della sua scelta:
«Davanti alla sceneggiatura di Billy Elliot mi sono chiesto: perché non scrivere un romanzo? Ecco la risposta: un romanzo è come un occhio interno. Scopre i pensieri e i sentimenti più intimi dei protagonisti, ci permette di capire perché accadono certe cose, ci rivela le motivazioni più profonde…» .
In tutti gli esempi citati di trascrizione da film a pagina scritta si fa riferimento per lo più ad un tipo di scrittura intimistica che si avvicina a quella del diario, forse perché l’unico modo che ha la pagina scritta per superare la rappresentazione visiva è vincerla nel descrivere quelle emozioni e quei pensieri che le immagini non sono in grado di esplicitare totalmente.
Tornando a quello che è il nostro argomento centrale, e cioè la traduzione dal romanzo al film, si pone un altro quesito: la fedeltà. Si dirà che una traduzione è fedele quando le due dimensioni, semantica e pragmatica, sono rispettate e, più specificatamente, quando il nuovo testo saprà costruire un simulacro del soggetto enunciatore il più possibile analogo a quello del testo di partenza. Piuttosto che di fedeltà o di infedeltà, sarebbe più consono parlare del modo in cui il film «lavora» il romanzo e cioè del tipo di lavoro critico, del tipo di lettura interpretativa che il primo effettua sul secondo, quindi, della costruzione sul romanzo di un’opera nuova attraverso il cinema. Il film non deve essere qualcosa di paragonabile al romanzo, o degno di «lui» , ma «un nuovo oggetto estetico che sia il risultato del prodotto del romanzo moltiplicato per il cinema: immagine e parola devono essere in relazione perché sia autore che regista si rivolgono direttamente al lettore e allo spettatore con l’intenzione di dire quasi la stessa cosa anche se con l’utilizzo di modalità differenti» .
1.3 COME SI LEGGE UN FILM?
La sceneggiatura è il primo passo verso il film. Infatti, un film di solito è il risultato di almeno un’idea coerente elaborata in forma scritta ancor prima che ne comincino le riprese . In prima approssimazione sembrerebbe ovvio affermare che, mentre in letteratura la scrittura è un punto di arrivo, nel cinema appare come una fase intermedia; che, mentre in letteratura la scrittura è un fine, nell’audiovisivo è uno strumento importante, ma gregario; che mentre in letteratura il testo scritto è l’unica materializzazione tangibile e persistente di un processo creativo, al cinema è invece una sorta di forma effimera destinata a scomparire dietro e “dentro” l’oggetto film. La sceneggiatura è insomma «una scrittura che viene sistematicamente negata, sacrificata, perché nasca un’altra scrittura, quella audiovisiva» .
Un film si differenzia da altre opere d’arte perché è il risultato di processi di creazione complessi che coinvolgono immancabilmente, non una persona sola, ma un’intera equipe. La sceneggiatura, in questo senso, è uno strumento per riunire attorno ad uno stesso progetto personalità e professionalità diverse. Vediamo quindi come si costruisce una sceneggiatura:
- idea, può essere un’idea originale o l’adattamento per il cinema di un romanzo, un racconto o un’opera teatrale;
- soggetto, è la prima fase materiale del lavoro dello sceneggiatore. Qui le vicende che dovranno prendere corpo nel film sono descritte per sommi capi senza una caratterizzazione precisa di personaggi, azioni e intreccio;
- trattamento, con esso il soggetto è sottoposto ad un’ulteriore elaborazione, che ne identifica e sviluppa in chiave drammatica i vari elementi. In esso non compaiono ancora indicazioni precise sulle modalità con cui il regista trasformerà le azioni ed i dialoghi descritti sulla pagina in immagini che saranno aggiunti nella scaletta;
- scaletta, costituisce già una fase di lavorazione del film e si ottiene suddividendo il trattamento in una serie di scene numerate;
- sceneggiatura, la sceneggiatura vera e propria è il risultato dell’unione tra il trattamento e la scaletta, ovvero tra una parte letteraria che descrive puntigliosamente i personaggi, gli ambienti e le azioni da riprendere e la descrizione tecnica delle diverse scene in cui le azioni devono essere suddivise.
Per semplificare ulteriormente il lavoro di ripresa è possibile creare quello che si definisce un decoupage tecnico, ovvero uno schema in cui la scaletta viene ulteriormente suddivisa in inquadrature con indicazioni precise su ogni singolo movimento della macchina da presa, degli attori sulla scena, degli effetti della luce e degli effetti sonori. A volte, si ricorre anche ad uno story-board, ovvero ad una rappresentazione in cui le varie inquadrature e/o scene sono rappresentate graficamente come in un fumetto.
Una volta messa a punto la sceneggiatura, il film è virtualmente finito: «la sceneggiatura viene quindi a rappresentare il punto d’incontro, l’anello di congiunzione, tra le due arti; mentre una descrive giocando retoricamente sulle parole, l’altra mostra un’immagine, giocando non solo con le parole e con le azioni, ma soprattutto con il montaggio» . Anello di congiunzione che però risulta essere una scrittura condannata a morte, e, per usare la definizione metaforica data da Lidia Ravera nel suo saggio Le regole del gioco, «è un bruco, la sceneggiatura, il film è la farfalla, poiché devono spuntare ali colorate e generatrici di fascino, il verme originario deve dissolversi» . La sceneggiatura, dunque, è un «oggetto effimero: non è concepito per durare, ma per cancellarsi, per divenire altro» : nonostante questo è assolutamente indispensabile per la realizzazione di un film.
1.4 ANALISI DEI SEGNI: signifiant et signifié.
La semiotica mette al centro del suo progetto lo studio del cinema in quanto forma di significazione e comunicazione e, sotto questo aspetto, Barthés ritiene che esso sia confrontabile con altri tipi di linguaggi. Barthés analizza, quindi, le immagini come segni rifacendosi alla teoria di Saussure nella quale un segno è costituito, per definizione, dal saldarsi di un signifiant a di un signifié.
E’, però, necessario precisare che utilizzare gli strumenti della linguistica non significa affatto riconoscere che il cinema sia un linguaggio nel senso proprio del termine , anzi, uno dei contributi del pensiero di Saussure consiste proprio nell’aver esteso i confini della significazione al di là del solo linguaggio articolato, postulando una scienza generale dei segni - la semiologia - di cui la linguistica è una parte. Saussure indica come esempio di semantica extralinguistica la pantomima che costituisce un sistema semiologico relativamente semplice poiché al suo interno il rapporto che unisce il gesto al suo significato è codificato. Il cinema pone evidentemente problemi di ordine semantico molto più complessi nella misura in cui pretende (come tutta l’arte occidentale) che signifiant e signifié siano legati da un rapporto pienamente analogico e, dal momento che si stabilisce un rapporto di equivalenza tra due termini, l’analisi semiologica trova il proprio fondamento; è in questo senso che Barthés parla di “logomorfismo” del cinema, definendo cioè «il cinema come un logos e non un linguaggio» .
Quindi, signifiant e signifiè verranno ad assumere dei valori differenti se inseriti in un sistema complesso come quello audiovisivo:
- Signifiant: i supporti generali del signifiant sono la scenografia, i costumi, le location, la musica e in qualche modo i gesti. Il momento della loro apparizione dovrà essere oggetto di uno studio particolare: i segni vengono ripartiti lungo il film con una densità differente. E’ eterogeneo poiché può sollecitare due sensi distinti: la vista e l’udito, e a questo proposito va sottolineata l’importanza della colonna sonora. E’ polivalente, in quanto un significato può esprimersi attraverso molti significanti. Ed è combinatorio, dal momento che può combinare diversi significanti per ottenere un significato;
- Signifié: in generale ha carattere concettuale, è quindi, un’idea che esiste nella memoria dello spettatore e che il significante attualizza, avendo su di esso un potere esclusivamente di richiamo e non di definizione. E’ proprio per questo motivo che in semiologia non si può postulare un rapporto d’equivalenza tra signifiant e signifié. Non si tratta di un’uguaglianza di tipo matematico, bensì di un rapporto dinamico, dal momento che la significazione non è mai immanente al film, ma lo trascende.
Il rapporto tra signifiant e signifié risulta, quindi, essere di tipo analogico, non arbitrario, motivato, e dal momento che c’è una brevissima distanza tra i due, si tratterà di una semiologia non solo strettamente analogica, ma anche scarsamente simbolica. Per fare un esempio, quando si dovrà significare un generale, si rappresenterà un uomo in uniforme da generale con tutti i dettagli annessi e connessi.
1.5 LA DIEGESI: nella sua strutturazione spazio-temporale.
Il cinema è diventato un discorso capace di organizzare se stesso come un racconto. Infatti, passando da un’immagine ad una sequenza di immagini diventa un linguaggio.
La vera analogia tra cinema e linguaggio, quindi, risiede non al livello delle unità di base, ma nella loro comune natura sintagmatica. Entrambi, infatti, costruiscono un discorso attraverso operazioni sintagmatiche e paradigmatiche. Così come il linguaggio seleziona e combina fonemi e morfemi al fine di comporre delle frasi; il cinema seleziona e combina immagini e suoni al fine di formare dei sintagmi e cioè delle unità narrative autonome al cui interno i diversi elementi interagiscono per produrre il senso .
Si è parlato di senso in quanto la finalità di ogni racconto, verbale o audiovisivo che sia, è quella di far percepire al suo fruitore il senso racchiuso nel discorso. La narratività si basa su un’operazione mentale simile ad un sofisma: post hoc ergo propter hoc. Quel che in logica sarebbe un sofisma è uno dei principi su cui è fondata la narrazione: il presupposto che un rapporto causa-effetto leghi gli elementi temporali in una sequenza narrativa . Quindi, il riconoscere un’opera pari ad una storia equivale a considerarla in possesso di una sequenzialità temporale basata su un principio di causa-effetto. Metz analizza, appunto, questa sequenzialità temporale ricorrendo alla nozione di diegesi, presa a prestito dalla tradizione greca classica del commento letterario. Nella Poetica Aristotele utilizza il termine diegesi per riferirsi al modo di rappresentazione che implica il “raccontare” (telling) piuttosto che il “mostrare” (showing) . Per Genette diegesi diviene quasi sinonimo di storia, poiché è volto ad indicare eventi e personaggi collocati all’interno di un racconto, cioè il significato del contenuto narrativo, i personaggi e le azioni considerati per “se stessi”, senza riferimento alla mediazione discorsiva .
Nel cinema la parola diegesi indica la somma tra il racconto stesso e le dimensioni spazio-temporali della finzione implicate nel e dal racconto (personaggi, ambienti, eventi ecc.). Ma diegesi è anche la storia così come viene percepita dallo spettatore.
Quindi, può essere definita come una costruzione immaginaria dove spazio e tempo funzionali divengono l’universo presupposto in cui si svolge il racconto.
La maggior parte dei film, però, non cerca di adeguare il tempo della diegesi al discorso filmico. Ad esempio, la diegesi di 2001: Odissea nello spazio occupa millenni, ma il suo discorso è contenuto in un paio d’ore. Inoltre, spesso si incontra una discrepanza spaziale quando la diegesi della storia non coincide con quella reale, come ad esempio in Casablanca dove il Marocco rappresentato è in realtà ricostruito negli studi di Hollywood. O ancora, si può assistere ad una discrepanza spazio-temporale quando in un’inquadratura appare per errore un particolare che non può appartenere al periodo rappresentato, come ad esempio è successo in molti film storici con orologi, antenne televisive ecc.
Comunque, riferirsi alla diegesi di un film piuttosto che non alla sua trama presenta due vantaggi:
- aiuta a focalizzare l’attenzione sulla natura costruita della storia;
- consente di separare la nozione di storia dalle sue connotazioni più drammatiche e fantastiche come insieme di fatti emozionanti .
Ci permette, inoltre, di comprendere le coordinate che definiscono il cinema un continuum spazio-temporale, cioè si apprende che «non può esistere uno spazio che non si sviluppi nel tempo, né il tempo può scorrere senza essere incorporato in uno spazio» . Coordinate che sono, però, imposte da un mezzo meccanico perché come sostiene giustamente Susan Sontag «the camera is an absolute dictator» (la
macchina da presa è un dittatore assoluto), dal momento che, come nota giustamente Bettetini, la cinepresa ci mostra «solo ed esclusivamente ciò che dobbiamo vedere e lo fa nel preciso istante in cui è necessario che lo faccia» .
All’interno di ogni storia si trovano due tipi di tempo: il tempo del discorso, detto anche tempo dell’intreccio (necessario per leggere attentamente il discorso) e il tempo della storia, che è la durata degli eventi stabilita da una narrativa . Le narrative tendono a situarsi nel presente, facendo, quindi, sussistere due “adesso”; infatti, il tempo occupato dal narratore (“ora vi racconto la storia che segue”) si svolgerà necessariamente nel presente, così come il tempo della storia, il momento in cui l’azione inizia ad avere luogo, generalmente nel passato. Se il narratore è completamente assente solo l’”adesso” della storia emergerà in maniera chiara. Il tempo della narrazione è, allora, il passato, ad esclusione del presente dei dialoghi e del monologo esterno ed interno .
L’elegante analisi di Gérard Genette sulle relazioni temporali fra il tempo della storia e quello del discorso costituisce la base di partenza per ogni discussione in proposito. Egli distingue tre categorie di relazioni: quella di ordine; quella di durata e quella di frequenza.
- Ordine. Il discorso può riordinare gli eventi della storia come più gli aggrada, purchè la sequenza della storia rimanga percepibile (altrimenti l’intreccio classico mancherebbe di unità). Distingue, a questo punto, tra sequenze acroniche - in cui storia e discorso hanno lo stesso ordine (1, 2, 3, 4) - e anacroniche. Una anacronia può essere di due tipi: di retrospezione (analessi), in cui il discorso rompe il flusso della storia per richiamare eventi precedenti (2,1,3,4) o di anticipazione (prolessi) in cui il discorso fa un salto in avanti (4,1,2,3). L’analessi si divide a sua volta in esterna e interna. Le interne possono a loro volta essere suddivise in quelle che non interferiscono con la storia interrotta, dette eterodiegetiche, e quelle che, invece, vi interferiscono, dette omodiegetiche. In quest’ultimo caso si può distinguere tra completive, che riempiono le lacune passate o future, ed iterative che ripetono quanto è già stato detto (il racconto torna apertamente sui suoi passi).
- Frequenza. In questa categoria Genette effettua una distinzione tra: 1) singolativo (una singola rappresentazione discorsiva di un singolo momento della storia, come in “Ieri mi sono coricato presto”); 2) singolativo-multiplo (diverse rappresentazioni, ciascuna delle quali corrisponde a un diverso momento della storia come in “lunedì, martedì, mercoledì ecc. mi sono coricato presto”); 3) ripetitivo (molte rappresentazioni discorsive dello stesso momento della storia); 4) iterativo (una singola rappresentazione discorsiva di molti momenti della storia, come in “tutti i giorni della settimana mi sono coricato presto”).
- Durata. La durata riguarda la relazione fra il tempo necessario a leggere una narrativa ed il tempo su cui si estendono gli eventi della storia. Esistono cinque possibilità: 1) riassunto (il tempo del discorso è più breve del tempo della storia); 2) ellissi (uguale al caso 1 con la differenza che il tempo del discorso è zero); 3) scena ( il tempo del discorso e il tempo della storia sono uguali); 4) estensione (il tempo del discorso è più lungo di quello della storia); 5) pausa (uguale al caso 4 con la differenza che il tempo della storia è zero).
Si incontreranno, invece, maggiori difficoltà nell’analizzare lo spazio, poiché i confini tra lo spazio della storia e quello del discorso non sono così facili da stabilire come quelli tra il tempo della storia e il tempo del discorso. Mary Ann Doane facilita questo tipo di analisi affermando che la situazione cinematografica è definita dall’interazione fra tre categorie di spazi: lo spazio della diegesi (che è già stato preso in considerazione precedentemente all’interno del capitolo), lo spazio dello schermo e lo spazio acustico del cinema . Riguardo allo spazio dello schermo si può
considerare che, siccome nella realtà non esistono confini atti a delimitare il campo visivo, ma un graduale sfuocarsi degli oggetti che ci circondano, la differenza maggiore tra il vedere un insieme di oggetti nella vita reale o in un film deve essere attribuita al taglio arbitrario operato dall’inquadratura .
Per quanto concerne, infine, l’ultima categoria e, cioè quella dello spazio acustico, occorre fare una distinzione tra i vari tipi di fenomeni acustici che intercorrono all’interno di un film. A questo proposito è utile la classificazione offerta da David Bordwell e Kristin Thompson, dove vengono delineati cinque tipi di suono : il suono diegetico semplice, rappresentato come se provenisse da una fonte interna alla storia e temporalmente simultaneo all’immagine che lo accompagna; il suono diegetico esterno, quello rappresentato come se provenisse da una fonte materiale all’interno dello spazio della storia e di cui si presuppone la consapevolezza da parte dei personaggi; il suono diegetico interno, che sembra provenire dalla mente di un personaggio interno allo spazio della storia di cui gli spettatori sono consapevoli, ma
del quale gli altri personaggi sono presumibilmente non consapevoli; il suono diegetico dislocato, che ha origine nello spazio rappresentato nella storia, ma che evoca un tempo anteriore o posteriore a quello delle immagini alle quali è sovrapposto; infine, il suono non diegetico, ad esempio musica di atmosfera o la voce di un narratore esterno allo spazio del racconto.
A questa classificazione va però, a parer mio, affiancata quella attuata da Metz a proposito del linguaggio verbale. Egli individua tre tipi di discorsi : un discorso interamente diegetico, che è quello dei personaggi in quanto voci all’interno della
finzione, un discorso non-diegetico, che è il commento esterno - off - di un parlante anonimo, e un discorso semi-diegetico, che è il commento in voce over condotto da uno dei personaggi.
Va considerato, infine, che a differenza di quanto avviene con i racconti scritti, dove lo spazio del racconto può appartenere all’indeterminato di una costruzione mentale, nel cinema lo spazio dovrà per forza coincidere con qualcosa di reale e ben definito. L’occhio meccanico non è in grado di superare, infatti, quello della mente. Inoltre, all’interno di un testo scritto è possibile una restrizione maggiore del campo visivo, perché mentre in un testo audiovisivo si è obbligati a far vedere tutto il contorno dell’azione, è possibile circoscrive il racconto ai minimi termini, come ad esempio un dialogo che accade in un non-luogo. Cosa che risulta, se non impossibile, molto difficile all’interno di un film, cui è concesso di lasciare pochissimo all’inderminato dell’immaginazione.
1.6 SOGNO, LETTERATURA, CINEMA.
Il cinema è stato definito fin dai suoi albori una macchina in grado di produrre artificialmente i sogni, una vera e propria «fabbrica di sogni» . Tuttora tale espressione permane ben radicata nel linguaggio comune e per questo motivo il cinema viene visto come uno dei più grandi strumenti d’evasione .
Già nel cinema delle origini era presente la consapevolezza che tra dispositivo cinematografico e sogno ci fossero delle relazioni: se il cinema serviva a riprodurre la realtà, poteva anche riprodurre i sogni. Si voleva dimostrare che il film è un mezzo
d’espressione molto affine al pensiero onirico. In particolare Lebovici, nel suo saggio intitolato “Psychanalyse et cinéma” inizia ad analizzare analogie e differenze tra i due sistemi. Innanzitutto hanno un comune carattere visivo: alla pari del linguaggio cinematografico, «il sogno è un insieme quasi esclusivamente visuale» . In secondo luogo la possibilità di una grande libertà di manovra: «come nel sogno, le immagini filmiche non sono unite né da legami temporali, né da legami spaziali solidi e forti» . Inoltre, «analogamente alle immagini oniriche, le sequenze filmiche avanzano sulla base di rapporti di contiguità ed immaginazione più che sulla base di rapporti logici. Infine, entrambi ricorrono alla suggestività, suggerendo ciò che non esplicitano» .
Anche tra la letteratura ed il sogno esiste da sempre un legame, che ha assunto in alcuni periodi storici un’importanza straordinaria. Il periodo che ne registra la maggiore intensità è l’epoca del romanticismo in cui si cerca di far coincidere la letteratura con l’idea di “rivelazione”, cioè la si fa coincidere con ciò che Nerval definisce «l’espansione del sogno nella vita reale» . Possiamo trovare moltissimi esempi letterari che scaturiscono da un sogno, ne è un esempio la Divina Commedia di Dante che inzia appunto con una frase tipica della dimensione onirica: «nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura […] » . Bisogna ammettere che il rapporto del cinema col sogno è di gran lunga più immediato di quello tra sogno e letteratura. Infatti, come sostiene Metz, quando si esce dal cinema si esce come da un sogno, in quanto: «nelle normali condizioni chiunque ha potuto osservare il soggetto, sottoposto allo stato filmico, si sente come inghiottito, e che gli spettatori all’uscita, brutalmente vomitati dal ventre nero della sala nella luce vivida e aggressiva dell’ingresso, hanno a volte il volto stordito di quelli che si svegliano. Uscire dal cinema è un po’ come alzarsi; e l’operazione non è sempre facile.» . In questo modo Metz ci suggerisce un legame non solo col sonno, ma addirittura con una seduta psicoanalitica ben riuscita.
Secondo Metz la situazione filmica è una sorta di «piccolo sonno» in quanto, il punto di partenza, nella visione di un film, è l’abbassamento dello stato vigile, davanti alle immagini, al fine di ottenere una maggiore impressione di realtà, infatti, la sala oscura in cui viene proiettato un film può essere paragonata ad una “caduta nell’inconscio”, che ha come conseguenza il distacco dal mondo esterno, mentre lo spegnersi delle luci in sala può essere paragonato alla chiusura delle palpebre ed infine la sequenza di immagini che scorre sullo schermo può rappresentare la sequenza di immagini che si succede nella mente di un dormiente . Il cinema, però, è in grado di far sognare a più persone contemporaneamente lo stesso sogno. Suscita, quindi, un’adesione empatica, lontana dalla semplice passività e vicina semmai ad un certo stato di «comunione rilassata» .
Può, quindi, costituire la medesima via di fuga dalla realtà per più persone, perché non è una via di fuga prodotta dal singolo e per se stesso, ma è un’evasione prodotta da altri, cui lo spettatore ha l’obbligo di abbandonarsi totalmente e che, infine, a differenza del sogno non vuole essere un’illusione di realtà, ma darne soltanto l’impressione.
Si può, dunque, concludere che tra film e sogno c’è una stretta parentela dal momento che «il film è un materiale per sognare» , ma anche perché tra i due esiste una sorta di continuità: il modo con cui il primo ci è solitamente offerto, il tipo di
esperienza a cui ci invita, le dinamiche che scatena ed in particolare la maniera in cui «lusinga, nel senso mitologico del termine, il narcisismo» , ne fanno qualcosa che coinvolge direttamente la nostra vita psichica .
1.7 DIVERSITA’ DI FRUIZIONE.
Il libro è, innanzitutto, un oggetto piccolo: si può tenerlo in mano e si può usufruirne in qualsiasi luogo. Ha un utilizzo strettamente personale, in quanto nel momento in cui viene letto, risulta fruibile solo ed unicamente da quel lettore: il rapporto è, dunque, tra due unità. Inoltre, è un oggetto che appartiene al lettore, di cui quest’ultimo ha potuto scegliere edizione e copertina: è un oggetto che «aggiunge, al piacere del suo contenuto, anche quello del possesso e del rapporto fisico» . Il tempo della sua fruizione è variabile: infatti, non solo è possibile leggerlo ovunque si voglia, ma anche in un qualsivoglia spazio temporale.
Assai meno duttile è la pellicola cinematografica, che richiede, in primo luogo, uno spazio più ampio e una superficie liscia e bianca su cui proiettare le immagini. Essa poi, di norma, non appartiene al suo fruitore e pretende un utilizzo multiplo e in contemporanea, come quello del pubblico della sala cinematografica. E, sempre di norma, il suo fruitore non può scegliere né dove né quando vedere il film poiché le sale cinematografiche sono in luoghi fissi e aprono ad orari prestabiliti.
La diversità degli strumenti di trasmissione ha implicazioni che vanno a toccare il contenuto più di quanto non appaia a prima vista. Innanzi tutto il tempo della lettura può essere piegato alle esigenze del lettore che può dilatarlo, se vuol centellinare il testo; contrarlo, se ha fretta di vedere come va a finire; può moltiplicarlo all’infinito, rileggendolo; ma soprattutto, può decidere di sospenderlo ogni qual volta lo si desideri. Tutto questo non accade durante la visione di un film. Però non va dimenticato che poter determinare il tempo della fruizione, spesso vuol dire riuscire a comprendere meglio l’opera stessa: «la mancata visione di alcune sequenze potrebbe distorcere o addirittura invalidare l’opera stessa» . Ed è per questo che oggi le sale cinematografiche cercano di “sporcare” il meno possibile i film eliminando addirittura l’interruzione tra il primo ed il secondo tempo.
Un’altra differenza saliente, che si aggiunge come conseguenza dei due tipi di fruizione, è l’empatia: lacrime e risate, infatti, sono contagiose e solo in una visione collettiva è possibile che, per contagio, queste amplifichino le emozioni passando da uno spettatore ad un altro. L’empatia non sussiste, invece, durante la lettura di un libro poiché i commenti e le critiche possono essere solo posteriori alla sua fruizione.
Ovviamente questo discorso ha valore solo se ci riferiamo alla visione di un film in una sala cinematografica; ma il film, oggi, grazie all’invenzione del VHS e del DVD può essere visto con modalità di fruizione molto affini a quelle del libro. La cassetta e il disco forniscono una visione del film più personale: può essere solitaria, esistono comandi di rewind e fast forward, che permettono di rivedere delle parti, o di velocizzarne la fruizione: proprio come nella lettura, con la cassetta il tempo di fruizione è totalmente a libera discrezione del suo fruitore. Questo nuovo modo di vedere il film ha contribuito ad avvicinare il linguaggio dell’immagine a quello della parola, perché ha dimostrato agli spettatori che la visione del film può essere dominata esattamente come quella di un libro. Dobbiamo ammettere, però, che la visione di un film nella sua totale integrità, proiettato nel buio della sala su di un maxi schermo con un surround molto potente in grado di trasportare lo spettatore quasi all’interno della pellicola, non potrà mai essere superata da nessun tipo di proiezione domestica, seppur dotata di mezzi capaci di ricreare una piccola sala cinematografica: essa rimarrà sempre e comunque un surrogato della proiezione cinematografica.
Inoltre, non bisogna dimenticarsi di una differenza saliente che intercorre tra le due differenti tipologie di spettatori: infatti, chi fruisce di film da casa è uno spettatore potenzialmente distraibile (ad esempio, può ricevere una telefonata), mentre chi va al cinema, ci va per dedicarsi interamente al film (o almeno dovrebbe essere così). Si può, quindi, affermare che la magia del cinema non è racchiusa solo nel film, ma in tutto quel complesso costituito da schermo, sala e spettatore nel quale si dispiegano processi quali il riconoscimento e la decifrazione di quanto viene mostrato, l’abbandono al piacere delle storie, l’immedesimazione con i personaggi della vicenda, la fantasticheria e la rielaborazione personale che ogni spettatore fa. E’, insomma, racchiusa in ciò che la filmologia definisce «situazione cinematografica» .
Infine, bisogna tener presente che ormai il cinema non si identifica più con i film: «è prodotto della e per la televisione, banda video del telegiornale, integrazione di piéces teatrali; e ancora, modello di scrittura letteraria, fenomeno di costume, documento per gli storici, rivelatore di tendenze culturali, oggetto di parodia, materia di studio; e inoltre reperto museale, collezione di videocassette, bene culturale, oggetto di passione cinofila» . Non da oggi, ma oggi lo si avverte con particolare evidenza.
Il cinema non ha più un luogo tutto suo, se mai lo ha avuto. Le opere che ci ha regalato sopravvivono come memoria nei libri patinati, come citazioni nelle pubblicità, come modelli per gli sceneggiati televisivi. Il linguaggio che ha creato serve a modello per l’impaginazione dei rotocalchi, per l’organizzazione di giochi di società e videogiochi, per i resoconti di cronaca. E, d’altra parte, il cinema «non ha più un ambito suo, perché è dappertutto, o perlomeno in ogni luogo che abbia a che fare con l’estetica e la comunicazione» , rincorre a sua volta la pubblicità, il rotocalco, il gioco, la televisione.
2.
COME SI ANALIZZA UN RACCONTO?
2.1 ALLE ORIGINI DEL RACCONTO.
Marchese, nel suo libro L’officina del racconto, definisce il racconto come «una galassia di segni in irreversibile, mostruosa espansione, dal giorno lontanissimo, nei primordi dell’avventura umana, in cui qualcuno (un narratore singolo o collettivo, non ha importanza) cercò di fermare nelle parole o in altre forme un evento memorabile, degno di essere sottratto alla crudele utopia del transeunte» . Fa, quindi, in modo che non sia soltanto un’operazione di scrittura, ma un qualcosa di più profondo, appartenente al vasto dominio della comunicazione orale che si travasa nelle culture dei popoli storicamente modellizzate, in una notevole serie di “generi”, dal mito alla favola, dalle canzoni di gesta al poema, sino alla novella e al romanzo, ultimamente deputati a rappresentare, nella competenza comune, la “narratività” per eccellenza. Lo strutturalismo sostiene, dal canto suo, che sia possibile dividere ogni forma narrativa in due parti: una storia, il contenuto o il concatenarsi di eventi (azioni, avvenimenti), più quelli che possono essere chiamati esistenti (personaggi, elementi dell’ambiente), e un discorso, vale a dire i mezzi con cui si comunica il contenuto. A questo proposito propone il seguente schema:
Questo tipo di distinzione era riconosciuta già da Aristotele nella Poetica. Per il filosofo greco, infatti, l’imitazione delle azioni nel mondo reale, praxis, costituiva un argomento, logos, da cui venivano selezionate ed eventualmente riordinate le unità che formano l’intreccio, mythos . Anche i formalisti russi hanno fatto la stessa distinzione, utilizzando la coppia di termini - fabula ed intreccio - per denominare le due componenti principali di una narrativa. Con fabula si intende il materiale narrativo, la storia come successione di eventi, mentre l’intreccio rappresenta la composizione stilistica, cioè l’insieme dei procedimenti con cui l’autore ci presenta motivi e personaggi. I formalisti, quindi, definiscono la fabula come «l’insieme degli eventi che ci vengono comunicati nel corso dell’opera» ovvero «quello che è successo», l’intreccio come «il modo in cui il lettore viene a conoscenza di quello che è successo», vale a dire, fondamentalmente , «l’ordine di apparizione (degli eventi) nell’opera stessa» , sia che sia normale (abc), in flashback (acb), in flashforward (cba) o in media res (bc).
La narrativa è una forma di comunicazione e come tale per esistere necessita di un emittente e di un ricevente; o detto con maggiore esattezza, dal lato dell’emittente l’autore vero e proprio, l’autore implicito ed il narratore, dal lato del ricevente il lettore reale, il lettore implicito e il narratario (soltanto l’autore ed il lettore impliciti sono immanenti all’opera, mentre l’autore e il lettore reale comunicano attraverso le loro controparti implicite).
Bisogna tener presente, a questo proposito, l’importante riflessione fatta da Bettetini riguardo al tempo: qualunque atto comunicativo è alle prese con il tempo, sia perché spesso il tempo costituisce una parte dell’oggetto della comunicazione, sia perché ogni comunicazione si svolge nel tempo . A questo proposito occorre precisare che il tempo della lettura (del discorso) si intreccia con quello della fabula (che rispetta la cronologia degli avvenimenti) e con quello dell’intreccio (che rispetta la successione degli avvenimenti nell’ordine in cui sono stati scritti). Il lettore del testo letterario si trova, quindi, alle prese con un lavoro di decodifica temporale, dal momento che in ogni produzione narrativa intercorrono 3 tipi di tempo:
- un t0 che è il tempo oggettivo, semantico, rappresentato nella fabula;
- un t1 che è il tempo della superficie significante o semiotica della scrittura, rappresentato nell’intreccio;
- un t2 che viene costituito da to e t1 e che è il tempo della lettura che non viene rappresentato, ma vissuto .
Il tempo del racconto è un tempo concluso, la sua logica temporale è di tipo statico, perché si riferisce ad una successione preordinata di fatti, con una conclusione predefinita . In realtà, è un mondo concluso solo per il suo autore ed è proprio per questo che Weinrich distingue i tempi verbali in due categorie:
- i tempi commentativi (per la lingua italiana: presente, passato prossimo e futuro);
- i tempi narrativi (per la lingua italiana: imperfetto, passato remoto, trapassato prossimo e i due condizionali).
Laddove i primi si combinano frequentemente con la prima e la seconda persona, gli altri frequentemente con la terza (singolare e plurale). Questa suddivisione richiama quella più nota di Benveniste che associa al discorso i tempi commentativi e alla storia quelli narrativi, avvicinando in questo modo la nozione di commento a quella di discorso e quella di racconto a quella di storia. Vengono, così, a crearsi due mondi: un mondo commentato, luogo del discorso, e un mondo raccontato, luogo della storia, dove la nozione di mondo indica «la somma di tutto ciò che può divenire oggetto di un atto comunicativo» . Va sottolineato, inoltre, che tra i due mondi si instaura un legame molto forte di complementarietà.
2.2 ELEMENTI PER UNA ANALISI.
Il romanzo è, per un qualunque lettore, innanzitutto una storia complessa ed inverosimile, ricca di incontri straordinari, di eroi troppo perfetti e di eroine troppo belle per essere vere: una “fiction”. Ma per chi lo analizza è qualcosa di molto più complesso: un conglomerato di fattori e persone che interagiscono tra loro; di persone, in quanto il romanzo avvicina lettore, narratore e personaggio, cercando di farli coincidere in una coscienza comune e ponendosi tra il lettore e la realtà che gli vuole mostrare, interpretandola per lui.
Non è sufficiente la lunghezza della narrazione a definire la novella o il racconto in rapporto al romanzo, anche se in generale una novella è composta con poco materiale, è sintetica e perfetta nella sua brevità.
Il romanziere non deve limitarsi a collegare degli episodi, ma deve anche dar vita a dei personaggi, descrivere la cornice spaziale che li circonda, il tempo in cui si svolge il racconto, nutrirlo persino di una filosofia, al fine che tutti questi elementi si fondino nell’azione. Per dar vita ai suoi personaggi, il romanziere può utilizzare le due modalità di imitazione poetica distinte da Aristotele :
- diretta, dove gli avvenimenti si svolgono direttamente “davanti” agli occhi del lettore;
- narrativa, dove gli avvenimenti vengono raccontati da un narratore.
Bisogna tener presente, ad ogni modo, che non può esistere una storia in cui, nel corso della narrazione non affiorino altre storie (una parentesi di poche righe sul destino di un personaggio secondario, una digressione esplicativa costituiscono già un racconto nel racconto). La prima cosa che va analizzata è il duplice rapporto, implicito o esplicito, che ogni opera stabilisce: da un lato tra l’autore e il lettore virtuale, dall’altro tra un narratore e un narratario. Lo studio di un’opera narrativa considerata come atto comunicativo, come una serie di segnali rivolti ad un narratario ed interpretati in sua vece, in funzione dei suoi rapporti con il narratore, con i personaggi o altri narratari, in funzione anche delle distanze più o meno ampie che lo separano dai lettori (reali, virtuali o ideali) può condurre ad una precisa caratterizzazione del racconto permettendo di mettere in luce gli ingranaggi del suo funzionamento. Solo una volta stabilito il patto «il narratore può allora raccontare a modo suo e il pubblico tacere» , o per meglio dire «sin dall’inizio del gioco, dunque, intesa esplicita tra tutti: dietro la menzogna della finzione, narratore e ascoltatori andranno insieme alla scoperta di un verità nascosta» .
Al rapporto autore-lettore virtuale e narratore-narratario è strettamente connesso il problema dell’angolo di ripresa, il centro narrazionale, che praticamente è il punto ottico in cui si pone il narratore per raccontare la sua storia. Già ai tempi di Aristotele si operava una distinzione:
- il narratore, nella misura in cui conosce tutto, l’interno e l’esterno, l’assente ed il presente, non esita ad invadere il racconto esprimendo giudizi, riassumendo una parte della storia, in breve, dicendo tutto quel che bisogna pensare su ogni cosa. Si può, quindi, affermare che “racconta” una storia;
- il narratore si sforza di non comparire, di far dimenticare che si tratta di un racconto. Ci “mostra”, dunque, una storia.
Si possono, quindi, distinguere quattro tipi di narratori:
- eterodiegetico, il narratore ci racconta una storia così come deve essere e rimane esterno ad essa;
- intraeterodiegetico, alterna il suo essere interno o esterno alla storia;
- omodiegetico, è interno alla storia e può essere un testimone o può raccontare la propria storia (autodiegetico);
- intraomodiegetico, il narratore è interno alla storia poiché è un personaggio.
Il narratore assume, dunque, la funzione fondamentale di esplicare il mondo che vuol raccontare, poiché, alla fine, come ricorda Jean Louis Curtis, «un personaggio romanzesco non è altro che la proiezione della volontà del romanziere» .
Un’altra componente importante che intercorre nell’analisi di un romanzo è lo spazio, anche se, a volte, il romanziere può far credere che la localizzazione non sia poi così importante e che la sua storia si possa svolgere in ogni dove. Mentre, a volte, lo spazio reale o immaginario che sia, può essere associato o addirittura “incorporato” al personaggio, come lo è all’azione o allo scorrere del tempo. Sebbene, come sottolineano R. Bourneuf e R. Ouellet , non sono mancati critici e storici della letteratura che abbiano rimproverato gli scrittori di aver appesantito le loro opere con lunghe descrizioni gratuite, che annoiano il lettore. Una descrizione dello spazio rivela, quindi, il grado di attenzione che il romanziere accorda al mondo e la qualità di questa attenzione: lo sguardo può fermarsi all’oggetto descritto, oppure spingersi oltre. Essa esprime il rapporto tra l’uomo, autore o personaggio e il mondo circostante: egli lo fugge, gliene sostituisce un altro, vi si immerge per esplorarlo, comprenderlo, cambiarlo e, a volte, per conoscere se stesso.
Riguardo allo scorrere del tempo, bisogna sottolineare, come prima cosa, che il romanzo è considerato come un’arte che scorre nel tempo, o per meglio dire nei “tre tempi”: quello dell’avventura, quello della scrittura e quello della lettura («gli anni trasformano i libri. Sarebbe un errore dire che invecchiano; diventano diversi…» ).
Il personaggio del romanzo è indissociabile dall’universo fittizio al quale appartiene: «è legato ad una costellazione e solo grazie ad essa vive in noi con tutte le sue dimensioni» . Egli ha nome e cognome, è iscritto ad un’anagrafe sia pur fittizia, costituisce ipso facto la spiegazione dei suoi movimenti e contiene la possibilità di sviluppi ulteriori. Infine, attua l’unificazione delle funzioni che hanno senso perché attuate da lui e che si diramano da lui . Può presentarsi da solo, (cercando di ottenere una specie di sdoppiamento che gli permetta di uscire da se stesso e poter giudicare), essere presentato da un narratore eterodiegetico o da entrambi o da un altro personaggio. Si potrebbe studiare la fenomenologia del personaggio secondo quattro isotopie solo in astratto distinte, ma interconnesse tra loro nella realtà narrativa:
- l’essere, le attribuzioni o qualità del personaggio;
- il fare, la sfera pragmatica in cui è coinvolto;
- il vedere, la prospettiva in senso lato;
- il parlare, gli eventi verbali, gli atti linguistici di cui il personaggio è emittente e/o ricevente.
Infine, l’ultimo fattore da considerarsi per l’analisi di un romanzo è il rapporto con l’autore-creatore e il contesto storico in cui viene inserito. Il romanziere si definisce
volentieri come un essere posseduto da personaggi che chiedono di essere messi al mondo e di cimentarsi in una storia: il personaggio diventa un essere “ingombrante”, che implora di essere “raccontato”.
2.3 ANALISI DI UN ROMANZO: Aura, Carlos Fuentes .
«Cercasi storiografo giovane. Ordinato. Scrupoloso. Che conosca il francese. Tremila pesos mensili, pasti e camera confortevole, assolata, adatta a studio.
Manca solo il tuo nome. Manca solo che le lettere più nere dell’annuncio dicano: Felipe Montero. Cercasi Felipe Montero.»
Un’inserzione allettante porta Felipe Montero, giovane storiografo disoccupato, nella casa tetra e solitaria di Consuelo Llorente, una signora anziana e malata. Il suo incarico è trascrivere e ordinare le memorie del marito defunto, il generale Llorente, che ha combattuto nella guerra messicana di Massimiliano d’Asburgo. Per portarlo a termine Felipe alloggia in quella grande casa sempre immersa nell’oscurità e avvolta nell’odore nauseante di piante rare e dalla quale, una volta entrato, non potrà più uscire. Nella casa abita anche Aura, la bella e misteriosa nipote di Consuelo. Tra lei e Felipe nasce subito il desiderio e poi l’amore. Questo sentimento è, però, turbato dalla presenza della vecchia signora e dallo strano legame che unisce le due donne: un’assoluta dipendenza reciproca che si riflette anche nell’identicità degli atteggiamenti, dei movimenti. Aura sembra incatenata ad un destino triste, ineluttabile a cui Felipe vorrebbe strapparla. Ma da cui lei non vuole, non può sfuggire, non può allontanarsi da quella casa, dove il tempo sembra riavvolgersi su se stesso in un ricorrere eterno ed enigmatico di immagini e ricordi.
Magnificamente, lo scrittore, sa creare uno strano gioco di tempo, di attimi, di immagini e di brividi, che legheranno il lettore alle pagine, perché Consuelo è Aura e Aura è Consuelo…e il generale Llorente è Felipe e Felipe è il generale Llorente.
Abbiamo scelto di analizzare questo libro, dalla trama apparentemente molto semplice, perché esso rappresenta un’innovazione nella narrativa. Infatti, usando la seconda persona singolare e il tempo presente e futuro, riesce a far rispecchiare il lettore nel protagonista, fino quasi a farli coincidere. Sembra quasi “ordinargli” di vivere questa storia, di lasciarsi condurre fino al suo epilogo orrorifico.
2.4 IL TEMPO IN AURA.
Il tempo è, senz’altro, uno degli elementi chiave di tutto il romanzo. Aura stessa, attraverso l’utilizzo di arti magiche, crea un tempo virtuale, non possibile nella realtà, in cui passato e presente paradossalmente si fondono fino a coincidere. Qui, il tempo cronologico viene associato all’esterno della casa e alla dimensione quotidiana (una piccola campanella che richiama i personaggi quando è ora di mangiare, i tempi reali, dunque, che saranno quelli che porteranno Felipe a comprendere la “realtà” della casa). All’interno della casa non si riesce a percepire la minima prospettiva cronologica, tutto è avvolto in un misterioso climax, sospeso tra l’irreale ed il reale, perché non ci sono veri riferimenti temporali, o se vi sono, si annullano, come nota lo stesso Felipe a proposito del suo orologio: «no volverás a mirar tu reloj, ese objeto inservibile que mide falsamente un tiempo acordado a la vanidad humana, esas manecillas que marcan tediosamente las largas horas inventadas para engañar el verdadero tiempo, el tiempo que corre con la velocidad insultante, mortal, que ningún reloj puede medir.» (non guarderai di nuovo l’orologio, quell’oggetto inservibile che misura falsamente un tempo concesso alla vanità umana, quelle lancette che marcano tediosamente le lunghe ore inventate per ingannare il vero tempo, il tempo che corre con la velocità offensiva, mortale, che nessun orologio può misurare). Nella casa, presente, passato e futuro si mischiano, in quanto il passato riaffiora nelle date ed è scandito dalle dettagliate descrizioni che si trovano nella biografia del generale Llorente. Il tempo all’interno della casa viene, quindi, a coincidere con quello della memoria, come tentativo dell’anziana Consuelo di rivivere la propria giovinezza. La sua esistenza, infatti, ruota attorno allo spasmodico desiderio di riuscire a rimanere giovane e bella, sconfiggendo, quindi, non solo la morte, ma anche e soprattutto la vecchiaia: il mito dell’eterna giovinezza. Crede che in questo modo il suo amore con il generale Llorente possa ricrearsi, fissandosi per sempre in un presente eterno di gioventù felice. Riesce a realizzare tale illusione ricreando una copia di se stessa giovane nelle sembianze della bella Aura. In questo modo il microcosmo contenuto dalla casa sprofonda in una nuova dimensione, che porta persino Felipe a riscoprirsi e a rispecchiarsi nel proprio passato, come generale Llorente, defunto marito di Consuelo.
Fuori dalla casa c’è il sole, la luce; lo si percepisce chiaramente soprattutto nel momento in cui Felipe va verso la casa, poiché, grazie alla luce, riesce a cogliere le sfaccettature e lo scorrere del tempo, disseminate sul suo cammino: passato e presente sono ben distinti nei cambiamenti subiti da alcune abitazioni che, per esempio, hanno cambiato il proprio numero civico oppure si sono trasformate in negozi. La stessa casa in «Calle de Donceles» ha modificato il proprio numero civico a causa del passar degli anni: «815, antes 69» (815, prima 69). All’interno della casa la luce è pressoché assente e, infatti, entrandovi Felipe è spinto a ricercare una luce che lo guidi; «busca en vano una luz que te guíe» (cerchi invano una luce che ti guidi), ma viene subito ammonito dalla signora Consuelo: «No…, no es necesario. Le ruego.» (No…, non è necessario. La prego). L’unica vera guida che illumina i suoi passi è il candelabro di Aura, o la propria capacità mnemonica che conta i passi e misura i propri movimenti brancolanti nel buio, come la prima volta in cui, entrando, Consuelo lo aveva guidato: «Camine trece pasos hacia el frente y encontrarà la escalera a su derecha. Suba, por favor. Veintidós escalones. Cuéntelos.» (Faccia tredici passi avanti e troverà la scala alla sua destra. Venga su, per piacere. Sono ventidue gradini. Li conti.). Questa, che sembra una combinazione di una cassaforte dalla quale una volta entrati non è più possibile uscirne, va considerata come una sorta di iniziazione alle tenebre in cui è avvolta la casa. Il buio è necessario per impedire al deterioramento causato dal tempo di mostrarsi. Tutte le stanze, tranne quella di Felipe, sono molto simili, se non addirittura uguali, e molto buie, descritte nella loro staticità, cristallizzate nel tempo, come se volessero conservare gelosamente un ricordo passato. La notte è il tempo della rivelazione, dove Aura si concede perché conscia di poter essere scambiata per un’immagine onirica e protetta dal buio, che nasconde il suo vero essere. L’unica stanza illuminata è quella di Felipe, ma solo per permettergli di leggere e riordinare quei manoscritti che lo condurranno ad accettare una realtà agghiacciante. Così come la fioca luce della candela che accompagna i pasti è necessaria affinché egli scopra le somiglianze tra le due donne.
Nella casa il tempo non scorre in modo lineare. Il ciclo della vita non si conclude con la morte, bensì si piega su se stesso e ricomincia. Ad esempio, Aura è descritta inizialmente come una ragazza, poi come «la mujer, no la muchacha de ayer: la muchacha de ayer […] no podía tener más de veinte años; la mujer de hoy […] parece de cuarenta: algo se ha endurecido, entre ayer y hoy, […]» (la donna, non la ragazza di ieri: la ragazza di ieri […] non poteva avere più di vent’anni; la donna di oggi […] sembra di quaranta: qualcosa si è indurito tra ieri e oggi, […]) e alla fine si trasforma in una vecchia signora. Questo excursus si ripete ciclicamente ed ha una durata di tre giorni e mezzo (quasi pari alla durata dello svolgimento del racconto).
Infine, la caratteristica fondamentale di questo romanzo è la narrazione in seconda persona, coniugando il tempo al futuro. Il futuro indica, come fa giustamente notare il professor Liano nel suo ipertesto on line sull’argomento , una «previsione, nel senso di un’informazione anticipata, che porta in sé per forza di cose una certa carica di precarietà anche se in seguito, attraverso un’informazione supplementare si dovesse scoprire che il messaggio è stato trasmesso come di diritto» . Anche se, in questo romanzo il futuro vuole dare anche un senso di predestinazione, quasi come se fosse possibile guidare le azioni del protagonista, come se fosse destinato ad entrare in quella casa. E, quindi, il narratore non potrebbe essere altri che la stessa Consuelo.
2.5 LO SPAZIO IN AURA.
Il racconto si sviluppa in soli due luoghi: fuori e dentro la casa. Fuori dalla casa troviamo El Cafetín, un bar sporco ed economico, dove Felipe legge e rilegge l’annuncio e dove va a far colazione le due mattine prima di entrare nella casa; l’autobus, pieno di gente, e la frenesia della vita della città. La casa è, invece, un luogo scuro e silenzioso. Le stanze descritte sono:
- l’atrio, molto scuro, con le pareti umide e un odore pungente, pieno di piante come il gordolobo e la belladonna, che sono utilizzate in medicina come analgesici e per stordire i sensi. Rappresenta, dunque, un luogo simbolico: Felipe lo attraversa solo il giorno in cui entra nella casa, e, come per effetto delle piante abbandona la realtà ed entra in un mondo di fantasie e sogni, o forse sarebbe meglio dire di incubi. Infine, vi ritorna il terzo giorno, quando ormai tutte le sue convinzioni e le sue certezze sono crollate, per ricercarle proprio qui, nell’unica stanza dove ci sono degli esseri viventi: le piante;
- la stanza della signora Consuelo, è sporca e tetra. Si respira odore di vecchio dappertutto. Non ci sono finestre. In un angolo vive una comunità di topi. Viene definita come “il santuario della vedova” perché è piena di oggetti religiosi, che in questo contesto non sono affatto simboli di fede, ma accrescono il senso d’ansia e di paura. Il letto, appena sollevato da terra, è immenso, ricoperto da una trapunta rossa opaca su cui sono sparse briciole e croste di pane. Sul comodino vi sono strane bottigliette colorate, scatole di pastiglie, bicchieri, cucchiai. Sul pavimento giacciono dei bicchieri macchiati da liquidi biancastri;
- la stanza di Aura, è anch’essa scura, funerea. Attaccato alla parete, proprio sopra il letto, c’è un Cristo in legno nero in netto contrasto col bianco della parete;
- la sala da pranzo, è un luogo strano: i coperti non corrispondono quasi mai al numero dei commensali, ed è il luogo che permette a Felipe di accorgersi che le due donne si muovono contemporaneamente e nello stesso modo. Si mangia quasi sempre rognone. È un luogo antico, reso freddo e tetro da muri in legno scuro e lunghe tende verdi. C’è una grande quantità di mobili foderati con seta sbiadita, in contrasto col rosso acceso della stanza di Felipe. Nelle vetrinette sono esposte statue di porcellana, orologi che suonano, sfere di cristallo e bottiglie ricoperte di polvere verdastra. Appesi alle parete vi sono alcuni quadri che ritraggono scene bucoliche e che sfumano anch’essi verso il verde;
- la cucina, non viene descritta, ma appare chiramente come il luogo dove maggiormente si percepisce il senso della morte, infatti, è proprio in questa stanza che Felipe vede Aura squartare un capretto;
- la stanza di Felipe, è l’unica ad essere illuminata dal sole per mezzo di un abbaino, ad avere carta da parati colorata e ad essere arredata in maniera non macabra: il letto è in metallo dorato e ricoperto da un copriletto di lana rossa, c’è una lampada antica, una vecchia scrivania in noce e cuoio verde con uno scaffale colmo di libri.
- Il giardino, o meglio il quadrato verde che Felipe scorge dalla finestra, che rappresenta la speranza di un contatto con la luce e la natura di una realtà ormai distante; non appartiene alla casa.
Non esistono serrature. Le porte sono a molla, quindi non esiste un solo luogo non controllabile dalle due donne, dove Felipe possa essere realmente al sicuro nella propria intimità.
L’ultimo spazio su cui è opportuno soffermarsi è quello della confusione interiore di Felipe. Questo spazio immaginario si manifesta attraverso il sogno, inteso come: «il modo di espressione dell’inconscio. Attraverso esso si acquista coscienza degli aspetti della propria personalità che, per diverse ragioni, non si desidera conoscere direttamente da vicino. Rappresentano la coscienza dell’ombra» . La prima notte nella casa Felipe non fa alcun sogno, probabilmente perché non ha ancora ben compreso la realtà in cui si è ritrovato. La seconda notte sogna una mano scheletrica di una donna senz’occhi che suona una campanella. Quando si sveglia trova Aura che lo consola e lo coccola. Secondo la simbologia onirica, le mani rappresentano il desiderio di contatti umani, lo scheletro indica la paura di veder le proprie abitudini sconvolte ed, infine, la campana è un presagio di morte. La terza notte sogna delle bocche spalancate e silenziose e la mano scheletrica di una vecchia dalle gengive sanguinanti che tira fuori dalla tasca del grembiule macchiato di sangue dei denti gialli. La vecchia strappa la gonna verde di Aura e la giovane perde le gambe che precipitano nell’abisso. Secondo la simbologia onirica, la perdita dei denti significa perdita di una persona cara, mentre il sangue è simbolo di purificazione, passione, carnalità, istinto. Sembra quasi un presagio del fatto che a causa della vecchia perderà la sua amata Aura. Questo sogno avviene lo stesso giorno in cui Felipe ha visto Aura scuoiare il capretto e, quindi, potrebbe essere la trasposizione di quest’orrenda scena (lo si capisce dal grembiule intriso di sangue), ma potrebbe anche voler simboleggiare Consuelo che strappa la gonna verde (simbolo di giovinezza) ad Aura per reincarnarsi.
La vicenda è ambientata nel centro di Città del Messico, cuore coloniale della capitale e memoria storica della nazione, luogo in cui Felipe ritroverà il proprio passato. Il racconto si apre con la descrizione di un bar sporco e poco raffinato, che vuole simboleggiare lo stile di vita di un uomo modesto, dall’esistenza monotona e insulsa, che vive tutti i giorni uno uguale all’altro «vivirás ese día, idéntico a los demás» (virai questa giornata, identica a tutte le altre).
2.6 GLI ESISTENTI.
Il personaggio principale del racconto è Felipe Montero, un giovane storiografo di 27 anni. La sua descrizione fisica viene appena accennata: occhi scuri, capelli neri e lisci, sopracciglia folte, guance magre e profilo perfetto. Sembra essere l’unico personaggio reale della casa. È il solo, infatti, ad aver vissuto anche all’esterno, è l’unico ad aver un passato nel mondo reale, o per lo meno questo è quello che crediamo all’inizio del libro. Si può identificarlo con le caratteristiche stereotipate maschili, dal momento che va alla casa della signora Consuelo solo per motivi strettamente concreti: «tú piensas en el sueldo de cuatro mil pesos» (tu pensi solo allo stipendio di quattromila pesos) e cerca di autoconvincersi che «si el precio de tu futura libertad creadora es aceptar todas las manías de esta anciana, puedes pagarlo sin dificultad» (se il prezzo della tua libertà creativa è accettare tutte le manie di
questa vecchia signora, puoi pagarlo senza alcuna difficoltà), probabilmente per non ammettere a se stesso di essere rimasto stregato dalla bellezza di Aura, dall’ambiente oscuro e misterioso e inebriato dagli aromi delle piante. Entra, in questo modo, in uno stato ipnotico e diviene un “pupazzo” nelle mani di Consuelo: «comes mecánicamente, con la muñeca en la mano izquierda y el tenedor en la otra, sin darte cuenta, al principio, de tu propia actitud hipnótica» (mangi meccanicamente, con la bambola nella mano sinistra e la forchetta nell’altra, senza renderti conto, all’inizio, della tua stessa attitudine ipnotica).
L’unico altro personaggio maschile presente nella storia è il generale Llorente, marito della signora Consuelo. Non appare direttamente nel romanzo, perché è già morto, ma viene fuori dalle memorie che ha scritto prima di morire. Le sue memorie trattano soprattutto della sua carriera militare - partecipò a molte battaglie all’epoca di Napoleone III, ma poi dovette andare in esilio a Parigi, dove morì all’età di 82 anni -, ma contengono anche dei ricordi della sua relazione con Consuelo. Esse sono fondamentali per la comprensione del testo in quanto ci permettono di capire che Consuelo, attraverso la stregoneria è riuscita a creare una proiezione della sua gioventù. Sempre grazie alle memorie del generale Llorente, alla fine del libro, scopriamo che Felipe è la reincarnazione di Llorente e che, quindi, i due personaggi sono due sfaccettature dello stesso. Nell’ultimo capitolo, infatti, incontriamo Felipe che, guardando una fotografia del generale, riceve l’invito del narratore: «tapas con una mano la barba blanca del general Llorente, lo imaginas con el pelo negro y siempre te encuentras, borrado, perdido, olvidado, pero tú, tú, tú.» (copri con una
mano la barba bianca del generale Llorente, te lo immagini con i capelli neri e sempre ritrovi te stesso, perduto, dimenticato, però tu, tu, tu.), e riscopre nell’immagine, così, se stesso.
Consuelo è la vedova del generale Llorente e facendo i calcoli in base alle memorie del generale dovrebbe avere 109 anni, anche se «Tratas, […] de calcular su edad. Hay un momento en el cual ya no es posible distinguir el paso de los años; la señora Consuelo, desde hace tiempo, pasó esa frontera.» (cerchi, […] di calcolarne l’età. Esiste un momento in cui non è più possibile distinguere il trascorrere degli anni: la signora Consuelo, già da tempo ha oltrepassato quella frontiera). È molto magra, ricurva su se stessa, perché la sua spina dorsale non è più in grado di sorreggerla, ha i capelli bianchi ed è sdentata. Già nelle memorie del marito si conferma come un essere diabolico: «Consuelo, le démon aussi était un ange, avant» (Consuelo, anche il diavolo è stato un angelo prima). In alcune descrizioni sembra quasi che sia già morta perché le sue dita sono prive di calore e i suoi occhi immensi, spalancati, sono di un giallo talmente chiaro che il nero della pupilla sembra romperne la lucentezza. Inoltre, una delle prime volte che Felipe la incontra, lei è distesa sul letto e sembra mummificata, perché è avvolta nelle lenzuola e porta una cuffia di seta che le nasconde non solo i capelli, ma anche le orecchie, il suo vestito bianco è abbottonato fino al collo e tiene le mani incrociate sul petto.
L’altro personaggio femminile è Aura, che appare e scompare, sempre improvvisamente come se la ragazza si fosse materializzata nell’oscurità della casa, così come quando i due giovani sono in intimità si materializza la vecchia. È la nipote
di Consuelo, ha un’età indefinibile poiché in realtà non esiste, ma rappresenta la reincarnazione di Consuelo a cui è concesso vivere solo per pochi giorni poiché invecchia rapidamente. Ha occhi verdi in grado di causare un effetto ipnotico su Felipe. Veste sempre di verde proprio come faceva Consuelo quando era giovane (il verde nei Paesi Ispanici è il colore della passione).
Esiste un rapporto speculare tra le due donne: «siempre cuando están juntas hacen exactamente lo mismo: se abrazan, sonríen, comen, hablan, entran, salen, al mismo tiempo, como si una imitara a la otra, como si de la voluntad de una dependiese la existancia de la otra» (sempre quando stanno insieme fanno esattamente le stesse cose: si abbracciano, sorridono, mangiano, parlano, entrano, escono, allo stesso tempo, come se una imitasse l’altra, come se dalla volontà dell’una dipendesse l’esistenza dell’altra.). Inizialmente sembra che Aura ne soffra, che aspetti solo di essere liberata da questo triste destino: «quizá Aura espera que tú la salves de las cadenas que, por algunas razón oculta, le ha impuesto esta vieja caprichosa y desequilibrada. Recuerdas a Aura minutos ante, inanimata, embrutecida por el terror: incapaz de hablar enfrente de la tirana, movendo los labios en silenzio, como si en silenzio te implorara su libertad, prisionera al grado de imitar todos los movimientos de la señora Consuelo, como si sólo lo que hiciera la vieja le fuese permitido a la joven. […] ahora la deseas para liberarla: habrás encontrado una razón moral para tu deseo […]» . (forse Aura aspetta che tu la liberi dalle catene che, per una qualche causa occulta, le ha imposto questa vecchia capricciosa e squilibrata.
Ricordi Aura, pochi minuti prima, inanimata, abbruttita dal terrore, incapace di parlare
davanti alla tiranna, muovere le labbra in silenzio, come se in silenzio ti implorasse la sua libertà, succube al punto da imitare i movimenti della signora Consuelo, come se solo quello che fa la vecchia fosse permesso alla giovane. […] ora la desideri per liberarla: avrai trovato una giustificazione morale per il tuo desiderio […]). Ma tramite tutti i passi in cui seguiamo le vicende delle due donne, ci rendiamo conto che Aura non può esistere se non come “fantasia” manovrata da Consuelo: è solo un fantoccio. E alla fine Felipe si rende conto che la donna che l’ha stregato non è la bella Aura, ma la stessa Consuelo e si sottomette al suo volere, accettando un «Volverá, Felipe, la traeremos juntos. Deja que recupere fuerzas y la haré regresar…» (tornerà, Felipe, la riporteremo qui insieme. Lasciami riprendere forza e la farò tornare...), e si rassegna al destino a cui era predestinato. Lo si capisce già dall’inizio quando, sentendo per la prima volta la signora Consuelo pronunciare la parola «volverá» (tornerà), riferito al coniglio, Felipe rimane basito e sente riecheggiare nella sua mente tale parola come una promessa futura.
Nel romanzo di Fuentes, l’elemento femminile e quello maschile si completano l’un l’altro. Questi due poli, così differenti eppure così in sintonia tra di loro, formano un cerchio esistenziale perfetto; lo si nota già nell’epigrafe del romanzo che per mano di Jules Michelet così recita : «El hombre caza y lucha. La mujer intriga y sueña; es la madre de la fantasía, de los dioses. Posee la segunda visíon, las alas que le permiten volar hacia el infinito del deseo y de la imaginación…Los dioses son como los hombres: nacen y mueren sobre el pecho de una mujer…» (l’uomo caccia e
lotta. La donna fantastica e sogna; è la madre della fantasia e degli dei. Possiede la seconda visione, le ali che le permettono di volare verso l’infinito del desiderio e dell’immaginazione…Gli dei sono come gli uomini: nascono e muoiono sul seno di una donna...). Un polo maschile fatto, quindi, di forza fisica, di istinto primordiale di caccia e lotta, concretezza, razionalità e di obiettivi. Felipe è un uomo a cui manca qualche cosa per colmare la propria esistenza e ciò che gli manca è la sua identità, il
suo appartenere ad una terra - il Messico - la cui cultura è stata soffocata dal colonialismo ispanico. Un ricercatore storico che con l’aiuto di due donne si avventura in un intricato labirinto esistenziale per scoprire il suo passato e poter dare così un senso al suo presente. Avrà bisogno di una serie di elementi e strumenti che l’uomo per sua natura non possiede, come la fantasia, la preveggenza e le ali per volare verso l’infinito e l’immaginazione: solo una donna possiede tutto ciò. Avrà, quindi, bisogno di Aura e Consuelo per capire se stesso.
Carlos Fuentes va oltre la simbologia classica del mondo femminile, affidando a Consuelo l’eredità della cultura messicana. Consuelo rappresenta il passato che dà senso alla esistenza del giovane ricercatore. Quello di Felipe non è un cammino semplice e per questo viene in suo aiuto Aura che, come la memoria di un passato sommerso, fa riaffiorare emozioni e sentimenti che sembravano perduti. Felipe desidera liberare Aura come simbolo di “memoria liberata”. Si può, quindi, dedurre che il rapporto tra i protagonisti è in realtà un rapporto a due, sdoppiato in quattro: due persone sdoppiate vivono tra passato e presente in una dimensione atemporale nella quale emozioni ataviche si rinnovano e si mescolano a sensazioni eterne, e prima fra tutte, l’amore.
2.7 RELAZIONI TRA GLI ESISETENTI:
a) Felipe/Aura
Da subito Felipe rimane talmente abbagliato dalla bellezza degli occhi verdi di Aura, descritti come «esos ojos de mar que fluyen, se hacen espuma, vuelven a la calma verde, vuelven a inflamarse como una ola: tú los ves y te repites que no es cierto, que son unos hermosos ojos verdes idénticos a todos los hermosos ojos verdes que has conocido o podrás conocer. Sin embargo, no te engañas: esos ojos fluyen, se transforman, como si te ofrecieran un paisaje que sólo tú puedes adivinar y desear» (quegli occhi di mare che fluiscono, si fanno spuma, tornano alla calma verde, si increspano di nuovo come un’onda: tu li guardi e ti ripeti che non è possibile, che sono dei begli occhi verdi identici a tutti i begli occhi verdi che hai visto o che potrai vedere. Eppure non ti inganni: quegli occhi fluiscono, si trasformano, come se ti offrissero un paesaggio che tu solo puoi indovinare e desiderare), da non capire più nient’altro. Ne rimane folgorato, la segue non solo «con la vista, sino con el oído» (non solo con gli occhi, ma anche con l’udito) segue «el susurro de la falda, el crujido de una tafeta» (il sussurro della gonna, il fruscio di un taffettà) e rimane «ansiando, ya, mirar nuevemente esos ojos» (ansioso, già, di guardare di nuovo quegli occhi). È ossessionato dal poter incrociare quello sguardo, ma «ella mantiene, como siempre, la mirada baja» (lei, tiene, come sempre, lo sguardo basso), dal bisogno di un contatto fisico, a cui lei sfugge e quando, finalmente, riesce a sfiorarle la mano, è «invadido por un placer que sabías parte de ti, pero que sólo ahora experimentas pienamente, liberándolo fuera, porque sabes que esta vez encontrará respuesta…» (pervaso da un piacere che non hai mai conosciuto, che sapevi essere parte di te, ma che solo ora provi appieno, liberandolo, lanciandolo fuori perché sai che, questa volta, incontrerà una risposta…). Aura segue, quindi, tutte le regole dell’innamoramento: far credere all’uomo di non essere interessata, fuggire gli sguardi e il contatto, fino al momento giusto in cui l’uomo è caduto nella trappola e non può più tornare indietro. A quel punto è lei a ricercarne gli sguardi e a far sì che il rapporto diventi più intenso. La loro unione avviene in un non luogo sospeso tra sogno e realtà e il disco farinoso che lei gli dona dopo, può essere visto come simbolo dell’unione, del voler condividere esperienze e sensazioni, ma anche come presagio di una relazione malata, irreale che può sgretolare l’anima.
b) Felipe/Consuelo
Felipe è come un burattino nelle mani di Consuelo. Da subito si abitua alle stranezze della vecchia. Non ha il coraggio di dirle che ama Aura e che la vuole portare via dalla casa. Probabilmente questo accade perché Consuelo può essere vista come il narratore di questo romanzo, colui che ordina a Felipe ciò che deve fare o addirittura che gli impone cosa pensare. Lui si limita ad assecondarla in tutto.
c) Felipe/generale Llorente
Felipe è stato assunto per riordinare le memorie storiche e personali del generale, quindi, è dapprima incuriosito da questa figura valorosa, poi il suo interesse diviene quasi morboso, soprattutto per quanto concerne la relazione con Consuelo, ed infine, si immedesima così tanto da riconoscersi in lui e da riscoprire se stesso in lui.
d) Consuelo/Aura
Le due donne hanno un rapporto speculare, di dipendenza reciproca, anche se Aura si sottomette al volere di Consuelo, che diviene ancora una volta una “burattinaia”. Si muovono, ridono, mangiano nello stesso modo, sono una il clone dell’altra, ma soprattutto hanno bisogno l’una dell’altra per sopravvivere: Aura esiste solo per il volere della sua creatrice, ma Consuelo senza di lei morirebbe di tristezza, dal momento che come lei stessa dice «a las viejas sólo nos queda…el placer de la devoción» (a noi vecchie resta solamente…il piacere della devozione), che in questo caso è una devozione alla magia nera e a un simulacro della gioventù perduta. Esse sono due donne che hanno una missione: svelare a Felipe la sua vera identità, assumendo, quindi, pienamente il ruolo imposto dalla società e cioè accudire un uomo.
e) Consuelo/generale Llorente
Il loro deve essere stato un amore molto grande, ma anche molto infelice. Avevano molti anni di differenza e, forse, è proprio per questo motivo che lui non la rimproverava mai e la giustificava sempre in tutto, anche nella follia. Le lasciava torturare i gatti, le permetteva di fare riti strani, pur di vederla felice; ma la verità è che si sentiva in colpa per la sua sterilità: «sé por qué lloras a veces, Consuelo. No te he podido dar hijos, a ti, que irradias la vida…» (so perché alle volte piangi, Consuelo. Non ho potuto dare figli a te, che irradi la vita). Ma, alla fine, prima di morire, termina le sue memorie, condannandola, paragonandola, quindi, a Lucifero: «Consuelo, le démon aussi était un ange, avant…» (Consuelo, anche il diavolo era un angelo, prima).
2.8 COLORI E NATURA:
a) Rumori
I rumori possono essere classificati essenzialmente in due categorie: quelli che si percepiscono all’esterno della casa e quelli interni ad essa. All’esterno troviamo i rumori tipici di una città caotica, come Città del Messico: l’autobus, le macchine e i vocii delle gente. All’interno, invece, sentiamo solo rumori anomali, artefatti, propri di un climax spettrale: lo scricchiolio di mobili e pavimenti di un legno antico, lo squittire dei topi e del coniglio, il miagolio di poveri gatti torturati, il fruscio delle vesti di Aura (simbolo di sensualità e richiamo sessuale) ed infine la campanella che richiama gli abitanti per la cena e che sembra un presagio funesto. Ad essi si può aggiungere la tonalità della voce di Consuelo che, acuta e cadente, ricorda quella di una strega e il fruscio della gonna di Aura, che è un forte richiamo sessuale.
b) Colori
Il colore che primeggia in tutto il racconto è il verde, a cui si può attribuire una valenza positiva dal momento che rappresenta la natura, la vita, la giovinezza, la speranza, la creazione, la fertilità, i rami verdi che universalmente simbolizzano l’immortalità; ma può anche assumere una valenza negativa in quanto simbolo della passione e in questo caso si tratta di una passione morbosa e alienante. Ed è, forse, proprio per questo motivo che le lunghe tende appese nella casa sono di un verde consunto.
Altri colori che compaiono nel romanzo sono quelli dei nastri che tengono insieme le memorie del generale Llorente e della chiave che chiude il baule in cui sono contenute. Questi colori sono:
- il viola: simbolo della sfortuna e spesso legato alla stregoneria (viola è il nastro con cui è legata la chiave del baule);
- il giallo: colore legato alla virilità, alla gelosia e al coraggio, ma si dice che sia anche il colore dei morti (con un nastro giallo sono legate le memorie riguardanti le grandi imprese belliche del generale);
- l’azzurro: colore legato alla sfera femminile. Nella cultura azteca significa divinità e simboleggia ciò che è al di fuori della coscienza . Significa, inoltre, morte e rinnovamento . È il colore che lega il blocco di documenti riguardanti la relazione del generale con Consuelo. In particolare, qui, si racconta di quando lui l’ha trovata mentre torturava i gatti e non è riuscito a rimproverarla: «un día la encontró, abierta de piernas, con la crinolina levantada por delante, martoriando a un gato y no supo llamarle la atención porque le pareció que tu fasais ça d’une façon si innocent, par pur enfantillage e incluso lo excitó el hecho, de manera que esa noche la amó, si le das crédito a tu lectura, con una pasión hiperbólica, parce que tu m’avais dit que torturer les chats était la manière à toi de rendre notre amour favorable, par un sacrifice symbolique…» (un giorno la trovò, a gambe larghe, con la crinolina sollevata davanti, mentre martorizzava un gatto e non seppe rimproverarla, perché gli parve che tu fasais ça d’une façon si innocent, par pur enfantillage, anzi il fatto, addirittura, lo eccitò tanto che quella notte la amò, se devi prestar fede a quello che leggi, di una passione travolgente, parce que tu m’avais dit que torturer les chats était la manière à toi de rendre notre amour favorable, par un sacrifice symbolique…) ;
- il rosso: colore della vita, della battaglia, del coraggio e del sangue, come simbolo esorcizzante della morte. Appare frequentemente all’interno dell’opera: gli occhi del coniglio, le labbra di Aura, il sangue del crocifisso e del capretto, le gengive sdentate di Consuelo, le trapunte, il nastro che lega un blocco di documenti sono rossi. In particolare questo colore racchiude i documenti che raccontano le ultime avventure del generale e della sua sterilità che portò Consuelo a creare una copia, più giovane, di se stessa per cercare di sconfiggere la morte. È il colore delle trapunte dei letti di Felipe e di Consuelo, le prime sono di un rosso vivo, le seconde sono ormai sbiadite: Felipe è giovane ha tutta una vita davanti, mentre Consuelo è ormai vecchia e stanca. Il rosso è in molte culture considerato uno dei colori principali, in quanto è associato alla vita e alla morte. È un colore femminile con un potere centripeto di attrazione; è il colore del fuoco, della passione, del cuore, quindi, legato ai sentimenti;
- il nero dell’oscurità e delle tenebre è spesso associato al male, al disordine e ai cattivi, nel testo caratterizza l’ambiente in cui si sviluppa la vicenda;
- il bianco è il colore che accompagna i riti di passaggio e di iniziazione;
c) Odori
Un odore di marcio e di chiuso, frammisto a quello del sangue del capretto squartato da Aura a cui si può aggiungere l’aroma inebriante prodotto dalle piante, aleggia in tutta la casa.
d) Simboli
L’intero romanzo è ricco di simboli atti a richiamare le arti magiche e il mistero. Già nel nome della protagonista - Aura - si può cogliere l’essenza del romanzo: aura è, infatti, una luce che non si può vedere né toccare, ma solo percepire, che solo agli dei è dato di vederla (Felipe viene considerato tale, dal momento che Aura gli lava i piedi, come Magdalena fece a Cristo ed egli fece ai suoi discepoli), una manifestazione irreale, dunque, esattamente come l’Aura raffigurata nel romanzo. Il tema principale del romanzo è la contrapposizione tra l’elemento maschile e quello femminile, per questo si ha un forte richiamo al simbolismo lunare. La luna, infatti, da sempre è simbolo del principio femminile, così come della periodicità e del rinnovamento: cresce, decresce e scompare, ma la sua morte non è mai definitiva. A causa di questa eterna periodicità si crede che essa controlli tutti i piani cosmici retti dalla legge sul divenire ciclico, come l’acqua, la pioggia, la vegetazione e la fertilità. La luna può divenire un simbolo del tempo, misurabile attraverso le sue fasi perfettamente regolari.
Nel romanzo sono disseminati simboli religiosi, che però servono solamente a rendere ancora più netto il contrasto tra il sacro e il profano. Essi sono:
- il tappeto di lana rossa nella stanza di Felipe, che simbolizza il sacrificio di Cristo. Il rosso è il sangue di Gesù e la lana è una rappresentazione dell’agnello;
- l’azione di Aura di lavare i piedi a Felipe;
- la posizione di Felipe e Aura sdraiati come un Cristo crocifisso;
- Aura che si concede a Felipe: «se abrirá como un altar» (si aprirà come un altare);
- le immagini di santi, martiri e demoni che sorridono;
- il sacrificio del capretto;
- il cerchio: ripetuto nei rituali magici, come forma del disco farinoso che Aura dà a Felipe (simbolo di un rapporto inesistente, irreale e, appunto, farinoso), può essere ricollegato alla forma dell’ostia e, quindi, divenire emblema del sacrificio per la redenzione.
Inoltre, l’idea del “doppio”, della coppia, che vuole essere emblema dell’equilibrio, ma che inevitabilmente risulta essere una manifestazione del conflitto tra il bene e il male, aleggia in tutto il romanzo: Consuelo ha il suo doppio in Aura, Felipe in Llorente e il risultato che ne consegue è un rapporto a quattro.
Infine, dobbiamo ricordare che la casa è come un grande utero, oscuro, umido che tutela i suoi figli dal mondo esteriore, come la caverna platonica e, in questo contesto, è significativo il suo essere situata nel vecchio centro: nel senso di essere al centro dell’universo della storia, ma anche al centro di Città del Messico e al centro della tradizione, della memoria storica e popolare.
e) Animali
Nel libro troviamo vari animali comuni con valenze simboliche:
- il cane, rappresentato in un batocchio consumato sulla porta della casa al quale Felipe bussa «en vano con esa manija, esa cabeza de perro en cobre, gastada sin relieves: semejante a la cabeza de un feto canino en los museos de ciencias naturales.» (invano con quel batacchio, quella testa di cane, consunta, informe: somigliante alla testa di un feto canino nei musei di scienze naturali), può essere letto come una rappresentazione di Anubis o Cerbero, il famoso cane che aveva la funzione di accompagnare le anime dei defunti nell’aldilà, oppure può essere considerato come una sorta di guardiano della casa;
- il coniglio, o meglio la coniglia Saga, che spesso viene confusa con Aura, perché di entrambe si dice più volte «volverá» (tornerà) e che, come lei, appare e scompare e si frappone quando Felipe incontra per la prima volta Consuelo e cerca di darle la mano, ma non tocca un’altra mano «sino la piel gruesa, afieltrada, las orejas de ese objeto que roe con un silenzio tenaz y te ofrece sus ojos rojos» (ma la pelle grassa, infeltrita, le orecchie di quell’essere che rosicchia in un silenzio tenace e ti offre i suoi occhi rossi). Il coniglio è per antonomasia un simbolo di sessualità e di fertilità ed è proprio per questo che sta sempre vicino a Consuelo, che invece è ormai sterile. Fuentes, infatti, lo utilizza per enfatizzare l’idea della reincarnazione di Consuelo in una copia di se stessa più giovane, Aura. È significativo che si chiami Saga, poiché la parola saga indica continuità;
- I gatti, considerati animali femminili per eccellenza e da lunghe tradizioni “fedeli compagni” delle streghe, qui vengono sacrificati in nome dell’amore. Sono simbolo sia di amore, che di odio, infatti, le due donne li odiano e li maltrattano, mentre i due uomini li amano;
- I topi, che rosicchiano i documenti, sono sintomo di un destino funesto che si compie e di un deterioramento di ciò che ci circonda interiormente ed esteriormente;
- Il capretto è da sempre considerato un animale sacrificale.
f) Piante
Le piante citate nel testo di Fuentes sono:
- belladonna: pianta erbacea perenne; i suoi frutti sono bacche nere velenose. Si usano le sue radici a scopo terapeutico, poiché hanno proprietà antispasmodiche ed anestetiche;
- dulcamara: cresce in luoghi umidi; le sue foglie emanano un odore sgradevole. È velenosa, ad eccezione dei rami che vengono utilizzati per fare dei decotti diuretici e depurativi;
- evònimo: genere di pianta con foglie caduche o persistenti; la corteccia, le foglie e i frutti hanno forte azione purgativa. La polvere ottenuta dai frutti disseccati è attiva contro i parassiti e la scabbia;
- giusquiamo: genere di piante erbacee, annuali o perenni. Tutte le specie sono velenose. Ha proprietà sedative.
2.9 L’AUTORE.
Carlos Fuentes è nato a Panama nel 1928. è considerato uno dei maestri della narrativa messicana e uno dei più importanti romanzieri sudamericani contemporanei. Ha vinto il Premio Cervantes, massimo riconoscimento per un autore di lingua spagnola, e il Premio Príncipe de Asturias de las Letras. Inoltre, è stato ambasciatore del Messico in Francia. In tutte le sue opere si percepisce un bisogno
forte di delineare un’identità nazionale. E in questo contesto Aura può essere visto come un chiaro esempio dell’importanza data dall’autore al tempo della memoria e del ricordo. Il protagonista, Felipe, è uno storiografo: i suoi ricordi appartengono alla nazione, le date rappresentano la sua memoria. Del suo passato si conosce solo il periodo vissuto in Francia grazie ad una borsa di studio. La sua ricerca di un’identità popolare messicana ed il suo desiderio di riscrivere la storia, traspaiono nel progetto di voler scrivere un saggio che racconti chiaramente le vere fasi della colonizzazione spagnola in America. Ma per far ciò necessita di denaro e va a lavorare da Consuelo, dove per ironia della sorte, sostituirà la propria debole identità con un passato che aveva dimenticato, quello del generale Llorente e a cui accetterà di rimanere legato per sempre facendo una promessa eterna ad Aura. Ed è per questo che Aura può essere visto come un romanzo a cavallo tra lo storico e il fantastico e non solo come l’ennesima versione sul tema eterno del vampiro.
Fuentes ritiene che la letteratura, al pari di tutte le altre manifestazioni artistiche, si opponga alla realtà, trasformandola, e che in questo processo la realtà si riveli e si affermi. Nella sua opera traspare una preoccupata e audace critica sociale. La sua narrativa è ricca di simbolismi: la realtà descritta si illumina in un simbolo e attraverso di esso svela la profondità interiore dei suoi personaggi poliedrici. Nel suo modo di scrivere l’immaginazione letteraria si nutre di immaginazione storica. Non gli interessa solo la verità che sta all’interno del testo, ma anche quella che sta fuori. Secondo lui la letteratura propone la possibilità dell’immaginazione verbale come una realtà non meno reale della narrativa storica e solo in questo modo alla letteratura è concesso di rinnovarsi costantemente. S’impegna a ricostruire una memoria folcloristica popolare attingendo dall’archivio delle leggende e dei miti nazionali, rimanendo però sempre legato alla storia. Il suo paradigma novellistico si articola con insistenza su di una poetica del Quijote, come spiega in un’intervista concessa al critico Julio Ortega : «quizá la aventura más extraordinaria de la libertad del hombre moderno porque implica la posibilidad de conocer a un mundo diverso, no de refugiarse en un mundo unificado, homologado como era el mundo del medioevo, sino de salir a un mundo que no entiende y que no, no se entiende, de ponernos a prueba frente al mundo, de salir de nostros mismos, de partecipar en la historia y, sin embargo, de ofrecer siempre un camino fuera de la historia para ver a la historia, y no servirnos de la historia. Para mí todo esto es novela» (forse l’avventura più straordinaria della libertà dell’uomo moderno poiché implica la possibilità di conoscere un mondo diverso, non di rifugiarsi in un mondo unificato e omologato come era quello medievale, bensì di
entrare in un mondo che non si capisce e che non ci si spiega, di metterci alla prova di fronte a questo mondo, di uscire da noi stessi, di partecipare alla storia e, senza dubbio, di offrire sempre un percorso esterno alla storia che ci permetta di vederla dal di fuori e non di servirci della storia. Per me tutto questo è una novella).
Opere:
1954 Los días enmascarados
1958 La región más trasparente
1952 Las buenas conciencias
1962 La muerte de Artemio Cruz
1962 Aura
1964 Cantar de ciegos
1967 Zona sagrada
1967 Cambio de piel
1968 París, la revolución de mayo
1969 Cumpleaños
1969 La nueva novela hispanoamericana
1969 El mundo de José Luis Cuevas
1970 Todos los gatos son pardos (opera teatrale)
1970 El tuerto es rey (opera teatrale)
1970 Casa con dos puertas
1971 Tiempo mexicano
1971 Los reinos originario (teatro hispano-americano)
1972 Cuerpos y ofrendas: antología
1973 Chac Mool y otros cuentos
1974 Obras completas
1975 Terra nostra
1976 Cervantes o la crítica de la lectura
1978 La cabeza de la hidra
1978 Discursos
1980 Una familia lejana
1981 Agua quemada: cuarteto narrativo
1982 Orquídeas a la luz de la luna: comedia mexicana
1984 Juan Soriano y su obra
1985 Gringo viejo
1986 Palacio nacional
1986 Por boca de los dioses
1987 Cristóbal Nonato
1989 Constancias y otras novelas para vírgenes
1990 La campaña
1990 Valiente mundo nuevo
1990 Cerimonias de alba
1992 El espejo enterrado
1993 El naranjo o los círculos del tempo
1993 Geografía de la novela
1994 Diana o la cazadora solitaria
1994 El mal del tiempo I: Aura; Cumpleaños; Una familia lejana
1995 El mal del tiempo II: Constancia y otras novelas para vírgenes
1995 La frontera de cristal, una novela en nueve cuentos
1998 Tiempos y espacios
1999 Los años con Laura Díaz
2001 Istinto de Inez
2002 En esto creo
2003 La silla del águila
(tradotti in Italiano: L’ombelico della luna; Gli anni con Laura Díaz; Le relazioni lontane e L’albero delle arance; Tutti i soli del Messico; La geografia del romanzo).
2.10 ANALISI DI ALCUNI PASSI FONDAMENTALI:
Il breve romanzo di Carlos Fuentes - Aura - è stato spunto di molti studi e recentemente di alcuna polemica in Messico a causa del suo contenuto sacrilego e profano. Analizziamone, quindi, alcuni passaggi .
Dal primo capitolo.
«Leggi quell’annuncio: un’offerta del genere non la fanno tutti i giorni. Leggi e rileggi l’annuncio. Sembra diretto a te, a nessun’altro. Distratto lasci che la cenere della sigaretta cada dentro la tazza del tè che stavi bevendo in questo baretto sudicio ed economico. Lo leggerai ancora. Cercasi storiografo giovane. Ordinato. Scrupoloso. Che conosca il francese. Conoscenza perfetta scritta e parlata. Capace di svolgere attività di segretariato. Età giovane, conoscenza del francese; preferibile se ha vissuto in Francia per qualche tempo. Tremila pesos mensili, pasti e camera confortevole, assolata, adatta a studio. Manca solo il tuo nome. Manca solo che le lettere più nere dell’annuncio, quelle che risaltano di più, dicano: Felipe Montero, già titolare di borsa di studio alla Sorbona, storiografo imbottito di dati inutili, abituato a riesumare carte ingiallite, professore supplente in istituti privati, novecento pesos mensili. Però, se leggessi proprio questo, ti insospettiresti, penseresti ad uno scherzo. Donceles 815. Presentarsi di persona. Non c’è telefono.
Ritiri la borsa e lasci la mancia. Pensi che un altro storiografo giovane, in condizioni simili alle tue, avrà già letto questo stesso annuncio, ti avrà preceduto e soffiato il posto. Cerchi di dimenticartene mentre ti dirigi all’angolo della strada. […]
Vivrai questa giornata, identica a tutte le altre, e lo ricorderai solo il giorno seguente, quando tornerai a sederti al tavolo del Cafetín, richiederai la colazione e riaprirai il giornale. Arrivato alla pagina degli annunci, lì staranno, ancora una volta, quelle parole in neretto: storiografo giovane. Ieri nessuno si è presentato. Leggerai l’annuncio. Ti soffermerai sull’ultima riga: quattromila pesos» .
Il libro inizia così: viene ripetuta per ben sette volte una voce del verbo “leggere” allo scopo di far immedesimare il lettore col protagonista, come se il narratore si rivolgesse direttamente a lui e gli ordinasse di leggere non solo il libro, ma l’annuncio che lo porterà ad entrare nella casa. Un annuncio che pare diretto proprio a lui e a nessun altro. È un metatesto, un testo nel testo, un testo che si legge che autoreferenzialmente parla di lettura e quasi obbliga il lettore a leggerlo.
Si tratta di un modo insolito per iniziare un libro e presentarci il protagonista e di introdurci alla storia, poiché in questo modo il lettore è praticamente “catapultato” al suo interno: non gli si chiede di leggere in maniera distaccata, ma si pretende di trasformarlo nel protagonista, facendolo immedesimare totalmente in ciò che gli si racconta.
Dal secondo capitolo.
«Guardi l’orologio, dopo aver fumato due sigarette, steso sul letto. In piedi ti metti la giacca e ti passi il pettine nei capelli. Spingi la porta e cerchi di ricordare il cammino percorso salendo. Vorresti lasciare la porta aperta, affinché la luce della lampada ti guidi: impossibile, perché le molle la chiudono. Potresti passare il tempo facendo oscillare questa porta. Potresti prendere la lampada e scendere con quella. Ci rinunci, perché ormai sai già che questa casa è sempre immersa nell’oscurità. Sarai costretto a imparare a riconoscerla al tatto. […] Scendi contando gli scalini: un’altra abitudine immediata che ti avrà imposto la casa della signora Llorente» .
Il secondo capitolo è una sorta di consolidamento delle regole della casa: le porte sono tutte a molla, non hanno chiavi e la casa è interamente avvolta dalle tenebre. Ci sono degli accorgimenti per muoversi nel buio: contare i passi e imparare a riconoscere tutto al tatto. Vedere, quindi, con la mente, non più con gli occhi, o meglio ancora, iniziare ad usare il terzo occhio, che è, appunto quello dell’immaginazione.
Dal terzo capitolo.
«Leggi quella stessa notte le carte ingiallite, scritte con un inchiostro color senape; a volte bucate, a causa di qualche granello di cenere di tabacco lasciatovi cadere sopra distrattamente, macchiate dalle mosche. […] Niente che altri non abbiano già raccontato. Ti spogli pensando al deforme capriccio della vecchia signora, al valore ingannevole che attribuisce a queste memorie. Ti metti a letto sorridendo, pensando ai tuoi quattromila pesos.
Rivedi, durante tutto il giorno le carte, mettendo in bella copia i pezzi che pensi di utilizzare, riscrivendo quelli che ti sembrano deboli, fumando una sigaretta dietro l’altra e riflettendo sul fatto che devi distribuire bene il tuo lavoro, affinché la pacchia si prolunghi il più possibile. Se riesci a risparmiare almeno dodicimila pesos, potrai passare quasi un anno a dedicarti alla tua opera, sempre rimandata, quasi dimenticata. Il tuo saggio panoramico sulle scoperte e sulle conquiste spagnole in America. […] Se il prezzo della tua libertà creativa è accettare tutte le manie di questa vecchia signora, puoi pagarlo senza difficoltà.» .
Felipe è ancora del tutto ignaro del fatto che non uscirà mai più dalla casa, perché scoprirà di appartenerle, di essere una componente importante: un tassello della memoria storica di questo mondo. Questo capitolo vuol essere una rappresentazione dell’uomo mediocre che c’è in ognuno di noi, che, pur di ottenere ciò che gli serve, cede ai compromessi. Lui crede siano compromessi minimi, crede si tratti solo di assecondare i capricci di una vecchia pazza, ma presto si accorgerà che ciò che gli viene chiesto è di rinunciare a una vita nel mondo per rimanere rinchiuso in un microcosmo cristallizzatosi nel passato.
Dal quarto capitolo.
«Nel richiudere la cartella, ormai, sai che per questo Aura vive nella casa: per perpetuare l’illusione di gioventù e di bellezza della povera anziana signora, divenuta folle. Aura, chiusa come uno specchio, come un’icona in più su quel muro di pietà religiosa, tutto ricoperto di ex voto, di cuori imbalsamati, di demoni e di santi dipinti.
Accantoni le carte e scendi giù, pensando all’unico luogo in cui potrai trovare Aura la mattina: il luogo che le avrà assegnato quella vecchia avara.
La trovi, si, in cucina, intenta a sgozzare un capretto: il vapore che si alza dal collo squarciato, l’odore del sangue versato, gli occhi duri e aperti dell’animale ti danno la nausea: dietro questa visione si perde quella di una Aura malvestita, con i capelli arruffati, macchiata di sangue, che ti guarda senza riconoscerti, proseguendo nel suo lavoro di macellaio. […] Corri attraverso il vestibolo, la sala da pranzo, fino alla cucina, dove Aura sta spellando il capretto lentamente, assorta nel suo lavoro, senza avvertire la tua presenza né le tue parole, guardandoti come se fossi d’aria.
Sali lentamente, vai nella tua stanza, entri, ti getti contro la porta come se temessi di essere stato seguito da qualcuno: ansante, sudato, oppresso da un’impotenza che ti viene dalla spina dorsale gelata, da una certezza che è in te: se qualcosa o qualcuno entrasse, non potresti opporre resistenza, ti allontaneresti dalla porta, ti metteresti alla sua mercé. Febbrilmente afferri la poltrona, la collochi contro quella porta senza serratura, vi spingi contro anche il letto, fino a sbarrarla, e ti ci getti sopra esausto e abulico, con gli occhi chiusi e le braccia strette intorno al cuscino: il cuscino che non è tuo: nulla è tuo…
Cadi in quel sopore, precipiti fino al fondo di quel sogno che è la tua unica via di uscita, la tua unica resistenza alla follia. “È pazza, è pazza” ti ripeti per addormentarti, rievocando con le parole l’immagine della vecchia signora che nel vuoto spellava il capretto di aria, con il suo coltello d’aria. “È pazza”.» .
In questo capitolo Felipe inizia a capire di essere rinchiuso in un luogo che non gli appartiene, dove niente è suo. Inoltre, inizia a percepire che Aura è solo un riflesso di un qualcosa che non esiste nella realtà. Aura è mossa da Consuelo. È solo una proiezione di un qualcosa che fu, un’illusione, nient’altro; ma lui non è in grado di staccarsi da questo riflesso che lo ha totalmente stregato.
Dal quinto capitolo.
«E dopo l’ultimo foglio i ritratti. Il ritratto di quel gentiluomo anziano, in divisa militare: la vecchia fotografia con scritto in un angolo: Moulin, photographe, 35 Boulevard Haussmann e la data 1894. E la fotografia di Aura: di Aura con i suoi occhi verdi, capelli neri ricci, raccolti, appoggiata a quella colonna dorica, con il paesaggio dipinto sullo sfondo: il paesaggio di Lorelei del Reno, il vestito abbottonato fino al collo, il fazzoletto in mano, il guardinfante, Aura e la data 1876, scritta con l’inchiostro bianco e dietro, sul cartoncino piegato del dagherrotipo, quella calligrafia di gallina: Fait pour notre dixième anniversaire de marriage, e la firma con la stessa calligrafia, Consuelo Llorente. Vedrai, nella terza fotografia, Aura in compagnia del vecchio, ora in borghese, tutti e due seduti su una panchina, in un giardino. La foto si è scolorita un po’: Aura non apparirà così giovane come nella prima foto, però è lei, e lui, è… sei tu.
Fissi gli occhi su quella fotografia, la alzi verso la luce: copri con una mano la barba bianca del generale Llorente, te lo immagini con i capelli neri e sempre ritrovi te stesso, perduto, dimenticato, però tu, tu, tu.
La testa ti gira, ossessionato dal ritmo di quel valzer lontano che rievoca l’immagine, il tatto, l’odore di piante umide e profumate: cadi esausto sul letto, ti tocchi le guance, gli occhi, il naso, come se temessi che una mano invisibile ti avesse strappato la maschera che hai portato per ventisette anni: quei lineamenti di gomma e di cartone che per un quarto di secolo hanno coperto la tua vera faccia, il tuo viso antico, quello che hai avuto prima e che avevi dimenticato.» .
È interessante notare il modo in cui Felipe apprende la verità sul suo vero essere: guardando delle vecchie fotografie. È singolare che la verità gli appaia così, in una cristallizzazione del tempo, un fermo immagine di un ricordo che aveva smarrito nel labirinto della mente. Dalle foto scaturisce una vera e propria epifania joiciana, basta una rapida occhiata per far cadere una maschera che si era ben consolidata con il passar degli anni. A Felipe gira la testa, è stordito, ma poche righe dopo va incontro al suo destino senza la minima opposizione. Fino alla fine rimane un burattino nelle mani di Consuelo; è un personaggio che non solo non evolve nel corso della storia, ma anzi si lascia sopraffare del tutto dagli eventi.
2.11 ANALOGIE CON ALTRE OPERE DI FUENTES.
Recentemente Fuentes ha iniziato a pubblicare raccolte contenenti i suoi romanzi, raggruppandoli per affinità tematiche, ambientali, o narrative, senza badare alla data in cui sono stati pubblicati per la prima volta. Nel primo volume della raccolta El mal del tiempo , sono contenuti tre romanzi, tra cui Aura. Ed è singolare notare come a conclusione delle tre opere ci sia un dossier critico, scritto dall’autore al fine di fornire al lettore non solo una spiegazione dei fattori che possono creare delle affinità tra le sue opere, ma anche una breve storia di come è nata in lui l’idea del personaggio di
Aura. L’idea gli venne nel rivedere una sua amica dopo sei anni molto diversa da come la ricordava «la muchacha que yo recordaba de catorce años y que ahora tenía
veinte sufrió las mismas transformaciones que la luz convocada a través de los cristales de las ventanas; ese umbral entre la sala y la recámara se convirtió en el umbral entre todas las edades de la muchacha; la luz que luchó contra las nubes también luchó contra su carne, la tomó, la dibujó, le otorgó años de sombra, le esculpió una muerte en la mirada, le arrancó la sonrisa de los labios, le languideció la caballera con la tristezza flotante de la locura: era otra, fue otra, no la que será, sino la que, siempre, está siendo.
La luz se adueñó de esa muchacha, la amó antes que yo, y yo sólo fui, esa tarde, “en el reino del amor huésped extraño” y supe que los ojos del amor pueden mirarnos también con “muerte hermosa”.
La mañana siguiente empecé a escribir Aura en un café cerca de mi hotel en la rue de Berri.» (la ragazzina di quattordici anni che ricordavo e che ora aveva venti anni aveva sofferto le stesse trasformazioni della luce filtrata attraverso i vetri delle finestre; il passaggio tra la sala e il retrocamera si convertì nello scorrere di tutte le età della ragazza; la luce che lottò contro le nubi lottò anche contro la sua carne, la prese, la disegnò, le diede anni d’ombra, le scolpì la morte sul viso, le strappò il sorriso dalle labbra, le indebolì la chioma con la tristezza della pazzia: era un’altra, fu un’altra, non quella che sarà, bensì quella che è da sempre.
La luce si impadronì di questa ragazza, la amò prima di me, e io solamente questo
pomeriggio fui “nel regno dell’amore ospite estraneo” e compresi che gli occhi dell’amore possono guardarci anche con “la bellezza della morte”.
La mattina seguente iniziai a scrivere Aura in un caffè nei pressi del mio hotel in via Berri).
Prosegue poi, raccontando che qualche anno prima ci aveva già pensato, grazie ad una esclamazione di Buñuel: «¿Y si cruzar un umbral pudiésemos recuperar de un golpe la juventud, ser viejos de un lado de la puerta y jóvenes de nuevo apenas la cruzamos?» (e se al varcare una soglia potessimo recuperare di colpo la gioventù, essere vecchi da un lato della porta e nuovamente giovani al varcarla?), cui aveva associato film e romanzi che parlano di streghe in grado di esorcizzare il passare del tempo.
A differenza di quello che accade nei libri di James, Dickens e Pushkin, dove l’uomo seduce sia le giovani che le donne più mature per poi tradirle, in Aura tutte le donne, sia giovani che vecchie, uniscono le proprie forze per soggiogare l’uomo.
All’interno di questo dossier critico, Juan Goytisolo paragona Aura a Cumpleaños, sostenendo che, nonostante siano separati da otto anni, essi vadano interpretati insieme poiché sono complementari e si influenzano a vicenda: Cumpleaños dà una ragione di essere ad Aura, mentre Aura risulta essere la chiave di lettura di Cumpleaños. In entrambe le storie Aura e Nuncia ripetono meccanicamente delle azioni in cucina senza badare a ciò che le circonda come se fossero degli automi. Entrambe le case sono popolate da animali inquietanti; in entrambe le storie i personaggi invecchiano vertiginosamente. In Aura abbiamo uno sdoppiamento del tu, così come in Cumpleaños si ha uno sdoppiamento dell’io. In entrambe le storie il tempo non scorre seguendo leggi terrene. I due testi s’intrecciano, si mischiano fino a confondersi: grazie ad Aura apprendiamo come leggere Cumpleaños, in cui tra l’altro troviamo l’immagine speculare ed opposta di Aura. In conclusione, Goytisolo definisce i romanzi di Fuentes come grandi poemi metafisici. Tale concetto viene ripreso nella parte conclusiva del dossier critico da
Guy Davenport : «a la mitad de esta metafísica historia de fantasmas, el lector cae presa de una deliziosa confusión. ¿Se halla acaso en un mundo imaginario semejante al de Henry James, en el que los fantasmas son proyecciones psicológicas de estados internos, o ha sido conducido hasta los límites de la relidad en los que la razón colinda con el mito y la fantasía, tal como ocurre en los relatos de Balzac, Dumas padre y Poe, o lo que sucede es más bien que la realidad ha sido hasta tal punto trastocada en irrealidad - como en la obra de Luis Buñuel, a quien está dedicado este libro - que los sentidos y la conciencia no pueden menos que agudizarse?» (a metà di questa storia metafisica di fantasmi, il lettore precipita in un delizioso stato confusionale. Si ritrova in un mondo immaginario simile a quello di Henry James, in cui i fantasmi sono proiezioni psicologiche dello stato interiore, o è stato condotto fino ai confini della realtà laddove la ragione confina con il mito e la fantasia, così come succede nei racconti di Balzac, Dumas padre e Poe, oppure ciò che accade è più che altro che la realtà sia stata trasferita nell’irreale - come nell’opera di Luis Buñuel, a cui è dedicato questo libro - che i sentimenti e la coscienza non possano fare a meno di agonizzare?). Continua descrivendo ciò che caratterizza le opere di Fuentes: il suo modo di rendere gli opposti complementari e indispensabili gli uni per gli altri. Carlos Fuentes è, infatti, capace di creare una perfetta unione di contrari in tutti i suoi libri: il sensualmente bello vs l’orripilante; l’innocenza vs il male; il passato vs il presente, il conosciuto vs l’ignoto; la naturalezza
vs la cultura; rimanendo attaccato ad un realismo molto forte, che viene utilizzato come mezzo per poter penetrare nella profondità del passato, perché senza di esso
non potremmo mai comprendere il futuro.
3.
COME SI ANALIZZA UN FILM?
3.1 ALLE ORIGINI DEL FILM.
Antonio Costa, nel suo libro Saper vedere il cinema , alla domanda che “cos’è il cinema?”, risponde che, a seconda della prospettiva in cui ci si pone, si avrà una risposta differente. Del cinema, infatti, si possono dire molte cose: che è tecnica, industria, arte, spettacolo, divertimento, cultura. Dipende solo da che punto lo si guarda.
Diversamente da altre opere d’arte, «i film si compongono di materie impalpabili e sfuggenti come la luce e l’ombra» , quindi, come sosteneva Pasolini: «il cinema, si sa, non esiste. È una mera deduzione. Esistono solo i film, è da essi che si deduce l’esistenza del cinema» . Il cinema si compone di film e, quindi, per capirlo, bisogna analizzare questi ultimi. Esso non parla un unico linguaggio, ma si articola in svariati linguaggi: un cartone animato, un horror o una commedia utilizzano senz’altro linguaggi differenti.
La prima età del cinema (1895-1927) è quella in cui i film non avevano ancora imparato “a parlare”, ma riuscivano comunque ad avere un proprio linguaggio abbastanza ben articolato. Nel 1927 esce Il cantante di jazz , il primo film con sequenze parlate e cantate. Si tratta di una svolta epocale che rivoluziona totalmente il cinema: la nascita del film narrativo a tutti gli effetti, capace, non solo di raccontare, mostrando, ma anche di raccontare, senza per forza dover mostrare (come avveniva già nel teatro). Il suo essere parte da lontano e se si pensa a quel “cinema” prima del cinema che è stato il mito orale, non ancora fissato dalla scrittura, si può affermare che il suo scopo sia esattamente quello di narrare, cioè costruire un senso in grado di stendere “ponti di parole” tra più individui.
Nel 1895 i fratelli Lumière diedero inizio ad un processo che permise agli uomini di bearsi di storie “false”, a cui però credono con passione. Le storie narrate devono, per ciò, riferire di dei e dee, di re e regine, solo che, dovendo essere soggetti imitabili e in cui ci si possa immedesimare, devono “traslocare” dall’Olimpo ad Hollywood. Essenziale, in questa creazione di modelli e biografie, è il rapporto che, di narrazione in narrazione, di film in film, si viene a creare tra chi racconta e chi ascolta. E questo è, forse, il fattore che maggiormente accomuna il mito arcaico al moderno racconto per immagini: «questa “tradizione” ed “elaborazione” di storie che attraversano il tempo, mutando e però restando sempre uguali a se stesse (com’è evidente nel genere cinematografico)» ; con l’unica differenza che il cinema ha fatto in modo che «gli uomini e le donne, insieme, eppure ognuno per se stesso, hanno conosciuto, spesso migliorato e in qualche caso peggiorato il mondo guardando e “guardandosi” nello specchio dello schermo, vera e propria coscienza di massa, e fors’anche coscienza delle masse. Una coscienza, questa, che oggi appare sempre più smarrita nell’onnivoro specchio plebeo delle televisioni, nel loro racconto “basso”, nelle loro storie inverosimili che tuttavia pretendono sempre più di “essere” la nostra verità
quotidiana» . Risulta molto difficile non pensare che sia in atto un’altra mutazione, dove il cinema si sta trasformando nel nostro passato e le televisioni stiano diventando, o forse lo sono già diventate, il nostro presente, perché purtroppo oggi il cinema si vede soprattutto in televisione. E, quindi, lo si vede male: immagini nate per essere viste su di un grande schermo, in una sala buia, sono presentate in un formato ridotto, tagliate ai bordi, accelerate (25 fotogrammi anziché 24 al secondo), sporcate da pubblicità e messaggi in sovrimpressione e offerte con grande abbondanza e dispersione allo sguardo distratto dello spettatore televisivo. D’altro canto questo significa anche che, oggi, di cinema, se ne può vedere in quantità maggiore che in passato.
3.2 ELEMENTI PER UNA ANALISI.
Un film è, per un qualunque spettatore, così come lo è un romanzo, innanzitutto una storia complessa ed inverosimile, ricca di incontri straordinari, di eroi troppo perfetti e di eroine troppo belle per essere vere: una “fiction”. Ma per chi lo analizza è qualcosa di molto più complesso: un conglomerato di fattori e persone che interagiscono tra loro; di persone, in quanto il film avvicina spettatore, narratore e personaggio, cercando di farli coincidere in una coscienza comune e ponendosi tra lo spettatore e la realtà che gli vuole mostrare, interpretandola per lui, in maniera maggiore di quanto è concesso ad un romanzo.
Come il romanziere, anche il regista, o meglio, l’equipe di persone che lavora alla realizzazione di un film, non si può limitare a collegare degli episodi tra loro, ma deve dar vita a dei personaggi e ad un set credibile, inseriti in un montaggio dal ritmo adeguato alla storia che si vuole rappresentare.
Precedentemente abbiamo definito la sceneggiatura come il primo passo verso il film, dal momento che un film, di solito, è il risultato di almeno un’idea coerente elaborata in forma scritta; e dal momento che: mentre in letteratura la scrittura è un punto di arrivo, nel cinema appare come una fase intermedia; mentre in letteratura la scrittura è un fine, nell’audiovisivo è uno strumento importante, ma gregario; mentre in letteratura il testo scritto è l’unica materializzazione tangibile e persistente di un processo creativo, al cinema è, invece, una sorta di forma effimera destinata a scomparire dietro e “dentro” l’oggetto film. Dopo aver scelto la sceneggiatura, il set e istruito gli attori su quello che devono fare, il regista inquadra la scena e dà il ciak, comandando che la macchina da presa cominci a riprendere. La porzione di realtà che rimarrà impressa sulla pellicola, da questo momento fino a che non sarà dato lo stop, si chiama inquadratura. L’inquadratura costituisce l’unità minima della scrittura filmica. La natura stessa della macchina da presa fa sì che l’inquadratura sia costretta a delimitare la realtà ripresa dentro una cornice ideale e, quindi, che non tutto avvenga al suo interno. Nei film capita di sovente che una luce, un rumore o un oggetto raggiungano il protagonista da quello spazio virtuale, che viene chiamato fuoricampo. Il fuoricampo ha il potere di farci ricostruire ciò che presupponiamo essere intorno all’inquadratura, come ad esempio, in una scena di pioggia ci immaginiamo che sopra di essa ci sia un cielo con delle nubi e non un enorme innaffiatoio. Senza di questa sorta di “illusione volontaria”, non potremmo credere ad un film, ma soprattutto non potremmo immedesimarci nei protagonisti.
Nel caso particolare dell’immedesimazione dello spettatore, svolgono un ruolo importante le inquadrature soggettive, che hanno il potere di “farci vedere con gli occhi di un personaggio”. Solitamente si alternano ad inquadrature oggettive, che hanno la funzione di mostrare allo spettatore il personaggio col quale si vuole che si identifichi.
Le inquadrature possono essere definite anche in base alla distanza, all’altezza ed all’angolazione della macchina da presa rispetto alla scena. Nel cinema i piani di ripresa possibili sono infiniti, tuttavia, è possibile classificarli:
- C.L.: campo lungo, è un’inquadratura dell’intera scenografia in cui si svolge l’azione. Data la notevole distanza a cui è collocata la cinepresa, non è possibile distinguere i vari personaggi;
- C.M.: campo medio, ritrae un gruppo di personaggi distinguibili e riconoscibili;
- F.I.: figura intera del personaggio;
- P.A.: piano americano, è un’inquadratura in cui il personaggio viene ripreso dal ginocchio in su;
- P.P.: primo piano, il personaggio può essere ripreso da mezzobusto in su;
- P.P.P.: primissimo piano, inquadratura del solo volto;
- DETT. o PART.: dettaglio o particolare, qualche autore riferisce il primo a oggetti e il secondo alla figura umana, indica, ad ogni modo, un particolare o del volto o di un oggetto, come ad esempio, la bocca o la maniglia di una porta.
Questa classificazione prevede che la macchina da presa sia fissa, ma essa può anche muoversi, dando origine ai seguenti movimenti:
- panoramica, è un movimento in cui la cinepresa viene fatta ruotare sul proprio asse in senso orizzontale o verticale, ottenendo per l’appunto di abbracciare un intero panorama;
- carrellata, ne esistono vari tipi, realizzati fissando la macchina da presa ad un carrello che corre sui binari; può accompagnare il movimento di un personaggio, divenendo, quindi, laterale (se lo segue di fianco) o a precedere (se lo precede inquadrandolo frontalmente) o a seguire (se lo riprende di spalle);
- travelling, con questo termine si intende un movimento di camera complesso, ottenuto montando la cinepresa su una gru o su una dolly. In questo modo essa può sia ruotare sul suo asse che muoversi come una carrellata, nonché alzarsi ed abbassarsi.
Esistono, inoltre, delle apparecchiature speciali come: la steadycam, è una cinepresa “indossabile”; il louma, è un braccio meccanico snodabile, simile al dolly, però più agile e leggero ed, infine, la macchina a mano.
Ogni inquadratura ha le caratteristiche di una parola o di una frase e va inserita in un insieme narrativo e questo avviene in fase montaggio poiché unire delle inquadrature significa, appunto, dar vita a un progetto espressivo ben preciso, privilegiando le unità spaziali e temporali che si reputano più significative. Nella maggior parte dei casi il montaggio è ellittico (comporta una costruzione temporale che omette tutto ciò che non si vuole mostrare allo spettatore), ma può anche essere alternato (si mostrano avvenimenti che si svolgono simultaneamente, ma in luoghi differenti, usato per far acquisire allo spettatore una conoscenza dei fatti superiore a quella detenuta dai personaggi).
In una scenografia ben fatta tutto questo è ben esplicitato, l’unica cosa di cui, forse, si avverte la mancanza è un’adeguata descrizione dell’universo sonoro del film. Infatti, le indicazioni sonore sono sempre molto generiche e si riducono alle battute degli attori, alla colonna sonora ed «effetti speciali sonori sono spesso confusi con quella che viene genericamente chiamata musica elettronica» .
Scenografia, architettura e passaggio sono elementi profilmici, cioè dotati di un’esistenza e di una significatività preesistente alla ripresa cinematografica, «non solo: si tratta di termini che, nella nostra cultura, designano arti della rappresentazione anteriori al cinema: la scenografia rinvia al teatro ed è strutturalmente legata alla pittura; l’architettura, oltre a produrre spazi dotati di una funzionalità, è sempre “anche” rappresentazione; il paesaggio non costituisce solo un genere pittorico, né è solo il modo in cui una cultura vede la natura, è propriamente la forma in cui una società organizza il rapporto tra natura e cultura (un insediamento umano, da un villaggio di capanne ad una metropoli, modifica il paesaggio; per estensione chiamiamo paesaggio l’insieme di queste modificazioni)» . Ciò nonostante essi non possono costituire lo spazio filmico in sé, anche se, una volta ripresi, diventano suoi elementi costitutivi, poiché esso è rappresentato dal loro prodotto.
3.3 ANALISI DI UN FILM: La strega in amore di Damiano Damiani .
rasenta la pazzia. Dietro generosa ricompensa Sergio, un giornalista in crisi sentimentale, accetta di riordinare le memorie del marito defunto di un’anziana e misteriosa signora. Si trasferisce, quindi, nel palazzo dove vive la donna e qui, tra stanze infinite e vecchi codici polverosi, conosce l’affascinante Aura, che dice di essere la nipote della vecchia signora. In realtà, la giovane donna, di cui subito Sergio si innamora, non è altro che la padrona di casa stessa che si sdoppia in spoglie giovanili. L’uomo cade in potere della strega e
Alla fine riesce a liberarsi e a distruggere la casa e la strega, dandogli fuoco. Il film è tratto dal romanzo Aura del messicano Fuentes, sceneggiato con Ugo Liberatore. La scelta di tale soggetto, secondo Morandini, indica «l’ambizione di fare un film macabro-fantastico di qualità, quasi una moderna variazione sulla favola di Circe. Lo conferma il ricorso a G. M. Volonté, come precedente vittima e schiavo della misteriosa e vampirica, che lo stesso Sergio uccide. Ma sono ambizioni che si riducono a velleità» .
3.4 L’HORROR.
Dal punto di vista quantitativo, la produzione di film fantastici e horror in Italia conosce tra il 1960 e il 1965 un piccolo ma significativo boom: una trentina di titoli, che non ottengono grande successo commerciale, ma segnano l’inizio di un’attenzione fino a quel momento inesistente nel cinema e nella cultura degli italiani. All’origine di questo nuovo filone c’è il successo commerciale di alcune piccole case di produzione inglesi come la Hammer, che con i suoi horror invade i mercati di tutto il mondo, e americane come l’American International Pictures. Nonostante siano programmati solitamente nelle sale popolari e nei giorni feriali e siano per lo più vietati ai minori di diciotto anni, questo tipo di film riesce a suscitare un certo interesse: come era già avvenuto per lo storico-mitologico e come avverrà poi per il cinema di spionaggio e i western, i produttori di film a basso costo non ci pensano due volte ad aprire una nuova linea di produzione e a far cimentare registi ed attori italiani in un genere fino a quel momento completamente sconosciuto.
Una caratteristica dell’horror italiano è che le forze del male siano quasi sempre personificate da una donna, la quale ha una carica sessuale più accentuata nei film italiani che nei film anglosassoni, ha generalmente un corpo da maggiorata e un affascinante volto irregolare con incastonati due grandi occhi e spesso viene contrapposta a un altro personaggio femminile che è la vittima predestinata.
È molto frequente il tema del vampiro costruito come un melodramma della storia di una donna che non vuole invecchiare, che usa la propria bellezza come strumento di potere, seducendo gli uomini che la circondano, e ricorrendo persino all’omicidio per mantenere la sua bellezza.
Piace molto la struttura visionaria del racconto, quasi un incubo nel quale lo spettatore viene chiamato a tuffarsi; colpisce la ricerca visiva, fatta di una nitida fotografia come di effetti speciali a buon mercato, capaci però di conferire un particolare fascino alla storia; stupisce che la costruzione delle scene di terrore giochi più su montaggio e fotografia che su effetti sonori e musicali.
Con il 1962, l’horror italiano si delinea sempre più chiaramente come il genere cinematografico all’interno del quale trovano visibilità le perversioni sessuali e i primi corpi femminili senza veli fino a quel momento inediti per il cinema nazionale. Ed è per questo che nonostante non ottengano un enorme successo rappresentano la cartina tornasole di certi mutamenti avvenuti all’interno della società italiana.
Anche l’horror a causa dei suoi stereotipi si presterà alla parodia. Tra il 1965 e il 1969 due tendenze principali all’interno di questo genere si vanno consolidando: da una parte quella che deriva dalla tradizione gotica, che marca in modo netto la maggior parte delle opere, e dall’altra quella che sposta la collocazione temporale delle vicende nel futuro, dando origine a una commistione tra horror e fantascienza che gioca sia sulla paura del soprannaturale che sull’angoscia per ciò che ci attende nel futuro. Occorre sottolineare, però, che il filone horror-fantascientifico costituisce solo una parentesi minoritaria all’interno dell’horror italiano e che il gotico si afferma come tendenza imperante in quel periodo. Spesso il gotico è ambientato, sul finire dell’800 o al volgere del secolo, in castelli e ville infestate da creature malefiche. Questo permette ai registi di utilizzare tutta l’iconografia normalmente associata a questo genere sviluppatosi in ambito anglosassone: ne sono un esempio i costumi sontuosi, i castelli, le ville, le carrozze, i quadri e le statue. I castelli o le ville sono spesso situati in villaggi apparentemente sperduti e dalla topografia incerta, risultano come luoghi deputati allo svolgersi di vicende dell’orrore di questo periodo.
3.5 IL CAST.
Titolo: La strega in amore
Produttore: Alfredo Bini per Arco Film
Soggetto: dal romanzo Aura di C. Fuentes
Sceneggiatori: Ugo Liberatore, Damiano Damiani
Direttore fotografia: Leonida Barboni
Musica: Luis Enriquez Bacalov
Produzione - anno: Italia - 1967
Regia: Damiano Damiani
Interpreti: Sarah Ferrati (Consuelo Llorente)
Richard Johnson (Sergio Logan)
Gian Maria Volonté (Fabrizio)
Rosanna Schiaffino (Aura)
Margherita Guzzinati (Marta)
Ivan Rassimov (il terzo bibliotecario)
Vittorio Venturosi (Dr. Marco Romani)
Ester Carloni (l’antiquaria)
Ivan Scratuglia
Elisabetta Winding
Durata: 110 minuti
Sarah Ferrati:
Nasce a Prato nel 1910. Attrice di teatro singolarissima nel panorama italiano, ha scardinato e capovolto la convenzione dei generi teatrali: ha dato uno spessore tragico venato d’assurdo al teatro borghese, e al teatro classico e contemporaneo di rottura, un realismo dai toni a volte paradossalmente familiari e discorsivi. Ha interpretato, negli anni sessanta, il suo unico film: La strega in amore, di Damiano Damiani, tratto dal romanzo Aura di Carlos Fuentes.
Richard Johnson:
Nasce nel 1927 a Upminster (Essex, England). Principalmente è un attore di teatro, sebbene interpreti anche alcuni ruoli per il cinema e svariati ruoli seriali per sceneggiati televisivi.
Gian Maria Volonté:
Nasce nel 1933. Attore sia teatrale che televisivo. È però al cinema, nel quale esordì nel 1960 con Sotto dieci bandiere di Duilio Coletti, che la sua poliedrica personalità artistica è esplosa in tutta la sua potenza mimetica. Dopo un breve passaggio negli spaghetti-western e nella commedia, si dedica al cinema drammatico d’impegno sociale e politico. Muore il 6-12-1994 sul set di Lo sguardo di Ulisse .
Rosanna Schiaffino:
Nasce a Genova nel 1938. Dopo aver ottenuto un lancio ben organizzato come “ragazza da copertina” su riviste come Le Ore e Life, si lascia tentare dal cinema proprio nel periodo in cui il mito della maggiorata sta per diminuire, rinnovandone i canoni. Dopo alcuni film di modesto valore, ottiene subito una notevole affermazione, vestendo i panni di una bella napoletana nel film d’esordio di Francesco Rosi, La sfida , dove dimostra ottime doti d’attrice ed un’esaltante fotogenia che le permette di essere annoverata tra le giovani speranze del cinema italiano. Tocca il vertice della sua carriera con l’episodio Illibatezza (1963) diretto da Rossellini ed inserito nel film RO.GO.PA. e, soprattutto, con la soave interpretazione dell’esuberante e bellissima Madonna Lucrezia in La Mandragola . Continuando una carriera internazionale che, inevitabilmente, la conduce verso una certa commercialità e film di serie B, nella seconda metà degli anni Settanta, chiude le porte al cinema; interpreta da protagonista lo sceneggiato televisivo Don Giovanni in Sicilia (1977), diretto da Moranti. Dopo il divorzio col produttore Alfredo Bini nel 1980 si ritira da ogni attività artistica.
Damiano Damiani:
Nasce a Pasiano (Udine) il 23 luglio 1922. Dopo aver studiato pittura all’Accademia di Brera si dedicò al cinema, dal 1946, sia come scenografo e aiuto regista (Inquietudine, Uomini senza domani ecc.) sia dirigendo numerosi e apprezzati cortometraggi (1946/1955): La banda d’Affori, Arte e realtà, Omaggio a una città, Pallacanestro, Il discobolo, Nasce un disegno animato, Formula 2, Eroi del volante, Montecristo, Le giostre, Bambini soli, Bambini doppiatori. Prima di esordire nella regia
i lungometraggi (Il rossetto, 1960), fu anche autore di molte sceneggiature, per film di vario genere, ma non di grande rilievo (Piovuto dal cielo, I misteri di Parigi, La venere di Cheronea, Erode il grande, I battellieri del Volga, I cosacchi e L’inferno addosso). La sua produzione, estremamente variegata, dopo gli inizi “zavattiniani”, alcune trasposizioni di opere letterarie e qualche plateale concessione al puro spettacolo, si concentrò, a partire dal 1968, verso tematiche civili e sociali di grande attualità che egli trattò con vigore pur nell’ambito di un cinema estremamente popolare, schematico, che all’approfondimento privilegiava sovente l’intreccio romanzesco. Dotato di grande mestiere ed eccellente senso dello spettacolo, quando non si è lasciato tentare da operazioni puramente commerciali ha firmato film di prestigio che, a diritto, sono entrati nella storia del cinema italiano migliore. È anche apparso, come attore, in molti film da lui stesso diretti e ha sostenuto un ruolo importante ne Il delitto Matteotti (1974).
Filmografia:
1960: Il rossetto.
1961: Il sicario.
1962: L’isola di Arturo.
1963: La rimpatriata.
1963: La noia.
1967: La strega in amore.
1967: Quien sabe?
1968: Il giorno della civetta.
1969: Una ragazza piuttosto complicata.
1970: La moglie più bella.
1971: Confessione di un commissario di polizia al Procuratore della Repubblica.
1971: L’istruttoria è chiusa: dimentichi.
1972: Girolimoni, il mostro di Roma.
1974: Il sorriso del grande tentatore.
1975: Perché si uccide un magistrato.
1976: Un genio, due compari, un pollo.
1977: Io ho paura.
1978: Goodbye & amen (L’uomo della C.I.A.).
1979: Un uomo in ginocchio.
1980: L’avvertimento.
1982: Parole e sangue (film TV).
1982: Amytiville possession (in U.S.A.).
1983: La piovra (film TV).
1985: Pizza connection.
1987: L’inchiesta.
1988: Il treno di Lenin (film TV).
1989: Il sole al buio.
1989: Gioco al massacro.
1991: L’angelo con la pistola.
3.6 DUE DIVERSE ANALISI DEL FILM :
a) Schedulazione:
Come primo metodo di analisi, utilizziamo queste tabelle riassuntive, molto adatte
ad indicare i momenti salienti di un film .
b) Trascrizione grafica dei momenti salienti:
Per analizzare più nel dettaglio il film è necessaria una breve trascrizione grafica dei due momenti più importanti - l’incipit e l’epilogo - che sono anche quelli che maggiormente si discostano dal romanzo di Fuentes. Il primo, perché incomincia in media res ed introduce lo spettatore alla storia in maniera totalmente diversa dal libro: non ci troviamo in presenza di un uomo solo e disoccupato che legge un annuncio di lavoro, ma di un uomo che convive con una donna e a cui rivela di essere continuamente pedinato da un’anziana signora. Il secondo, perché a differenza di quanto accade nel romanzo, sfocia in un happy end.
L’INIZIO.
VIDEO AUDIO
1 sq: C.M. di una camera da letto. Ci sono un uomo ed una donna, ma vediamo solo l’uomo di spalle che apre la serranda di una finestra e guarda giù. 1 sq: rumori della strada;
voce off di Marta: «Sergio, sbrigati!»
2 sq: C.M. di Marta che, girata di tre quarti rispetto alla mdp, si trucca usando un piccolo specchio che tiene in mano. 2 sq: voce di Marta: «Mi devi accompagnare in ufficio!»
3 sq: P.A. di Sergio, sempre di spalle, che guarda fuori dalla finestra. Questa volta si gira verso di noi e si toglie la sigaretta dalle labbra. 3 sq: voce off di Sergio: «Marta!»
4 sq: P.A. di Marta, sempre di tre quarti che si specchia e si pettina. 4 sq: voce di Marta: «Si, caro?»
voce di uomo: «E’ ancora là!»
voce di donna: «Ma chi?»
5 sq: P.A. di Sergio che si rigira a guardare giù dalla finestra, fumando nervosamente. 5-6 sq: voce di Sergio: «La vecchia signora»
6 sq: zoom che dalla finestra inquadra un’anziana signora seduta su di una panchina sotto casa loro.
7 sq: Marta va verso Sergio, prendendo la giacca dall’attaccapanni. 7 sq: voce di Marta: «Chi è?»
8 sq: viene inquadrata di nuovo la vecchia signora. 8 sq: voce di Sergio: «Non ne ho idea, ma da un po’ di tempo, me la trovo regolarmente tra i piedi!»
voce di donna: «Sarà un caso!»
9 sq: P.P. di loro due che guardano giù dalla finestra e parlano tra loro, mentre lei si veste. 9 sq: voce di Sergio: «No, no quella mi pedina!»
voce di Marta: «E perché pedinarti, scusa?»
voce di Sergio: «E che ne so!»
voce di Marta: «Su, Sergio, vestiti che è tardi!»
LA CONCLUSIONE.
VIDEO AUDIO
1 sq: P.P. di Sergio che sorride al sentire la voce di Aura. 1 sq:musica di sottofondo; voce off di Aura: «Tanto.»
2 sq: P.P. di Aura sdraiata su un letto con mano maschile che le cinge le spelle. 2 sq: musica.
3 sq: P.P. di Sergio incupito che sta per entrare nella stanza. 3 sq:musica.
4 sq:P.P. di Aura che, sospirando, si alza in piedi allontanando la mano dell’uomo. 4 sq: voce di Aura: «Io non volevo, è stata colpa sua!»
5 sq: P.P. di Sergio impietrito che si ritrae. 5-6 sq: musica.
6 sq: P.P. dell’altro uomo che si ricompone i capelli.
7 sq: P.P. di Sergio che si porta la mano alla bocca in modo angoscioso, come per trattenere la rabbia. 7 sq:voce di Sergio: «Lei è forse qui in seguito ad un annuncio sul giornale, è così?»
8 sq: P.P. del nuovo arrivato. 8 sq: voce del nuovo: «Si certo, sono qui per un impiego.»
9 sq: P.P. di Sergio. 9 sq:voce di Sergio: «Ah!»
10 sq: P.P. di Aura. 10 sq: muta.
11 sq: P.P. di Sergio. 11 sq: voce di Sergio: «E tu non ne sapevi niente, vero?!»
12 sq: P.P. di Aura. 12 sq: voce di Aura: «No, te lo giuro. Non è colpa mia!»
13 sq: carrellata su Aura che avanza verso Sergio e lo accarezza con l’intento di tranquillizzarlo e di trattenerlo, ma lui se ne va. 13 sq: voce di Aura: «Il posto è tuo. È tuo. Digli di andarsene.
Voce di Sergio (che si gira verso mdp): «No. No. No, sono io che me ne vado. Per forza. Sono un buon a nulla. Qui è tutto in disordine. In confusione. Me ne vado!»
Voce di Aura: «Sergio, non andartene!»
14 sq: carrellata su Sergio che, scende le scale, attraversa la sala, si guarda in dietro e si ferma. C.M., appare Aura alle sue spalle. 14 sq: musica. Voce di Aura: «Sergio, io non voglio quell’altro. È lei che lo vuole!»
Voce di Sergio: «Ah! Le stesse parole, le stesse che dicevi a Fabrizio.»
Voce di Aura: «Si le parole sono le stesse. »
15 sq: P.P. di Aura. 15 sq: voce di Aura: «Tutto sembra come prima, ma non è così! Io sono cambiata, non lo vedi?
16 sq: P.P.P. di Sergio. 16 sq: voce di Sergio: «Non voglio morire!»
17 sq: P.P. di loro due: lui si avvicina a lei, le parla e poi si allontana. 17 sq: «Io voglio vivere!»
18 sq: P.P. di Sergio. 18 sq: voce off di Aura: «Anche senza di me?»
19 sq: P.P.P. di Aura. 19 sq: voce di Aura: «Non è vita se io e te non stiamo insieme! Non sei contento di rivedermi?! Dopo tanto tempo. Siamo stati felici noi due. Non credere a Consuelo, io non sono stanca di te. Rimani. Non mi buttare tra le braccia di un altro! Mandalo via!»
20 sq: P.P. di Sergio. 20 sq: voce off di Aura: «Mandalo via, anche se Consuelo non vuole!»
21 sq: P.P. di loro due insieme. Parlano, poi lui si allontana. 21 sq: voce di Aura: «Mandalo via. Noi non dobbiamo fare sempre quello che vuole lei!»
Voce di Sergio: «Hai ragione. Non dobbiamo. Mi ami?»
Voce di Aura: «Si, te lo giuro!»
Voce di Sergio: «Allora, aspetta. Aspetta!»
22 sq: C.M.: Sergio si allontana, Aura, disperata, lo richiama, ma lui se ne va ugualmente, mentre lei lo segue con lo sguardo. 22 sq: voce off di Aura: «Mi lasci?»
voce di Sergio: «No, aspetta!»
23 sq: C. M. del nuovo che scende le scale. 23-24 sq: sequenza muta.
24 sq: P.P. di Aura che si volta verso di noi.
25 sq: PART. Delle mani di Sergio che staccano un cordone da una tenda. 25 sq: musica.
26 sq: PART. Delle mani di Sergio che legano le mani di Consuelo che dorme in un letto. Dopo averla legata la trascinano giù dal letto. 26 sq: voce di Consuelo: «No, lasciami!»
27 sq: P.A. di Aura in abito bianco, a braccia spalancate e con occhi sbarrati su sfondo nero. 27 sq: musica.
28 sq: P.A. del nuovo che grida. 28 sq: voce del nuovo: «Aura!»
29 sq: P. A. del nuovo di spalle che va verso una serranda e la alza. 29 sq: musica.
30 sq: C.L. : Sergio trascina Consuelo, legata, verso il cancello. 30 sq: voce di Consuelo: «No!»
31 sq: P.P.P.di Consuelo che grida. 31 sq: voce di Consuelo: «No, lasciami! Dove mi vuoi portare? Lasciami!»
32 sq: P.A. di Sergio che alza in piedi Consuelo avvicinandosi al cancello 32-33 sq: sequenza muta.
33 sq: F.I. di Consuelo che cerca di liberarsi e di fuggire mentre Sergio la riafferra davanti al cancello.
34 sq: P.P. di loro insieme. 34 sq: voce di Consuelo: «No, lasciami!»
35 sq: PART. Delle mani di Sergio che legano le mani di Consuelo all’inferiata del cancello. 35 sq: da questa sequenza in poi riprende la musica che diventerà sempre più forte ed ossessiva fino alla fine del film.
36 sq: P.P. di Consuelo disperata, legata al cancello. 36 sq: voce di Consuelo: « No! Che fai?»
37 sq: C.M. di Sergio che calcia una latta e raccoglie del filo da terra. 37-45 sq: sequenza muta.
38 sq: P.P. di Sergio che si avvicina con aria sconvolta.
39 sq: P.P. di Sergio che lega più forte Consuelo.
40 sq: P.P. di Consuelo terrorizzata.
41 sq: PART. dei due corpi, Sergio che la lega più stretta.
42 sq: P.P. di loro due, lei è sempre più sconvolta.
43 sq: P.P. di Consuelo terrorizzata.
44 sq: P.P.P. di Sergio che dopo averla legata, si allontana dal cancello e corre verso un’auto.
45 sq: P.P. di Consuelo terrorizzata.
46 sq: C.M. di Sergio che si avvicina correndo al cancello spingendo una carriola piena di legna. 46 sq: voce off di Consuelo: «Ah!»
47 sq: P.P. di Consuelo impietrita e di Sergio di spalle. 47-51 sq: sequenza muta.
48 sq: P.A. di Sergio che ammassa le cassette.
49 sq: DETT. di cassette ammassate.
50 sq: P.P. di Consuelo terrorizzata che guarda le cassette.
51 sq: PART. del braccio di Sergio che sparge benzina sulle cassette.
52 sq: P.P. di Consuelo sempre più terrorizzata. 52 sq: voce di Consuelo: «No!»
53 sq: P.A. di Sergio che sparge benzina. 53 sq: voce di Consuelo: «No!»
54 sq: P.P. di Consuelo supplicante. 54 sq: voce di Consuelo: «No!»
55 sq: carrellata su Sergio che avanza con la torcia accesa verso Consuelo che implora. 55 sq: voce di Consuelo: «No! Fermati!»
56 sq: P.P. di Sergio che le dà fuoco mentre lei tra le fiamme grida. 56 sq: voce di Consuelo: «No!»
57 sq: C.L. del cancello in fiamme. 57-58 sq: sequenza muta.
58 sq: C.L. del cancello in fiamme visto dall’esterno della casa. Vediamo Sergio di spalle che osserva la scena.
59 sq: P.P. del nuovo bibliotecario che corre verso le fiamme gridando e poi scompare. 59 sq: voce del nuovo: «Aura!»
60 sq: P.P. di Sergio che guarda l’incendio. 60-61 sq: sequenza muta.
61 sq: P.P. di Consuelo tra le fiamme che si trasforma in Aura mentre la mdp le si avvicina sempre più fino ad inquadrare in dettaglio gli occhi. Appare la parola FINE scritta in bianco tra le fiamme, poco sotto gli occhi di Aura.
Tutte le sequenze si svolgono in interno o esterno giorno, anche se la luce è sempre un po’ offuscata, col fine di rendere più cupe e drammatiche le scene.
Abbiamo scelto di fare la trascrizione grafica di questi due momenti del film perché solo esaminando l’incipit e l’epilogo si può veramente penetrare nell’universo in cui il film intende proiettarci. Il film inizia in media res e questo significa che non è importante ciò che è avvenuto prima e che importa solo ciò a cui ci vuole condurre. Già dalle prime inquadrature, infatti, ci mostra chi “condurrà il gioco”, Consuelo. Sergio mostra a Marta una vecchia signora che, secondo lui lo pedina, lei non lo prende sul serio, così come faranno poi gli altri personaggi della storia. L’unico a prenderlo sul serio e a metterlo in guardia su ciò che lo aspetta, se deciderà di lavorare nella casa, è Fabrizio, che, però è già prigioniero di quel mondo. L’orrore che accompagna tutta la vicenda è un orrore che parte dal quotidiano e che in esso si sviluppa. Non è un caso che l’omicidio di Fabrizio venga eseguito da Sergio proprio in biblioteca. La biblioteca è, infatti, per antonomasia il luogo dove non solo la cultura, ma anche il passato e la memoria convivono e, nella casa, dove passato, presente e futuro si confondono ciclicamente, non possono coesistere due “custodi” della memoria, quindi, il nuovo deve per forza succedere al vecchio in tutti i sensi. Lo stesso avviene nel finale, quando Sergio capisce che un nuovo bibliotecario si sostituirà a lui e decide di spezzare la ciclicità degli eventi, uccidendo Consuelo, dandole fuoco. Una scelta molto forte, che impone un finale opposto a quello del libro. Un finale perfetto, coincidente con la migliore delle tradizioni sulle streghe, perché solo uno degli elementi puri è capace di distruggere una strega per sempre.
4.
DAL ROMANZO AL FILM: Il caso di Aura di C. Fuentes.
4.1 GLI AMBIENTI E LE MUSICHE.
Il genere cui appartengono sia il film che il romanzo è l’horror fantastico, anche se è facilmente riconoscibile in essi una struttura grottesca e una picaresca rovesciata, dal momento che il protagonista compie una serie di azioni senza mai muoversi dallo spazio in cui è circoscritta la sua esistenza. Il protagonista è relegato all’interno della casa per quasi tutta la durata della vicenda. Solo inizialmente lo vediamo immerso nel mondo reale: nel romanzo per le strade di Città del Messico, mentre nel film per quelle di Roma. Due ambientazioni differenti, dunque, ma totalmente irrilevanti per la trama: ciò che conta non è l’esterno, ma l’irrealtà del microcosmo che si ricrea all’interno della casa. Le due case, in questo senso sono molto simili, anche se nel romanzo vengono mostrati più ambienti, rispetto al film. Quello che è realmente importante in un contesto come questo è riuscire a ricreare con l’utilizzo di pochi stereotipi il climax richiesto dalla storia. Nel linguaggio cinematografico, in generale, l’utilizzo di carrellate lente (per creare suspence), di illuminazioni laterali, l’adottare punti di vista eclettici o stravaganti ed, infine, il ricorrere abbastanza sistematicamente al primissimo piano e al dettaglio, magari enfatizzato da una musica intensa ed angosciosa, riescono a ricreare perfettamente l’atmosfera dell’orrore.
Sono pochi, tuttavia, gli ambienti che realmente vediamo nel film; essi corrispondono abbastanza a quelli descritti nel libro: l’ampio e oscuro ingresso, le scale, la tavola da pranzo immensa e le camere con molti veli e tende. La casa è gotica, cupa e misteriosa, nonostante spesso si tirino le tende per far filtrare la luce (è più che altro un’esigenza tecnica: la troppa oscurità risulta più pesante da seguire da parte dello spettatore). All’interno della casa vediamo i seguenti ambienti:
- la biblioteca. È immensa, con soffitti molto alti e piena di libri, carte e documenti vari; è il luogo dove sono custodite le memorie - storiche e personali - del generale; ma soprattutto è il luogo dove si consuma il delitto di Fabrizio (passaggio obbligato per succedergli come bibliotecario e come amante di Aura);
- l’atrio e l’ingresso. Diversamente dal romanzo queste due parti della casa non sono rilevanti;
- le camere da letto. Piena di veli e molto candida e pura, quella di Aura; molto cupa e scura, quella di Consuelo; quella di Sergio non viene mostrata, sappiamo solo che è adiacente a quella di Aura;
- la sala da pranzo. È buia, tetra ed ha un lungo tavolo che ci permette di notare che le due donne compiono i medesimi movimenti;
- il bagno. È bianco e, forse, troppo moderno nello stile per l’ambiente che lo circonda;
- la serra. Diversamente dal romanzo, dove le piante erano nell’atrio della casa, qui esiste un luogo apposito per la loro crescita. È, anche il luogo dove Sergio scopre un povero gatto martoriato ed ucciso;
- la cappella. Nel film vediamo anche una piccola cappella, interna alla casa, dove Fabrizio confessa a Sergio di vivere con il diavolo ed amare un suo fantoccio: è un tentativo di confondere ancora una volta il sacro con il profano, un tentativo di far capire che neanche Dio può liberarlo dalle forze del male che abitano nella casa.
Una delle peculiarità di questo film riguarda l’uso della colonna sonora. La musica, infatti, è presente sia come elemento extradiegetico che intradiegetico. Nel primo caso svolge per lo più una funzione di commento ed è interna all’azione; nel secondo caso appartiene agli eventi narrati. I temi musicali che accompagnano i personaggi e ne enfatizzano gli stati d’animo sono extradiegetici, ma avendo tale funzione sembrano fuoriuscire dal loro intimo. Soprattutto la musica tribale, che diventa sempre più incalzante nei momenti di maggior pathos, e che ha come fine quello di enfatizzare i riti tribali e primitivi della stregoneria delle due donne, sembra scaturire dai riti magici, quindi, dalle due donne, e non da una fonte esterna.
Quella rappresentata dal film è una stregoneria molto semplice che immola e tortura poveri animali, prepara intrugli da bere per soddisfare il più antico di tutti i desideri umani: l’elisir di eterna giovinezza. Consuelo è, infatti, una donna disperata, disposta a tutto per rimanere bella, giovane e capace di sedurre ancora gli uomini, che devono essere necessariamente dei cloni del suo unico vero amore scomparso. Alla musica si accompagnano dei balli molto primitivi, che vengono eseguiti durante i riti di stregoneria. Anche il trucco e gli abiti delle donne sono un chiaro simbolo della stregoneria tribale. E, a questo proposito va sottolineato il momento in cui Sergio completa la linea degli occhi di Aura come tentativo di farlo partecipare attivamente ai riti magici che sono necessari affinché Aura possa manifestarsi nella sua interezza.
4.2 I PERSONAGGI.
Il primo dato che appare riguardo ai personaggi è che nel film sono molti di più che nel libro. Questo avviene principalmente per un ovvio motivo: un film con esclusivamente tre personaggi che appaiono ed uno che viene solamente evocato (il generale Llorente) risulterebbe, probabilmente, noioso e sarebbe più difficile da seguire. A tal fine, analizzeremo prima gli “intrusi” per soffermarci in seguito sui protagonisti che provengono dal mondo della carta stampata.
Il primo di questi intrusi è Marta, la compagna di Sergio, che rimarrà tale fino a che lui non verrà “stregato” dalla casa e dai suoi abitanti. Marta rappresenta il passato di Sergio, la sua vita reale; potrebbe diventarne la moglie se solo lui lo volesse. Sergio si sente soffocato e quando lei gli propone di sposarsi scappa da una sua ex. Marta non prende sul serio la preoccupazione di Sergio di essere pedinato da una vecchia signora, non percepisce l’alone di mistero e di magia che si cela dietro questa donna, perché il personaggio di Marta vuole rappresentare la razionalità, la maturità e la vita che Sergio avrebbe potuto avere se non si fosse lasciato conquistare dal fascino della magia nera e delle sue creazioni.
Il secondo personaggio che vediamo è la pittrice, la ragazza da cui Sergio si precipita dopo la richiesta di matrimonio da parte di Marta. Dal modo in cui Sergio le parla si capisce che sono molto in confidenza e che probabilmente c’è stato qualcosa tra di loro e che potrebbe esserci ancora. Rappresenta, dunque, un’altra possibile alternativa all’entrare nella casa. Ad ogni modo, neanche questa donna riesce a trattenerlo dall’andare incontro al suo destino, per la verità è troppo intenta a dipingere per capire ciò che sta succedendo attorno a lei. Pare del tutto indifferente alle stranezze di Sergio e alla possibilità di rivederlo in futuro.
Il terzo personaggio è un bambino, a cui Sergio si rivolge per sapere qualcosa sulla vecchia signora. Ma il bambino non sa dirgli nulla perché lei gli aveva semplicemente chiesto un’informazione. Non è un caso che la prima persona che vediamo parlare con la vecchia signora sia un bambino: il bambino, infatti, simboleggia la purezza, l’innocenza, tutto ciò che manca alla vecchia e che lei vorrebbe avere.
Il quarto personaggio è l’edicolante, che rappresenta il tramite tra la vecchia e Sergio. Ha il compito di indurre Sergio a leggere un annuncio di lavoro che non può essere diretto a nessun altro che a lui. È in un certo qual modo la persona che gli dà concretamente la spinta per andare incontro al destino che lo attende.
Il quinto personaggio è l’amico medico, a cui Sergio si rivolge quando crede che la vecchia signora stia male; ma nella casa la scienza e la medicina risultano essere inutili e, quindi, viene presto liquidato dalla padrona di casa.
Il sesto personaggio è l’antiquaria, un’anziana signora che in maniera un po’ burbera lo mette in guardia dalle bugie di Consuelo: «è molto più anziana di me […] non ha nessuna figlia.». Purtroppo i suoi avvertimenti arrivano troppo tardi, perché ormai Sergio è coinvolto ed ossessionato da Aura e non è più in grado di credere a niente e a nessuno, se non a ciò che accade all’interno della casa.
Sono sei, dunque, i personaggi minori che fungono da anello di congiunzione tra il mondo reale e quello irreale creatosi all’interno della casa e forse non è un caso che siano proprio sei, dal momento che nella simbologia esoterica il sei è il numero del diavolo . All’interno della casa, oltre ai personaggi principali troviamo: Fabrizio (il vecchio bibliotecario che verrà sostituito da Sergio) ed il nuovo bibliotecario che si vorrebbe sostituire a Sergio. I tre uomini rappresentano insieme la ciclicità degli eventi: Fabrizio, il passato; Sergio, il presente ed il nuovo bibliotecario rappresenta un potenziale futuro che incombe. Sergio spezza questa catena, perché si oppone ad un futuro che non gli piace. Quello di Sergio è, quindi, a differenza del suo corrispettivo nel libro, un personaggio capace di evolversi, di opporsi agli eventi e di liberarsi dalle forze malefiche che operano nella casa; da personaggio debole che era all’inizio, diviene un personaggio talmente forte da sconfiggere il male.
I personaggi principali, se si esclude il generale Llorente che compare solo mummificato e traspare dalle sue memorie, sono tre : Sergio, Aura e Consuelo. Essi potrebbero rappresentare un triangolo amoroso, se non fosse che le due donne sono in realtà una sola persona. Le due donne rappresentano, infatti, due momenti diversi della vita: la vecchiaia e la giovinezza. Esse sono esattamente come le si poteva immaginare dal libro. Aura, bellissima e misteriosa; Consuelo vecchia e bruttissima. Esattamente come devono essere le streghe, esattamente come da sempre sono impresse nell’immaginario collettivo di ognuno: da una parte la strega giovane, con gli occhi ingranditi e ovalizzati dall’eyeliner e la crocchia di capelli, dall’altra la strega vecchia raggrinzita che si agghinda come se fosse ancora giovane. Il personaggio di Sergio è molto simile a quello del
romanzo, anche se lo si potrebbe definire un po’ più “completo”, nel senso che, a differenza di quanto avviene nel romanzo, nel film viene mostrato un piccolo background del personaggio; in realtà, tale background non è indispensabile per la storia, ma è d’aiuto allo spettatore per riuscire a penetrare maggiormente nella storia. Sergio, inoltre, risulta essere capace ad opporsi agli avvenimenti, a differenza di Felipe che si abbandona passivamente in essi, soccombendo.
4.3 LA STORIA E IL PUNTO DI VISTA.
Un libro, come un film, è composto da una storia, uno stile, un linguaggio, ma anche da una serie di initenzioni e finalità che attengono ad una cultura nel suo complesso o al rapporto che ciascun autore cerca di instaurare col suo pubblico. Entrambi rappresentano, in pratica, il modo con cui un autore porge al mondo dei significati. Nel primo capitolo veniva sottolineato che, piuttosto che di fedeltà o di infedeltà, sarebbe più consono parlare del modo in cui il film «lavora» il romanzo e cioè del tipo di lavoro critico, del tipo di lettura interpretativa che il primo effettua sul secondo, quindi, della costruzione sul romanzo di un’opera nuova attraverso il cinema. Il film non deve essere qualcosa di paragonabile al romanzo, o degno di «lui» , ma «un nuovo oggetto estetico che sia il risultato del prodotto del romanzo moltiplicato per il cinema: immagine e parola devono essere in relazione perché sia autore che regista si rivolgono direttamente al lettore e allo spettatore con l’intenzione di dire quasi la stessa cosa anche se con l’utilizzo di modalità differenti» . In questo paragrafo parleremo, appunto, del modo in cui il film “ha lavorato” il romanzo. Innanzitutto, bisogna dire che Aura è un’opera molto particolare, dal momento che si colloca in un punto intermedio tra la novella e il romanzo (può essere sia un romanzo breve che una lunga novella) e che, quindi, la sua natura risulta essere ibrida (viene definita in questo modo dallo stesso Fuentes nel dossier critico contenuto nella sua raccolta di racconti, El mal del tiempo ). Aura, è, inoltre, un ibrido per il modo in cui è stato scritto, dal momento che ci troviamo in presenza di un narratore onnisciente ed intradiegetico che ordina al personaggio principale cosa fare per tutta la durata della storia, cercando di fare immedesimare totalmente il lettore nel protagonista. Risulta, quindi, difficile trasportarlo al cinema, perché questo potere che anima la storia è impossibile da ricreare nel mondo delle immagini. L’unica cosa che è possibile adattare per il cinema è la trama, anche se non nella sua totale interezza. Il numero dei personaggi contenuti nel libro è insufficiente ad una storia raccontata per immagini: è necessario aggiungere delle parti minori per rendere un po’ più scorrevole il film. Un libro può essere composto anche da un monologo interiore di un unico personaggio, ma un film del genere risulterebbe noiosissimo; già aggiungendo dei personaggi si attua una variante alla storia di partenza. Inoltre, anche i personaggi che vengono trasferiti dal mondo della carta stampata a quello delle immagini subiscono delle mutazioni, ad esempio Felipe non cambia solo il nome in Sergio, ma subisce anche un cambiamento caratteriale ed emotivo . Le eventuali somiglianze o differenze che un film ed un libro possono avere sotto il profilo psicologico e passionale dei personaggi influiscono pesantemente sulla ricezione emotiva da parte
dello spettatore, il quale, come è noto, tende a rapportarsi al film (ma anche al libro) proiettandosi nella diegesi ed identificandosi con le figure in essa applicate. Ma non solo: tali varianti influiscono anche nello svolgimento della vicenda. Infatti, un personaggio più forte in grado di opporsi al proprio destino, quale risulta essere Sergio, è in grado di cambiare il finale della storia. Possiamo, dunque, affermare che un film come La strega in amore attinge l’idea di base contenuta nel romanzo Aura e ne dà una sua interpretazione. Lo stesso regista afferma di essere stato affascinato dall’idea di un uomo che immagina di avere tra le braccia una donna giovane e bellissima quando in realtà sta abbracciando una donna vecchia e repellente. Questo è ciò che si proponeva di trasportare sullo schermo e questo è quello che ha trasportato. Nulla di più. Si è ispirato ad un romanzo e ha realizzato un film, che risulta essere simile e dissimile al tempo stesso al romanzo.
4.4 UN’INTERVISTA A D. DAMIANI .
Conosceva altre opere di Fuentes, o semplicemente per una casualità della vita, ha letto Aura ed ha deciso di farne un film?
Ho letto qualcosa di Fuentes, tra cui questo romanzo, poi l’ho messo nel “ricordo” ed in seguito ho deciso di farne un film.
Aura è un romanzo molto particolare per il modo in cui è stato scritto, in seconda persona singolare: la sua scelta è dipesa anche da questo?
Certo che questo modo di scrittura mi ha colpito. È un film che parte dal principio di una dimensione fantastica dell’esistenza. Qual è, infatti, la storia del film? O almeno quella che ho realizzato io nel film: uno si innamora di una ragazza e quella ragazza non esiste. Esiste solo una donna che in alcuni momenti, agli occhi di quell’uomo, diviene una ragazza bellissima. Questo è un film dove c’è un’unica base fondamentale: l’illusione della visione fantastica in chiave pazzesca. In chiave letteraria quest’immagine è molto più facile da realizzarsi perché, mancando la dimensione visiva, risulta facile il passaggio dalla donna reale a quella solo immaginata. Nel film si vedono per forza di cose due creature diverse.
Anche nel libro vengono, però, descritte due creature diverse: Consuelo e Aura, e ci sono momenti in cui Sergio le vede tutte e due, non le pare?
Sì, i film a volte consentono di mettere in scena la fantasia. Il protagonista pensa che in quell’ambiente Aura esista; io posso dire, invece, che la Schiaffino è un fantasma mentre la Ferrati esiste davvero. Questa è la storia, che, in realtà, altro non è che la storia di un’ubriacatura, di una malattia, di un abbaglio. E in un certo senso questo è anche il suo fascino, perché se togliessimo alla storia questa componente di sogno la storia non esisterebbe più. Perché la storia consiste proprio in questo. E allora io cosa ho cercato di fare? Di inserire questa storia in un ambiente fantastico. In un appartamento che avesse qualcosa di misterioso. Dal sapore medioevale che permetta di costruire uno sfondo di irrealtà e fantasia. La storia non avrebbe funzionato in un ambiente diverso, quale ad esempio, una stazione o un bar dove altre persone andavano e venivano. Era necessario che Sergio fosse solo per poter iniziare a sognare che in quell’ambiente, in quella scenografia fantastica, sarebbe stato tanto bello avere accanto una donna meravigliosa come Rosanna Schiaffino. Il film non pretende di andare oltre, di avere altri significati e suggestioni; vuole essere semplicemente questo e nient’altro. È questo che attrae lo spettatore, perché quando si guarda il film ci si domanda come andrà a finire. Ci si domanda se il protagonista finirà per uccidere la donna e non vedere più, così, la ragazza che continuerà, però, a sognare senza più poterla avere tra le sue braccia perché sa di aver rotto l’illusione. Nel libro, invece, si abbandona all’illusione rimanendo nella casa con la strega ed è in questo senso che il film finisce meglio del libro.
Cosa l’ha spinta a cambiare il finale?
Nel libro Sergio rimane con la strega e ogni volta che l’abbraccia si immagina di abbracciare un’altra donna. Questa, intendiamoci è un’idea affascinante che mi ha intrigato sul come realizzarla perché nel cinema si vede la carne, le persone vere, e qui, all’inizio si vede una donna di età, poi una giovane, poi di nuovo una vecchia e il punto culminante si ha quando si vedono tutte e due insieme. Tutti vedendo questo film pensano che quando lui vede Aura, lei esista davvero, ma quando la ragazza viene messa vicino alla donna anziana il pubblico capisce che questa è un’illusione. È una distorsione del cervello di un uomo che certamente è disperato. Un uomo solo che ha bisogno di pensare di poter abbracciare qualcosa che si possa amare.
Sì, però Sergio è soprattutto un personaggio che fugge da una relazione concreta, quale quella che potrebbe avere con Marta quando lei gli chiede di sposarla. È quindi un personaggio che preferisce rincorrere delle chimere piuttosto che vivere la vita reale?
Ovviamente, e questa è la base da cui partire per valutare se ho fatto un film che abbia fascino. Ad esempio, lei cosa ne pensa. Le è piaciuto il mio film?
Sì, anche se si discosta molto dal romanzo. Ad esempio, lei aggiunge dei personaggi e questo è ovvio perché un film con solo tre attori risulterebbe pesante. Quindi aggiunge i due bibliotecari, che rappresentano il passato e un potenziale futuro di una catena che Sergio spezza. Però ho un dubbio sul personaggio dell’antiquaria: perché Consuelo per compiere le sue magie vende mobili antichi all’antiquaria? Perché sono necessari i soldi per gli incantesimi? È anche in questo che si vede che è il dio denaro a comandare su tutto?
È uno dei tanti fattori che ho voluto inserire per far sì che Sergio pensi di essere nella realtà. È un film sulla pazzia. È un film di atmosfera, per questo mi pare che sia azzeccata la scenografia rotonda della biblioteca che ho fatto costruire, proprio per dire: adesso sono qui e vedo quella giovane, poi girando dall’altra parte vedo la vecchia. Ecco, ho voluto dare un senso all’ambientazione come parte della sua illusione. Questa scenografia fatta in questo modo presume che chi l’ha costruita sia pazzo. Nella realtà non esiste l’idea del luogo rotondo in una casa abitata, non esiste una libreria che gira in tondo.
Dove è ambientato?
A Roma, vicino a Piazza Navona. La casa non esiste più. Era stata realizzata in studio, non a Cinecittà. In quella parte di Roma dove c’erano i teatri di posa.
Un suo giudizio critico sul film?
Beh, un film così potrebbe pure essere un film comico. Se uno dice: «Porca miseria, perché sto abbracciando questa donna che a me fa schifo e che oltre tutto ha un profumo che mi repelle?». Si poteva fare anche un film dove lui fa l’amore con questa donna anziana. Lei può mandarlo via o lui può mandarla via, però, accidenti, lei si presenta a me così bella che ci sto. È un film su un matto, su una demenza, però ha il suo fascino perché chi ti dice che fare un film sulla pazzia soggettiva, immaginando ciò che vede un uomo pazzo non possa essere un bel film. Allora questa suggestione, questo suggerimento è, diciamo, di grande impatto perché in una donna bruttissima Sergio riesce a vedere una donna bellissima. Vede, ad esempio, in alcuni casi si può dire che se io sto in un brutto e sporco posto posso lo stesso immaginare che sia pieno di fiori. Anche questo può essere usato per suggerire la follia di quel soggetto. L’idea è che c’era una donna che aveva una età ormai inaccettabile ed invece lui pensava potesse esserci anche una giovane. È lì il bello insomma.
Ci parli della scena in cui Aura chiede a Sergio di spogliarla con la bocca, che tra l’altro credo fosse un po’ spinta per il 1967. E’ molto da illusione, da sogno e il fatto che venga spezzata da un altro personaggio è pari ad un brusco risveglio.
Ma secondo lei ha anche un fascino erotico?
Sì, per il periodo indubbiamente perché suggerisce molto, più che mostrare. Le ha creato dei problemi con la censura?
Forse adesso la scena sarebbe diversa. Vedremmo lui che fa l’amore con la giovane e poi si ritrova tra le braccia la vecchia. Si sarebbe potuta fare anche così e forse ci ho anche pensato, ma allora c’era anche il problema che si poteva non andare sullo schermo.
Questo film è andato anche in TV, si può dire che sia stato pensato anche per la TV?
Assolutamente no, sono contento del fatto che sia andato e continui ad andare in televisione perché vuol dire che è un film che ancora piace, che non annoia e che ti fa rimanere lì incuriosito in attesa del finale.
La Schiaffino è stata scelta perché bella e brava o perché la moglie del produttore?
Un po’ per entrambi i motivi. Mi piaceva come attrice ed era nelle mani di un bravissimo produttore che poi non si sa bene perché è sparito dalle scene. Allora si pensava che Bini avrebbe fatto strada.
Ci parli della serra, dell’importanza di quest’ambiente dove Sergio ha delle rivelazioni. Forse è stata creata per dare maggiore importanza al luogo dove crescono le piante inebrianti?
Quando io leggo un libro ne do una mia interpretazione. Anche ne Il giorno della civetta, Sciascia non può dire di aver ritrovato tutto il suo libro. Moravia, invece, ha capito subito che il cinema è un linguaggio e la letteratura un altro. Infatti, Moravia non voleva parlare di critica dei film tratti dai suoi libri ed era solito dire «Non giudico perché è un altro linguaggio». Ma forse bisogna dare qualche spiegazione di tipo meccanico. Scrivendo un libro si possono fare cinque pagine di descrizione dei pensieri di un personaggio. Al cinema questo non si può fare. Bisogna far vedere le azioni. Al cinema un personaggio che pensa non ci dice nulla perché non si vedono i pensieri. Sono due linguaggi che non si sposano insieme se non per linee generali.
Nella casa c’è una cappella dove Fabrizio mette in guardia Sergio e gli confessa di vivere con il diavolo e di amarne un fantoccio. Perché tutto questo avviene proprio in una cappella? Vuole essere un simbolo della salvezza divina?
Mah, io credo che ci sia sempre un motivo per andare in un luogo che non ha nessun significato pratico, ma solo di fantasia. Perché quando uno entra in chiesa sia che sia un laico, un ateo o un bestemmiatore, comunque, questa entrata ha sempre un significato. Perché vedi lì il più grande uomo esistito nella storia: Gesù di Nazareth. Poi vi può entrare anche un uomo che vuole maledirlo perché ha avuto una vita di sole sofferenze. Quindi, si può dire che una chiesa può attirare a sé per il suo significato religioso.
4.5 CONCLUSIONI.
La nostra analisi si era proposta di esaminare le relazioni che intercorrono tra letteratura e cinema, tra libro e film, ma soprattutto si era proposta di cogliere i fattori dai quali è possibile capire se un film tratto da un romanzo può essere definito un buon adattamento o meno. Per far questo siamo partiti analizzando quali differenze intercorrono tra cinema e le altre arti: come la letteratura, il cinema è un motore di narrazione, come la fotografia, utilizza le immagini quali suoi mezzi di espressione, come il teatro, mette in scena una rappresentazione; ma più del romanzo, più del teatro e della fotografia, il cinema è in grado di donare al suo fruitore una concreta rappresentazione del reale, scatenando nello spettatore un processo percettivo e di partecipazione.
Inizialmente era il cinema ad attingere dalla letteratura. Con gli anni questo rapporto si è evoluto fino a divenire un rapporto biunivoco ed è per questo che il cinema appare oggi come un mezzo che conserva forti legami con il testo narrativo scritto e con la testualità in genere. Ciò è dovuto non solo ad aspetti strutturali del cinema, ma anche alle modalità attraverso le quali si è storicamente inserito nelle arti. Esso ha raccolto l’eredità della tradizione narrativa ottocentesca, dopo aver dato un notevole contributo a dissolverla, e, comunque, è vissuto in osmosi con le manifestazioni narrative di questo secolo, sia nelle espressioni popolari, sia in quelle più colte. È riuscito a sviluppare, sin dalle origini, una propria autonomia che gli ha permesso di produrre una sua mitologia con radici profonde nell’immaginario collettivo della modernità e con stretti legami con altri media (primo fra tutti, la carta stampata: basti pensare allo stretto legame che si è instaurato tra best seller e block buster). Si fa un utilizzo così ampio del cinema per raccontare delle storie che anche i film non-narrativi (come i cortometraggi a carattere documentaristico, didattico ecc.) si trovano obbligati a seguire gli stessi meccanismi semiologici dei lungometraggi narrativi.
La narratività influisce così tanto che il regista, al pari dello scrittore, è portato a pensare ad un fruitore potenziale per cui comporre la sua opera. Entrambi, anche se in maniera differente, mirano, infatti, a mostrare la loro idea ad un pubblico, ad essere fruiti dal maggior numero di persone possibili. È lo spettatore che attribuisce all’immagine i caratteri della realtà, che cuce le diverse inquadrature in un unico contesto; è a lui che il film si deve rivolgere così come il libro fa da sempre con il lettore.
La diversità dei due mezzi fa sì che cambino vari fattori d’espressione, come per esempio il punto di vista della narrazione: il passaggio dalla prima alla terza persona modifica inevitabilmente la struttura della vicenda. L’aggiunta delle immagini limita la fantasia dello spettatore, imponendogli una visione dei fatti, immediata, che riduce inevitabilmente lunghe descrizioni a poche sequenze.
Andando più nel particolare con la nostra analisi ci siamo resi conto di come un romanzo possa venire stravolto nel processo di traduzione dalla pagina allo schermo. E qui ci addentriamo finalmente nel cuore di uno dei momenti chiave in cui si articola il rapporto tra cinema e letteratura. Crediamo che sia ormai chiaro che non è necessario parlare di fedeltà assoluta, poiché, ammesso che sia possibile perseguirla, essa partorirebbe un mostro, che non avrebbe con il testo originario un legame oggettivamente più saldo di quello che un qualsiasi film tratto da un romanzo può avere; risulterebbe sempre e comunque un’interpretazione. Ci sono almeno tre grandi tipologie di traduzione di un testo letterario. La prima si ispira a un romanzo lasciando però che il film segua la propria strada. La seconda traspone cinematograficamente un testo cogliendone solo alcuni momenti chiave. La terza, infine, si propone l’obiettivo della fedeltà assoluta che però si può definire tale solo nel caso di un romanzo nato in contemporanea con il film, (come per esempio Teorema ), e che anche in questo caso sono presenti delle differenze tra le due opere.
Se da un lato la conoscenza dell’opera di partenza non è condizione necessaria per la comprensione e l’apprezzamento di quella d’arrivo, è anche vero, però, che questa conoscenza può essere il presupposto per un apprezzamento di un livello superiore. Si può partire dal film e risalire verso il romanzo, vedere come è raccontata, nel libro, la storia nel suo complesso e le sue componenti, per giungere a capire le intenzioni e le caratteristiche stilistiche dell’autore; oppure, all’inverso, dato un determinato testo letterario, si può cercare di comprendere che cosa esso sia diventato in un film, che cosa ci dicono queste trasformazioni di coloro che hanno realizzato il film e di coloro a cui si vuole rivolgere.
Infine, abbiamo applicato il tutto ad un caso particolare: un film tratto da un romanzo. In quanto «immagine di un’immagine, il film letterario è un film a rischio. Rischio di confronto con l’opera da cui è tratto» . Il nostro è un libro “difficile” per il suo modo di essere stato scritto: un libro scritto interamente alla seconda persona singolare utilizzando i soli tempi verbali presenti e futuri dove, quindi, il narratore diviene in un certo qual modo personaggio ed ordina ad un altro personaggio fittizio (con cui facilmente il lettore tende ad identificarsi) il da farsi. Ovviamente, nel passaggio dalla pagina allo schermo questo punto di vista è andato del tutto perduto, dal momento che solo realizzando un film totalmente in soggettiva si sarebbe potuto mantenerlo.
Il film può parlare, come il romanzo, di ciò che un personaggio sa; ma può anche, grazie al carattere ottico dell’immagine, mostrarci ciò che egli vede, facendoci vedere letteralmente attraverso i suoi occhi. Al di là dell’effetto artificioso e disturbante che un tale tipo di pellicola produce nello spettatore, questo sarebbe stato l’unico modo possibile di mantenere in vita un personaggio quasi del tutto invisibile e “comandato a bacchetta”. Però ci sarebbero stati dei problemi, si pensi per esempio al film Una donna nel lago dove il protagonista non si vede mai se non quando si specchia. Questo fa riflettere sul fatto che la cosiddetta soggettiva porta in sé una contraddizione di fondo che la rende praticamente improponibile, se non per brevi tratti: uno spettatore per assumere la visione di un personaggio necessita di vederlo. Sembra assurdo, ma per entrare nello sguardo, bisogna oggettivamente conoscere chi guarda. Non si può ridurre chi guarda a puro sguardo. Neanche in un videogioco la ripresa in soggettiva funziona del tutto; pensiamo per esempio ad un videogame di automobili: ci sono dei giocatori che non sono in grado di guidare una macchina senza vederla interamente, cosa alquanto strana, dal momento che nella vita reale avviene esattamente l’opposto. Forse, è proprio in questo senso che, come sostiene Costa, «l’immagine soggettiva è riflessiva senza essere speculare: essa non si riflette, ma riflette l’origine e lo spettatore; ed è a questa particolarissima riflessione che essa deve gli echi deittici che spesso suscita» . In Una donna nel lago, è proprio questo che non funziona, non si vede abbastanza il protagonista di cui si dovrebbe assumere la visione: noi lo vediamo solo quando anche lui si guarda. Non funziona per esempio il bacio: noi vediamo una donna ad occhi chiusi che attende un bacio mentre la macchina da presa zoomma su di lei oscurandola. Non va dimenticato però che la soggettiva permette di creare un maggior effetto di suspense ed è molto usata ad esempio nell’horror o nei thriller, laddove la musica diviene maggiormente enfatica.
Ad ogni modo, tornando al nostro caso, e cioè stabilire se La strega in amore possa essere definito un prodotto degno di Aura, bisogna fare ancora alcune piccole considerazioni. Aura è una novella breve, essenziale, unica nel suo genere, capace di affascinare anche solo per il suo modo di essere scritta; La strega in amore è uno di quei film che riescono a tener vivo l’interesse nello spettatore fino al finale. È uno di quei connubi che inducono colui che ha letto il libro e visto il film a preferire, tra i due, il primo di cui ha fruito: chi legge prima il libro pensa che il film se ne discosti troppo e viceversa.
Damiano Damiani, nel trasporre Aura sullo schermo, compie un’operazione che già da subito si propone di apportare delle modifiche. Cambia, infatti, il titolo da Aura a La strega in amore, facendo una scelta ben precisa: enfatizzare più il ruolo che questa donna investe che la sua figura; aggiunge dei personaggi che inevitabilmente creano delle modifiche nella trama; ma, soprattutto cambia il protagonista: non si limita a cambiargli il nome da Felipe a Sergio, ma gli modifica pure il carattere. Sergio è molto più furbo e più forte, è capace di porre fine a delle fantasticherie assurde che gli impediscono di vivere una vita normale, non soccombe per accidia, ma si ribella e ne esce vincente. È Damiano Damiani stesso a spiegarci di essere rimasto affascinato dall’idea del libro e di aver voluto realizzare un film che partendo dalla trama di base, si evolvesse sino ad arrivare ad un finale diametralmente opposto a quello del romanzo. E, forse, l’elemento più sorprendente del film è proprio questo che, non potendo ricreare la magia di scrittura del libro, va oltre, inventa qualcosa che, pur modificando la trama, riesce a ricreare quell’alone di “particolarità” che c’era nel libro, quel mondo onirico ed assurdo che si forma attorno al protagonista e che lui solo può scegliere se abitare o abbandonare. In questo senso si può dire che libro e film rappresentino due esiti possibili alla storia: accettare di vivere in un incubo per inettitudine oppure liberarsene. Due sfaccettature di uno stesso oggetto, due modi diversi di vedere il mondo, esattamente come la letteratura e il cinema, ma ugualmente affascinanti.
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