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Universita’ di pisa
corso di laurea in filosofia
dispense del corso di
istituzioni di storia della filosofia antica
Bruno centrone
Premessa
Le dispense che seguono contengono il corso di Istituzioni di storia della filosofia antica (30 ore=5 crediti) del Corso di Laurea triennale in Filosofia dell'Università di Pisa. Le dispense sono corredate di un'antologia minima di testi disponibile separatamente, i cui riferimenti sono comunque indicati nel corso del testo con un asterisco*. Esse sono rese pubbliche ad unico uso e consumo degli studenti che devono conseguire crediti nelle attività formative di base per il settore disciplinare di storia della filosofia antica. Come tali, esse non ambiscono alla precisione che si richiede a un'opera stampata e non hanno finalità sistematica o esaustiva, né si propongono di sostituire lo studio del manuale, del quale costituiscono semmai un'integrazione.
Il corso è concepito come un'introduzione a concetti fondamentali della filosofia antica, quali essere, verità, anima, bene, conoscenza e alla relativa teminologia. Le voci trattate non costituiscono una storia esaustiva dei concetti in esame; ci si propone piuttosto di fornire alcune conoscenze preliminari e alcune coordinate di riferimento ritenute indispensabili. Rientra tra gli scopi di questo corso di lezioni fare quantomeno intuire, mediante alcuni esempi, l'importanza, e in alcuni casi la necessità, di confrontarsi con i testi antichi in lingua originale; ciò mira a rendere evidente lo scarto, prodottosi nel tempo, tra il campo semantico dei concetti arcaici e quello dei concetti da noi abitualmente usati. A questo proposito uno schema fisso idealmente seguito prevede innanzitutto l'individuazione del termine greco che maggiormente corrisponde al termine che in origine designa il concetto in questione; si tratta di stabilire che cosa questi termini indichino originariamente; quali siano le differenze semantiche tra i termini in questione e il loro più vicino corrispondente moderno; come sia progressivamente avvenuto tale slittamento semantico e come i termini abbiano via via acquisito il loro spessore filosofico; quali problemi sia teorici sia storico-interpretativi siano generati da tale slittamento. Questo tentativo di 'disincrostazione' si scontra comunque con l'evidente impossibilità che un lettore moderno abbia, di fronte a un testo filosofico, le stesse rappresentazioni mentali di un antico; è inevitabile che ci si serva, nel tentativo di comprendere la filosofia antica, di concetti sviluppatisi successivamente. Ma queste nozioni costituiscono a loro volta l'esito di un processo storico che inizia per l'appunto nell'antichità; per comprendere questo processo nella sua genesi storica non si può evidentemente far uso di.ciò che è al termine del processo (sarebbe come se, per comprendere come si è sviluppato un organismo nel tempo, si proiettassero nella fase iniziale gli stadi ultimi dello sviluppo). Ed è ovviamente impossibile pensare che gli antichi ragionassero in base a concetti e categorie mentali che si sono formate successivamente. Altrettanto indiscutibile è, d'altro canto, l'impossibilità di una comprensione nel senso di una immedesimazione totale, che è storicamente impossibile. L'antropologo che si sforza di capire la mentalità primitiva non potrà mai immedesimarsi in quel selvaggio del quale studia i modi di vita e le abitudini, ma è altrettanto evidente che questa semplice circostanza non giustifica una sovrapposizione non problematica del proprio modo di vedere le cose, che porterebbe al più incontrollato arbitrio interpretativo. La comprensione storica si situa in tensione tra questi due poli, in un circolo ermeneutico che ambisce ad essere un circolo virtuoso: nel chiederci che cosa sia l'anima per gli antichi non possiamo non servirci di una nozione che rappresenta l'esito di un processo storico, ma al tempo stesso dobbiamo sforzarci di liberare questa nozione dalle successive concrezioni, per individuare il nucleo concettuale primitivo dal quale ha preso le mosse il successivo sviluppo.
Le principali scuole filosofiche dell'antichità
La filosofia antica si estende convenzionalmente nell'arco di tempo che va dalle origini (scuola ionica Talete, 624-545/4) sino alla chiusura delle scuole filosofiche di Atene ad opera dell'imperatore Giustiniano nel 529). Il 529 è dunque assunto come data per la fine del pensiero antico, quando, nel quadro di una politica di rafforzamento del'accordo con il papato, Giustiniano emana la proibizione di insegnamento ai pagani e la loro interdizione dai pubblici uffici. Questo divieto, più in particolare, colpisce la scuola che nell'antichità ha mantenuto la maggiore vitalità, cioè l'accademia platonica: Damascio, successore di Proclo (*485) si trasferisce nel 531 alla corte di Cosroe I re di Persia e ritorna ad Atene solo nel 533, dopo aver ottenuto garanzie di non essere perseguitato. Dopo questa data non si hanno più notizie precise, ma è ovvio che non si può parlare di una brusca fine della filosofia greca (si pensi, ad esempio, che le opere del neoplatonico Simplicio, commentatore di Aristotele, datano tutte a dopo il 533). Piuttosto, la filosofia greca si estingue gradualmente sopravvivendo come eredità significativa nelle opere degli autori cristiani. Dal punto di vista cronologico essa si sovrappone per un certo periodo con quella che chiamiamo filosofia medievale (pensiamo che Agostino appartiene al IV secolo).
Si ragiona solitamente in termini di scuole o di singoli pensatori, talvolta non riconducibili facilmente a una scuola ben precisa. E' dunque necessario fornire una panoramica preliminare sulle principali scuole filosofiche dell'antichità, ma soprattutto è indispensabile chiarire cosa si intenda propriamente per 'scuola' filosofica nell'antichità: che cos'era e come funzionava una scuola? E sono, le varie scuole, tutte riconducibili a una tipologia comune?
Se leggiamo l'indice di un manuale, queste sono le principali scuole e i principali autori: Presocratici; Socrate; Platone; Aristotele, cui seguono l'Accademia platonica e la Scuola di Aristotele, chiamata Peripato o Liceo; scuole ellenistiche, cioè Epicureismo, Stoicismo, Scetticismo. A tutte queste si riconducono le successive etichette impiegate per indicare determinate correnti di pensiero o scuole, molte delle quali implicano l'idea di un rinnovamento e di una ripresa di concezioni precedenti, per cui si parla di epicureismo romano, di stoicismo medio (Panezio 185-110 e Posidonio 135-51) o stoicismo romano o di neo-stoicismo; di neopitagorismo, a partire dal I a.C. e sino al II d.C: (detto per inciso, l'unica 'scuola' che prende il nome da un presocratico); di neo-scetticismo (con Enesidemo, I a.C.; Sesto Empirico II-III d.C).; di neoplatonismo (Plotino 205-70; Proclo Damascio). Dopo Platone e Aristotele si parla propriamente di scuole filosofiche in qualche modo istituzionalizzate, ma anche questo vale con riserve; dietro alcune etichette quali medioplatonismo o neopitagorismo si può parlare di scuole con molta cautela, mentre, come vedremo, è assai dubbio che si possa parlare di scuole vere e proprie anche a proposito dei cosiddetti presocratici (in particolare, ad es., per gli ionici o i pitagorici).
E' ancor oggi in voga la categoria storiografica di presocratici. Ci si potrebbe chiedere subito, perché presocratici e non ad esempio, presofistici o preplatonici (che pure sono categorie talvolta impiegate; già Nietzsche, ne La filosofia nell'età tragica dei Greci, 1873) indicò l'opportunità di usare piuttosto il termine 'preplatonico'). La categoria di 'presocratico, ancor prima che da un punto di vista concettuale, è stata messa in discussione da un punto di vista cronologico: molti dei cosiddetti presocratici sono contemporanei a Socrate, o più giovani (es. Democrito), o comunque le vite di molti di loro si sovrappongono a quella di Socrate (cfr. in proposito E.A. Havelock, Alle origini della filosofia greca. Una revisione storica). Per Havelock lo spartiacque nella storia del pensiero greco è rappresentato da Platone, il primo che "introdusse nel mondo greco un consistente corpus di scritti destinati a lettori, nel suo genere il primo nella storia della nostra specie". In questo caso il fattore determinante consiste non tanto in un 'contenuto', per il quale una determinata filosofia segna un punto di svolta rispetto a quella precedente, ma in un atteggiamento culturale, la decisione di scrivere, e di scrivere libri che hanno ben precisi destinatari.
La denominazione di 'presocratici' è stata resa canonica dal grande storico della filosofia Eduard Zeller, autore di una monumentale Filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, ma ancor più dalla raccolta di frammenti e testimonianze ad opera di H. Diels 1903 e poi, insieme a Diels, di Walther Kranz; ricordiamo che una precedente raccolta, ad opera di Mullach, si intitolava semplicemente Fragmenta philosophorum Graecorum). La raccolta di Diels-Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker costtuisce tuttora un punto di riferimento; essa si basa sulla distinzione tra Testimonianze (A) e Frammenti (B), anche se nella gran parte dei casi questa distinzione si è rivelata molto incerta e fondata su criteri malfermi. La denominazione implica evidentemente l'idea che Socrate costituisca un punto di svolta fondamentale nella storia del pensiero. Questo punto di vista, in effetti, fu già proprio degli antichi, che espressero un punto di vista secondo cui la filosofia precedente confluisce in Socrate e si ridivide dopo Socrate. Vediamo in proposito alcune testimonianze:
* Cicero Tusculanae DisputationesV4, 10-11: "i filosofi precedenti …studiavano i numeri e il movimento e l'origine e il termine di tutte le cose; e ricercavano con grande interesse le grandezze, le distanze le traiettorie delle stelle e tutti i fenomeni celesti ; Socrate fu il primo a richiamare la filosofia dal cielo (philosophia de caelo evocata) e la collocò nelle città e introdusse anche nelle case e la costrinse a indagare sulla vita e sui costumi, sul bene e sul male". Cfr. anche Acad.post. I 4, 15-17 (ma si ricordi l'importanza dell'astronomia per Platone e Aristotele). Un punto importante in queste testimonianze è che Socrate non si dedicava a indagini naturali, benché ciò sia controverso (questa affermazione potrebbe avere una finalità apologetica, poiché l'attività di indagine naturalistica aveva a che fare con i capi di accusa nel processo intentato a Socrate). Una formulazione diversa, che si rova in certe fonti antiche, recita che Socrate introdusse l'etica, cfr. Diogene Laerzio I 14: Socrate indagava in che modo si deve vivere, cosa è giusto fare, come si distingue il giusto dall'ingiusto; o anche, basandosi sul "conosci te stesso", si ritiene che con Socrate cominci l'indagine del soggetto su se stesso (anche se la formula ha, nella cultura greca, più il senso della consapevolezza dei propri limiti che non quello di un'indagine introspettiva).
Da tutto ciò risulta chiaro come i cosiddetti presocratici siano difficilmente riconducibili a un minimo comune denominatore, che dovrebbe essere costituito dall'aver svolto indagini unicamente naturalistiche e dal non essersi occupati di etica (il che non è evidentemente vero; sarebbe difficile negare che Democrito e i sofisti si siano occupati di etica) o può essere considerato vero in senso molto vago; semmai è la nascita della dialettica, dell'indagine nei logoi, secondo Aristotele, che potrebbe costituire un criterio più sicuro). Dopo Aristotele la filosofia viene distinta in fisica, etica, logica (questo si riflette anche nelle esposizioni manualistiche delle filosofie ellenistiche, mentre per Platone e Aristotele l'esposizione delle loro filosofie è segnata dalle opere, disposte secondo un ordine cronologico per Platone, sistematico per Aristotele) e i presocratici sono generalmente considerati physikoi, cioè studiosi della physis, della natura
Già nell'antichità si sono distinti due indirizzi, rappresentati dalla diversa dislocazione geografica, uno "ionico", uno "italico"; l'Italia meridionale (Magna Grecia) e la Ionia erano le due zone verso le quali si era diretta la colonizzazione greca, a partire dallVIII-VII sec. a.C. Provengono infatti dalla Ionia Talete Anassimene Anassimandro; Eraclito; Anassagora; Democrito; dalla Magna Grecia: Pitagora e i Pitagorici Empedocle. La cosiddetta scuola eleatica è apparentemente spaccata a metà: da Elea (l'attuale Velia in Campania) provengono Parmenide e Zenone, ma Senofane viene da Colofone e Melisso da Samo.
Questa distinzione risale agli antichi, ma è stata ed è ancora operante, sia pure in termini diversi. Diogene Laerzio (III d.C.), biografo dei filosofi e dossografo su cui avremo modo di tornare più approfonditamente, nel prologo alle Vite parla di una doppia origine della filosofia, da un lato con Anassimandro e Talete dall'altro con Ferecide e Pitagora. A questi seguono, secondo lo schema delle cosiddette successioni (diadochai), nell'indirizzo ionico Anassimene Anassagora Archelao Socrate Platone Speusippo Senocrate Polemone Cratete Crantore Arcesilao Lacide Carneade Clitomaco; nell'indirizzo italico Telauge (figlio di Pitagora) Senofane Parmenide Zenone Leucippo Democrito Nausifane Epicuro. Si parla di scuole con il termine greco hairesis, che significa scelta, condotta di vita, poi scuola (da cui anche il termine 'eresia'). Questa distinzione non coincide con quella moderna, operante in parte della storiografia del XIX secolo, secondo la quale l'indirizzo ionico si caratterizzerebbe per un atteggiamento più scientifico ed empirico, più critico verso il mito e la tradizione, l'italico invece per una tendenza più orientata in senso religioso (particolarmente importanti a questo proposito le connessioni con l'Orfismo), finalizzata alla scelta di un tipo di vita e alla purezza rituale più che a una dottrina. E' uno schema in qualche misura valido, ma da prendersi con molta cautela.
Tra i presocratici un posto a parte occupano i sofisti, il cui centro di gravitazione è Atene, anche se i vari esponenti di questo indirizzo provengono da zone diverse: Gorgia da Leontini in Sicilia, Protagora da Abdera in Tracia, Ippia da Elide, Prodico da Ceo. Ciò indica che queste figure non provengono da una scuola comune; il loro raggruppamento sotto l'unica denominazione di sofisti è posteriore, e ciò che li accomuna è il tipo di attività che essi hanno svolto ad Atene; quella di formare i giovani alla vita politica, soprattutto mediante l'arte del dire, la retorica: parlare bene e argomentare bene costituivano momenti essenziali della vita assembleare nella Atene democratica. Questo ha comportato una riflessione sul linguaggio che non si trova, almeno a quel che sappiamo, nei precedenti pensatori, e apparentemente l'assenza di un interesse specifico per l'indagine naturalistica (per questo, come si è accennato in precedenza, è stata usata anche la categoria di 'presofistico'). Va tenuto presente, in sede introduttiva, che la connotazione negativa del termine greco sophistès (da cui sofisticare, sofisma) prende piede dopo Platone. sophistès in generale vuol dire sapiente e ancora Aristotele chiama sophistai i cosiddetti sette saggi (si veda anche Diogene Laerzio I 12, dove è sinonimo di sophos). Alcidamante, retore discepolo del 'sofista' Gorgia, scrive un'orazione polemica contro gli scrittori di discorsi, da lui chiamati 'sofisti' con una connotazione peggiorativa.
La polemica di Platone contro questi pensatori, motivata soprattutto da ragioni etico-politiche, lo porta a definire negativamente il sofista nel dialogo omonimo, anche se nel Gorgia Platone parla di una 'nobile sofistica', che ha a che fare con l'arte della legislazione
La sofistica è così definita "l'arte di lucrare denaro in cambio di un apparente educare"; l'arte di vendere i discorsi e le cognizioni relativi alla virtù", l'arte di produrre arricchimento traendolo dalle dispute tra privati, (soph. 231d): il sofista è un cacciatore di giovani ricchi che mira a trarne denaro; un commerciante di cognizioni utili all'anima; un venditore della sua produzione nel campo delle conoscenze; un atleta della lotta fatta con il discorso; e ancor più radicalmente, (233d), un uomo che possiede una scienza apparente su tutto, ma è privo della verità.
Da questa rapida panoramica si può vedere facilmente che le figure ricondotte al minimo comune denominatore di Presocratici sono assai disparate. Si è già detto che l'impiego di questa denominazione risale alla storiografia della metà del XIX secolo. Ma il il motivo per cui generalmente nelle nella storie della filosofia figurano questi personaggi può individuarsi in Aristotele, al quale è ovviamente sconosciuta la categoria di 'presocratico' . Il primo libro della Metafisica può essere considerato la prima storia della filosofia (accenni di una storia delle opinioni dei predecessori si trovano anche nel Sofista di Platone), anche se l'intento di Aristotele non è in primo luogo quello di fornire una ricostruzione storica; fa parte integrante del metodo filosofico aristotelico il prendere in considerazione le opinioni dei personaggi più autorevoli in un determinato campo del sapere, poiché è sua convinzione che nelle opinioni autorevoli sia contenuto generalmente un fondo di verità. Ora, nella Metafisica Aristotele si preoccupa inizialmente di stabilire, dal momento che l'uomo per natura aspira a conoscere, in cosa consista propriamente questa conoscenza; uno dei suoi requisiti è che essa abbia un contenuto molto generale. La scienza cercata è la filosofia come ricerca delle cause; conoscere è infatti scire per causas. Possiamo dire di conoscere qualcosa quando ne conosciamo la causa. E la scienza che ricerca le cause prime e i principi è unanimemente chiamata con il termine sophia. Ma di quali cause si occupa la sophia? Le cause aristoteliche, come noto, sono quattro (materiale, efficiente o motrice, formale, finale), e in questo caso la considerazione delle opinioni dei predecessori serve a verificare se possano esistere altre cause oltre alle suddette. Il fatto è però che tutti i predecessori hanno a qualche titolo indagato la causa, anche se nessuno ha individuato compiutamente le quattro cause. Non ci addentriamo in questo problema; in questa sede ci basta stabilire che laddove Aristotele trova negli autori precedenti spunti che facciano pensare all'individuazione di una causa, l'autore in questione viene collocato nella storia della sophia e dunque guadagna titoli per essere considerato un filosofo. Va di conseguenza che in base a questa impostazione possono essere collocate nella storia della sophia anche figure che secondo i nostri canoni non sarebbero considerati filosofi, ad esempio uno scienziato o un medico. Questa impostazione aristotelica ha condizionato la successiva dossografia e la manualistica sino ai giorni nostri. E' chiaro però che si può dubitare se ad esempio Talete o Pitagora siano da considerarsi 'filosofi'. Vedremo meglio questo problema trattando dell'inizio della filosofia.
Ora soffermiamoci un attimo nuovamente sulla nozione di 'scuola'; i termini che la designano, sono il già ricordato hairesis, agoghè, i latini secta e schola . Il termine deriva dal greco scholè, che indica il tempo libero; nella scuola si praticano quelle occupazioni che può svolgere solo chi ha tempo libero, libero, s'intende, dalle occupazioni necessarie e dagli impegni materiali. Per Aristotele il fine dell' ascholia è la scholé, termini cui corrispondono i latini negotium e otium. Nel mondo greco, come si può vedere, la condizione in cui si trova chi lavora è indicata dal termine negativo, mentre nel mondo moderno si assiste a una inversione antropologica significativa; l'ozio è negativo, il tempo libero è quello in cui si svolgono le occupazioni meno importanti.
Spesso si parla di scuole nell'antichità in riferimento a semplici indirizzi di pensiero. In senso più specifico le scuole nell'antichità erano istituzioni con finalità educative, con uno scolarca e un patrimonio in beni, edifici, libri. Con sicurezza si può parlare di vere e proprie scuole solo a partire dall'Accademia platonica. E' dubbio, ad esempio, se la comunità pitagorica si configurasse come una scuola, in cui veniva impartito un insegnamento di tipo scientifico, o se si trattasse piuttosto di una confraternita religiosa. Ugualmente incerto è il senso in cui si può parlare di una scuola ionica. La tendenza a individuare scuole, già nella storiografia antica (si pensi al già citato Diogene Laerzio, o al neoplatonico Giamblico (III d.C.), autore di una Vita pitagorica in cui descrive la comunità pitagorica come una scuola rigidamente istituzionalizzata) deriva molto spesso da una proiezione nel passato di modelli sviluppatisi posteriormente, o dalla necessità di semplificazioni e schematizzazioni dossografiche.
Con maggiore fondatezza si parla di scuole ellenistiche, anche se le scuole cosiddette ellenistiche non finiscono con la fine dell'ellenismo. I limiti cronologici del periodo denominato 'Ellenismo' si possono approssimativamente fissare tra la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) , alla quale segue lo smembramento del suo impero in grandi regni (Tolomei in Egitto, Seleucidi in Siria, Antigonidi in Macedonia), sino alla fine di tali regni, con l'occupazione di Augusto dell'Egitto dei Lagidi nel 30 a.C. Delle tre trandi scuole ellenistiche, si possono considerare scuole in senso proprio solo l'epicurea e la stoica, quest'ultima denominata a partire dal luogo in cui sorgeva, la stoa pecile (dal greco poikile, 'variopinto'), un portico dipinto nell' agorà; gli stoici non potevano acquistare un edificio e tenevano le loro lezioni all'aperto. Ma anche la scuola epicurea, denominata a partire dal suo fondatore, è spesso chiamata "il giardino" (greco kèpos), perché di un giardino era provvista la sede in cui sorgeva.
Un discorso diverso va fatto per lo scetticismo, che deve considerarsi un indirizzo, un movimento di pensiero piuttosto che una scuola. Le origini dello scetticismo si fanno risalire a Pirrone (365-275), a proposito del quale è incerto se abbia fondato una vera e propria scuola; il suo discepolo Timone di Fliunte (325), secondo Diogene Laerzio, non ebbe discepoli; poi ad assumere un indirizzo scettico è l'Accademia platonica con Arcesilao e, in seguito, Carneade; non c'è dunque una continuità diretta Pirrone-Arcesilao-Carneade. Lo scetticismo sembra rifiorire con nel I a.c. con Enesidemo, che propone un ritorno al pirronismo (Enesidemo è celebre per i suoi tropi: modi o ragioni strutturali per cui si deve giungere alla sospensione del giudizio, epoché). Anche Diogene Laerzio ci dà informazioni tutto sommato scarse sulla scuola; non si deve comunque pensare a un blocco monolitico.
Un discorso a parte va svolto per l'Accademia platonica, che è sin dalle sue origini una scuola istituzionalizzata; l'Accademia è inoltre, nell'antichità, la scuola che ha avuto la maggiore durata e continuità. L'Accademia era ad Atene un giardino sulle rive del fiume Cefiso, dove si trovava la tomba dell'eroe Academo. Qui Platone fondò la sua scuola nel 384, al ritorno dal primo viaggio in Sicilia. Come si accennava, l'Accademia conosce, almeno apparentemente, una svolta in senso scettico (media Accademia, con Arcesilao (316-241) e Carneade (214-129). Intorno al 120, con Antioco d'Ascalona (quinta accademia), si ha un ritorno al dogmatismo (il precetto di Antioco era veteres sequi, seguire gli antichi); nell' 86 a.C. di registra la sua distruzione a opera di Silla, e una nuova Accademia viene istituita fuori da Atene. Poi si dispone di notizie frammentarie; in età imperiale si hanno testimonianze su platonici sparsi (Calvisio Tauro 120; Longino 250). Si parla, per il periodo tra Antioco e il neoplatonismo, di 'medioplatonismo', una categoria storiografica che non ha mancato di suscitare discussioni. Più che di un indirizzo omogeneo si tratta infatti di figure assai eterogenee e distanti tra loro, quali Filone alessandrino, Plutarco, Albino, Apuleio, tutti genericamente definibili come 'platonici'. Di una scuola organizzata non si può comunque certamente parlare; una vera e propria scuola rinasce solo con il neoplatonismo. E anche sulle scuole neoplatoniche si è molto discusso; alcuni ne hanno individuate tre (Zeller), altri sei (Praechter): quella di Alessandria (Ammonio Sacca), quella di Roma (Plotino), quella siriaca (Giamblico), quella di Pergamo (Edesio, Giuliano), quella di Atene (Plutarco), quella di Alessandria (Ipazia, Sinesio, commentatori).
Una certa continuità si ha anche all'interno dell'Epicureismo: la scuola epicurea sussiste dopo Epicuro con una certa continuità; Diogene Laerzio X9, testimone peraltro non interamente attendibile, parla di una "ininterrotta continuità della scuola che, mentre quasi tutte si sono spente, sempre dura" e della "innumerevole schiera dei discepoli che si trasmettono l'uno all'altro lo scolarcato"; dal II a.C. l'Epicureismo si trasferisce anche in ambiente latino, in particolare in Campania (Filodemo, 110-28); Lucrezio (e anche Giulio Cesare aveva simpatie per l'Epicureismo, a differenza di Cicerone e altri membri dell'aristocrazia, che prediligevano piuttosto lo stoicismo); un momento di crisi si ha probabilmente nel I a.C., quando sembra che il kepos sia stato chiuso (prima del 51 a.C: Cic. ad fam. XIII 1: Cicerone testimonia che era stata venduta come terreno edificabile la casa di Epicuro); dopo il 51 non si hanno notizie di scolarchi; ma Seneca (ep. 79,15) e Plinio il vecchio (NH XXXV, II, 4 sg.) nel I d.C: parlano dell'Epicureismo come di una setta ancora ben viva. Il kepos viene distrutto nel 267 d.C. dall'invasione degli Eruli; nel IV d.C. l'imperatore Flavio Claudio Giuliano, detto l'apostata (332-363, Cesare nel 355, Augusto nel 360; Epist. 89, 301c-d) testimonia che i libri di Epicuro erano stati distrutti e che la maggior parte di essi era sparita dalla circolazione.
Questo panorama generalissimo ci è servito per distinguere e tenere presenti i vari sensi in cui si può parlare di scuole; solo in alcuni casi si tratta di scuole istituzionalizzate, in altri si deve piuttosto parlare di indirizzi di pensiero; in molti casi è dubbio se sia esistita una scuola vera e propria.
Per lo studio della filosofia antica, più che per altri periodi della storia della filosofia, il problema delle fonti sulle quali basiamo la nostra conoscenza dei filosofi è di primaria importanza. Lo studio della filosofia antica è in questo senso assai diverso da quello della filosofia moderna, ma anche da quello della filosofia medievale, e lo storico della filosofia antica si trova di fronte, in alcuni casi, a problemi peculiari, in primo luogo dovuti alla carenza di materiale. Solo nella filosofia antica sono importanti autori dei quali non abbiamo più le opere. L'importanza di certi filosofi, quali Eraclito, Parmenide, potrebbe apparire spropositata rispetto al poco che si è conservato del loro pensiero; analogo discorso vale per chi non ha scritto nulla, come Pitagora o Socrate, e ha comunque acquisito una posizione di primo piano nella storia del pensiero.
Si tratta dunque in primo luogo di avere ben presente di quali autori ci sono rimaste opere intere, di quali no; e dei primi, qual è lo stato di trasmissione del corpus (per gli stessi Platone e Aristotele le situazioni sono assai diverse), e quali problemi sono legati alle opere così come oggi le leggiamo. Questo perché si deve avere ben chiaro qual è il livello di congetturalità nella ricostruzione di una filosofia.
Va tenuta presenta una prima grande distinzione, tra autori di cui ci sono rimaste le opere (Platone, Aristotele, alcuni platonici, quali Filone, Plutarco, scettici come Sesto Empirico, poi i neoplatonici più importanti, Plotino, Proclo) e autori di cui non ci sono rimaste: presocratici, stoici, epicurei (anche se le tre lettere di Epicuro trasmesse da Diogene Laerzio, a Meneceo, Pitocle, Erodoto, sono complete e hanno una certa estensione, costituendo perciò documenti fondamentali per la conoscenza dell'Epicureismo ); scettici antichi. Né abbiamo opere complete degli accademici e dei peripatetici antichi, salvo rare eccezioni, come I caratteri di Teofrasto.
I primi autori di cui possediamo le opere (vale a dire, opere complete, o comunque una gran parte di esse, trasmesse da una tradizione manoscritta propria) sono Platone e Aristotele. Platone è anzi il primo autore di cui si sono conservate tutte le opere; il corpus dei dialoghi platonici comprende addirittura anche scritti sicuramente apocrifi e altri sospetti, la cui autenticità non è sicura. Di Aristotele abbiamo una parte ingente delle opere, ma non tutto; gli scritti a noi pervenuti sono i cosiddetti esoterici, o acroamatici (da greco akròama, cosa udita, poi 'lezione'), cioè quelli destinati a uso interno della scuola, mentre non abbiamo se non frammenti degli essoterici , cioè gli scritti rivolti all'esterno del Liceo, che secondo la testimonianza di Cicerone si distinguevano per lo stile elevato. Per Platone e Aristotele, dunque la situazione è opposta: di Platone non abbiamo documenti diretti (se non le testimonianze aristoteliche e altre testimonianze più tarde) del suo insegnamento orale interno alla scuola, che, da quanto sappiamo da Aristotele, non coincideva del tutto con le dottrine dei dialoghi; di qui la disputa tra interpreti cosiddetti 'esoterici' (scuola di Tübingen, le cui tesi sono state fatte proprie in Italia da G. Reale e altri) e interpreti 'antiesoterici', che domina tuttora il dibattito, su quale sia l'autentica filosofia di Platone, se quella contenuta nei dialoghi o quella faticosamente ricostruibile tramite un confronto tra dialoghi e tradizione indiretta. Tutto ciò non significa naturalmente che i dialoghi fossero destinati nelle intenzioni di Platone a una cerchia molto ampia di persone, né che essi non potessero servire per un uso interno all'Accademia; Platone, che era più diffidente di Aristotele verso la scrittura come mezzo di trasmissione del sapere (si veda in proposito la critica della scrittura nella parte finale del Fedro), non ha reso pubblici gli eventuali promemoria, hypomnemata, di cui si sarà senza dubbio servito. Egli teorizza esplicitamente nel Fedro una funzione ipomnematica, rammemorativa, del testo scritto.
La distinzione tra due tipi di opere, grossomodo riconducibile, secondo i nostri schemi, a quella tra appunti o dispense universitarie e libri come prodotti rifiniti e compiuti, non è introdotta da Aristotele, ma fa parte della situazione editoriale propria di un certo momento dello sviluppo della cultura greca antica, dove solo nel V secolo prende piede la scrittura; inizialmente lo scritto è, come naturale, un promemoria ad uso personale, o qualcosa che è concepito per essere letto a una cerchia limitata di uditori nell'ambito della pratica scolastica (Socrate nel Fedone, in un celebre excursus autobiografico, racconta il suo incontro con la filosofia di Anassagora, che apprese ascoltando la lettura del suo libro fatta da un terzo). Ma presto lo scritto diviene un prodotto rifinito, un'opera destinata alla diffusione e alla effettiva circolazione. Si pensi ad esempio al fatto che le tragedie rappresentate nell'antica Atene erano poi oggetto di trascrizione ufficiale; nelle Rane di Aristofane un personaggio legge in solitudine l'Andromeda di Euripide, configurando un tipo di lettore vicino a quello moderno. In una civiltà in cui la scrittura ha preso piede da poco la circolazione editoriale non è la normalità, anche se ad esempio Socrate afferma, nell' Apologia, che al momento si possono trovare copie dei libri di Anassagora a basso prezzo; si deve dunque fare attenzione a non intendere 'esoterico' in Aristotele nel senso, tipico di una tradizione successiva, della segretezza; e un discorso analogo può valere per Platone.
Per gli autori di cui non possediamo più le opere, ci basiamo su testimonianze indirette da parte di autori antichi. Primi testimoni importanti sono gli stessi filosofi, Platone, ma soprattutto Aristotele, poi altri autori di vario genere. Una testimonianza su un filosofo si può evidentemente trovare in scrittori appartenenti ai più disparati generi (geografi, storici, scrittori di cose varie, letteratura medica). Un discorso a parte va svolto per i dossografi. La dossografia, il cui nome deriva da doxa (opinione) e graphein (scrivere), è una raccolta di opinioni, una sorta di manualistica dell'antichità. Il primo dossografo antico può considerarsi Aristotele, anche se egli è evidentemente molto più che un dossografo; ma fa parte del suo metodo filosofico il confronto con le opinioni dei predecessori più autorevoli, sicché tutte le sue opere sono una fonte preziosissima di informazioni. Aristotele, da quanto sappiamo, ha anche composto opere esplicitamente dedicate alla filosofia di alcuni autori specifici, ad esempio i Pitagorici; ma solo il suo allievo Teofrasto (370-288 ca.) ha composto un'opera esclusivamente dossografica (di cui ci è pervenuta una parte minima), le Physikòn dòxai in sedici libri (Opinioni dei Fisici, o meglio dei filosofi naturalisti), che costituiva una sistematizzazione per argomenti del materiale raccolto e usato da Aristotele. Questa raccolta dossografica è alla base delle successive dossografie di età ellenistica, gran parte delle quali è andata perduta; l'unico dossografo di cui ci è pervenuta un'opera intera è Diogene e Laerzio (III d.C.), autore delle Vite dei filosofi (in dieci libri). Diogene Laerzio è biografo e dossografo: ogni capitolo della sua opera, dedicato a un autore o a una scuola, comprende la vita degli autori trattati e un resoconto, che talvolta figura a parte, delle loro dottrine; la sua opera si basava in gran parte su opere di dossografi precedenti, quali Ippoboto, Sozione, Diocle di Magnesia, e altri. La raccolta canonica dei resti della dossografia greca si deve, di nuovo, a Hermann Diels (Doxographi graeci, 1879) ed è costituita per la massima parte da ciò che rimane delle Opinioni di Teofrasto, dai placita (greco ta arèskonta, letteralmente, "ciò che piace", cioè ciò che è ritenuto vero) di Aezio (eclettico del I o II secolo d.C.), opera della quale si trova un sunto nel corpus plutarcheo; poi, tra gli altri, da una parte dell'Epitome di Ario Didimo (I d.C.), stoico, maestro di Augusto, da una parte della Storia della filosofia di Galeno (II d.C., più noto come medico), dalle testimonianze dossografiche del vescovo Ippolito (170-236), autore di un'opera contro le eresie, nella quale trascrisse parti di opere dossografiche. Un'altra fonte dossografica importante è il dotto bizantino Giovanni di Stobi (V d.C.), meglio noto come Stobeo, autore di un Anthologion , antologia di poeti e filosofi, nel quale si trova una massa imponente di testimonianze ed estratti da opere della letteratura e della filosofia greche.
Il panorama delineato serve a farci comprendere che, nel caso dei filosofi antichi, la ricostruzione della filosofia di un pensatore può essere assai diversa da caso a caso; di ogni testimonianza va attentamente valutata l'attendibilità e di fronte a ogni cosiddetto 'frammento' si pone sempre il problema, se si tratti davvero di un frammento, cioè di una citazione letterale da un'opera, nonché quello della sua delimitazione. E' bene sapere che quando parliamo di concetti come ad esempio il lekton (esprimibile) degli stoici (per ricostruire il quale abbiamo solo testimonianze indirette) ci troviamo in un orizzonte ermeneutico ben diverso da quello in cui ci troviamo quando parliamo dell'anamnesi in Platone, o della sostanza in Aristotele, concetti per i quali abbiamo a disposizione quello che hanno scritto i loro autori.
Il problema della nascita della filosofia Quando comincia la filosofia? Può sembrare una questione accademica od oziosa, ma sicuramente non lo è. E’ sempre difficile fissare un termine temporale, ma da un certo momento in poi diviene chiaro cosa sia un filosofo, anche se, almeno agli inizi, e fino a Socrate e Platone, la questione non è così pacifica. Ora, poiché la storia della filosofia antica si occupa per l'appunto della genesi e dei successivi sviluppi della filosofia, essa non può fare a meno da un lato di fissare un termine iniziale, dall'altro di individuare un criterio che stabilisca cosa significa essere un filosofo nell'antichità: si tratta di una professione, di una scelta di vita, di un'occupazione marginale?. La questione è problematica, come vedremo, già per gli antichi. Per dare una risposta entrano in gioco criteri ermeneutici ben precisi. Sarebbe infatti metodologicamente poco corretto basarsi su ciò che noi intendiamo ora per filosofia e ricercarne nei Greci i primi germogli; più corretto sembra chiedersi quando è che in Grecia si origina una forma di sapere distinta da altre forme, alla quale viene attribuito il nome di filosofia e da cui prende le mosse la tradizione che viene a costituire la storia della filosofia occidentale. Basarsi però solo sull'uso del termine da parte degli antichi può essere fuorviante: in questo caso, come notava G. Calogero, dovrebbe restare fuori, ad es., dalla storia della logica proprio il suo documento più importante, la logica di Aristotele, che come noto il suo autore non designa con il termine, inesistente come unità autonoma sostantivata, di logikè (la teoria aristotelica del sillogismo è contenuta negli Analitici). Nel caso della filosofia, comunque, il problema si pone diversamente da questo caso limite, perché ciò che, almeno da Platone in poi, e in ultima analisi anche per noi, si intende per filosofia è esattamente quella forma di sapere designata dal termine. In questo caso la ricerca sul termine 'philosophia' effettivamente mostra che la sua origine è strettamente legata all'emergere di un nuovo tipo di sapere, sia pure in differenti forme (Platone l'intende in un certo modo, che è un unicum; Aristotele, vedremo, diversamente, non perché essi abbiano concezioni diverse del sapere supremo, ma nel senso che intepretano diversamente, pur con una convergenza di fondo, il significato del termine filosofia; e questo implica anche una riflessione del sapere su se stesso, tratto distintivo di quello che riteniamo essere il sapere filosofico. La questione implica l’interrogarsi sull'eventuale differenza tra sophia (sapienza) e philosophia (letteralmente, amore della sapienza). Spesso i termini sono usati come sinonimi dagli autori antichi; ma se non c'è alcuna differenza, perché è stato coniato il termine 'filosofia'? E se invece c'è qualche differenza, a cosa essa ammonta?
Partiamo dall'etimologia, probabilmente nota a tutti, da philos (amico) e sophìa (sapienza). Notiamo che, a differenza di altre formazioni, in philòsophos il secondo membro non è un sostantivo, ma un aggettivo; e che mentre sophòs , anche quando viene sostantivato, rimane un aggettivo, che può essere intensivato al superlativo (sophotatos), 'filosofo' philosophos ha in primo luogo valore aggettivale, ma in seguito diviene un sostantivo; è assai più raro dire philosophotatos . Notiamo anche di sfuggita che in greco il termine philos assume in molti casi valore possessivo; le espressioni omeriche philon etor, phila gyia significano 'il mio cuore, le mie membra', non evidentemente 'caro cuore' etc.; philos viene parimenti usato per designare i parenti; esso indica un senso di prossimità, di confidenza, dunque di appartenenza (vedremo che questa sfumatura è importante per la questione del significato di filosofia). In italiano noi traduciamo sophia con sapienza e dunque definiamo la filosofia come 'amore della sapienza'. Quest'uso risale ai latini: Cicerone ci dice (Tusc. Disp. V 3,9: hos se appellare sapientiae studiosos, id est enim philosophos. E' opportuno, allora, poiché facciamo parte di questa tradizione, interrogarci sul significato originario di sapientia; il latino sapere significa avere sapore, da cui può derivare avere senno, essere perspicace. Questa duplicità rimane nel nostro uso linguistico, con alcune sfumature: diciamo che un cibo sa di qualcosa o è insipido; un cibo è sapido e insipido, una persona sapiente (in disuso per evidenti ragioni) o insipiente; insomma in origine è presente una connessione con un senso, il gusto, qualcosa di istintivo; in greco una connessione del genere si ha con il verbo noein, (nous, noesis), che viene da una radice snovos, snow, annusare, fiutare, capacità di (diremmo oggi 'captare', subodorare, snasare) presentire, di accorgersi istintivamente di qualcosa, una situazione, un pericolo, dunque una sorta di sapere diretto e istintivo.
In Omero noein significa vedere, un vedere che può essere inteso e tradotto con 'riconoscere';
Iliade V 590
Ettore li vide tra le file
Il. XV 423-4: Ettore come vide (enòesen) con gli occhi il cugino (Caletore ucciso da Aiace) cader nella polvere davanti alla nave nera
Dopo Omero noein non designa più il vedere. In seguito noein diviene propriamente il verbo che indica il pensare e nous designa l'intelletto; ma anche quando questi termini si sviluppano con un significato tecnico, essi indicano sempre un'apprensione in qualche modo diretta, immediata, un'intuizione, opposta a forme di pensiero discorsivo.
Torniamo ora alla sophia: in Platone e Aristotele la sophia è il sapere supremo, che si esplica propriamente nell'attività contemplativa; ma in origine il termine è legato all'ambito della prassi: sophòs è chi dispone di una particolare abilità, ad esempio un timoniere (l'esempio del timoniere, in relazione al quale il termine ricorre spesso, è importante: bisogna avere una predisposizione naturale, una capacità che non coincide con ciò che si può imparare, per essere un buon timoniere, perché si è sempre di fronte a situazioni non prevedibili, non riconducibili a schemi fissi). Pindaro si dice sophòs (Olimpica. 2,86): sophòs è chi sa molto per natura, in contrapposizione a chi sa qualcosa per averlo imparato.
Tra i testi più rilevanti per il problema che stiamo esaminando si colloca il Prologo alle Vite di Diogene Laerzio*; esso ci mostra che gli stessi Greci si sono interrogati sulla nascita della filosofia e che molti ne individuavano l'origine in altri paesi, in linea con un certo esotismo culturale che si afferma in un certo periodo in Grecia; da sempre, ad esempio, tutto quel che viene dall'Egitto è rivestito da un'aura sapienziale. E' significativa, da parte di Diogene Laerzio, la rivendicazione del carattere greco della filosofia, e la sua opposizione all'idea dell'origine barbarica della filosofia; la posizione di Diogene, il quale non brilla certamente per originalità, è indicativa di una tendenza che doveva avere ampia diffusione.
In Diogene troviamo poi un'attribuzione ben precisa: l'invenzione del nome si dovrebbe a Pitagora (Vite dei filosofi I 12*; cfr. anche VIII 8) in un dialogo che egli ebbe a Sicione o a Fliunte con Leonte: qui la fonte, menzionata da Diogene stesso, è Eraclìde Pontico (un autore che si situa a metà tra Accademia e Peripato e che comunque nel 361 fu a capo dell'Accademia) e il resoconto è molto succinto. Per ricostruire l'esposizione di Eraclide ci sono di aiuto le Tusculanae Disputationes di Cicerone*, dove si trova una versione più estesa dell'aneddoto. Va notato che Leonte, sentendo che Pitagora si definisce 'filosofo', rimane stupito dalla 'novità del nome' (novitas nominis)e chiede cosa sia propriamente un filosofo. Pitagora risponde con il famoso aneddoto delle gare sportive, alle quali confluiscono tre tipi di persone: quelli che vanno per vendere, quelli che vanno per partecipare, quelli che vanno come spettatori, e sono la categoria più nobile perché non ricercano nessun vantaggio estrinseco. Quel che manca è però la spiegazione della novitas nominis : o meglio, viene detto cosa significhi il termine (studiosi sapientiae), ma non perché costoro si chiamino filosofi invece che sapienti, sophoi, il genere di vita filosofico, in effetti, potrebbe essere chiamato col nome più abituale di sophia. La risposta si trova nel conciso sunto in Diogene Laerzio: la spiegazione è che nessuno è sapiente tranne il dio (nella Vita pitagorica di Giamblico si trova, su questa linea, una spiegazione ben più estesa). Si può allora fare risalire a Pitagora questo concetto di filosofia? In realtà sembra che questo particolare concetto di filosofia si trovi solo in Platone, in dialoghi quali il *Liside, il Simposio, il Fedro): l'uomo è filosofo perché aspira al possesso di una sapienza che comunque può attingere in modo limitato, e che è posseduta completamente solo dal dio. Il termine sophòs non si addice dunque all'uomo (che è allora solo 'filosofo'), ma solo al dio. Il Fedro (278d3) è particolarmente esplicito a questo riguardo: chiamarlo sapiente (sophos) etc. mi sembra qualcosa di (troppo) grande e convenire solo a Dio; amico della sapienza (philosophos) o qualcosa del genere si addice di più ed è
Tutto ciò significa che molto probabilmente Eraclìde Pontico ha messo in bocca a Pitagora idee platoniche; anche la divisione dei tre tipi di vita dell'aneddoto risponde alla tripartizione platonica dell'anima, in cui la parte appetitiva è amante di ricchezze, quella irascibile amante della gloria, quella razionale amante del sapere. Eraclide era, all'interno del dibattito che animò il Peripato circa la preferibilità della vita contemplativa o di quella attiva, un fautore di quest’ultima: gli esponenti di questo dibattito tendono a proiettare nel passato sulle figure più autorevoli della tradizione il proprio punto di vista (Dicearco, un altro peripatetico sostenitore piuttosto dell'ideale pratico-politico, dipinge Pitagora in modo corrispondente) e nobilitare una dottrina attribuendola a personaggi autoritativi della tradizione è una pratica molto diffusa negli autori antichi.
Sembra in effetti che prima di Platone le formazioni con il prefisso philo non indichino mai l'amore o il desiderio per qualcosa che si vorrebbe possedere ma non si ha, ma sempre per ciò con cui si è in quotidiano contatto o che si possiede (un 'cinofilo' è qualcuno che ama i cani e presumibilmente ne possiede, non chi abbia una aspirazione irrisolta a possedere cani). Questo vale anche per philòsophos , che solo in Platone si oppone nel modo che abbiamo visto a sophos; prima di allora i due termini sono praticamente sinonimi. Esempi si hanno in vari autori; tanto per citare un esempio significativo ricordiamo Erodoto 2, 174 : Creso dice di Solone, sophistès del quale ammira la sophia, che costui viaggiò per molte terre filosofando (philosophèon).
Aristotele sembra sostenere una posizione diversa da quella di Platone; in un celebre passo della Metafisica egli afferma, sulla falsariga di ciò che Platone aveva detto nel Teeteto, l'origine del filosofare (philosophein) dalla meraviglia (thaumazein) che l'uomo prova di fronte alle cose atopa, letteralmente 'fuori luogo', ciò che l'uomo non riesce a spiegarsi facilmente, prima quelle che sono più a portata di mano (pròcheira), poi quelle più complesse; come in Platone, la filosofia nasce dall'ignoranza. è un sapere amato e ricercato di per se stesso e non in vista di qualcos'altro, come è mostrato, sul piano storico, dal fatto che esso è nato e si è sviluppato solo quando gli uomini si erano affrancati dalle necessità della vita quotidiana; la filosofia nasce dall'ascholia (981b23)
La meraviglia è però solo il principio, non l'essenza, del filosofare; progredendo nella conoscenza, infatti, l'uomo perviene necessariamente a una condizione contraria e ritenuta migliore (ameinon, 983a18), in cui non ci si meraviglia più: di niente il matematico si meraviglierebbe di più, che se lato e diagonale fossero commensurabili. Meraviglia e ignoranza, conoscenza e assenza di meraviglia procedono di pari passo.
Aristotele non si appella al nome stesso di 'filosofia' per trovare una conferma di queste tesi; la convinzione che però molto probabilmente sta dietro il suo ragionamento è che nel termine il prefisso "philo-" stia a significare, più che un'aspirazione per un sapere non pienamente alla portata dell'uomo, che questo sapere è qualcosa di desiderabile di per se stesso, e ciò, come si è visto, conformemente all'uso linguistico greco; le attività la cui denominazione contiene il prefisso sono attività che si prediligono di per sè. Lo stesso avviene nel caso del philomythos ; costui è qualcuno che ama di per sé il mito in quanto incuriosito dai mirabilia in esso espressi, senza nessuna implicazione circa le possibilità di conseguirne una conoscenza compiuta o solo parziale. Le attività che si svolgono in vista di qualcos'altro possono non essere amate di per sé e infatti in genere non vengono precedute dal prefisso 'philo'. Aristotele ribadisce sì, mediante la citazione di Simonide ("solo Dio potrebbe avere questo dono"), riconosciuta come plausibile, la esistenza di uno scarto incolmabile tra sapienza umana e sapienza divina. Ma non è un caso che Aristotele abbia mantenuto la denominazione di sophia per la virtù dianoetica, per questo sapere che sembra rimanere, nonostante tutto, pienamente accessibile all'uomo e non abbia insistito molto sui limiti umani, né abbia ricollegato questi limiti al termine 'filosofia'.
Insomma, se si dà a -philo il significato consueto, la differenza tra sophos e philosophos è quella tra il semplice esperto di un'arte e chi pratica un'arte che ama di per se stessa; se si accentua il senso di 'aspirazione' la differenza è tra sophia in senso forte e sapere umano. Aristotele vede forse nella origine del termine il segno che si tratta di un sapere amato di per sè
Qualcuno ha ritenuto che sia possibile risalire ancora più indietro, a Socrate e alla sua nozione di sapere di non sapere, in primo piano nell' *Apologia; è noto che l'oracolo di Delfi aveva indicato Socrate come il più sapiente degli uomini; di conseguenza egli si reca da coloro che sono generalmente ritenuti sapienti, i politici, i poeti, gli artigiani e gli artisti e li sottopone al suo èlenchos (confutazione); dalle sue indagini emerge che essi sono sì in possesso di conoscenze, ma che evidentemente non consiste in quelle la vera sapienza: Nell' Apologia Socrate non si spiega meglio; ma possiamo pensare a quanto egli fa con i suoi interlocutori nei dialoghi platonici, che si svolgono appunto con poeti, politici, generali: i generali conoscono l'arte del combattere ma non sanno cos'è il coraggio, etc.. Socrate ne conclude che egli, a differenza di loro, sa almeno qualcosa, e cioè sa di non sapere. Questa consapevolezza di Socrate fa nascere il desiderio di una diversa forma di sapere; egli desidera sapere perché non sa; il significato dell'oracolo è che la sapienza umana non è nulla in confronto a quella divina (Apol. 23a): solo il dio è sophòs. Per la prima volta nasce una forma di sapere che si distingue dalle altre, con le quali si fa normalmente coincidere la sophia.
Con ciò siamo di fronte a un nuovo criterio ermeneutico; si può dire che nasce la filosofia quando si presenta una forma di sapere nuova e specifica, individuabile come distinta dalle altre, che non coincide con nessuna delle forme tradizionali. Se la testimonianza dei dialoghi platonici è attendibile, si potrebbe allora con buone ragioni sostenere (ed è stato effettivamente sostenuto da alcuni, come G. Giannantoni) che la filosofia nasca con Socrate. Socrate, comunque, nell' Apologia, non ci dice ovviamente (né avrebbe modo di farlo) in che cosa consista la vera sapienza cui si aspira; egli parla della cura dell'anima come del dovere fondamentale di ogni uomo, e questo va certamente in direzione di un sapere che non sia solo consapevolezza della propria ignoranza. Oltre va certamente Platone, ma qui si apre il delicato problema dell'attendibilità della testimonianza di Platone su Socrate e dei confini tra il Socrate storico e il Socrate platonico. Se si dà credito al criterio sopra indicato, bisogna allora ammettere che la filosofia nasce, se non con Socrate (qualora appunto lo si ritenga indistinguibile dal Socrate platonico), certamente con Platone.
Quello delineato è un criterio legittimo da certi punti di vista. Ma per altre vie e in base ad altri criteri, altrettanto legittimi, si potrebbe individuare l'inizio della filosofia altrove, ad esempio in Parmenide: Parmenide, infatti (almeno secondo una tradizione interpretativa la cui validità è comunque stata da alcuni messa in dubbio) riflette sull'Essere, e l'ontologia è evidentemente di pertinenza propria della filosofia. Questo ci permette di collegarci al primo dei concetti filosofici antichi cui vorrei introdurre, quello di essere.
Essere La domanda sull'essere può venir considerata, per i Greci, la questione fondamentale della filosofia. Nel libro zeta della Metafisica (1028b2-4) Aristotele dice infatti che la domanda 'che cosa è l'essere', per lui risolvibile quella 'che cosa è ousia' (sostanza) è quella più importante, da sempre indagata e su cui tutti sono stati in difficoltà;
e in verità, ciò che anticamente e anche ora e sempre è oggetto di indagine e sempre motivo di difficoltà, cioè che cosa è l’essere (tò òn), equivale a “che cos’è la sostanza (ousìa)
ma già Platone nel Sofista parla, riferendosi alle concezioni dei predecessori, di una 'gigantomachia sull'essere'.
In filosofia è relativamente consueto ed è divenuto quasi ovvio parlare dell'Essere con l'articolo determinativo e la E maiuscola, l'Essere distinto dall'Ente (cioè il fatto che l'ente sia, l'essere che noi attribuiamo alle cose di cui diciamo 'è'). Ed è anche abbastanza comune rintracciare quest'uso nella filosofia antica delle origini, più in particolare nella celebre frase attribuita a Parmenide da una vulgata, secondo cui l'Essere è il Non-essere non è. Non serve però un'analisi approfondita dei testi arcaici per rendersi conto che nella filosofia greca un concetto ipostatizzato di essere rappresenta uno sviluppo più tardo e che alle sue spalle si situa una storia che si tratta di ricostruire per capire come una simile nozione sia giunta gradualmente a formazione. Parmenide rappresenta sicuramente una tappa di questa storia, anche se sin d'ora possiamo tranquillamente anticipare che nel suo poema quella frase in quei termini non si trova affatto. In ogni caso è raro trovare, per indicare "l'Essere" un espressione greca del tipo to einai (cioè l'equivalente preciso dal punto di vista grammaticale de "l'Essere'). Semmai, si può trovare più facilmente il participio presente to on (letteralmente, "l'essente"). Ora, teniamo presente che in greco l'articolo seguito da un participio indica in primo luogo un insieme di cose: ad esempio, to thermon indica in primo luogo l'insieme delle cose calde e solo successivamente la qualità del caldo; analogamente, to on indica in primo luogo le cose che sono, ta onta, nella loro estensione (logica) e non una qualità, quella di essere, presente nelle cose. Per designare le cose che sono il greco possiede anche altri termini, ta pragmata, ta chremata . Questo ci offre lo spunto per accennare brevissimamente all'importanza dell'articolo per l'origine della filosofia (il latino, lingua indiscutibilmente meno filosofica del greco, non possiede l'articolo, e forse non è solo un caso); l'articolo favorisce il sorgere di una riflessione astratta perché permette di designare in modo autonomo un'entità concettuale; pensiamo a quanta importanza abbia l'articolo per l'origine della dottrina platonica delle idee e per le successive critiche di Aristotele. Nel dialogo platonico Ippia maggiore, ad esempio, Socrate domanda a Ippia, che cosa sia il bello (ti esti to kalòn) e la prima risposta di Ippia, secondo cui 'bello' è una bella ragazza, benchè suoni immediatamente ingenua, ha le sue giustificazioni: la domanda di Socrate può infatti significare: in cosa consiste la proprietà dell'esser bello, ma anche: quali sono le cose belle. Ovviamente, Socrate vuole piuttosto una risposta del primo tipo, perché è sulla via dell'individuazione di proprietà astratte. Parlando un po’ approssimativamente in termini più moderni, Socrate si interroga sull'intensione e non sull'estensione del concetto. Il bello, sostantivato da un punto di vista grammaticale, rischia così di divenire un'entità sostanziale (e la critica di Aristotele si incentrerà appunto sul fatto che i platonici abbiano reso sostanza l'universale). proprio in quanto l'articolo 'determina', configura i contorni di qualcosa, facendola essere come entità.
Per inciso, la questione non si esauriscse così facilmente; tuttora è dibattuto tra gli interpreti di Aristotele se ad es. nel libro Delta della Metafisica (il libro che si occupa dei molteplici sensi in cui si dicono) oggetto dell'indagine siano 'cose' o piuttosto 'espressioni linguistiche. Emblematico 'to on legetai pollachòs' ; l'essere si dice in molti modi; si intende qui l'espressione linguistica 'on' oppure 'le cose che sono'? Teniamo presente i Greci non avevano a disposizione un mezzo da noi comunemente isato per indicare termini del linguaggio quale è costituito dalle virgolette; per indicare un'espressione linguistica si usa, di nuovo, l'articolo determinativo; (es. un passo del Protagora di Platone, dove Socrate cita le espressioni usate sino a quel momento:
Protagora 331c4-d1 - Eh no!, esclamai, non ho bisogno di mettere in discussione questo “se vuoi” questo ‘se ti sembra’, ma ‘me’ e ‘te’, e dico ‘me’ e ‘te’, essendo convinto che solo allora il [d] ragionamento potrà essere ottimamente discusso, qualora sarà levato via il ‘se’.
Non c'è distinzione tra linguaggio oggetto (che parla di cose: “porto a spasso il cane”) e metalinguaggio (che parla di termini del linguaggio: “ ‘cane’ è una parola di 4 lettere”) ; per cui 'to on' può significare sia 'l'espressione, la parola 'essere', sia 'il complesso delle cose che sono'.
La voce 'essere' potrebbe essere trattata insieme a quella 'verità', perché nel pensiero arcaico è presente una sostanziale indistinzione tra verità e realtà. Come ha scritto G. Calogero (Storia della logica antica, p. 40), "Il Greco antico chiama ogni saldo contenuto della sua esperienza tanto on, esistente, quanto alethès, vero" . Nel greco antico si trovano espressioni come ontos on, alethòs on, che sono sostanzialmente sinonime: ciò che è realmente, ciò che è davvero. Anche noi, del resto, diciamo quasi indifferentemente 'davvero' o 'realmente'. Il problema di quale delle due determinazioni preceda (realismo o idealismo), è mal posto perché la distinzione tra le due sfere si origina e si perfeziona successivamente e gradualmente.
Il verbo essere possiede in greco anche un uso veritativo; anche noi diciamo 'è così' per dire che qualcosa è vero, ma il greco, ancor più radicalmente, può dire anche solo 'esti', 'è', per dire 'è vero' e 'ouk esti', non è, a significare 'non è vero' . Solo con Aristotele verrà formulata una distinzione esplicita del vero o falso come di uno dei significati dell'essere.
A questo "binomio primordiale" si aggiunge come terzo elemento l'espressione linguistica; si è parlato di sostanziale 'coalescenza', nella mentalità arcaica, di pensiero, linguaggio, realtà, anche se nella Grecia antica il livello di sostanziale equivalenza tra nome e cosa, proprio delle civiltà primitive (si pensi agli effetti delle parole magiche), è già in gran parte superato; rimane però l'idea di fondo che tra nome e cosa, linguaggio e realtà vi sia una connessione intrinseca, non convenzionale, che il linguaggio rifletta immediatamente la realtà. Ancora nel Cratilo di Platone si pone il problema se il linguaggio sia per natura o per convenzione, se nei nomi sia contenuta la realtà delle cose (nomna sunt consequentia rerum, nomen est omen) e anche la soluzione offerta in ultima analisi da Platone non è interamente convenzionalista.
Ricorderemo qui un unico esempio significativo di come la congruenza del nome alla cosa sia vista anticamente quasi come una necessità: nel coro dell' Agamennone di Eschilo si dice che 'Elena' è un nome 'vero', perché Elena è Elenaus, 'distruttrice di navi': chi le dette quel nome la chiamò in modo totalmente veritiero.
Dopo queste brevi note introduttive prendiamo in visione alcuni celebri frammenti di Parmenide. E' importante, soprattutto per chi non conosce il greco, rendersi conto di alcuni problemi riguardanti le traduzioni.
"Orsù, io dirò –e tu porgi orecchio alle parole che odi-
quali sono le vie di ricerca che sole sono da pensare:
l'una che è e che non è possibile che non sia,
e questa è la via della Persuasione (giacché segue la verità),
l'altra che non è e che è necessario che non sia,
e questo, ti dico, è un sentiero inaccessibile ad ogni ricerca.
Perché il non-essere non puoi né conoscerlo
(è infatti impossibile), né esprimerlo."
(Trad. Pasquinelli).
Questa è la traduzione più vicina a un'interpretazione canonica, tipica della vulgata.
Va notato che non c'è un soggetto esplicito di 'è' e 'non è'. di che si sta parlando? Pasquinelli nota (I presocratici, p. 396): "il soggetto delle due strade è l'essere" , rimandando a K. Reinhardt, e questo sulla base dell'espressione che compare altrove nel poema, to eòn.
Vediamo la traduzione di M. Untersteiner:
"Suvvia, io dirò, tu intanto ascolta e accogli la mia rivelazione, cioè quali sole via di ricerca siano logicamente pensabili: e precisamente, in quale modo una esista e che non è possibile che non esista –è il cammino della persuasione (infatti accompagna la verità)- e che l'altra non esiste e che è logico che non esista: io ti chiarisco come questo sia un sentiero che non si può scrutare; infatti non potresti conoscere il non essere –che ciò non è fattibile- né esprimerlo."
Qui il soggetto di 'è', cui viene dato significato esistenziale ('esista'-'non esista') sono le vie di ricerca: una via esiste, l'altra non esiste. La via che non esiste è quella che presume si possa esprimere o conoscere il non-essere.
E quella, recentissima, di G. Cerri:
"Ecco che ora ti dico, e tu fa' tesoro del detto, quelle che sono le sole due vie di ricerca pensabili:
l'una com' "è" e come impossibile sia che "non sia"…l'altra come "non è", come sia necessario "non sia"
Cerri commenta: "l' "è" del v. 3 non è predicato verbale e non significa 'esistere'; è una copula il cui soggetto e il cui predicato nominale non sono espressi, una copula completabile con qualsiasi soggetto e predicato." In altre parole, qualsiasi cosa di cui io parli posso aggiungere questa copula
Non mi addentro nell'interpretazione proposta da Cerri; mi basta rilevare che qui il soggetto è per così dire una variabile, come se dovessimo immaginarci un 'x è', la cui assenza si spiega facilmente pensando che i Greci non avevano ancora concepito la nozione di variabile esprimibile mediante un simbolo (Aristotele per primo lo farà negli Analitici) certamente non l'"essere".
Ecco ancora la traduzione di G. Calogero:
"Ecco dunque che ti dirò, e tu ascolta e intendi il mio discorso,
quali sole vie di ricerca sia possibile concepire:
l'una, secondo cui è e non è dato non-essere,
è il cammino della persuasione la quale infatti tiene dietro alla verità
l'altra, secondo cui non è ed è lecito e necessario non essere
questa davvero ti dico che è un sentiero in cui non ci si orienta:
giacché non potresti conoscere quel che appunto non è (è infatti impossibile)
né potresti farne parola."
Non voglio qui presentare un'interpretazione di Parmenide o aderire a una di quelle già proposte. Ma stabiliamo alcuni punti fermi. Chi è il soggetto di ‘è’? Non può trattarsi de "'l'Essere", che al tempo di Parmenide non è un concetto comprensibile nella sua astrazione. Chi traduce 'l'essere' sottintende un participio presente to eon, di cui Parmenide effetivamente parla. Ma to on, come abbiamo visto, designa in primo luogo le cose che sono, e questo sembra in effetti il soggetto più probabile. Il senso più immediato che l'espressione doveva avere per un greco è allora che non è possibile dire che ciò che è non sia e che bisogna sempre dire che ciò che è, è. Si tratta di una banale tautologia? E di una ovvia contraddizione da evitare, quando si dice che ciò che è, non è? Per ora lasciamo in sospeso la domanda, ma vedremo che il Sofista di Platone chiarirà che si tratta di un problema filosofico fondamentale.
Veniamo al fr. B6:
"Per la parola e il pensiero bisogna che l'essere sia: solo esso infatti è possibile che sia,
e il nulla non è: su questo ti esorto a riflettere.
Poiché da questa prima via di ricerca ti tengo lontano,
ma anche da quella su cui errano i mortali che niente sanno,
uomini a due teste: poiché è l'incertezza
che dirige nei loro petti l'oscillante mente". (trad. Pasquinelli)
"di necessità segue che esiste il dire e l'intuire l'essere –infatti esiste la loro esistenza- invece non esiste il dire e l'intuire il nulla: a queste proposizioni ti comando di riflettere. Perciò da questa prima via di ricerca ti tengo lontano; ma poi anche da quella ove uomini che nulla sanno sbandano, uomini con due teste." (trad. Untersteiner)
"Questo va detto e pensato: quel che è è. Essere infatti è dato, mentre nulla non è: tali cose ti esorto a ripetere a te medesimo. Quella via di ricerca è la prima da cui ti tengo lontano,
e la seconda è quella per cui mortali che nulla sanno
errano, forniti di due teste." (trad. Calogero)
L'espressione greca tradotta "è possibile che sia" o, da Untersteiner, "esiste la loro esistenza" (espressione francamente bizzarra, che richiama alla mente idee che per un greco erano impensabili) o "essere infatti è dato" è, nell'originale esti gar einai, letteralmente "è infatti essere". Questo ci offre lo spunto per notare la polivalenza semantico-funzionale del verbo greco essere, che può avere valore modale (è possibile), esistenziale (esiste) e ovviamente copulativo. Al tempo di Parmenide queste distinzioni non sono state ancora esplicitate; si possono trovare nel Sofista di Platone (ma non tutti sono d'accordo nell'attribuire a Platone una teorizzazione esplicita della distinzione; la distinzione avverrebbe pittosto sul piano dell'uso); sarà Aristotele a porre una distinzione esplicita tra l'essere haplos, simpliciter, senza ulteriori determinazioni (quello che chiameremmo esistenziale) e l'essere ti, l'essere qualcosa, l'essere X (che chiameremmo copulativo).
Nell’Eutidemo 283c-d si trova un sofisma basato sull’indistinzione tra essere esistenziale e copulativo: vogliono che Clinia diventi sapiente e non sia più ignorante; dunque vogliono che non sia più quello che è, dunque vogliono che non sia (valore esistenziale) più, e dunque che perisca.
Notiamo di nuovo la differenza tra 'il nulla non è' , con ipostatizzazione del 'nulla' e 'nulla non è'; quest'ultima ha per noi un senso più plausibile: Quel che probabilmente Parmenide vuole dire è che non c'è nulla di cui si possa dire 'non-è'; in questo senso "quel che è è" non è una vuota tautologia
Leggiamo anche, a questo proposito, B 7:
"infatti non mai questo si può costringere con la violenza: che esistano le cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca tieni lontano il pensiero…" (trad. Untersteiner)
"mai sarà dimostrato che esista ciò che non è'
Per noi, e anche per i Greci antichi, non fa immediatamente problema dire 'questo è un tavolo e non è una seggiola', cioè riferire il non-essere alle cose; dobbiamo però renderci conto che per chi rifletta sul linguaggio all'interno di una mentalità arcaica costituisce un problema il riferimento del non-essere a qualcosa che è, il dire che 'non-è' qualcosa che per altri versi 'è'. La prima obiezione che viene spontanea è che quando si dice che il tavolo non è, poniamo, bianco, non si intende certamente dire che il tavolo 'non esiste'; ma come accennavamo, la distinzione tra un significato esistenziale di 'essere' ed uno 'copulativo' è uno sviluppo più tardo, che non possiamo dare per presupposto nella riflessione arcaica. Per un minimo approfondimento di questo problema è necessario prendere in considerazione uno dei più importanti dialoghi di Platone, il Sofista ; non è necessariamente detto (e molti sono in effetti di avviso opposto) che Platone abbia interpretato correttamente Parmenide; resta però il fatto che non possiamo trascurare come un filosofo greco intendesse il problema parmenideo dell'essere e che comunque il problema della eventuale corretta interpretazione di Parmenide (che secondo alcuni non è affatto il filosofo dell'Essere) riguarda Parmenide e non la storia dell'ontologia (che appunto si svolge a partire dall'interpretazione che Platone ha dato di Parmenide).
Il dialogo Sofista* si propone inizialmente di definire il sofista mediante il metodo diairetico; sono varie le definizione fornite, ma la determinazione che ora ci interessa è quella del sofista come produttore di apparenze, venditore di falsità; incantatore e imitatore. Lo straniero di Elea, personaggio principale del dialogo, propone a un certo punto una *(236b ss.) distinzione, all'interno dell'arte imitativa, in 'fantastica' e 'icastica'; l'icastica riproduce gli oggetti che imita aderendo alla realtà, quella fantastica ne modifica le proporzioni (ad esempio, perché una statua di dimensioni enormi appaia allo spettatore secondo le proporzioni che il suo modello ha nella realtà, è necessario non riprodurre le proporzioni realmente esistenti fra le parti; altrimenti, poniamo, la testa apparirebbe molto più piccola di quanto non sia nel modello che si intende riprodurre; queste tecniche erano ben note e usualmente impiegate all'epoca di Platone); essa è detta 'fantastica' perché sembra (phainetai) somigliare, ma in effetti non somiglia; in quale delle due si colloca il sofista? La ricerca, che sino ad allora aveva proceduto in maniera abbastanza lineare, appare ora di fronte ad una impasse. Il sofista, si dice, si è rifugiato in un genere difficile da indagare, cioè quello dell'apparenza. Due sono infatti le maggiori difficoltà legate a questa nozione: 1. che qualcosa sembri e appaia, ma non sia; 2. che si possa dire qualcosa e dire qualcosa di non vero. Questi problemi –dice lo straniero- sono stati nel passato e sono anche adesso fonti di grandi difficoltà (aporia): come si può affermare che davvero sono (esistono) il dire e l'opinare il falso senza contraddirsi? Questo discorso infatti equivale a dire che ciò che non è, è; il falso, infatti, non può consistere se non nel dire ciò che non è; ricordiamo la già menzionata commistione, nel pensiero arcaico, del piano veritativo e di quello ontologico, il valore veritativo dell'essere; per converso, 'non-essere' ha il valore di essere falso ('non è' equivale al nostro 'non è così', 'le cose non stanno così'). Se anche non figurasse, immediatamente dopo, la citazione di Parmenide, credo che penseremmo lo stesso ai versi del suo poema: non potrai mai far sì (o pensare) che le cose che non sono, siano.
Noi parliamo di ciò che non è assolutamente, cioè pronunciamo il nome 'ciò che, in nessun modo, è'. Ma a che cosa si riferisce questa espressione, 'ciò che non è'? Noi potremmo dire 'all'elefante volante', o al tragèlaphos (l'animale fantastico metà capro e metà cervo, l’ 'ircocervo', di cui parla Aristotele nel de interpretatione); ma anche in questo caso resta il fatto che parliamo di qualcosa che non è come se fosse. Come è possibile riferire un nome a qualcosa che in nessun modo è? A qualcosa che è non possiamo riferire il 'non è' ; ma allora a ciò che non è non possiamo neanche riferire il 'qualcosa' (ti), perché 'qualcosa' lo diciamo sempre in riferito a ciò che è, a qualcosa che è, e mai da solo; qualcosa indica sempre una cosa (come quando dico 'c'è qualcuno nella stanza', questo 'qualcuno' si riferisce sempre a una persona)
A rigore parlare è dire qualche parola, non qualche cosa; ma, benché siamo consapevoli di questo, noi stessi usiamo ancora l'espressione 'dire qualcosa', mantenendo l'idea che il linguaggio abbia un riferimento reale, 'cosale'; si tratta in fondo di un residuo arcaico, anche se 'qualcosa' sottintende parole e non cose; ancora in Aristotele, che pure porta in gran parte a compimento la distinzione tra piani del reale, il linguaggio spesso parla di cose e viceversa alle cose si riferiscono verbi come 'significare', il cui soggetto dovrebbe sempre essere una espressione linguistica. Il problema che si pone alla riflessione greca è che dire è sempre dire qualcosa; e dire qualcosa è dire qualcosa che è; e dire qualcosa che è significa dire qualcosa che è vero, dunque non è possibile dire ciò che non è, cioè dire il falso. Ricordiamo che il greco ti legein non significa semplicemente 'dire qualcosa', ma piuttosto dire qualcosa di vero, così come oudèn legein non significa 'non dire nulla', cioè stare zitti, ma piuttosto non dire nulla di vero, di sensato. Il che implica che sia sì possibile dire qualcosa che non è, e che dunque non c'è immediata identità tra il linguaggio e la realtà; ma anche che comunque ci si aspetta che il linguaggio esprima sempre la realtà, e che quando ciò non avviene è come se non si dicesse nulla ; la scomparsa di un simile modo di esprimersi (nessuno di noi direbbe 'non hai detto nulla' per significare 'hai detto cose false o sbagliate') testimonia dell'avvenuta scissione e distinzione tra piano del linguaggio e piano della realtà).
Ora, se chi dice dice qualcosa e dice qualcosa che è, chi non dice qualcosa dice nulla, cioè non dice. Il problema è evidentemente di ordine filosofico, non pratico: come posso parlare di qualcosa che non è come se fosse? La semplice distinzione tra 'ciò che non è' e 'le cose che non sono' implica un riferimento di molteplicità e singolarità alle cose. Le cose che non sono sono molte, 'ciò che non è' (greco to al singolare) è uno. Allora ciò che non è è impronunciabile, inesprimibile, innominabile. Si giunge così all'aporia per cui ciò che non è non deve essere né uno né molti, e tuttavia se ne parla come di un 'uno' (238e); il sofista sfugge ancora. Se lo diciamo 'produttore di immagini' (eidolopoiòs, 239d3), egli ci interrogherà sulla natura dell'immagine: l'immagine deve essere ciò che è fatto a somiglianza del vero ma è diverso dal vero; che è in qualche modo ma non è realmente; ne consegue che la nozione di immagine implica che ciò che non è, in qualche modo sia. L'immagine è ciò che è opposto a ciò che è veramente, dunque veramente non è, dunque veramente è ciò che realmente non è. Quando diciamo che il sofista inganna, questo significherà che induce nei suoi interlocutori un'opinione falsa. Ora, l'opinione falsa è quella contraria alle cose che sono, dunque quella che opina le cose che non sono (non che non siano le cose che non sono, perché in questo caso sarebbe nel vero, ma che in qualche modo siano le cose che non sono) o pensa che non siano le cose che sono; il discorso falso è dunque quello che dice che sono le cose che non sono o che non sono le cose che sono. Ma in questo caso abbiamo violato la proibizione di collegare l'essere al non-essere. Come è possibile dire il falso? (di nuovo, non sul piano pratico; il punto è piuttosto, quale spiegazione teorica si può dare del fatto che si possa dire il falso)
Sarà necessario in qualche misura (240d) fare violenza al discorso del padre Parmenide, senza che ciò comporti l'imputazione di parricidio, e dire che il non essere sotto qualche rispetto è e che l'essere in qualche modo non è.
La soluzione del problema data da Platone si estende per l'intero Sofista: lo straniero di Elea arriverà a distinguere cinque generi che si annoverano tra quelli sommi: essere, identico, diverso, quiete, movimento, indagandone le relazioni reciproche. Ma il problema viene impostato partendo da lontano e ripercorrendo le principali posizioni sostenute dai protagonisti della 'gigantomachia' sul senso dell'essere (245e sgg.*); i partiti principali individuati sono due, i figli della terra (materialisti) e gli amici delle idee (idealisti). I primi sostengono che è solo ciò che si può toccare e dunque che ciò che diviene, si muove; i secondi che ciò che si muove non è, e che solo ciò che è perennemente identico a se stesso 'è'. Contro i primi (con i quali si concorda una definizione dell'essere in termini di 'capacità di agire o subire') vale l'obiezione che esistono, 'sono', alcune realtà non materialmente tangibili, quali l'anima. Contro i secondi bisogna sostenere che anche ciò che è (le idee), in quanto conosciuto, subisce un'affezione, si modifica e dunque si muove. Dunque 'ciò che è' deve essere sia in quiete che in movimento. Ma dev'essere altresì diverso da entrambi, perché quando si dice che ciascuno di essi, la quiete o il moto, è, questo 'è' deve significare qualcosa di diverso dall'essere in quiete o dall'essere in moto. Eppure connettiamo l'essere a entrambi. Si deve allora stabilire quali generi possano partecipare con quali altri e quali no. Le possibilità sono che a) tutto si mescoli con tutto; b) nulla si mescoli con nulla, c) alcuni generi accettino mescolanza reciproca, altri no. La terza possibilità s'impone, perché nel primo caso cadremmo in palesi contraddizioni (il moto starebbe, la quiete si muoverebbe), nel secondo caso non si potrebbe neppure parlare (mentre chiunque parla opera di fatto collegamenti, dicendo che le cose 'sono'). L'indagine ulteriore porta a stabilire che, ad esempio, moto e quiete non si mescolano tra loro, mentre l'essere si mescola ad entrambi; questi generi sono dunque diversi l'uno dall'altro, ma tutti 'sono', partecipano dell'essere. Ciascuno è identico a se stesso e diverso da tutti gli altri; ma dicendo che sono 'identico' e 'diverso' abbiamo trovato altri due generi, che pervadono tutti gli altri (vale per tutti i generi che ciascuno è identico a sé e diverso dagli altri). Ciascuno di essi è anche diverso dal genere dell'essere; ad esempio, il genere dell'identico non è l'essere, 255b; altrimenti dicendo che la quiete e il movimento 'sono' verremmo a dire che 'sono identici', che cioè la quiete è identica al movimento; allora, poniamo, il movimento 'è' perché partecipa dell'essere, ma 'non-è l'essere, dunque è e non è al contempo; ma poiché tutti i generi sono diversi dagli altri, per tutti vale che ciò che non è li pervade, che cioè tutti sono e non sono al contempo. La natura del diverso (256d) rende ciascun genere diverso dall'essere e in questo senso lo fa 'non-essere'; dunque per ciascun genere l'essere è molteplice, ma il non essere è infinito per numero (qualsiasi cosa è molte cose e non-è infinite cose). Decisivo, per il problema in questione, è il passo 257b: quando diciamo ciò che non è, non diciamo qualcosa che è contrario all'essere, ma solo qualcosa che è diverso dall'essere (ad esempio, quando diciamo 'non-grande', non parliamo del piccolo piuttosto che dell'uguale; ma se diciamo 'non-grande' parliamo di cose interne al genere dell'essere, di cose che sono e sono diverse da altre cose che rappresentano un'altra porzione del genere dell'essere; queste cose 'sono' allo stesso titolo delle altre, non sono meno essenti); questa porzione è una parte del diverso; questa parte del diverso è realmente 'ciò che non è' (èstin òntos tò mè on). Bisogna dunque (258b) osare dire che il non essere saldamente è e ha una sua natura (258d). Il diverso è un genere onnipervasivo, perché ogni cosa è diversa da tutte le altre. Dunque ciò che è, non è, in quanto diverso da tutte le altre cose, cioè non è ciascuna di tutte le altre cose
Qui dunque Platone comincia a distinguere tra vari tipi di opposizione, prefigurando la distinzione tra il contrario e il contraddittorio: quando apponiamo la negazione, dicendo ad esempio 'non-grande' non abbiamo un termine contrario. Il 'non grande', comprendendo per l'appunto tutto ciò di cui non si predica la grandezza, ha un'estensione infinita ed è sommamente indeterminato. L'opposizione tra grande e non-grande esaurisce l'ambito del reale, mentre quella tra grande e piccolo è, in termini aristotelici, interna a un genere. Il contrario è in effetti definito da Aristotele come ciò che dista massimamente nell'ambito di un genere. Non sarebbe invece corretto parlare di termini contraddittori; propriamente, di contraddittori si parla solo in riferimento a proposizioni, se una delle quali è vera, l'altra sarà necessariamente falsa (A si predica di X e A non si predica di X); le proposizioni contrarie, invece, possono essere entrambe false (es. bello si predica di tutti gli uomini; bello non si predica di nessun uomo) ma non entrambe vere; le proposizioni cosiddette 'subcontrarie' (cioè le contrarie particolari, non universali) possono essere entrambe vere (bello si predica di qualche uomo; bello non si predica di qualche uomo) ma non entrambe false. Contraddittorie tra loro sono invece l'universale affermativa e la particolare negativa (mortale si predica di tutti gli uomini, V; mortale non si predica di qualche uomo, F) e la particolare affermativa e l'universale negativa (mortale si predica di qualche uomo, V; mortale non si predica di nessun uomo, F)
A questo punto il dialogo si collega al piano del discorso e della verità; lo straniero di Elea ha dimostrato che il non essere in qualche modo è, ma come si è visto, era necessario fornire una fondazione della possibilità del discorso falso. E' allora opportuno, da parte nostra, fare un passo indietro e introdurre al concetto di verità.
Il termine corrispondente al nostro 'verità' è il greco alètheia. L'etimologia di questo termine è incerta, e una vivace discussione si è accesa sul problema soprattutto dopo l'interpretazione che Martin Heidegger ha dato del concetto greco di alètheia in opere come La dottrina platonica della verità. Un'interpretazione possibile, quella su cui Heidegger fonda le sue tesi, fa derivare il termine da alfa privativo+ derivati del verbo lanthano, che significa "restare nascosto, sfuggire all'attenzione"; lethe è l'oblio, la dimenticanza (nella Teogonia di Esiodo 227: Lethe è figlia della Contesa, Eris) il fiume dell'oblio nel mondo sotterraneo; l'etimologia del termine indicherebbe dunque il "non restare nascosto", quel che Heidegger chiama Unverborgenheit, l'assenza di nascondimento; in origine la alètheia sarebbe il manifestarsi dell'ente, il suo venire in luce e non la verità nel senso di corrispondenza, correttezza del giudizio, sua conformità con la realtà; insomma una proprietà dell'ente più che del giudizio. In Platone si trovano ancora i segni di questa concezione nel mito della caverna, ma Platone costituisce anche, per Heidegger, una tappa decisiva nel processo di trasformazione (questo almeno vale per l'opera La dottrina platonica della verità), il primo momento in cui l'originaria concezione si trasforma; in Platone infatti l' idea prende il sopravvento sull' aletheia, è l'idea a conferire l' aletheia, la quale cade sotto il suo giogo. L'idea è qualcosa che deve venir visto, costituisce l' oggetto di una visione, visione che deve essere esatta, conforme.
Questa interpretazione è stata contestata da molti, anche sul piano etimologico (ad esempio da Paul Friedländer, insigne studioso di Platone); non è certo, intanto, che l'alfa iniziale sia un alfa privativo; il termine alethes è stato considerato analogo a formazioni quali atrekès, akribès, che significano anch'essi qualcosa come 'vero', 'esatto', e nei quali non si tratta certamente di alfa privativo; e il termine stesso non sembra mai avvertito come un termine negativo. C'è da dire che in alcuni casi i greci (Esiodo Teogonia 233-6; Omero Iliade VI 376 e XIII 361) sembrano aver connesso aletheia a lethe, ma si tratta di casi poco chiari e comunque minoritari. Sembra che per un verso abbia ragione Heidegger, perché in Platone l'aspetto della aletheia come nascondimento è effettivamente presente (e lo vedremo subito nella Repubblica); dall'altro è altrettanto (o forse ancor più) certo che l'idea della aletheia come corrispondenza è presente da sempre nei testi greci a nostra disposizione.
La verità insomma come proprietà delle cose e dei fatti (stati di cose). In questo senso ci si avvicina al significato di ‘evidenza’, che anche nella nostra lingua può riferirsi sia a cose(?) che a fatti che a proposizioni. Qualcosa appare, si presenta con ‘evidenza’. In Parmenide B1,30 (53?); 8,28 pistis alethes significa ‘prova evidente’
Possiamo distinguere tre dimensioni del concetto di aletheia : ontologica, logico-gnoseologica, psicologica (aletheia come sincerità, che non coincide necessariamente con la verità oggettiva; pseudos è infatti l'opposto del vero gnoseologico e psicologico, e dà luogo in questo senso ad un'ambiguità; pseudesthai significa infatti sia dire il falso (oggettivo) che mentire.
Per l' aletheia intesa in senso ontologico è importantissima l'analogia del sole nella Repubblica *(506b ss.) ; qui, come è noto, Platone stabilisce una analogia, cioè una proporzione, tra il sole e il bene: quel che il sole è nel mondo visibile, è il bene nel mondo intellegibile; il sole è condizione di visibilità degli oggetti, il bene, idea delle idee, è la condizione di intellegibilità delle cose conosciute; analogo della vista nel mondo sensibile è l'intelletto nel mondo intellegibile; ma come le cose viste hanno bisogno, per esser viste, della luce, così gli oggetti intellegibili hanno bisogno, per essere compresi, di un analogo della luce, che è la verità, la aletheia; la aletheia è dunque ciò che conferisce conoscibilità agli oggetti conosciuti, una condizione del conoscere, distinta sia dalle cose conosciute, sia dal soggetto conoscente, sia dalle sue facoltà. In questo contesto, per qualcosa essere vero significa essere ben visibile, chiaro, come un oggetto illuminato dalla luce; la verità insomma è qualcosa che si predica delle cose e non del giudizio che ad esse viene riferito; con quest'idea, effettivamente, si adatta molto male una concezione della verità come corrispondenza, o adaequatio; essa è però perfettamente compatibile con l'indistinzione che abbiamo individuato nel pensiero arcaico tra verità e realtà; quando si dice che una cosa è vera si intende dire che essa è reale, che è realmente. Platone utilizza normalmente espressioni del tipo mallon on, òntos on, alethos òn ; le idee sono ciò che è realmente, e dunque sono più vere delle cose sensibili (senza ancora nessun riferimento al giudizio che si pronuncia sulle cose). Se è vero che in Platone si possono trovare indizi di una concezione 'ontologica' della verità, è altrettanto e forse più vero che in Platone si trova una formulazione ben precisa della concezione della verità come corrispondenza.
Per questo torniamo al Sofista che, secondo quel che abbiamo visto, può intendersi come una risposta alla questione della possibilità del giudizio e dell'opinione falsa. Dopo la teoria dei generi sommi Platone espone una teoria del discorso (262e-263b)*; qui si distingue per la prima volta tra nome (onoma) e verbo (rhema): il verbo è ciò che indica azioni, il nome coloro che compiono quelle azioni; il discorso risulta necessariamente formato dal collegamento tra nomi e verbi e il legein (dire) viene distinto dall' onomazein (nominare). L'esempio minimo fornito da Platone si compendia nella proposizione, evidentemente falsa: Teeteto vola. Rimane vero il punto di partenza, che il linguaggio parla di qualcosa, e di qualcosa che è, perché Teeteto è, ed esistono anche cose che volano; ma discorso vero e discorso falso si differenziano nel senso che il discorso vero dice 'le cose come sono nei tuoi (sc. di Teeteto) confronti' (legei ho men alethès ta onta hos estin peri sou), quello falso dice cose diverse da quelle che sono (etera ton ònton) e dunque dice cose che non sono come se fossero (ta mè onta hos onta); anche il discorso falso dice pur sempre cose che sono, ma che sono diverse dalle cose che sono nei tuoi confronti (abbiamo visto che il non essere come diverso è sempre qualcosa che è); dire 'volare' è parlare di qualcosa che esiste nella realtà, ma che non si può connettere a un uomo.
Si può notare, riassumendo, un fatto importante; in Platone l'essere assume una consistenza che in precedenza non aveva. L'essere non è semplicemente l'estensione (logica) delle cose che sono, anche se l'espressione usata è sempre 'to on'; l'essere è qualcosa di autonomo, che cammina sulle proprie gambe, un soggetto di predicazione; l'essere è diventato un genere, qualcosa di estremamente reale, e ciò sarà alla base delle critiche di Aristotele.
Quando parliamo di genere il concetto che abbiamo in mente è quello aristotelico: ciò che si predica in comune di cose differenti per specie. In Platone la situazione è più fluida; gli eide (idee, forme) sono sicuramente reali, e più reali della realtà sensibile, e spesso ghenos ed eidos sono sinonimi; mallon on, 'più essente', è un'espressione costantemente usata da Platone, anche se alcuni contestano la legittimità filosofica di tale utilizzo: non sarebbe infatti corretto parlare di gradi d'essere: qualcosa o è o non è. Ma è anche chiaro cosa Platone intenda quando usa questa espressione: ciò che non nasce e non perisce, che è sempre identico a se stesso, ha un grado d'essere qualitativamente differente; deve esserci uno scarto ontologico tra ciò che è sempre e ciò che è in costante divenire, sempre diverso da se stesso, prima essente, poi non più essente, insomma tra l'ousia e la ghenesis; Platone la esprime con la locuzione mallon einai, "essere 'di più'"; di fatto, in ogni caso, nel Sofista l'essere è presentato come un ghenos, e sarà questo il punto criticato da Aristotele.
La molteplicità dei sensi dell'essere in Aristotele. Possiamo partire a questo proposito da un'aporia, l'undicesima del libro Beta della Metafisica. (*metaph. 1001a-b). L'aporia è definita da Aristotele stesso come una tra le più importanti per l'indagine della verità. Si tratta di vedere se l'essere (on) e l'uno (hen) siano sostanze (ousia) delle cose che sono, come hanno ritenuto i Pitagorici e i Platonici. Si tratta di un linguaggio già molto evoluto in senso filosofico, che un secolo prima sarebbe probabilmente risultato incomprensibile agli stessi greci; certamente nulla del genere si trova nei presocratici. Sappiamo, proiettandoci già oltre l'aporia, che per Aristotele la risposta è negativa.
Ma cosa significa in Aristotele dire che l'essere e l'uno sono, per alcuni dei suoi predecessori, sostanze? Costoro rappresentano il primo corno dell'alternativa: per essi l' on è di per sé e non è semplicemente (questa, descritta al negativo, è già la posizione aristotelica) qualcosa che si dice di qualcos'altro (eteron ti), qualcos'altro che è in primo luogo una cosa X , la quale non è semplicemente essere. L'alternativa a questa posizione è che ci sia un'altra natura soggiacente (un hypokèimenon, soggetto ontologico) del quale l'essere si predica, che dunque l'essere non sia mai qualcosa di per sé autonomo, e che da solo non sia nulla. Anche in questo caso ci interessa solo relativamente la correttezza dell'interpretazione che Aristotele dà delle filosofie dei Pitagorici e di Platone, perché comunque tale interpretazione determina la sua ontologia.
Aristotele mostra che la prima posizione, la sostanzializzazione dell'essere, conduce a un'aporia che fa ricadere nelle posizioni di Parmenide. Se infatti ci fosse davvero qualcosa la cui natura consiste semplicemente e totalmente nell'essere, tutto il resto, in quanto diverso dall'essere, non sarebbe, e verrebbe meno la molteplicità. Dire che la sedia è diversa dal tavolo pone problemi sino a un certo punto, o almeno non li pone dopo il Sofista; dire 'la sedia è diversa dal tavolo' non crea problemi rispetto al fatto che la sedia sia; non è problematico il fatto che una cosa x sia diversa da una cosa y quanto al fatto di non essere y. Ma se qualcosa è diverso da una cosa y per la quale questo y non è 'essere una cosa particolare', ma è semplicemente 'essere', questo essere diversa non potrà che voler dire 'essere diversa dall'essere', cioè non-essere.
Nel libro B rimane la formulazione aporetica; ma che l'essere non sia un genere era già stato sostenuto da Aristotele nei Topici. L'essere non è un genere (genere è ciò che si predica in comune di soggetti differenti per specie) perché è il predicato più universale, che si applica ad ogni cosa; ma in questo caso non può svolgere la funzione del genere, che è quella di separare le entità che ad esso appartengono da altre (il genere vivente separa l'uomo, gli animali, etc., da tutti gli oggetti appartenenti al genere 'inanimato'). Dunque l'ente, non essendo un genere, è un pollakòs legòmenon, qualcosa che si dice in molti sensi; l'essere si trova in tutte le categorie, che sono appunto i generi sommi, e assume in ciascuna di esse un diverso significato. La predicazione interna a un genere, invece, è una predicazione sinonima (cfr. Categorie 1); animale si predica dell'uomo e del bue, e se devo dire qual è la definizione di animale nel caso del bue e dell'uomo, fornirò la stessa definizione; quanto all'essere animali, l'uomo e il bue sono la stessa cosa. Nella Metafisica Aristotele indaga la possibilità di una scienza dell'essere in quanto essere; ma il problema di fondo è: se l'essere non è un genere come può darsi una scienza dell'essere? Ogni scienza, infatti, per Aristotele, riguarda un ambito di realtà, ha un suo oggetto e un contenuto determinato, verte su un genere. La risposta è che l'essere si dice in molti modi, ma tutti in riferimento alla sostanza (ousia).
Ma quali sono questi modi? Partiamo da *metafisica delta(V) 7.
Il primo dei significati qui indicati è l'essere come accidente: accidente è, secondo la definizione dei Topici, ciò che si predica della cosa secondo verità, ma non sempre né perlopiù, es. bianco o musico detti di uomo; in metafisica delta (IV) 30 si ha una definizione analoga: accidente è ciò che si predica di qualcosa ed è vero, ma non di necessità né perlopiù. Lettteralmente 'accidente' (symbebekòs) è ciò che va insieme, il 'concomitante'; accanto a esempi di predicati riferiti a soggetti, Aristotele elenca casi di eventi, ad es. trovare un tesoro mentre si scava per piantare un albero, o andare al mercato per comprare qualcosa, incontrare casualmente un creditore e riscuotere il credito; i due eventi semplicemente 'vanno insieme' (syn, con, e bainein, andare), sono concomitanti, nel senso che si verificano insieme, o uno dopo l'altro, ma senza che tra essi si possa istituire una relazione causale; certamente se non avessi scavato non avrei trovato il tesoro, ma non posso dire che il mio scavare per piantare sia la causa del trovare il tesoro; si tratta di una pura e semplice coincidenza, altrimenti dovrei poter trovare un tesoro ogni volta che scavo. La relazione di causalità implica infatti una ricorrenza che non si dà in questi casi. Non c'è dunque una causa determinata dell'accidente, ma la relazione è casuale; è qualcosa che 'accade', 'capita' (cfr. il greco tyche, caso, e tynchanein, accadere). In un senso generico, e non determinato, si può dire che la causa dell'accidente è la materia, perché la materia è ciò che si presta a essere differentemente da come è perlopiù (può essere freddo a ferragosto perché nel fenomeno atmosferico c'è una componente materiale, che si presta a essere in modo diverso da quel che accade perlopiù in quel periodo dell'anno) Perciò non c'è scienza dell'accidente (avere scienza significa infatti conoscere le cause di qualcosa) e l'accidente, sebbene sia uno dei significati dell'essere, risulta quasi un puro nome, assai prossimo al non-essere (metaph. E2).
Il secondo significato indicato da Aristotele è quello dell'essere per sé (kath'autò), ovvero secondo le figure delle categorie; infatti, tante sono le figure delle categorie, tanti i significati dell'essere. Non ci addentriamo nel complesso problema, che mi limito a segnalare, del perché tutte le categorie, e non solo la prima, la sostanza (ousìa), restituiscano altrettanti significati di essere per sè. Ci basti per ora sapere che le categorie sono per Aristotele i generi supremi dei predicati riferibili ad un soggetto, o secondo un' interpretazione più impegnativa, i generi supremi dell'essere.
La dottrina delle categorie si origina, in Aristotele, dalla pratica accademica della divisione, messa in opera per raggiungere la definizione di qualcosa. Classificando i predicati riferibili ad un soggetto e individuandone i generi superiori si perviene ad alcuni generi sommi, che Aristotele individua in numero di dieci: sostanza, qualità, quantità, in relazione a, dove, quando, fare, patire, avere, stare. 'Rosso' ad es. si riconduce a 'colore'; 'colore' a 'qualità' ; ma 'qualità' non è ulteriormente riconducibile a un genere ad essa sovraordinato; in ciò Aristotele si oppone alle dottrine degli Accademici, che avevano individuato due categorie somme, il 'per sé' (kath'autò) e l' 'in relazione a', (pros ti). Questi generi possono essere visivamente disposti in colonne, al culmine delle quali si trovano le suddette categorie. La predicazione può avvenire in direzione verticale, internamente a un genere (intracategoriale), se ad es. predico 'sostanza' di 'vivente', 'vivente' di uomo etc.; o 'qualità' di 'colore' e 'colore' di 'rosso'; ma anche in direzione trasversale, infracategoriale, se riferisco un termine che compare in una colonna a un termine che figura in un'altra, ad es. 'bianco' predicato di uomo; in questo secondo caso si parla più propriamente di relazione di inerenza ('bianco' inerisce a Socrate). Ora, c'è una colonna, quella della prima categoria, la ousia, i cui termini non possono inerire ad altro, sono cioè sempre soggetto e mai predicato. 'Socrate' non può mai figurare come predicato in un giudizio, se non accidentalmente in giudizi del tipo 'l'uomo che mi sta di fronte è Socrate', che non rappresentano una vera e propria predicazione. O meglio, i termini della prima colonna possono essere solo predicati di termini meno universali che rientrano nella stessa categoria di sostanza, es. 'vivente' di 'uomo' e 'uomo' di 'Socrate'. Questa categoria costituisce sempre una risposta alla domanda 'che cos'è' e mai una risposta alla domanda 'quale', 'quanto', etc.; per questo Aristotele la chiama anche la categoria del 'che cos'è'; per quanto riguarda le altre categorie, invece, i termini in esse contenuti rispondono alla domanda 'che cos'è' solo nel caso della predicazione intracategoriale (che cos'è il bianco? un colore), e questa è una possibile risposta al problema, sopra ricordato, del perché tutte le categorierestituiscano altrettanti significati dell'essere per sé ('colore' appartiene di per sé al bianco). La ousia è dunque la categoria ontologicamente più consistente; sostanza è infatti, nel trattato sulle Categorie, ciò di cui tutto il resto si predica, mentre essa stessa non è predicato di altro, dunque il soggetto (hypokeimenon, letteralmente, ciò che giace sotto, da hypò e keimai); nelle Categorie, poi, Aristotele distingue tra sostanze prime (un determinato uomo, un determinato cavallo) e sostanze seconde (i generi e le specie che si predicano degli individui singoli), ma tale distinzione non compare più nei successivi scritti.
Il successivo significato da prendere in considerazione è quello dell'essere come vero. Da un lato, conformemente alla tradizione linguistica greca, l'essere significa esser vero e il non essere, non esser vero; Aristotele aggiunge però che ciò vale sia per l'affermazione che per la negazione; vale a dire, tanto i giudizi negativi, in cui compare la negazione, tanto quelli positivi, possono essere veri o falsi . Non si tratta più, come nel pensiero arcaico, di identificare simpliciter essere e verità; questo, del resto, era già implicito nel Sofista di Platone: il giudizio 'Teeteto non vola' è vero, perché, in base alla teoria di quel dialogo, nega la congiunzione di ciò che nella realtà è disgiunto. In metafisica E4 vengono fornite ulteriori precisazioni: il vero e il falso non sono nelle cose (en tois pràgmasin), ma nel pensiero (diànoia). Essi riguardano la connessione (synthesis) e la divisione (diàiresis); il vero è l'affermazione di ciò che è congiunto e la negazione di ciò che è disgiunto; in altre parole, un giudizio è vero se afferma la congiunzione di ciò che nella realtà è congiunto e nega la congiunzione di ciò che nella realtà è disgiunto; dunque un giudizio è falso se afferma la congiunzione di ciò che nella realtà è disgiunto e nega la disgiunzione di ciò che nella realtà è disgiunto (cfr. anche metaph. IX 10). In altre parole, il non-essere, come l'essere, può figurare tanto nei giudizi falsi che in quelli veri. L'essere come vero e il non essere come falso abbracciano entrambi i lati della contraddizione; una contraddizione si ha infatti quando si afferma e si nega un predicato del medesimo soggetto nello stesso tempo, secondo il medesimo rispetto, con tutte le ulteriori determinazioni del caso. Il cosiddetto principio del terzo escluso (tertium non datur) esposto in metaph. 1011b23-4 recita che non esiste un termine intermedio della contraddizione, ma è necessario o (aut) affermare o negare un qualunque predicato unico di unico soggetto ('amaro' necessariamente si predica o non si predica di una certa bevanda, a meno che non si considerino tempi (prima amara, poi non più amara) o rispetti (amara rispetto a una bevanda dolce, non-amara rispetto a una più amara) diversi.
Aristotele si oppone dunque a una concezione che potremmo definire 'arcaica' in due punti:
Questa teoria di Aristotele rimane un caposaldo della metafisica occidentale. Ricordiamo solo, a titolo esemplificativo, le tesi di S. Tommaso: veritas proprie invenitur in intellectu (humano vel divino); e di Cartesio: veritatem proprie vel falsitatem non nisi in solo intellectu esse posse.
Notiamo in Aristotele l'uso del termine dianoia: si tratta dell'intelletto discorsivo, diverso dal nous, che genericamente potremmo definire intelletto intuitivo. E' un 'pensare attraverso' (preposizione dia), attraverso un tramite, cioè un collegamento. Possiamo qui solo accennare a un'altra tesi aristotelica di difficilissima interpretazione, formulata subito dopo in E4: riguardo alle entità semplici e al 'che cos'è' (ti esti) il vero e il falso non consistono nella congiunzione e disgiunzione. E' assai difficile individuare con certezza a quali entità Aristotele si riferisca; possiamo intuire che se un'entità è semplice, non potrà risultare da una congiunzione e dunque neppure sarà possibile dire il vero su di essa affermando una congiunzione o negando una disgiunzione. Ma quali sono queste realtà? In metaph. IX 10 si parla di realtà incomposte (asyntheta) rispetto alle quali il vero e il falso consistono o nell'afferrarle (il verbo usato a questo proposito è thigèin, toccare; il linguaggio è quello dell'apprensione immediata; pensiamo ai verbi apprendere, afferrare, comprendere; una cosa o la prendo o non la prendo; la metafora tattile, del resto, è già molto diffusa in Platone) o nell'ignorarle, sulle quali non ci si può sbagliare. Propriamente non si parla allora di 'falso' (pseudos), 1052a2, né di inganno (apàte), ma di ignoranza (àgnoia). Cosa siano queste realtà è, come dicevo, tuttora oggetto di discussione. E' però interessante notare che Aristotele parla del 'che cos'è' (ti esti); in prima approssimazione possiamo dare un' indicazione del genere: sull'essenza di qualcosa non posso sbagliarmi (se non, dice Aristotele, accidentalmente: cosa questo propriamente significhi è difficile stabilirlo). Posso sbagliarmi nel riferire a un soggetto un predicato che questo soggetto potrebbe avere ma anche non avere (es. dire che una persona alta è bassa perché la vedo da lontano) o avere prima e non avere più dopo. Ma se penso o dico che il camoscio sia un cervide anziché una capra, cioè m'inganno sulla sua essenza, dovrei allora piuttosto dire che ignoro cosa sia il camoscio (in questo caso, si può dire che in fondo io ne conosca solo il nome); chiamandolo 'cervide delle rupi' non sto parlando propriamente del camoscio, ma di qualcos'altro (se esiste un cervide delle rupi) o di nulla; in nessuno dei due casi, dunque, 'afferro' l'essenza del camoscio. Un punto importante , cui qui si può solo accennare, è che l'essenza per Aristotele è qualcosa di unitario; 'vivente bipede razionale' costituisce un'unità in cui il genere è materia, la differenza forma; è dunque qualcosa che non può essere disgiunto; 'uomo canuto' è invece qualcosa che può essere congiunto o disgiunto, che possiede un'unità semplicemente accidentale; rispetto a questa 'entità' posso allora essere in errore, e precisamente se riferisco 'canuto' a Socrate quando questa connessione nella realtà non c'è, o se disgiungo 'canuto' da 'Socrate' quando nella realtà essi sono uniti.
Su questi passi di metafisica IX 10 si è basato, ancora una volta, Heidegger per sostenere la presenza in Aristotele di una concezione della verità come disvelamento e non come adeguazione del giudizio alla realtà.
Essere come potenza e atto. Accenniamo ora all'ultimo dei significati dell'essere indicato in metaph. Delta (V) 7, quello di potenza (dynamis) e atto (energheia, entelecheia). Aristotele ne tratta più estesamente nel capitolo XII del libro Delta (V) e soprattutto nel libro Theta (IX) della Metafisica. Secondo la definizione di metaph. V 1019a la potenza è principio di movimento o mutamento in altro o in sé stesso in quanto altro (potenza attiva, capacità di agire) e anche principio di movimento o mutamento da parte di altro o in quanto altro (potenza passiva, capacità di patire). Il secondo senso è quello che solitamente si intende quando si parla del binomio potenza-atto: capacità di subire un mutamento ad opera di altro (il bronzo è in potenza statua, ossia ha la capacità di subire da parte dello scultore quel mutamento che lo porta ad essere una statua) o di se stesso in quanto altro (quando il medico cura se stesso, come nel caso della potenza attiva, è accidentale che si tratti della stessa persona e che egli subisca il mutamento ad opera di se tesso; perlopiù avviene infatti che si subisca un mutamento del genere a opera di altri). Ora, essendo la potenza, potenza di qualcosa, cioè capacità di subire un mutamento che porta verso l'atto, essendo cioè potenza ed atto correlativi, è necessario definire anche cosa sia l' energheia (1048a25 ss.). La definizione data da Aristotele è: l'essere (hyparchein) della cosa non nel modo in cui la diciamo in potenza. Ad esempio, il legno è in potenza la figura che lo farà essere lo scultore, oppure è sapiente in potenza chi (in un determinato momento) non stia esercitando la scienza che possiede (pianista in potenza è Maurizio Pollini quando non sta suonando). E' una definizione che può lasciare perplessi, perché sembra circolare: per capire cosa sia la potenza è necessario spiegare cosa sia l'atto, e per definire l'atto ci si riferisce alla potenza. Ma proprio in questo frangente Aristotele ci ricorda che non è possibile offrire una definizione di tutto e che per alcune realtà ci si deve rifare a procedimenti analogici, ad esempio: il bronzo sta alla statua come il dormiente sta al desto, come chi è capace di costruire sta a chi chi costruisce, come chi ha gli occhi chiusi sta a chi vede (l'analogia, come già sappiamo, è una proporzione matematica). Tutti questi casi sono tra loro diversi; in un caso si ha un movimento o processo (il costruire) rispetto a una capacità, in un altro si ha una sostanza rispetto a una materia (la statua rispetto al bronzo, o l'individuo rispetto all'embrione) e dunque la nozione di potenza e atto si può intuire solo per via analogica (si potrebbe dire che la potenza e l'atto sono, come l'essere, dei pollakòs legòmena, si dicono cioè in molti sensi: in un caso l'atto sarà un processo-movimento rispetto a una capacità, in un altro una sostanza rispetto a una materia, etc.; e queste entità non sono riconducibili a un genere unico).
Intuiamo già perché non si possano definire atto e potenza: definire significa inquadrare qualcosa in un genere e indicarne la differenza specifica, che è ciò per cui quell'entità si distingue da altre entità congeneri; ma potenza e atto non sono generi interni a una qualche categoria: potenza e atto si ritrovano in tutte le categorie e sono due significati possibili di qualunque predicazione in cui compaia l'essere: è bianco (qualità) può significare 'è in potenza bianco' o 'è in atto bianco', 'la statua è (esistere simpliciter, significato esistenziale) può significare che esiste in atto o in potenza e così di seguito. Dunque potenza e atto non sono qualcosa di definibile nel senso di 'circoscrivibile' (il greco horos significa confine, poi 'definizione' in senso tecnico).
Per capire meglio il concetto di potenza è però necessario precisare quando può realmente dirsi che qualcosa sia in potenza; si potrebbe infatti estendere in maniera eccessiva il concetto di potenza e dire, ad esempio, che un determinato uomo (poniamo, quando prende il diploma di maturità) è in potenza architetto, medico, ingegnere etc.; nulla infatti impedisce di pensare che il tale X diventi una di queste cose. In effetti Aristotele restringe i casi in cui si può parlare legittimamente di essere in potenza: si può dire che qualcosa è in potenza una cosa X quando passerà a essere X in atto se non sussiste alcun impedimento. Ad es. lo sperma di per sé non si può dire che sia un individuo in potenza; è tale solo quando è fecondato, perché in questo caso diventerà sicuramente uomo, a meno che qualcosa non lo impedisca di fatto; oppure, io non sono un pianista in potenza (anche se nulla impedisce di pensare che studiando pianoforte io diventi un pianista), mentre lo è Maurizio Pollini quando non suona, perché a meno di impedimenti estrinseci prima o poi passerà all'atto mettendosi a suonare. Per gli oggetti non-naturali, che non hanno un principio di movimento interno, la situazione è più complessa, ma analoga; ovviamente il bronzo diverrà statua solo se c'è uno scultore che imprime una modificazione alla materia; ma in questo caso, posto che la causa motrice esterna prenda il posto della natura, varrà lo stesso discorso; se non ci sono impedimenti di altro genere il bronzo diverrà statua.
Ma c'è ancora un altro senso in cui si parla di essere in potenza, ed è quello relativo a realtà che sono ciò che sono sempre in potenza, e non sono suscettibili di esistere in atto: è il caso dell'infinito e del vuoto. L'infinito esiste in atto solo per la conoscenza (gnosis, 1048b15), mentre tutto ciò che sussiste indipendentemente (choriston) è sempre qualcosa di determinato e limitato. Posso pensare, ad esempio, la divisibilità all'infinito di una quantità (il continuo è appunto ciò che è divisibile in parti sempre ulteriormente divisibili, come Aristotele spiega nella Fisica), ma una quantità è sempre una quantità determinata; una semiretta è in potenza una divisione della retta, ma ciò che c'è di volta in volta è sempre una retta.
Per indicare l'atto Aristotele usa due termini, enèrgheia ed entelècheia. Il concetto di energheia è da lui stesso spiegato in riferimento all'etimologia del termine (metaph. 1050a21ss).; energheia viene da ergon, opera. Il fine di ciascuna cosa consiste nella realizzazione dell' ergon che è ad essa proprio per natura, e in questo consiste la sua aretè (termine traducibile con 'virtù' in ambito etico; ma più in generale per i greci esiste un aretè anche dell'occhio, del cavallo, o anche di oggetti artificiali; questa aretè consiste nel realizzare bene lo scopo cui queste entità sono destinate dalla natura o dalla techne: aretè dell'occhio è vedere bene, aretè del martello è piantare bene i chiodi, etc.). Energheia è dunque l'attività, l'atto, che tende alla realizzazione dell' ergon. L' energheia dell'occhio è l'attività del vedere, o se si vuole, l'atto della vista, che in quanto vista è una facoltà, una capacità, una dynamis.
Aristotele distingue l' energheia dalla kinesis, l'attività dal movimento o processo. Kinesis è un processo che è sempre incompiuto, imperfetto (atelès) sinché dura ed è compiuto solo al suo termine; si svolge nel tempo e richiede un tempo determinato; l' energheia è un'attività perfetta (telèia) in ogni suo momento, che si svolge nel tempo ma non richiede un tempo determinato. Esempi della prima (fatti da Aristotele): dimagrire costruire; della seconda, contemplare, vedere. Ci si può servire di un indicatore grammaticale per distinguere le due cose: nell' energheia è possibile la compatibilità di tempo presente e perfetto [il perfetto indica appunto una perfezione, una azione compiuta]: posso dire infatti 'sto contemplando' e 'ho contemplato', ad esempio un quadro; nella kinesis c'è invece incompatibilità: quando posso dire 'ho costruito' o meglio ancora 'ho chiuso la porta' non posso più dire 'sto costruendo' o 'sto chiudendo la porta'. Possiamo altrimenti dire che l' energheia ha il suo fine in se stessa, la kinesis ha il suo fine in altro, è un processo finalizzato a qualcos'altro. Per capire meglio ricorriamo a un esempio; pensiamo a due persone che corrano in tuta sul lungarno e immaginiamo che uno stia facendo jogging, l'altro sia un professore di ginnastica che sta correndo a prendere il treno; apparentemente essi stanno facendo la stessa cosa, ma in realtà è giusto dire che stanno compiendo azioni diverse. Se infatti chiedo a ciascuno di loro cosa stia facendo avrò risposte diverse. Quella del primo è, in termini aristotelici, una energheia, perché, pur svolgendosi nel tempo, non richiede un tempo determinato; quella persona potrà fare jogging per mezz'ora, per un'ora o per un pomeriggio, ma in ciascuno di questi casi si potrà dire che ha svolto compiutamente la sua attività; viceversa, l'altra persona sta correndo a prendere il treno, e si potrà dire che la sua azione è compiuta solo se riesce effettivamente a prendere il treno. Il primo non accetterà l'eventuale offerta di un passaggio in macchina, perché il suo fine è correre, il secondo lo accetterà, perché ciò che gli interessa è prendere il treno, dunque non l'azione del correre in quanto tale. Infine, ha senso chiedersi quanto ci voglia per raggiungere la stazione di corsa da un determinato punto, mentre non ha senso chiedersi quanto tempo ci voglia per fare jogging. Le due azioni, insomma, hanno la stessa materia, come in una scatola di costruzioni è presente la stessa materia che è presente nell'oggetto montato; ma la forma, cioè in ultima analisi il fine, delle due azioni è totalmente differente.
L' ergon è, come si diceva, il telos, il fine, presente nell'altro termine, entelècheia, che è un entelès èchein, cioè trovarsi in uno stato di perfezione, di compiutezza (secondo altre interpretazioni entelècheia sarebbe da spiegare come un en eautoi telos echein, cioè un avere in se stessi il proprio fine).
Qual è il rapporto tra potenza e atto? Per Aristotele l'atto precede, è anteriore alla potenza sotto un triplice rispetto: per la nozione (logos), per il tempo e per la sostanza (ousìa). a) per la nozione: costruttore, ad esempio, è chi è capace di costruire; la capacità si definisce in riferimento all'attività e non viceversa; b) per il tempo: posso dire che lo sperma è anteriore all'uomo formato che da esso deriva; lo sperma, però, viene a sua volta da un essere umano in atto, che è causa motrice del secondo ed è ad esso cospecifico; c) per la ousia: nel caso ora citato, l'uomo possiede già compiutamente la forma, l'eidos, mentre lo sperma non la possiede compiutamente.
L'essere si dice dunque in molti modi, uno dei quali è quello secondo le figure delle categorie, che sono, come abbiamo visto, generi sommi e ulteriormente irriducibili; l'essere non è dunque un genere, e questo pone il problema ricordato in precedenza: come può darsi una scienza dell'essere, se è vero che ogni scienza verte su un genere determinato? Deve esserci una qualche forma di relazione tra i vari sensi dell'essere, tale da conferire loro quell'unità che permetta di postulare una scienza unica che se ne occupi. Questa relazione è definibile come omonimia pros hen, cioè in riferimento ad un'unità. Aristotele stesso chiarisce la questione con un esempio assai efficace, in cui l'analogo dell'essere è la nozione di 'sano'. 'Sano' si dice in molti modi; sana è una medicina, sana una dieta, sana una persona. Se però dobbiamo spiegare in che cosa consista per una medicina, una dieta, una persona, essere 'sane', avremo spiegazioni differenti: una medicina è sana perché ripristina la salute, una dieta perché mantiene la salute, una persona perché è in una condizione di salute (non avrebbe evidentemente senso dire che una medicina è in buona salute, o che una persona è sana perché ripristina la salute, etc.). Tutte queste istanze di sanità appartengono evidentemente a generi diversi, e non ci sarebbe modo di ricondurre l'uomo, la medicina, la dieta, a un genere comune. Da un certo punto di vista si potrebbe dunque dire che 'sano' è un omonimo. Omonimi sono infatti, secondo la definizione del trattato sulle categorie, enti che vengono indicati con uno stesso nome, ma la cui definizione del nome è diversa; 'leone' è ad esempio sia l'animale sia il segno zodiacale, ma all'esser leone di ciascuno di essi corrisponde una definizione diversa; il leone come animale e il leone come costellazione appartengono evidentemente a generi diversi. Eppure è evidente che, per quanto riguarda il sano, non può neppure trattarsi di semplice omonimia, perché è facile avvertire che c'è qualcosa di comune a tutti questi casi; questo elemento comune è dato dal riferimento a un termine comune, la salute, che ha in tutti i casi il medesimo significato. La salute goduta dalla persona, ripristinata dalla medicina, conservata dalla dieta è la medesima in tutti i casi. Nel caso dell'essere questo riferimento unico è dato dalla ousia, dalla sostanza. Le cose che sono si dicono, appunto, enti, in molteplici modi, ma tutti in riferimento alla ousia, alcuni di essi si dicono enti perché sono sostanze, altre perché sono affezioni della sostanza, altri ancora perché sono cause produttrici della sostanza, e così di seguito. La scienza dell'essere diviene così scienza della sostanza, che è l'oggetto eminente di indagine da parte del filosofo. Questa scienza dovrà dunque studiare l'essere in quanto essere, cioè l'essere di ciascuna cosa in quanto tale cosa è, e non in quanto è una determinata cosa (che è invece l'aspetto per cui le singole cose sono oggetto delle scienze particolari); di un triangolo, di un uomo, di Dio, del verde che è in un albero, diciamo indifferentemente che essi 'sono' (l'essere è il predicato più universale): lo facciamo allo stesso titolo, sono tutti allo stesso modo? E qual è la causa del loro essere? Questa scienza si occuperà inoltre delle nozioni che competono alle cose che sono in quanto sono, e non in quanto sono certe cose particolari; tali nozioni sono l'identico, il simile, l'uguale e i loro contrari, nonché la stessa nozione di contrarietà. Diciamo infatti che un uomo, una figura geometrica, un oggetto sono ad es. simili a un altro uomo, etc. Questo esser simili compete alle cose in questione non in quanto sono un uomo, un triangolo, etc., ma appunto in quanto sono. Non abbiamo in tempo di continuare questa indagine, che comporterebbe una trattazione completa del concetto aristotelico di ousia e una panoramica generale sulla Metafisica di Aristotele. Basti per ora aver indicato le linee fondamentali dello sviluppo della ontologia greca, dalla nascita del problema dell'essere in Parmenide al costituirsi di una scienza specificamente rivolta all'essere come tale.
Il termine greco che solitamente corrisponde al nostro anima è psychè . psychè viene generalmente fatto derivare da psychein, soffiare, e il latino anima si può avvicinare al greco anemos , che significa vento, soffio. In seguito la componente immateriale dell'uomo sarà infatti designata anche con il termine spiritus, soffio (cfr. spirare). Si potrebbe dunque pensare a una corrispondenza indolore tra il nostro concetto di anima e il greco psychè , ma le cose non stanno propriamente così. Per anima noi intendiamo generalmente un principio superiore pensato in opposizione al corpo, indipendente da esso, capace di dirigerlo durante la vita e di sopravvivergli; nell'anima risiede il 'sé' della persona, la sua personalità per l'appunto. La psychè nel mondo greco antico non è nulla di tutto questo; ma non è solo questo il punto importante. Più radicalmente, si può dire che nel pensiero arcaico non c’è un'entità specifica che corrisponda all'anima così intesa, e che solo a un dato momento giunge a formazione una simile nozione di anima (pur con tutte le differenze che si possono riscontrare nelle varie concezioni dell'anima). Questo momento può essere storicamente individuato in Platone, ma ciò non significa naturalmente che il concetto di anima della tradizione occidentale e cristiana coincida simpliciter con quello platonico; anche chi ha una conoscenza superficiale della psicologia platonica sa che per Platone l'anima rappresenta un'entità composta di tre parti, o aspetti (anima razionale, concupiscibile, irascibile), ciascuna delle quali svolge ben precise funzioni. Nonostante le ovvie differenze, si potrebbe sostenere che Platone è comunque più vicino alla nostra concezione in quanto concepisce l'anima come un'entità sostanziale, qualcosa a cui sono riconducibili le capacità razionali, i sentimenti, le passioni, definibili per l'appunto come stati d'animo. E ancora, chi crede nell'esistenza dell'anima la considera generalmente immortale, così come Platone, e ritiene anche che nell'anima risieda il vero io dell'uomo (a proposito di Platone questo è un punto più discusso, come accenneremo; vi sono comunque dialoghi, come il Fedone e l'Alcibiade primo, dove questa tesi è affermata con nettezza). Fa ugualmente parte di questa concezione comune l'idea che gli animali non abbiano un'anima, anche se 'animale' deriva evidentemente da anima e animale è ciò che è animato, dunque in origine possiede anima (cioè, come vedremo, vita). In questo senso Platone rappresenta una tappa fondamentale per la concezione occidentale dell'anima: il punto determinante della sua elaborazione è l'idea che esista nell'uomo un'entità centrale che governa l'insieme della vita per l'appunto psichica, un'entità che coordina una molteplicità di funzioni, benché ognuna di esse possa essere svolta da una parte specifica. Anima razionale, irascibile, appetitiva hanno appunto in comune il fatto di essere tutte "anime", e questo è già un elemento di notevole importanza. Siamo partiti da Platone, perché, come accennavamo, egli è, nonostante le ovvie differenze, più vicino alle nostre concezioni. Dobbiamo però essere consapevoli che la dottrina platonica dell'anima rappresenta già uno stadio avanzato e che essa viene elaborata in consapevole opposizione a concezioni precedenti. E' perciò necessario partire da molto più lontano.
Il documento più antico e più importante a questo proposito si trova, per quanto riguarda la civiltà greca, nei poemi omerici. In essi non si trova ovviamente una 'teoria' filosofica dell'anima, ma la descrizione dei più differenti stati psichici, con la relativa terminologia, offre indicazioni importantissime sul modo di vedere dell'epoca. Si deve aggiungere che le descrizioni omeriche probabilmente rappresentano in modo fedele le concezioni dell'epoca, perché in Omero non si trova mai (a differenza che nei tragici e nei poeti posteriori) il segno di una polemica contro le opinioni correnti e generalmente diffuse.
Come dicevamo, psychè viene fatto derivare da psychein , soffiare, e questa connessione era già stata operata nell'antichità. Una testimonianza in questo senso si trova nel Cratilo di Platone (399d1-e3):
ERMOGENE Una cosa mi pare venga senz'altro subito dopo queste. Infatti, proprie dell'uomo noi diciamo la psychè (anima) e il sòma (corpo)
SOCRATE E come no?
ERM. Proviamo allora ad analizzare anche questi nomi come i precedenti.
SOCR. Intendi dire di esaminare la psychè, come appropriatamente gli è toccato questo nome, e poi a sua volta il sòma.
ERM. Sì
SOCR. Dunque, per dirla sul momento, penso che coloro che hanno dato tale nome alla psychè pensassero qualcosa del genere, e cioè che essa, quando è presente nel corpo, è causa della vita per esso, fornendogli la capacità di respirare e anapsychon (rinfrescandolo); ma, non appena vien meno l' anapsychon , il corpo va in rovina e muore; perciò, appunto, mi pare che l'abbiano chiamata psychè.… (trad. F. Aronadio)
Evidente è qui la connessione tra vita, anima e respirazione: l'anima è il respiro, che è il segno più evidente della vita, come la cessazione del respiro è il segno della morte.
Psychè , dunque, come suggerisce l’etimologia, indicava probabilmente in origine il respiro, ma anche nei testi più antichi a nostra disposizione il termine è già passato a significare, piuttosto, quell’entità che ‘anima’ il corpo. La semplice osservazione della differenza tra un essere che è in vita e uno morto portava naturalmente ad ammettere nel primo la presenza di qualcosa che è assente nel secondo.
Quello che si osserva è un complesso di funzioni, una condizione, l’essere in vita, e ben presto quel che si ritiene essere la causa di questa condizione acquista una sostanzialità autonoma.
In alcuni brani omerici il termine potrebbe ancora essere tradotto con ‘respiro’ (Od. XIV 26), ma in altri è evidente che psychè indica già un’entità in qualche modo esistente (infra: la p. se ne va all’Ade, e e non è solo ‘respiro’). C’è dunque, com’è facile immaginare, una serie di occasioni /occorrenze ambigue in cui il termine potrebbe essere reso da entrambi (vita e anima)
Questo fenomeno è descritto più volte nei poemi omerici. Nella nékyia (evocazione di morti) così parla a Ulisse sua madre:
"…questa è la sorte degli uomini, quando uno muore:
i nervi non reggono più l'ossa e la carne,
ma la forza gagliarda del fuoco fiammante
li annienta, dopo che l'ossa bianche ha lasciato la vita;
e l'anima (psychè), come un sogno fuggendone, vaga volando."
(Odissea XI 218-22, trad. R. Calzecchi Onesti)
Ed ecco come è descritta la morte di Patroclo a opera di Ettore:
" Mentre parlava così la morte l'avvolse,
la vita volò via dalle membra e scese nell'Ade,
piangendo il suo destino, lasciando la giovinezza e il vigore"
(Iliade, XVI 855-7)
Va fatto notare che il termine qui tradotto con "vita" è appunto il greco psychè: la morte è un uscir dal corpo della psyche; talvolta è addirittura indicata la via di uscita, che è la bocca (non a caso la via attraverso la quale passa il respiro), o in altri casi una ferita:
"…ma la vita (psychè) di un uomo, perché torni indietro, rapir non la puoi
e nemmeno afferrare, quando ha passato la siepe dei denti."
(Iliade, IX 408-9)
Traiamo alcune prime conclusioni dalla lettura di questi passi: la prima è che la psychè è in qualche modo principio vitale (l'anima, per l'appunto, 'anima' l'uomo, la vita dura sino a che c'è la psychè, e perciò in questi contesti psychè può essere tradotto con 'vita'),
ma non ha niente a che vedere con l'attività senziente e pensante, cioè con il complesso di attività e funzioni che in seguito verranno attribuite all'anima. Possiamo chiederci in secondo luogo che cosa ne sia della psychè che abbandona il corpo; abbiamo letto che essa scende nell'Ade e in effetti Ulisse nel suo viaggio nell'oltretomba incontra anime di morti e discorre con loro. Questo potrebbe far pensare a una sorta di immortalità dell'anima, analoga a quella della tradizione occidentale e cristiana. Nel mondo omerico la situazione è però diversa; vediamo più da vicino cosa succede a Ulisse nell'Ade (Odissea XI 23 ss.): Ulisse, per evocare le anime dei morti, compie alcuni rituali: scava una fossa e la riempie con libagioni di miele, latte, vino, acqua, poi vi sparge della farina; la parte più importante dell'operazione sta però nello sgozzare alcuni animali, dai quali sgorga sangue nero fumante; a questo punto si affollano le anime dei morti, simili a ombre o spettri, desiderose di bere quel sangue. Soltanto quando hanno bevuto il sangue esse possono parlare con Ulisse: l'indovino Tiresia, anch'egli emerso questa folla di anime, che è però l'unico al quale Persefone ha concesso di conservare la mente (nous) da morto (X 494-5), dice ad Ulisse, il quale vuole parlare con sua madre, che chi berrà il sangue dirà cose vere, chi ne sarà impedito dovrà tornare indietro. A questo punto la madre di Ulisse beve il sangue e riconosce suo figlio, cominciando a parlargli. Quando Ulisse tenta di abbracciarla (vv. 204 ss.) la psychè della madre vola via, "simile a ombra o sogno".
Tutto ciò ci offre indicazioni importanti: la psychè sopravvive sì dopo la morte, ma ciò che sopravvive è privo di vigore, di energia vitale, più in generale di qualsiasi funzione intellettiva, dall'attività pensante e cosciente alla volontà. Le anime devono infatti bere sangue poter riacquistare temporaneamente le funzioni vitali; altrimenti esse sono solo immagini (eidola) del morto; ombre (skiai) prive di mente (Odissea X 494-5). Vediamo ancora come è descritto nell'Iliade l'incontro tra Achille e l'anima del suo amico Patroclo, che lo visita in sogno:
"Ed ecco a lui venne l'anima del misero Patroclo,
gli somigliava in tutto, grandezza, occhi belli,
voce, e vesti uguali vestiva sul corpo;
gli stette sopra la testa e gli parlò parola”
(Iliade XXIII 65-8)
Patroclo implora Achille perché lo seppellisca, altrimenti non potrà arrivare all'Ade. Achille cerca di abbracciarlo, ma la psychè di Patroclo si ritrae:
"Tese le braccia, parlando così,
ma non l'afferrò: l'anima come fumo sotto la terra
sparì stridendo; saltò su Achille, stupito,
battè le mani insieme e disse mesta parola:
"Ah! c'è dunque, anche nella dimora dell'Ade,
un'ombra, un fantasma, ma dentro non c'è più la mente"
(XXIII 99-104)
L'anima del morto è un fumo (kapnòs), un'ombra (skià), un'immagine (èidolon, qualcosa che ha un eidos, un aspetto visibile, in tutto e per tutto somigliante alla persona quando era in vita), ma in essa non ci sono i phrenes, un termine che secondo molti significa il diaframma (i polmoni, secondo altri), la membrana che separa il torace dall'addome, ma che indica comunque ciò in cui risiedono le facoltà mentali e il pensiero. Tutto questo fa dell'Ade e della vita ultramondana qualcosa di ripugnante e raccapricciante, inviso agli stessi dei; l'esistenza post mortem è un simulacro di vita, qualcosa di depotenziato e di inane. Teniamo a mente questa concezione, perché come vedremo sarà indispensabile averla ben presente per comprendere Platone. Andrebbe anche ricordato che un abbandono del corpo si ha anche quando si sviene, che insomma questo abbandono del corpo da parte della psychè può essere provvisorio e definitivo.
Come ha notato Bruno Snell, nei poemi omerici non ci viene detto nulla sulla psychè durante la vita; non sappiamo se e in quale organo risieda o come essa funzioni. In ogni caso essa sembra avere una funzione bene precisa, ancorché limitata rispetto a quel che la successiva tradizione attribuirà all'anima. Va notato a questo proposito un punto importantissimo, e cioè che nei poemi omerici le varie funzioni della vita che noi diremmo psichica sono svolte da organi diversi, indipendenti l'uno dall'altro, e inoltre che si tratta di organi fisici. La psyche è solo uno tra questi. Parlando in generale, si può dire che non c'è un'unità, un centro della vita psichica.
Quali sono allora in Omero gli organi deputati a svolgere queste funzioni? Ce ne sono diversi e forse può sorprendere che non siano identificabili con sicurezza i rapporti tra organi e funzioni, né, in alcuni casi, è certo se un termine designi un organo o una funzione; gli studiosi hanno molto dibattuto e mostrano ancora opinioni discordi. Un termine chiave, che ci interesserà molto sempre in relazione a Platone, è thymòs. Thymòs in Platone è il termine che designa l'anima solitamente chiamata 'irascibile', ma ovviamente dobbiamo risalire molto più indietro per comprenderne il significato. Si tratta di un termine che è stato definito intraducibile. Sempre secondo l'etimologia platonica del Cratilo thymòs viene da thysis (smania) e dalla zesis, il ribollire (dell'anima). In Omero thymòs può essere definito "quell'organo dell'anima che fa sorgere le emozioni" (Snell); queste emozioni sono di vario tipo: gioia, piacere, ira, pietà; in alcuni casi, però, il thymòs ha a che fare anche con la conoscenza, con l'attività pensante. Ma sede di emozioni è anche il cuore (ker, kradìe), come lo sono i phrenes. Thymòs è qualcosa di vaporoso (thymiào significa mandare esalazioni), da avvicinarsi a fumus. Secondo alcuni si tratta dell'esalazione prodotta dall'evaporazione del sangue caldo (ricordiamo che nel Fedone (96b) Socrate cita, tra le teorie dei predecessori, quella secondo cui ciò con cui pensiamo è il sangue: "Esaminavo problemi come questi: se ciò con cui pensiamo è aria sangue o fuoco oppure cervello".
Potremmo tradurre thymòs con 'spirito' nel senso di 'energia spirituale', come quando diciamo che un uomo è forte di spirito. Essere athymos significa infatti essere "sfinito, avvilito" (Odissea X 463). Quando Ulisse è prigioniero di Circe e si addolora perché i suoi compagni sono stati trasformati in porci, rifiutandosi di mangiare, Circe gli chiede perché rifiuti il cibo e invece "si mangi il thymòs, tradotto da alcuni con 'cuore'. Chi si tormenta o si affligge si può dire che 'consumi' il suo thymòs.
Quanto alla sede del thymòs, in Omero si dice spesso che il thymos è nei phrenes, ma si indica anche il petto (stethos) come luogo correlato. In ogni caso non rientra tra i nostri scopi approfondire questi aspetti; quello che interessa mettere in luce è che il thymòs gioca una parte importantissima nella vita spirituale dell'uomo, a cavallo tra i sentimenti e i pensieri, il cuore e l'intelletto; a differenza della psyche, esso è relato in modo rilevante all'attività di pensare e sentire. Si deve allora dire che pensiamo con l'aria nei polmoni? Apparentemente ciò è assurdo, ma leggiamo come Penelope descrive il suo famoso stratagemma della tela:
" E prima un manto mi ispirò in cuore un dio, ordita nelle mie stanze un gran tela, di tessere" (Odissea XIX 138-9)
Questa traduzione è, come non potrebbe non essere, letteraria, non letterale. Alla lettera Penelope dice "Un dio soffiò dentro i miei phrenes che dovessi tessere, etc.". I pensieri sono qualcosa che viene soffiato dentro. Il greco pepnysthai (la cui più ovvia derivazione è da pnein, soffiare, nonostante autorevoli pareri contrari) significa esser saggio, sapere, conoscere. Lo spirito in seguito (pensiamo a Paolo di Tarso) sarà detto pneuma. Anche noi parliamo di "ispirazione", benchè dal nostro punto di vista sia più facile capire l'associazione con le emozioni: il respiro, infatti, è immediatamente affetto dalle emozioni; pensiamo all'affanno, alla paura mozzafiato, al respiro di sollievo. Questi sono dati immediati, che comprensibilmente influenzano profondamente le concezioni arcaiche.
Un altro termine chiave dell'attività psichica è nòos, nous, che viene in seguito a indicare mente, intelletto, intelligenza. Una sua funzione specifica alle origini può essere individuata nella produzione di immagini; il noos può essere inteso come quell'organo che suscita le rappresentazioni, quasi un occhio spirituale che vede con chiarezza (Snell); dal punto di vista funzionale avere noos significa avere idee chiare, corretto intendimento. In origine noos non sembra indicare un organo permanente del corpo, benchè anche di esso si parli in relazione al petto. Anche questo aspetto non è possibile apporofondirlo troppo. Ma il punto più importante che emerge da questa rapida panoramica è che queste parti svolgono le loro funzioni indipendentemente l'una dall'altra; si tratta di organi separati, e non c'è nessun indizio tale da far pensare che esse siano riconducibili a un'unità superiore; questi organi, inoltre, sono corporei o comunque, quando si tratta di funzioni, sono riconducibili a fenomeni corporei. A Omero, in definitiva, è ignota una unità dell'anima, né è reperibile un termine che designi questo qualcosa; abbiamo visto che il termine che poi verrà a svolgere questa funzione, psychè, in origine ha una funzione specifica ben precisa. Lo stesso discorso potrebbe svolgersi per il corpo; ma qui basterà accennare brevemente al fatto che in Omero il termine che avrà in seguito il significato di 'corpo', cioè soma, non è mai riferito ai viventi, ma soltanto ai morti, e significa appunto 'cadavere'; quello che noi chiameremmo 'corpo' è generalmente designato come 'membra e muscoli'; anche il corpo, in altre parole, è concepito come una pluralità più che come un'unità organica. Ciò si riflette anche nelle raffigurazioni dell'arte arcaica, dove il corpo è un insieme di membra, ed è stato dimostrato che in origine il corpo veniva raffigurato mettendo insieme e giustapponendo le singole parti piuttosto che individuando un centro di irradiazione.
Ora è importante chiedersi: quando, per la prima volta, si può parlare di un concetto di anima analogo a quello della tradizione occidentale? Anima, cioè, come entità unitaria e organica, articolata in varie funzioni che nel loro insieme costituiscono il complesso di quella che chiameremmo appunto vita psichica. L'evoluzione è difficile da seguire, per la scarsità di documentazione. Secondo alcuni, come vedremo subito, accenni a questa nuova concezione dell'anima come un'entità 'spirituale' si trova per la prima volta in Eraclito, ma vedremo anche che questa ipotesi comporta problemi. Un dato certo è comunque che sarà proprio il termine psychè quello che verrà a indicare questa entità, e ciò può apparire abbastanza sorprendente, alla luce di quello che abbiamo visto: perché proprio il termine che designa l'anima del morto viene a un certo momento a significare l'anima in generale?
Metempsicosi Una concezione diversa da quella omerica, che a un dato momento si trova a interagire, non senza problemi, con essa, è quella che troviamo nel pitagorismo. In questo caso i problemi relativi all'attendibilità delle testimonianze sono enormi. In via generalissima, accontentiamoci di dire che la maggioranza delle testimonianze sul pitagorismo antico sono scarsamente attendibili e rappresentano il frutto di retroproiezioni sul pitagorismo di dottrine elaborate ben più tardi. Questo fenomeno inizia molto presto, nell'Accademia di Platone, e si amplifica grazie anche all'assenza di scritti pitagorici (Pitagora, come sappiamo, non aveva scritto nulla), che talvolta vengono in seguito ricreati ex nihilo (il numero di falsi pitagorici è, nell'antichità, impressionante, e solo una parte ce ne è pervenuta). Si può comunque affermare (con buona pace di alcuni studiosi contemporanei, che hanno negato anche questo) che, tra le tante dottrine attribuite a Pitagora e ai pitagorici antichi, una è sicuramente ad essi ascrivibile, ed è la dottrina della metempsicosi, o palingenesi, o trasmigrazione delle anime. 'Metempsicosi' deriva dal greco metà, dopo ed empsychoo, che significa 'animare': un'anima al termine della vita abbandona il corpo e passa ad animarne un altro, rigenerandosi (palin, di nuovo, genesis, nascita). Ma è forse meglio fare parlare un testimone antico, Erodoto, il quale riferisce che:
"Gli egizi sono coloro che per primi hanno sostenuto questa idea, che l'anima dell'uomo è immortale,e e che alla distruzione del corpo penetra in un altro vivente di quelli che nascono continuamente, e quando li ha passati tutti, terrestri, marini, volatili, penetra nuovamente nel corpo nascente dell'uomo, e questo ciclo avviene in tremila anni. Vi furono alcuni tra i Greci che, alcuni prima, altri dopo, sostennero questa dottrina, come fosse loro propria; di costoro so i nomi, ma non li scrivo" (Erodoto II 123)
In generale si è più propensi a individuare le origini di questa dottrina in India piuttosto che in Egitto, ma questo ora ci interessa relativamente. Possiamo anche dare per dimostrato che Erodoto quantomeno includa anche Pitagora tra i sostenitori della dottrina. Le testimonianze in proposito si potrebbero moltiplicare, ma qui è sufficiente richiamare l'attenzione su un fatto importante: nelle dottrine che sostengono la metempsicosi la sopravvivenza post mortem non ha generalmente (fate salve, naturalmente, le incarnazioni in corpi di esseri inferiori) la forma dimidiata e depotenziata che avevamo visto in Omero; l'anima sembra qualcosa di ben più consistente della psyche omerica. E' in ogni caso possibile un'esistenza beata, felice dell'anima, che essa può conseguire al termine del suo ciclo di incarnazioni. Tra le dottrine pitagoriche, altrimenti difficili da ricostruire, aveva certamente posto una dottrina del destino dell'anima nell'aldilà, che prevedeva premi o punizioni in conseguenza del comportamento tenuto in vita. Questo ci rimanda al complesso dei problemi relativi ai rapporti tra Pitagorismo e un altro famoso movimento religioso dell'antichità, l'Orfismo.
Dicevamo prima che secondo alcuni la nuova concezione dell'anima si trova per la prima volta in Eraclito. Si ritiene che con Eraclito per la prima volta sia posta una distinzione precisa tra corpo e anima; o ancor meglio, si pensa di poter individuare in Eraclito l'idea che nell'uomo ci sia qualcosa di spirituale, un'entità come l'anima distinta dai suoi organi fisici. Non si tratta ovviamente di una verità incontrovertibile, data la scarsezza di fonti e l'oscurità proverbiale di questo pensatore, nonché la stessa tipologia del problema. Può essere facile dire chi ha inventato la bussola, meno facile è parlare di una 'scoperta della coscienza' o individuare un momento preciso in cui un determinato termine viene a significare una cosa piuttosto che un'altra.
Si attribuisce comunque importanza, a questo proposito, al frammento B45:
"I confini dell'anima (psychès peirata) non li potrai trovare, quando pur li cercassi per ogni via, tanto profondo è il suo logos"
Eraclito avrebbe con ciò scoperto la dimensione della profondità dell'anima, quando afferma che il suo logos è profondo. La profondità è infatti una caratteristica tipica della dimensione spirituale, non misurabile quantitativamente; possiamo dire che una persona ha un'intelligenza profonda, non che ha una mano profonda o simili. Questa caratteristica sottolinea, secondo questa interpretazione, l’attribuzione dell'anima a un mondo spirituale, distinto da quello fisico, tanto è vero che l'anima (a differenza di ciò che è corporeo), non ha confini. Come accennavo, tuttavia, questo frammento ammette anche altre interpretazioni, che ora non abbiamo modo di esaminare. Ricordiamo solo la testimonianza di Aristotele secondo cui l'anima per Eraclito è principio, in quanto esalazione (anathymiasis) da cui tutte le altre cose sono costituite. Dunque l'anima è aerea e l'idea che non abbia confini potrebbe alludere al fatto che essa, in quanto eterea, si innalza dalla terra al cielo, e come l'etere, non ammette l'imposizione di un limite.
Vediamo ancora il frammento B107:
"Occhi e orecchi sono cattivi testimoni per gli uomini che abbiano anime barbare"
Qualunque cosa significhi "anime barbare" (ricordiamo che 'barbari' sono coloro che non parlano greco; dunque presumibilmente anime barbare sono anime incapaci di intendere) sembra chiaro che ora la psyche è strettamente relata alla funzione del comprendere, dunque a una funzione intellettuale.
Vediamo ancora B 117:
"Quando un uomo è ubriaco, è condotto da un fanciullo imberbe, barcollando, senza capire in che direzione va, dal momento che ha l'anima umida (hygren psychen)"
Analogamente, il frammento B 118 recita:
"L'anima asciutta è sapientissima ed eccellente" (aue psychè sophotàte kai arìste)
Questi due frammenti indicano che la psychè è soggetto di qualità intellettuali, cosa impensabile, come abbiamo visto, in Omero. Si può dunque dire, in generale, che al tempo di Eraclito la psyche ha cessato di essere solo il principio vitale e ha usurpato molte funzioni del thymos omerico; in essa, come in una singola entità, sono ora unite la vita e la coscienza, che prima erano divise, la psyche nella testa, il thymos nel petto. Il thymòs rimane la sede delle emozioni forti e irrazionali, quali l'ira e desiderio, mentre il noos (nous), non è molto cambiato; quando il termine compare nei frammenti, esso indica l' intelligenza, i retti sensi (es. B40; B114; B104). Questo senso lato di psychè si ritrova anche in alcuni lirici del V° secolo, quali Pindaro e Bacchilide. Il processo descritto giunge a compimento, trovando una compiuta formulazione teorica, con Platone.
Platone segna un punto di svolta identificabile con certezza, forse anche perché è il primo autore di cui ci sono rimaste tutte le opere. Egli formula comunque con piena consapevolezza una dottrina filosofica dell'anima. Sono molti i dialoghi importanti per la formulazione di questa teoria, che forse è riconducibile a una certa unitarietà, anche se apparentemente possono riscontrarsi discrepanze tra dialogo e dialogo. Essi sono il Fedone, il Fedro, la Repubblica, per l'anima individuale, il Timeo e le Leggi per l'anima del mondo. Qui potremo occuparci brevemente solo dei primi tre. Possiamo dire, in prima approssimazione, che il maggior elemento di apparente contrasto sta nel fatto che nel Fedone l'anima è detta essere di natura semplice, mentre nel Fedro e nella Repubblica l'anima appare un'entità complessa, composta di parti distinte. Vedremo anche quali sono le principali posizioni degli studiosi circa questa discrepanza, apparente o reale che sia.
Partiamo però dall' Apologia, dove Socrate aveva professato una forma di agnosticismo circa il destino dell'anima nell'aldilà e la sua immortalità, prospettando due alternative: o la morte è un sonno senza sogni, oppure un passaggio dell'anima da questo a un altro luogo (metòikesis te psyche, 40d), una migrazione (apodemèsai, 40e); in questo altro luogo Socrate dice che sarà possibile continuare a vivere esaminando e indagando (exetazein) i personaggi celebri del passato per vedere chi di loro è saggio e chi no, facendo loro domande e dialogando con essi. In entrambi i casi la morte sarà un guadagno. Nel Fedone, conversazione tenuta con i suoi amici prima della sua morte, Socrate dimostra invece, lungo l'intero corso del dialogo e con argomenti sempre nuovi, l'immortalità dell'anima. Molti studiosi sono convinti che l' Apologia sia una testimonianza attendibile della concezione di Socrate, altri ritengono che comunque Platone, quando scrive l' Apologia, sia già convinto della seconda alternativa ; in ogni caso nessuno attribuirebbe più (come fecero a suo tempo J. Burnet e A.E. Taylor) a Socrate le dottrine del Fedone. Nel Fedone, infatti, si cerca di dimostrare non solo la sopravvivenza dell'anima al corpo, ma anche la sua immortalità, proprio nella forma di un passaggio ad un altro luogo.
Per capire il Fedone è necessario fare riferimento alle concezioni omeriche viste in precedenza, ma anche a quelle orfiche e pitagoriche, che come abbiamo visto rapidamente, sono del tutto diverse. Il Fedone è un dialogo dedicato, come si diceva, alla dimostrazione dell'immortalità. Dall'immortalità dell'anima discende un'idea importantissima, che il Socrate dei dialoghi professa a più riprese: quella della necessità di una cura dell'anima; Socrate già nell' Apologia aveva affermato che il suo maggiore interesse in vita era stato quello di convincere i cittadini della necessità di prendersi cura della propria anima; questa idea viene ribadita nel Fedone, perché, come si dice al termine del dialogo, sarebbe una grande fortuna per i malvagi liberarsi, morendo, non solo del corpo, ma anche delll'ingiustizia che risiede nella loro anima (107c). Tutto questo presuppone un tipo di sopravvivenza affatto diversa da quella, sbiadita e dimidiata, che si trova nella concezione omerica. Residui di questa concezione si trovano anche in alcuni passaggi del Fedone: vediamo quali dubbi esprime uno degli interlocutori, Cebete, circa la sopravvivenza dell'anima:
" "O Socrate, quanto al resto pare a me che si dica bene, ma quanto all'anima c'è negli uomini molta incredulità: perché temono che, quand'ella si sia distaccata dal corpo, non esist più in nessun luogo, e si guasti e perisca il giorno stesso in cui l'uomo muore; temono cioè che, nell'atto medesimo in cui ella si distacca dal corpo e ne esce, subito come soffio o fumo (pneuma, kapnòs) si dissipi e voli via, e così cessi dall'esistere del tutto…Ma questo appunto, mi sembra, è ciò che bisogna di non piccola conferma e dimostrazione: e cioè, primo, che l'anima seguita ad esistere pur quando l'uomo è morto; secondo, che ella conserva potere e intelligenza (dynamis, phronesis)"
(Fedone, 70 a-b, trad. Valgimigli)
Riconosciamo qui alcuni motivi della concezione omerica: l'anima come soffio o fumo, che potrebbe sopravvivere priva di intelligenza e facoltà vitali (questa ipotesi è espressamente contemplata da Cebete). Ma qui vediamo anche i segni di uno scetticismo ancor più radicale, che esprime l'incredulità nel'esistenza dell'anima in qualsiasi forma. Questo scetticismo rappresenta un altro versante, potremmo dire più 'scientifico' delle concezioni dell'anima professate all'epoca; a un certo punto del dialogo l'altro interlocutore principale, Simmia, espone una teoria secondo cui la natura dell'anima potrebbe consistere nell'essere un principio di armonizzazione e coesione di elementi materiali o qualità, semplicemente una loro mescolanza; l'anima per esistere deve presupporre l'esistenza di tali elementi e viene meno quando elementi esterni intaccano l'equilibrio presente e portano alla morte del corpo (*cfr. Phaedo 85e sgg.)
L'origine di questa teoria, formulata in modo abbastanza generico, è difficile da determinare; è però probabile che essa provenga da ambienti medici; certamente doveva essere molto diffusa: Simmia stesso, infatti, asserisce (92d) che essa appare vera ai più, e anche Echecrate, l'interlocutore del dialogo recitato, sembra aderirvi, dicendo che l'idea dell'anima-armonia lo attrae e lo cattura da sempre. Ora, il problema è che agli occhi di Platone questo scetticismo fa venire meno il deterrente, rispetto all'agire immorale, costituito dalla possibilità di castighi futuri e rende vana la necessità di prendersi cura della propria anima. Nel mondo omerico l'Ade è raccapricciante per tutti, nella concezione 'scettica' l'Ade semplicemente non esiste; di qui la possibilità di comportarsi in vita come si vuole (almeno se non si è in grado di comprendere la fondazione autonoma della morale che Platone propone in dialoghi quali il Gorgia, e secondo la quale, in una prospettiva che sarà ripresa dagli stoici, il vizio e la virtù sono castighi e premi a se stessi). Mentre, una volta dimostrata l'immortalità, sarà chiaro che solo il comportamento virtuoso può garantire la salvezza dai mali futuri. Una conferma del fatto che Platone vedesse un pericolo nella concezione omerica si trova con grande chiarezza nella Repubblica, dove i poemi omerici sono citati espressamente (*Resp. 386a-387b): le concezioni omeriche vanno avversate perché il loro aldilà vuoto e inane incuterebbe ai futuri guardiani la paura della morte; questo spiega anche, in gran parte, la ben nota condanna, da parte di Platone, della poesia tradizionale.
D'altro canto nei culti misterici e in quel filone di religiosità che abbiamo definito orfico e pitagorico, era diffusa l'idea di una sopravvivenza dell'anima, con la raffigurazione di un aldilà in cui vengono dispensati premi e pene a secondo del comportamento tenuto dagli uomini in vita. Anche verso queste concezioni, però (o almeno verso alcune loro degenerazioni), Platone è fortemente critico; in particolare egli prende posizione contro un certo lassismo delle concezione escatologiche dell'epoca e dei riti religiosi iniziatici, che promettono la salvezza dell'anima grazie al mero adempimento di pratiche cultuali *(Resp. 363e5-366b3): una sorta di 'scandalo delle indulgenze' ante litteram.
Platone ha dunque di mira un triplice bersaglio, sia la religiosità omerica, che rappresenta l'Ade come qualcosa di negativo e induce dunque sconforto, sia lo scetticismo sul versante scientifico, sia la religiosità misterica, nella quale l'idea di una corrispondenza tra il comportamento tenuto in vita e le pene (o i premi) nell'aldilà è messa in pericolo dalla facilità con cui si possono conquistare le indulgenze. Di qui la necessità di una dimostrazione persuasiva dell'immortalità. Ma, quasi contravvenendo a una sua stessa indicazione metodologica (secondo cui è impossibile dire quale una cosa è se non si sa prima che cosa essa sia), Platone nel Fedone non tratta in primo luogo della natura dell'anima e si preoccupa di dimostrarne l'immortalità prima di aver definito cosa essa sia. Ciò nonostante, è inevitabile che alcune indicazioni in proposito non possano non emergere dal dialogo. Nel cosiddetto argomento dell'affinità (78b-81a) la natura dell'anima, della quale si sottolinea l'affinità con le idee, emerge come qualcosa di divino, indissolubile, e soprattutto, semplice e monoforme (monoeides), non-composto (asyntheton) e dunque non soggetto a dissoluzione. Da questa idea discende la necessità per l'anima di ricongiungersi con ciò che è ad essa affine, le idee; ciò avviene solo quando l'anima ritrova la sua semplicità, cioè quando si distacca dal corpo e si ritrae in se stessa. Questo può parzialmente avvenire in vita, ma solo dopo la morte si può avere la perfetta realizzazione di questa separazione, quando l'anima potrà contemplare le idee senza l'impedimento costituito dal corpo, quando cioè raggiungerà la vera phronesis (Phaedo 79d)
Nel Fedone è in primo piano l'attributo della semplicità, che comporta anche un'opposizione per così dire frontale tra anima e corpo, psyche e soma: nell'anima consiste il vero 'sé' dell'uomo, mentre il corpo è un elemento negativo, qualcosa da cui liberarsi è un bene, almeno per chi abbia vissuto giustamente; questo è anche il principale argomento consolatorio offerto da Socrate. Ora, l'attributo della semplicità è problematico perché apparentemente incompatibile con la nota tripartizione di Repubblica e Fedro, che possiamo vedere più da vicino.
Nel IV libro della Repubblica viene posto un problema fondamentale: è un unico principio quello con cui impariamo (manthanein) proviamo impeti d'animo (thymoo) e desideriamo i piaceri corporei (del sesso e del ventre); in altri termini, è l'anima tutta intera che ci fa agire in tal senso per ciascuno di questi tipi d'azione, oppure ci sono nell'uomo tre principi distinti? (*Resp.436a sgg.) L'argomento svolto da Platone tende a mostrare che nell'uomo vi sono più principi; ciò è suggerito dall'osservazione che, in presenza ad esempio di desideri corporei, c'è talvolta qualcosa che tira l'anima in senso opposto rispetto a ciò che la spinge, come una bestia, a bere; talvolta abbiamo sete, ma non beviamo perché sappiamo che ci farà male. Ora, poiché uno stesso elemento non può volere o compiere azioni opposte nello stesso tempo rispetto al medesimo oggetto, si dovrà ammettere che esistono nell'anima due elementi diversi; quello che desidera e quello che impedisce; quest'ultimo si origina dalla ragione (logismos, ragionamento) cfr. 439d4 ss.. Esiste poi un terzo elemento, quello dell'animo (thymos, per il quale 'siamo animosi? (thymoumetha). Socrate narra a questo proposito l' episodio di Leone, che, in un misto di attrazione e repulsione che tutti avremo provato in casi analoghi, è incerto se andare a osservare di persona alcuni cadaveri che giacciono vicino alle mura. Alla fine cede al desiderio e, in seguito alla repulsione provata, rimprovera con sdegno sé stesso e i propri occhi. A questo sdegno presiede una terza parte dell'anima, non identificabile né con la ragione che frenava, né con il desiderio che incitava alla visione. L'anima irascibile, o animosa (thymoeides) è il principio di quel moto che chiamiamo "collera" (orghè); ci arrabbiamo quando pensiamo di aver subito un torto e vogliamo in qualche modo vendicarci; ma anche quando cediamo a qualche desiderio di troppo può capitare che ci arrabbiamo con noi stessi per aver ceduto (è il caso, citato, di Leone); ci si percuote il petto in segno di contrizione, come quando si recita il mea culpa. Ma questo elemento è in azione anche quando ci imponiamo di resistere a un dolore, a una fatica, o a un piacere. Il principio mediante il quale si resiste (resistere in latino significa difendersi, e questa parte dell'anima è detta anche amyntikon, difensiva) sia alle fatiche che ai piaceri è il medesimo mediante il quale ci si adira; l'esperienza ci suggerisce che si tratta di una forza, diversa dalla capacità razionale; quando si resiste a una fatica o a un desiderio si stringono i denti, esattamente come quando ci si arrabbia; il tipo di manifestazione a livello fisico è il medesimo quando ci si arrabbia e quando si resiste (anche se apparentemente una corsa non ha niente a che fare con una arrabbiatura). Secondo Platone questo elemento, quando l'anima è discorde, va in aiuto della ragione (440e), come nella polis il ceto dei guerrieri aiuta quello dei guardiani-filosofi a controllare la terza classe, quella dei crematisti, o produttori di ricchezza (artigiani e commercianti)
Non si dà mai che la parte irascibile vada in soccorso della parte concupiscibile (la loro alleanza è tutt’al più concepibile come non-aiuto della parte irascibile nei confronti della razionale); non è infatti necessaria forza d’animo (thymoeides) per soddisfare un desiderio fisico, ma può essere necessaria per resistere ad esso; stringiamo i denti per resistere a un desiderio che riteniamo potenzialmente dannoso, non per soddisfare un desiderio. Si può dire che Leonzio ha un desiderio di secondo grado, cioè il desiderio di non avere il desiderio di primo grado che ha.
Possiamo chiederci a quale delle altre due parti l'irascibile sia più affine. Nella Repubblica Glaucone opta per una maggiore affinità con l'anima appetitiva, non senza buoni motivi. In effetti, almeno nella tradizione platonica, il thymos e l 'epithymetikon (appetitiva) costituiscono l'anima priva di ragione (a-logon), distinta da quella razionale. La tripartizione sarebbe in realtà una bipartizione, con una sottodivisione interna alla parte priva di ragione. Le due parti inferiori dell'anima, in effetti, sono corporee e identificabili con organi fisici. Ciò è affermato esplicitamente nel Timeo; l'anima irascibile ha sede nel petto; quella concupiscibile nel basso ventre; entrambe sono mortali. Tuttavia il fatto che il thymos venga piuttosto in aiuto della ragione viene indicato come segno di una maggiore affinità con la parte razionale.
Alla fine della Repubblica (*611c sgg.), in ogni caso, dopo aver offerto un ulteriore argomento a favore dell'immortalità dell'anima, Platone afferma che la vera natura dell'anima sarà visibile solo a prescindere dal contatto con il corpo. L'anima assomiglia a una creatura marina su cui si siano depositate incrostazioni di ogni genere; per vederne la vera natura essa deve essere per così dire disincrostata, cioè analizzata a prescindere dalla sua connessione temporanea con il corpo. E si deve inoltre riflettere sugli oggetti che essa coglie e a cui essa è affine, quelle entità che sono sempre e sono immortali (cioè le idee). Solo allora si potrà sapere se la sua vera natura è semplice o composta, se essa ha molti aspetti o uno solo. Ciò sembra voler dire che la vera natura dell'anima consiste nella parte razionale, che è quella immortale (e dunque la natura dell'uomo consiste nell'esercizio delle funzioni razionali, cioè nella pratica della filosofia), mentre le incrostazioni, che la fanno assomigliare a una bestia, vanno identificate con le parti inferiori, mortali. Questo sembra offrire una via di conciliazione tra la concezione del Fedone di un'anima semplice, incomposta, che proprio su questi attributi fonda la sua immortalità, e la concezione della Repubblica di un'anima composita. L'anima è un'entità composta sino a che è legata al corpo, ma una parte di essa, quella razionale, che al corpo sopravvive, può essere analizzata autonomamente nella sua semplicità e può continuare a svolgere le sue funzioni anche dopo la morte; solo dopo la morte, infatti, si avrà la contemplazione perfetta delle realtà ideali. I moti e i desideri tipici della vita psichica sono invece legati alle due parti inferiori e avranno fine con la morte dell'uomo inteso come sintesi di anima e corpo. Quello che comunque è assai degno di nota è che anche queste parti inferiori, corporee, sono dette 'anime'. E' ben presente a Platone, a prescindere dalla sua escatologia, l'idea che l'anima costituisca un'entità unitaria e organica che coordina una molteplicità di funzioni, e questa idea, come abbiamo già anticipato, rappresenta un punto di arrivo e insieme di partenza.
Bene
Trattando la voce ‘bene’ non si intende presentare una breve storia dell'etica antica, ma solo fornire alcune conoscenze preliminari, utili a chiarire in particolare l'interazione tra morale popolare e filosofia; cercheremo in particolare di vedere in che cosa consistano gli apporti specifici della riflessione filosofica sul bene e sulla felicità, Mentre infatti la riflessione sull'essere è peculiare del pensiero filosofico, una morale e un'etica si hanno già a livello popolare. Ma a partire da Socrate-Platone si può parlare più propriamente di un'etica filosofica; non si tratta solo di stabilire che cosa l'uomo deve o non deve fare, ma si riflette sul bene e concetti connessi su un piano squisitamente formale.
Partiamo da tre termini chiave dell'etica greca, agathon, arete, eudaimonia. Questi termini corrispondono approssimativamente ai nostri 'bene', 'virtù', 'felicità', ma anche in questo caso non c'è perfetta sovrapponibilità.
Quando noi parliamo del ‘Bene' questa accezione è prevalentemente morale; con qualche approssimazione si può dire che una persona che agisce bene da un punto di vista morale è designata con l'aggettivo 'buono'. Si usa però anche dire 'fare bene una cosa', prescindendo, in quest'uso, da valutazioni morali e intendendo con ciò che qualcosa viene realizzato in modo adeguato da un punto di vista 'tecnico'; in questo caso diciamo piuttosto che una persona è ‘brava’ in qualcosa. In greco l'avverbio eu' , impiegato a tale scopo, funziona anche da prefisso, in formazioni del tipo eupraxia, eudaimonia
Va notato subito che in origine agathòs non ha una valenza esclusivamente morale; in Omero la qualifica di agathòs indica varie forme di eccellenza, in relazione al coraggio, alla ricchezza, alla forza, alla posizione sociale, che talvolta contrastano con un’accezione morale.
Nella nostra prospettiva non è possibile essere persone moralmente eccellenti e al tempo stesso essere ingiusti. Per i greci sino a Platone è invece possibile essere agathòi e comportarsi in modo ingiusto. Quando ad esempio Achille nell’Iliade fa scempio del corpo di Ettore trascinandolo con i cavalli attorno alle mura ( Il. XXIV 53) Apollo, che parteggia per i Troiani, pronuncia queste parole: badi, per quanto bravo, che non prendiamo ad odiarlo. ‘Bravo’ traduce appunto agathòs. Achille, in altre parole, è definito agathòs proprio mentre tiene un comportamento moralmente riprovevole, ai limiti della bestialità; e questo perché è valoroso, figlio di una dea, ricco, famoso. O ancora, quando Agamennone vuole prendere la schiava Briseide ad Achille, Nestore si rivolge a lui dicendogli (I 275) ‘tu, pur essendo agathos, non togliergli la fanciulla’; il fatto cioè di essere agathòs non gli impedirebbe di compiere un atto biasimevole.
Agathòs è un termine che può indicare una posizione sociale: nell’Odissea (Od. XV 324 sgg.) Ulisse, travestito da mendicante, dice al porcaio Eumeo di essere molto bravo nei servizi che gli inferiori ( cherees ) fanno agli agathoi. Qui è evidente che si tratta di due distinte classi sociali. Approssimativamente al termine potrebbe corrispondere il nostro 'nobile', che indica una classe sociale e al contempo ha, in alcuni casi, una portata morale. Queste valenze del termine sono ancora presenti all’epoca di Platone. Particolarmente significativo in proposito è un passo del primo libro della Repubblica (348b-d*): qui Trasimaco, discutendo con Socrate, sostiene la tesi che la giustizia consista nell'utile del più forte, dunque una tesi altamente immoralista; nel corso della discussione egli non si spinge sino al punto di sostenere che la giustizia sia un vizio e l'ingiustizia una virtù, ma afferma comunque che la prima è una forma di ingenuità o dabbenaggine (euètheia), la seconda invece una sorta di avvedutezza, di capacità di ben deliberare (euboulìa) ; egli sostiene apertamente che gli ingiusti possono essere agathòi e phrònimoi (intelligenti), nel senso che essi sono bravi, in quanto capaci di realizzare compiutamente l'ingiustizia, cioè il massimo del loro vantaggio.Questa posizione è, almeno in parte, certamente provocatoria; ma è certo che Trasimaco può dire che l'ingiusto è agathòs solo perché ha alle spalle una tradizione che mette in primo piano le valenze del termine legate alla 'bravura'. Aldilà di ogni dubbio è che agathòs non designa esclusivamente l'eccellenza morale come i nostri termini ‘buono’ o ‘virtuoso’. discorso analogo si può svolgere a proposito del rapporto tra il nostro ‘virtù’ e il greco aretè. Nella nostra tradizione le virtù sono in primo luogo le virtù cardinali (che nella grecità vengono a costituire un canone e poi passano tali quali al cristianesimo, prudenza (phronesis nella sua accezione di saggezza pratica, impostasi con Aristotele), fortezza (la andrèia, il coraggio dei Greci), giustizia (dikaiosyne), temperanza (la sophrosyne dei Greci) ; virtù più specificamente cristiane sono quelle teologali, fede, speranza, carità. Per noi virtuoso può definirsi chi possiede questo genere di virtù, o forse, con una ulteriore restrizione di significato, nel linguaggio comune per ‘virtuoso’ si intende una persona senza vizi, capace di controllarsi soprattutto rispetto ai piaceri corporei (dunque qualcosa di analogo in particolare alla temperanza dei Greci). Il greco aretè non indica, almeno inizialmente, niente di tutto questo. Aretè designa invece in primo luogo una capacità, la capacità di svolgere un’attività o un compito (èrgon), o meglio l'eccellere in questa capacità; in questo senso l’aretè non è limitata all'uomo, né solo agli esseri viventi; piuttosto, esiste un' aretè di tutto ciò che ha per sua natura una funzione specifica, dunque anche di oggetti inanimati. Ad esempio si possono portare un passo della Repubblica (352d8-353d1*) e uno dell’Etica Nicomachea (1098a)*
Si deve a Cicerone, principale tramite tra il lessico filosofico greco e quello latino, la traduzione di arete con virtus, in quanto virtus indica la capacità di fare qualcosa, una potenzialità (cfr. ‘virtuale’). In seguito 'virtù' ha acquisito significato prevalentemente morale. Ma un’ eco della valenza originaria di aretè è rimasta anche nel nostro linguaggio: virtuoso significa anche, per noi, una persona che ha capacità fuori del comune nell'ambito di certe tecniche (es. un virtuoso del violino, del calcio, della cucina), ma non di tutte (non si dice ‘virtuoso’ di un muratore o di un elettricista, per quanto bravi), qualcuno che riesce a coniugare a qualche titolo bellezza e capacità tecnica. Ricordiamo ancora che non esiste in greco un aggettivo derivato da aretè, (e.g.*aretaios), ma che per designare l’eccellenza morale ne esistono altri, quali, accanto ad agathòs, spoudàios o il già ricordato kalòs
Imperfetta sovrapponibilità si ha anche tra ‘felicità’ e il greco eudaimonìa, che indica, dal punto di vista etimologico, l'avere un buon dàimon , un buono spirito protettore. Eudàimon è chi ha una buona sorte, una vita che ha il favore della divinità. Ma ad un dato momento nel mondo greco eudaimonìa viene a significare qualcosa di vicino al nostro 'felicità'. La non-sovrapponibilità di cui parlavo riguarda piuttosto la concezione della felicità sul piano formale. Si può dire che l'etica greca è essenzialmente eudemonistica: il fine dell'uomo è vivere una vita felice, e questo vale sia nella morale popolare che nell'etica filosofica. Per noi la ricerca della felicità può presentarsi come opposta alla ricerca della virtù o della vita moralmente integra. E' pensabile che qualcuno possa 'sacrificare la propria felicità', pur di non venir meno ai propri principi morali, o in vista della felicità di qualcuno che si ama. Si è soliti contrapporre in etica una posizione 'consequenzialista' (in cui un'azione viene valutata a partire dalle sue conseguenze) a una posizione 'deontologica' (che valuta un'azione secondo la sua moralità, indipendentemente dalle conseguenze che essa apporta), e la dimensione essenzialmente eudemonistica dell'etica greca potrebbe assimilare quest'ultima alla prima posizione. In realtà nel mondo greco non si può porre una distinzione così netta, perché, come vedremo con Platone e Aristotele, il rigorismo etico può convivere con la prospettiva eudemonistica, facendo della virtù una condizione necessaria della felicità; quest'ultima rimane, anche in questo caso, la meta ultima dell'agire e del vivere umano.
Questa idea può naturalmente portare a una scissione tra felicità e virtù, e ciò è quanto accade nell'epoca di Platone, quando alcuni critici della moralità tradizionale, quali Callicle nel Gorgia e Trasimaco nella Repubblica, generalmente qualificabili come 'immoralisti', sostengono che la morale impedisce il conseguimento della felicità, in quanto quest'ultima consiste nel massimo della soddisfazione e della realizzazione dei propri desideri individuali e del proprio vantaggio personale. Questa critica si accompagna spesso con lo sviluppo dell'agnosticismo e dell'ateismo: se non c'è un dio che punisce il comportamento ingiusto, l'importante è sfuggire alle sanzioni degli uomini. Ma il punto interessante è che Platone non si opporrà ai teorici dell'immoralismo sostenendo che alla ricerca della vita felice deve essere anteposta quella della vita giusta; egli si sforzerà piuttosto di mostrare che la vita giusta è una componente necessaria della vita felice. Una vita ingiusta sarà necessariamente infelice, una vita giusta sarà condizione sufficiente o quantomeno necessaria (problema che sarà ampiamente discusso nell'etica ellenistica) per una vita felice; se la giustizia rappresenta qualcosa di desiderabile per sé, chi è giusto sarà anche felice.
Abbiamo detto che l'etica filosofica si distingue dalla corrente morale in quanto trasporta su un piano formale la considerazione del bene. In questo senso solo con Platone e Aristotele si ha una definizione filosofica del bene; non si tratta solo di stabilire in cosa consista il bene, fornendo ad esso un contenuto, ma in primo luogo di chiarire che cosa esso sia sul piano dei requisiti formali. Da questo punto di vista il bene si può definire come il termine ultimo di ogni agire. Una caratterizzazione in questo senso si trova già nella Repubblica a 504e*, passo che prelude alla celebre analogia del bene con il sole e nel quale ci si interroga sul supremo oggetto di insegnamento (mègiston màthema), l'idea del bene per l'appunto. Qui Socrate dice che ciò che il bene è ciò che ogni anima persegue (diòkei), facendo tutto in vista di questo (toùtou hèneka pànta pràttei) (cfr anche Gorg. 499e8-9; Phil. 20d8-9; resp. 438a3; Lys. 216b-220d), e che a proposito di questo presagisce (apomanteuomène) cosa esso sia, ma non è in grado di comprenderlo adeguatamente, né può avere riguardo ad esso una credenza analoga a quella che ha nei confronti di altri oggetti. Già questa caratterizzazione formale permette di confutare tesi avverse secondo le quali il bene è intelligenza (phrònesis), perché l'intelligenza deve essere in ultima analisi intelligenza del bene; né il bene può consistere nel piacere, perché è necessario ammettere l'esistenza di piaceri cattivi, e dunque in realtà ciò a cui si tende, anche in questa prospettiva edonistica, è quel bene che permette di distinguere i piaceri buoni da quelli cattivi. E importante è anche quanto Platone afferma, che a proposito di altri fini si può desiderare l'apparenza, a proposito del bene solo la realtà; nessuno desidera per sé un bene che sia solo apparente
Questa proposizione è vera senza restrizioni, a prescindere da ciò che l'anima si trovi di fatto a desiderare; nei confronti di un ipotetico interlocutore il quale sostenga di desiderare, con pieno proposito, il proprio male o di desiderare che il male prevalga sul bene, la confutazione di Platone seguirebbe una linea argomentativa di questo genere: tu devi dunque ritenere preferibile che il male prevalga sul bene, ma preferibile non può che significa migliore, dunque un bene maggiore, in ogni caso un bene; sarebbe dunque un bene che il male prevalesse sul bene, e perciò il termine ultimo è in ogni caso il bene. Ciò vale anche a proposito del discorso precedente sulla felicità: scegliere di essere infelice significa che lo si ritiene preferibile, dunque un bene maggiore; ma il bene, in quanto tale, non può che rendere felici.
Una definizione analoga si trova all'inizio dell' Etica Nicomachea* di Aristotele : bene è ciò a cui tutto tende (agathòn hou pànta ephìetai). Da notare il neutro pànta (tutte le cose): tutte le cose tendono al bene, vale a dire i viventi, sia quelli razionali che quelli privi di ragione, come in generale ogni organismo. Nel de anima si dice che ogni organismo tende all'autoconservazione e alla riproduzione, trovando ciò piacevole. Al'inizio della Nicomachea Aristotele perviene a stabilire che bene supremo è l' eudaimonia; anche in questo caso la definizione soddisfa una serie di requisiti formali: ci sono attività di per sé desiderabili, che rappresentano il fine di determinate tecniche e arti, ma anche queste si può dire che vengano desiderate in vista di qualcos'altro; ora, deve esserci un termine ultimo che sia desiderabile per sé e non in vista di ulteriori fini, altrimenti si andrebbe all'infinito: tale è appunto la eudaimonia, come vedremo meglio più avanti.
Insisto anche in questo caso sul carattere formale della definizione del bene ; si tratta di una tesi analitica, diremmo a-priori, non stabilita su basi empiriche, che resta vera, qualunque sia la cosa cui di fatto gli uomini tendono. Essa infatti è ritenuta incontrovertibile (Cfr. EN 1172b35-6: " coloro che sostengono che ciò non è vero non dicono nulla"). Ed essa è accettata non perché condivisa da quasi tutti, ma piuttosto è condivisa da quasi tutti perché dotata di forza intrinseca. Questo è un punto di contatto tra Platone e Aristotele, che non attenua comunque la profondità del dissenso tra i due, come avremo modo di vedere.
Alla tesi secondo cui tutti tendono al bene, è molto vicina quella per cui nessuno fa il male volontariamente. Di fatto vediamo però che molte persone perseguono il male. Qui bisogna distinguere tra oggetto reale e oggetto intenzionale della volontà : se una persona scambia, prendendola da uno scaffale, una medicina con un veleno, è vero dire che quella persona voleva la medicina, anche se di fatto voleva quella bottiglia contenente il veleno nel momento in cui la prendeva, credendo che contenesse una medicina. La medicina è comunque l'oggetto intenzionale della sua volontà, come lo è sempre il bene. Con ciò va di pari passo la celebre tesi socratica dell' involontarietà del male e dell'attraenza del bene: oudèis ekòn examartànei, reso nella formula latina nemo sua sponte peccat. Propriamente l'espressione greca significa che nessuno sbaglia volontariamente, e così intesa è più immediatamente comprensibile e più facilmente condivisibile di quella dell'involontarietà del male: nessuno sbaglia volontariamente, nel senso che nessuno si inganna volontariamente, nessuno desidera trovarsi nell'errore. Per comprendere questa tesi socratica possiamo rifarci a un passo del Menone platonico (Meno 78a ss-) *: Nel dialogo Socrate e Menone si interrogano su cosa sia la virtù (aretè); virtù è desiderare il bene, secondo Menone. Ma questa definizione è rifiutata da Socrate, il quale mostra che non è possibile desiderare il male e che tutti desiderano il bene (tutti sarebbero, allora, virtuosi). E' infatti impossibile desiderare i mali sapendo che sono mali, perchè male è ciò che danneggia; se dunque un soggetto desidera di fatto qualcosa che lo danneggia, ciò significa che costui non sa che è un male, ma crede che sia un bene e pensa che ne trarrà un vantaggio; se qualcosa lo danneggia, infatti, lo rende infelice e nessuno vuole essere infelice. Dunque chi di fatto vuole il male, lo vuole perché ignora cosa sia il bene. La tesi qui ritenuta incontrovertibile, che puntella l'intera dimostrazione e su cui Socrate ottiene immediatamente l'assenso di Menone, è che nessuno può volere essere infelice; ciò conferma la prospettiva essenzialmente eudemonistica, non solo dell'etica socratico-platonica, ma più in generale della morale popolare greca. L'idea sedimentata in questa convinzione e resa esplicita da Platone è, come abbiamo già visto, che se qualcuno di fatto sembra volere la propria infelicità, deve anche ritenerla preferibile, ma ciò che viene preferito deve essere migliore, cioè un maggior bene. La tesi può essere anche formulata nei termini: il bene è vantaggioso, òphelon, il male è dannoso. Come si è detto, questa tesi resta valida qualunque sia l'oggetto di fatto della volontà e delle decisioni degli uomini. Particolarmente indicativo in questo senso è un passaggio del Fedone (98c ss.*), in cui Socrate, nell'ambito di una critica alle precedenti concezioni della causalità, sostiene che il motivo per cui non fugge dal carcere è che a lui pare bene accettare il verdetto del tribunale che lo ha condannato, e che questo verdetto è stato inflitto perché agli ateniesi è parso bene condannare Socrate. La decisione di condannare Socrate, che per Platone doveva rappresentare un atto di estrema ingiustizia, è stata anch'essa determinata dall'aspirazione che ogni uomo ha verso il bene e dalla corrispondente rappresentazione.
Strettamente legata alla tesi dell'involontarietà del male è il cosiddetto intellettualismo etico, attribuibile a Socrate (e con qualche riserva a Platone), secondo cui la conoscenza del bene (e del male) è condizione necessaria e sufficiente per essere virtuosi. Dall'intellettualismo deriva la tesi socratico-platonica dell'unità della virtù. E' unica infatti la scienza del bene e del male, cui tutte le virtù si riconducono; nei dialoghi aporetici di Platone il tentativo di definire individualmente le singole virtù fallisce proprio perché ciascuna virtù non è definibile isolatamente, ma solo in riferimento alla scienza del bene. Nel Lachete, ad esempio, l'ultima definizione fornita del coraggio è quella di scienza del temibile e del non tembile (una definizione che compare anche nel Protagora, i cui rapporti con il Lachete dal punto di vista cronologico sono tuttora oggetto di discussione), cioè come il sapere relativo a ciò che si deve temere e ciò che si può osare. Ma che cosa è il 'temibile'? un male futuro, come il 'non-temibile' è un bene futuro; il sapere proprio del coraggio verrà allora a coincidere con la conoscenza generale del bene e del male, poiché beni e mali che ci si aspetta nel futuro non sono diversi dai beni e dai mali in generale. Il coraggio si risolve dunque in questa scienza generale. Ora, come viene mostrato alla fine del Protagora, nessuno va verso ciò che ritiene temibile, perché nessuno va verso ciò che ritiene essere un male. Il soldato che affronta la morte la affronta perché in ultima analisi la considera un bene; è un bene morire per la propria città, è un male comportarsi da vigliacco. Dunque ognuno va verso ciò che ritiene essere un bene, e se va verso ciò che è oggettivamente un male, è perché comunque lo ritiene preferibile, cioè lo ritiene un bene maggiore; in questo caso si tratta di un errore di valutazione, imputabile a una conoscenza inadeguata. Chi possiede la scienza, un sapere stabile del bene, non può allora che agire per il meglio. In questa prospettiva diventa impossibile quella che sarà chiamata incontinenza (akrasìa), cioè l'incapacità di dominarsi e di controllare i propri desideri rispetto a determinate forme di piacere (in particolare i piaceri venerei e quelli del ventre); Aristotele, infatti, prenderà nettamente posizione contro la negazione socratica dell'incontinenza.
Non è infatti ben più plausibile e rispondente alla realtà di fatto che qualcuno, pur ritenendo qualcosa un bene, non riesca a realizzarla, ad esempio, per un difetto di volontà? Ciò presuppone comunque una molteplicità di principi di azione interni al soggetto, ognuno dei quali può agire autonomamente. Una formulazione del genere si ha per la prima volta con la psicologia pluripartita di Platone, che distingue nella Repubblica (libro IV) una parte razionale dell'anima da una irascibile e da una appetitiva (cfr. il capitolo sull'anima). Posso sapere che una certa cosa piacevole è per me dannosa, ma se la ragione risulta più debole dell'appetito (in termini platonici, la parte razionale più debole di quella concupiscibile), essa soccombe. Secondo uno schema storiografico diffuso, l'intellettualismo etico è proprio di Socrate, al quale si dovrebbe perciò attribuire una psicologia unitaria, mentre Platone va già oltre, proprio grazie alla sua psicologia pluripartita. Non è comunque così sicuro che Platone rinneghi la tesi socratica secondo cui la scienza è condizione necessaria e sufficiente della virtù (e dunque della felicità), purchè si tratti della scienza in senso forte, e non di una semplice opinione, di un sapere non adeguatamente fondato. E' impossibile, infatti, che se nell'uomo è presente l'episteme, se cioè la parte razionale è al massimo delle sue possibilità, essa soccomba agli appetiti delle parti più basse, e in questo senso resta vero quanto Socrate sostiene nel Protagora (352b-c), che cioè l'episteme non può essere trascinata qua e là da tutto il resto come uno schiavo (immaginiamo un caso normale di incontinenza, una persona che fumi dichiarando di sapere che il fumo fa male; fumerebbe ugualmente questa persona (ammesso ovviamente che non voglia intenzionalmente farsi del male) se sapesse con certezza che il fumo gli farà male, se cioè avesse un sapere dotato del grado di certezza proprio dell' episteme? Probabilmente per questa persona la proposizione 'il fumo mi farà male' non vale con l'ineluttabilità e la necessità proprie del sapere scientifico, e questa persona spera che in fondo sia vera 'il fumo non mi farà male'; nessuno, che non voglia suicidarsi, mangerebbe una determinata pietanza sapendo che è velenosa, solo perché in preda ai desideri della gola , mentre è possibile che rispetto a questa stessa pietanza si verifichi l'incontinenza se questa persona non resiste alla tentazione, pur sapendo che quel piatto è potenzialmente dannoso, poniamo, per il suo tasso di colesterolo.
La concezione della virtù come scienza porta con sé la tesi dell'unità della virtù. Poiché unica è la scienza del bene, e tutte le virtù si riconducono ad essa, questa unità si riverbererà in qualche misura sulla virtù. In che modo si debba intendere, in Platone, questa tesi, è una questione tuttora molto discussa. C'è una tesi estrema, che potremmo dire nominalistica e che è già rappresentata nel Protagora, secondo cui le differenti virtù non sono che differenti nomi di un'unica realtà, la scienza (tesi probabilmente riconducibile al socratico Euclide di Megara); con ciò verrebbe sostanzialmente annullata ogni differenza tra le singole virtù. C'è una posizione opposta, secondo cui l'unità della virtù significa solo, di fatto, l'implicarsi reciproco in una persona di tutte le virtù: chi possiede una virtù le possiede tutte, ma questo non significa che ciascuna virtù non abbia una sua specifica definizione (questa tesi è chiamata da alcuni interpreti anglosassoni tesi della 'bicondizionalità': se a possiede la virtù x, possiede anche le virtù y, z etc., e se possiede y, possiede anche x, z, etc.). Secondo altre interpretazioni bisogna porre una netta distinzione tra l'intellettualismo socratico, che implica l'indifferenziazione, e le successive posizioni a cui perviene Platone riconoscendo, nella Repubblica, l'indipendenza di ogni singola virtù (ogni classe della polis descritta possiede una virtù sua propria, i filosofi la sapienza, i guerrieri il coraggio, i crematisti la temperanza) e l'insufficienza della concezione socratica; la conoscenza sarebbe, in questo caso, condizione necessaria ma non sufficiente della virtù. Un'ulteriore possibilità è che Platone distingua tra differenti livelli di virtù, e cioè la disposizione naturale (es. il coraggio proprio anche degli animali feroci), la retta opinione nutrita dalla buona educazione (es. il coraggio dei guerrieri nella Repubblica), infine la virtù perfetta che coincide con la scienza (il coraggio come episteme). Solo a quest'ultimo livello il sapere è condizione, non solo necessaria, ma anche sufficiente della virtù e solo il possesso della scienza suprema implica la presenza simultanea di tutte le virtù in una persona.
Anche questo problema diverrà un topos dell'etica ellenistica; in particolare lo stoicismo, che tornerà a identificare la virtù con la scienza, sosterrà di conseguenza la reciproca implicazione delle virtù (antakoluthìa)
Importante sul piano della caratterizzazione formale è la distinzione tra beni desiderabili per sé e beni desiderabili per altro. Una prima teorizzazione si ha nella Repubblica di Platone (resp. 357a-358a)*, dove si distingue tra beni cui aspiriamo di per sé, e non per le conseguenze che ne derivano, come la gioia o i piaceri innocui; beni che desideriamo per sé e per le loro conseguenze (la salute, la vista, l'intelligenza); infine beni che desideriamo possedere non di per sé, ma per le conseguenze che ne derivano, la ginnastica, la medicina, etc. Questo criterio si presenta in forma più sistematica in Aristotele, che all'inizio dell' Etica Nicomachea (1094a ss.)*, dopo avere definito il bene come ci cui tutto tende, stabilisce una classificazione gerarchica tra i fini propri di varie attività (scienze, tecniche, attività pratiche). Dire che ogni agire tende a un fine che è il bene potrebbe infatti comportare un'equiparazione tra tutte le attività. VI sono invece arti subordinate e arti sovraordinate (l'arte di produrre briglie ha per fine la produzione di un oggetto, le briglie appunto, l'ippica ha per fine il cavalcare, ed evidentemente si fanno le briglie per cavalcare, non l'inverso; il fine della produzione di briglie è desiderato in vista del fine dell'arte ippica, che è dunque un'arte sovraordinata alla prima). Ma se il fine di una scienza o tecnica è ciò che desideriamo di per sé, e in vista del quale desideriamo le altre cose, non è neppure possibile andare all'infinito; dovrà esserci un fine ultimo desiderabile per sé e non per altro, e questo sarà il bene supremo; tale è appunto l'eudaimonìa; ha senso, infatti, dire che desideriamo una cosa x (comprese le stesse virtù) in vista dell'essere felici, ma non ha senso dire che desideriamo essere felici in vista di qualcos'altro.
Questa concezione ha provocato un dibattito di vasta portata tra gli interpreti di Aristotele, che può riassumersi nell'alternativa 'fine inclusivo-fine dominante': la eudaimonia è un fine che domina su tutti, distinto da una molteplicità di fini subordinati, oppure essa include tutti gli altri fini, risultando da una loro composizione? Nel X libro della Nicomachea, in effetti, Aristotele stabilisce che la felicità perfetta consiste nell'attività contemplativa, nella forma di vita teoretica, che è l'attività suprema e prossima al divino, mentre l'esercizio delle virtù è solo una forma secondaria di felicità, inferiore alla prima. Significa questo che le virtù etiche non sono desiderabili di per se stesse, e dunque sono mezzi e non fini? Nell'individuare le condizioni dell'agire virtuoso (infra) Aristotele stabilisce che, per essere virtuosa, un'azione deve essere scelta di per sé (e non per le conseguenze che ne derivano). Che ne è allora, delle virtù come fini? Non pretendo di presentare una soluzione del problema; teniamo però presente quello che Aristotele dice in EN 1094a16-18: la subordinazione di un'attività a un'altra vale non solo laddove (come nell'esempio delle briglie) una attività produce un oggetto o un risultato utilizzato da quella sovraordinata , ma anche laddove quella subordinata viene praticata come fine a se stessa; questo suggerisce una particolare relazione tra quel tutto che è l' eudaimonia e le parti che la compongono; in alcuni casi, come quello dell' eudaimonia, le attività subordinate sono non preliminari, ma ingredienti di quella sovraordinata. L'eudaimonia, in altre parole, non è un risultato distinto da attività preliminari, ma è costituita da attività che rappresentano fini in se stesse (qualcosa di analogo se dicessi che il fine ultimo per cui vado in vacanza è il divertimento; questo divertimento sarà costituito da una serie di attività, prendere il sole, praticare sports, etc.; ora, il divertimento non è qualcosa che consegue a queste attività; esso coincide piuttosto con il loro esercizio, e ciascuna di esse rappresenta un fine a se stessa. Ha però senso dire che pratico uno sport per divertirmi, ma non che mi diverto per praticare uno sport.) Si può insomma parlare di subordinazione a un fine ultimo anche rispetto ad attività che rappresentano esse stesse un fine, e ciò vale anche per le virtù. Di nuovo, questa determinazione del fine ultimo è, a questo livello, puramente formale e peculiare del pensiero filosofico. Anche la distinzione tra beni desiderabili per sé e beni desiderabili in vista d'altro diverrà un topos dell'etica ellenistica.
Sinora abbiamo insistito sulla caratterizzazione formale del bene; ma quanto al contenuto? Per Platone, come abbiamo visto, il bene è in generale la meta di ogni agire umano, ma più specificamente l'idea delle idee, il principio ultimo della realtà, la condizione della verità e dell'essere. Tutto questo non ci fornisce alcuna indicazione sul piano pratico. Il bene è comunque unico e monolitico, ciò che vi è di più reale, addirittura aldilà dello stesso essere. Come abbiamo in parte visto, nella Repubblica Platone non ci dice molto sul bene, tantomeno sulla sua utilizzabilità, anche se più volte mette in risalto la sua valenza anche pratica: chi vuole agire bene in privato o in pubblico deve necessariamente avere 'visto' l'idea del bene. Certamente dai dialoghi di Platone traiamo numerose indicazioni su cosa l'uomo debba fare, su come debba comportarsi per conseguire la felicità. Una definizione 'scientifica' del bene, o una determinazione precisa del suo contenuto si lascia tuttavia attendere invano. Anche le varie virtù, benchè trovino una definizione, sono dette essere semplici 'immagini' ; per individuarne la vera natura, dice Socrate, sarebbe necessario percorrere una 'strada più lunga' (435c-d; 504b).
In linea generale, Aristotele muoverà a Platone una critica analoga a quella riguardante il concetto di essere (cfr. Eth. Nic. 1096a*). Bene è un pollakòs legòmenon; esso si dice, come l'essere, in molti modi, secondo i significati delle categorie; bene nella categoria della sostanza è Dio, nella categoria della qualità la virtù, in quella della quantità la giusta misura (to metrìon). Non c'è un unico bene per tutti, dunque non c'è un'unica idea del bene; il bene non è un universale né un genere. Anche i termini propri di una categoria (es. il metrion) sono oggetto di diverse scienze (dietetica, ginnastica). E dal punto di vista pratico Aristotele contesta l'utilità di una eventuale idea del bene, che non sarebbe utilizzabile nell'ambito della prassi, né potrebbe essere fatta propria dall'uomo, in quanto idea separata.
Sia in Platone che in Aristotele, la virtù è condizione necessaria per la felicità. Con ciò siamo di fronte al problema che si riassume nella formula an virtus ad felicitatem sufficiat (se la virtù basti per la felicità), questione che rappresenta anch'essa un passaggio obbligato dell'etica di età ellenistica e imperiale.
Il nesso virtù-felicità è già sedimentato in alcuni usi linguistici tipicamente greci; pensiamo ad esempio alla formula eu prattein,che significa agire bene, ma anche star bene, e dunque essere felice (è una formula augurale impiegata nelle lettere: 'stai bene', eu pràttei). Nei dialoghi platonici questo passaggio semantico dall'agir bene all'essere felici è spesso impiegato per dimostrare l’impossibilità che la vita virtuosa non sia anche felice, cfr. ad es. Resp. 353d3-354a9*: un'anima buona dovrà necessariamente fare bene (eu prattein) tutto ciò che attiene alle sue funzioni, e la funzione propria dell'anima è appunto il vivere; ma la virtù dell'anima è la giustizia, e perciò l'anima giusta e l'uomo giusto vivranno bene; ma chi vive bene (eu zon) è felice, dunque il giusto è felice.
Si consideri anche questo passaggio del Gorgia ( Gorg. 507c1-5): …"cosicchè è necessario, Callicle, che l'uomo temperante, essendo, come abbiamo detto, giusto e coraggioso e pio, sarà un uomo perfettamente buono (agathos); ma il buono farà bene e in modo bello (eu kai kalòs pràttein) ciò che fa, e chi fa/agisce bene (eu pràttonta) è beato e felice, il malvagio e chi agisce male (kakòs pràttonta) infelice";
Anche Aristotele afferma (Eth Nic. 1095a17-20): "sul nome quasi tutti concordano; lo chiamano eudaimonia sia i più che quelli che si distinguono, e ritengono che il viver bene e l'agir bene (eu prattein) siano la stessa cosa dell'essere felici (eudaimonèin)
In generale, dunque, chi non è virtuoso non potrà essere felice. Ma sarà anche sufficiente la virtù?
Partiamo da una suddivisione dei beni che costituisce in realtà un punto d'arrivo, la tripartizione in beni dell'anima, del corpo, esterni. Questo schema è il risultato di una progressiva gerarchizzazione dei beni. La posizione di Platone (si pure con tutte le difficoltà del caso) riguardo a questo problema si può sinteticamente riassumere così (particolarmente significativo in proposito un passo delle Leggi (Leg. 631b-c*) cui la successiva tradizione platonica fa costantemente riferimento: il bene supremo è la phronesis, che può in qualche modo considerarsi la regina delle virtù; beni in senso autentico sono solo i beni dell'anima, cioè le virtù (o la virtù, qualora le virtù si possano ridurre a unità); i beni inferiori possono considerarsi beni solo se vengono posti al servizio di quelli superiori e orientati alle loro finalità; quelli che comunemente vengono ritenuti beni possono causare mali peggiori di quelli causati dalla loro assenza se male indirizzati (un caso tipico, cui forse Platone allude in alcuni passaggi dei dialoghi, è quello di Alcibiade, che ha volto nella direzione sbagliata la sua intelligenza, la sua bellezza, la sua ricchezza, la sua fama, il suo ardimento etc.). Cfr. anche Leg. 661a-d: i cosiddetti mali sono beni per i malvagi e mali per i virtuosi; i cosiddetti beni sono mali per i malvagi e beni per i buoni.
Aristotele presenta una posizione apparentemente più accondiscendente nei confronti dei beni inferiori; per lui la felicità risulta dall'uso della virtù unito a una certa prosperità o buona sorte (eutychia), altrimenti non è felicità perfetta; e ciò non solo perché i beni esterni o corporei possono contribuire alla felicità o sono comunque desiderabili se ben impiegati (es. ricchezza, potere politico), ma perché la stessa virtù può essere impedita nella sua realizzazione da circostanze esterne avverse. L’eccesso di buona sorte, tuttavia, può rappresentare un impedimento per la felicità.
Tutto ciò ci collega al concetto di uso della virtù, acquisizione propriamente aristotelica, anche se in nuce già presente in Platone) E’ infatti possibile possedere un bene, ma non usarlo (Eth- Nic. 1098 b-1099a), ma la virtù non può consistere nel semplice possesso; per le cose di cui vi è una attività tipica, infatti, (cfr. Eth. Eud. 1218b39-1219a18), l'uso è superiore al semplice possesso (pensiamo a chi possegga uno strumento musicale e non ne faccia alcun uso) e così è per la virtù, che è, come sappiamo, l'eccellenza in una determinata attività; la virtù si concreta infatti in una prassi; i beni esterni e corporei sono qualificati come strumenti (Eth. Nic. 1099b: amici, ricchezza, potere politico) utili all'azione.
Rimane da fare un accenno a un criterio di moralità dell’azione che è anch’esso esplicitato per la prima volta nella riflessione filosofica, quello dell’intenzionalità dell'agente. Molto significativo in tal senso è un passo della Repubblica di Platone (443d sgg.*), in cui Socrate afferma che la giustizia non riguarda le azioni esterne compiute dall’uomo, ma la condizione interna della sua anima (conformemente alla definizione di giustizia fornita in precedenza, secondo cui giustizia a livello dell’individuo si ha quando ciascuna delle parti dell’anima svolge il proprio compito senza esorbitare). Ciò implica che non basti comportarsi esteriormente in un certo modo o compiere determinate azioni per essere considerati giusti. Questo principio sarà esplicitato da Aristotele, del quale possiamo considerare un brano molto importante (Eth. Nic. 1105b*). Mentre nelle arti un oggetto è prodotto a regola d’arte secondo canoni interni all’oggetto stesso, per stabilire se un’azione è virtuosa debbo considerare la disposizione interna dell’agente, e dunque un’azione è giusta non se possiede certe caratteristiche esteriori, ma se è tale quale la compirebbe un giusto. La disposizione dell’artigiano è irrilevante per stabilire se un determinato oggetto è prodotto a regola d’arte (non mi interessa conoscere la disposizione del sarto, ma solo se il vestito è realizzato bene), mentre, ad esempio, fare beneficenza è un’azione classificabile come virtuosa solo in presenza delle condizioni precisate a 30-33, che riguardano tutte la disposizione interna dell’agente, cioè avere conoscenza (eidòs), avere scelto quell'azione e averla scelta come fine (prohairoùmenos di'autà), avere una disposizione ferma e immutabile (bebàios kai ametakinètos èchon). Si può anche dire, altrimenti, che la causa formale dell’azione virtuosa (vale a dire ciò che fa sì che quell’azione sia virtuosa) è l’habitus del carattere, la sua disposizione stabile e duratura.
CONOSCENZA e SCIENZA
Termini chiave legati al problema della conoscenza sono soggetto e oggetto. Siamo abituati a pensare nei termini della contrapposizione tra un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto; il problema della conoscenza nella filosofia sino a Kant è essenzialmente: come si realizza l’adeguazione tra soggetto e oggetto (che è qualcosa di esterno al soggetto, che gli si pone di fronte ob-jectum)? (adequatio rei et intellectus)
1. Termini di base
Il termine subiectum rappresenta la traduzione del termine greco hypokeimenon, da hypò e keimai (giacere) , ciò che giace sotto, soggiace. Assume valenza tecnica solo con Aristotele, dove ha il valore di 1) soggetto logico (‘Socrate’ in ‘Socrate è ateniese’) e di 2) sostrato; il sostrato, poi, assume a sua volta una duplice valenza, come a) sostrato materiale indeterminato (il bronzo per la statua) e come b) soggetto determinato portatore di qualità (Socrate). 2b) e 1) rappresentano rispettivamente l’aspetto ontologico e quello logico-grammaticale della medesima entità.
In greco non si dà una coppia terminologica che corrisponda alla opposizione di soggetto-oggetto. In alcuni casi hypokeimenon designa proprio ciò che è oggetto di conoscenza, e che noi chiameremmo ‘oggetto’ , come è evidente dai seguenti esempi aristotelici:
Metafisica, 982a
il conoscere tutte le cose appartiene necessariamente a chi possiede in sommo grado la scienza dell’universale; costui infatti conosce in qualche modo tutte le cose soggette (hypokeimena) (cioè subordinate all’universale, n.d.a.)
Metaph 1010b.33-35
“E’ impossibile che gli oggetti (hypokèimena) che producono la sensazione non esistano anche indipendentemente dalla sensazione. Infatti, la sensazione non è sensazione di sé medesima, ma esiste qualcosa che è altro dalla sensazione ed al di fuori della sensazione.
Le cose che producono la sensazione debbono esistere indipendentemente dal fatto di essere percepite. L’oggetto conosciuto è la misura della scienza, non viceversa (cfr. metaph. 1057a). Questo punto è fatto valere da Aristotele in opposizione alle teorie sensistiche di Protagora, in base alle quali l’uomo è misura di tutte le cose (Protagora, fr. B1 D.-K.). Anche Platone nel Teeteto interpreta la prima definizione fornita dall’omonimo protagonista del dialogo, di conoscenza (epistème, infra) come sensazione (àisthesis), in termini di una teoria relativistica riconducibile alla priorità del soggetto conoscente rispetto all’oggetto.
Al tempo stesso questa indistinzione di soggetto e oggetto (o meglio l’assenza di una formulazione in termini corrispondenti a quelli moderni) non deve far pensare che essi siano concepiti come un’unità. Anzi, è radicale la separazione tra quello che noi chiameremmo soggetto e ciò che noi chiameremmo ‘oggetto’, e si può legittimamente parlare di un sostanziale ‘realismo’ dei Greci. L’oggetto della conoscenza deve essere qualcosa di reale ed esistente (come abbiamo visto trattando le voci ‘essere’ e ‘verità’). Per cui è legittimo parlare di ‘oggetti esterni’ per interpretare i filosofi greci. Nel Parmenide di Platone (cfr. 132 b-c) si esclude recisamente che le idee possano ingenerarsi solo nell’anima, cioè che esse esistano solo in quanto oggetti di pensiero; le idee sono qualcosa di realmente esistente, come e più degli oggetti visibili alla vista.
In generale si può dire che, rispetto alla conoscenza, l’oggetto possiede una priorità per natura rispetto al soggetto e questo vale sia a livello della conoscenza sensibile, sia a livello della conoscenza intellettuale. Per questa ragione quelli che noi chiameremmo ‘oggetti’ della sensazione sono chiamati da Aristotele ‘soggetti’, hypò-kèimena, cose che sottostanno, costituendo così il sostrato dei fenomeni conoscitivi. Ciò nonostante, il problema che viene in primo piano nella filosofia greca non è “come sia possibile conoscere qualcosa di esterno al soggetto”. Solo a partire dagli scettici si porrà il problema di come si possa essere certi che le nostre rappresentazioni raffigurino fedelmente l’oggetto esterno; lo scettico, dice Sesto Empirico (Schizzi pirroniani I 19-20) in polemica con chi muoveva agli scettici l’accusa di ‘sopprimere i fenomeni’, indaga se l’hypokèimenon, cioè l’oggetto sottostante (chiamato dunque ‘soggetto’), sia tale quale appare (phàinetai); concede ad esempio che il miele appaia dolce, cioè che venga percepito come dolce (e questo è il phàinòmenon), ma solleva il dubbio, se esso sia effettivamente dolce.
Nella filosofia greca più antica, come si accennava, il problema non si pone in questi termini; le questioni che emergono sono piuttosto, a grandi linee:
che cosa è possibile conoscere e quale tipo di conoscenza è concessa all’uomo? Quali sono i limiti tra il conoscibile e l’inconoscibile? Quale la differenza tra conoscenza umana e conoscenza divina? In Platone si trova trattato un problema più specifico: come è possibile venire a conoscere qualcosa che prima non si conosceva? Nella sofistica (o nell’eristica) veniva infatti formulato il seguente paradosso: ‘non è possibile conoscere, perché ciò che si conosce è ciò che già si sa o ciò che non si sa, etc. Una formulazione del paradosso eristico, per il quale anche Aristotele proporrà una soluzione (infra), si ha nel Menone:
XIV. MEN. Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quale delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l’imbrocchi, come farai ad accorgerti che è proprio quella che cercavi, [e] se non la conoscevi? SOCR. Capisco quel che vuoi dire, Menone! Vedi un po’ che bell’argomento eristico proponi! l’argomento secondo cui non è possibile all’uomo cercare né quello che sa né quello che non sa: quel che sa perché conoscendolo non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa perché neppure sa cosa cerca. MEN. E non ti [81a] sembra, Socrate, che sia questo un ragionamento assai ben condotto? SOCR. A me no!
Questo porta Platone a cimentarsi con il problema più generale: b) come è possibile venire a conoscere qualcosa? Si parte da conoscenze preesistenti? Platone risolve il problema con la celebre dottrina dell’anamnesi (che secondo alcuni interpreti non sarebbe una dottrina condivisa da Platone, il quale addirittura la criticherebbe; ma si tratta certamente di eccessi interpretativi). Ma a questo punto ci si trova di fronte a un problema ancor più fondamentale: in che cosa consiste la conoscenza autenticamente fondata, o scientifica, e quale è il suo oggetto? In che cosa essa si distingue dall’opinione, dalla semplice credenza, dal sapere non fondato? Si tratta dunque, per la prima volta, di una riflessione epistemologica che si interroga sui requisiti che il sapere autentico deve rispettare per presentarsi come tale. La definizione di conoscenza/scienza (episteme) viene cercata (apparentemente senza successo) nel Teeteto, che è un dialogo aporetico; la distinzione tra opinione e scienza, che vedremo già presente nel linguaggio dell’epoca, viene elaborata e fondata filosoficamente soprattutto nella Repubblica. Cerchiamo però, prima di tutto, di acquisire familiarità con il lessico, filosofico e non, del pensare e del conoscere.
C’è una grande molteplicità di verbi e sostantivi legati all’attività del conoscere. Conoscere, sapere, avere scienza, imparare (venire a conoscere). Facoltà sensoriali e mentali mediante le quali si acquisisce qualche tipo di conoscenza: vedere; verbi legati all’attività del pensiero, pensare, considerare, vedere, contemplare, riflettere; intuire, afferrare, comprendere, opinare. Si possono stabilire in prima approssimazione alcune corrispondenze tra i termini greci e quelli da noi impiegati: Gignoskein (conoscere) eidenai (sapere) epistasthai (avere scienza) noein, (pensare, intuire) dianoèisthai (pensare, riflettere discorsivamente), manthanein (imparare), doxàzein (opinare), pistèuein (credere) theorein (contemplare) phronèin (pensare, e anche esser saggio). E relativi sostantivi: gnosis/gnome (conoscenza), eidesis (sapere), episteme (conoscenza, scienza), nous (intelligenza, intelletto intuitivo) dianoia (intelligenza, intelletto discorsivo) doxa (opinione) pistis (credenza, fede) mathesis (apprendimento) e mathema (disciplina che è oggetto di apprendimento), theorìa (contemplazione)
Possiamo inizialmente servirci di alcune distinzioni concettuali la cui consapevolezza non si può attribuire ai greci antichi, ma che nondimeno possono risultare utili (per quanto filosoficamente problematiche). Consideriamo la differenza tra i seguenti esempi:
Esempi: 1) conosco Marco, conosco Pisa; 2) so che Napolitano è il presidente della Repubblica, conosco la storia d’Italia del dopoguerra; 3) so sciare. Nei differenti casi menzionati si tratta rispettivamente di 1) una conoscenza di cose (oggetti o persone), 2) conoscenza di fatti, 3) conoscenza relativa ad abilità
la differenza tra 1) e 2) sembra evidente dal fatto che non posso dire ‘so Marco’ né ‘conosco che…’. Ma il fatto che in alcune lingue sia possibile (in inglese, ad esempio, ma anche in greco antico) usare un unico verbo (to know ) toglie peso a questa evidenza 3) la conoscenza legata all’abilità presuppone senz’altro la conoscenza di una serie di fatti, ma è qualcosa di più; la mera conoscenza non è sufficiente per avere un’abilità tecnica; posso conoscere tutta la teoria relativa allo sci e non sapere sciare
A Bertrand Russell si deve la nota distinzione tra knowledge by acquaintance e knowledge by description; la prima è una conoscenza di qualcosa che si ha per esperienza diretta, la seconda un sapere relativo a qualcosa o qualcuno con cui si può anche non aver avuto un contatto diretto, ma che posso descrivere in qualche modo; possiamo pensare alla differenza che intercorre tra conoscere una città per esserci stato e conoscerla in base alla descrizione di una guida turistica. Differenza, dunque, tra la conoscenza di cose e la conoscenza di stati di cose, descrivibili mediante proposizioni (rappresentazioni della realtà che possono essere vere o false); o ancor meglio, tra una conoscenza che ha per suo oggetto qualcosa che non è né vero né falso e una che ha per oggetto qualcosa che può essere vero o falso.
In un senso dire che conosco Pisa implica una acquaintance. In un altro posso dire di averne conoscenza se conosco alcuni fatti a lui relativi, o se so riconoscerla, anche senza avere la acquaintance. (la capacità di ri-conoscere qualcosa o qualcuno implica già una conoscenza).
La distinzione in questi termini è troppo semplicistica, un po’ vaga e problematica. Ma interessa qui fissare una differenza percepibile anche a livello sintattico tra conoscere e sapere. Non si dice ‘conosco che Firenze è il capoluogo della Toscana’, ma in questo caso si usa il verbo ‘sapere’. Analogamente, non si dice ‘so Marco’, ma si usa dire ‘conosco Marco’. Grossolanamente possiamo dire che ‘sapere’ è relativo a stati di cose, ‘conoscere’ a cose (in inglese si usa il verbo know per entrambe le eventualità). E tuttavia la conoscenza è relativa a fatti (avere conoscenza della storia d’Italia significa conoscere una serie di fatti, e paradossalmente si può dire ‘conosco un fatto’, ad esempio i fatti del 1848, ma non ‘conosco che x..’. (questo fatto in questo caso viene considerato come un oggetto)
In greco i verbi gignoskein, epistastasthai, eidenai possono tutti (a differenza del nostro ‘conoscere’) introdurre proposizioni oggettive e reggere la congiunzione hoti (‘che’). Anche in greco antico per indicare, ad es., la conoscenza di una persona si usa gignoskein e non eidenai.
La partizione fondamentale del conoscere è, parlando in termini generalissimi, tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale; conosciamo qualcosa nel modo più immediato attraverso i sensi, oppure tramite una riflessione dell’intelletto. E all’interno della conoscenza sensibile il senso preminente appare essere, in particolare per i Greci antichi, la vista. Il modello della vista sensibile viene ben presto proiettato metaforicamente sul piano delle attività mentali e intellettuali. Pensare è vedere qualcosa con la mente, immaginare è creare nella propria mente immagini visibili. Questo vale tanto più nella civiltà greca, che è stata definita una civiltà della visione, nella quale la vista ha un ruolo preponderante. Ma anche molti termini derivanti dal latino che descrivono attività intellettuali e cognitive recano traccia nel loro etimo di una dimensione essenzialmente ‘oculare’. Vediamo alcuni esempi: ‘considerare’ deriva da sidera, osservare gli astri; ‘speculare’ da specio, guardare (speculum, specchio; spettacolo); ‘contemplare’ da templum, che in origine è lo spazio di osservazione che l'augure/indovino descriveva con il suo bastone per osservare e trarre indicazioni dal volo degli uccelli; ‘intuire’ da tueor tueri, guardare dentro.
In greco il caso forse più lampante è il verbo che designa il sapere, oida (io so), che è il tempo perfetto del verbo eidenai , viene da *eido, eidon (tempo aoristo) significa vedo, ma al perfetto non significa vedere, bensi sapere. Ho visto, dunque so (il verbo orào, vedere, ha un altro perfetto (eòraka))
Altro verbo indicante il vedere che assume via via un significato più astratto in ambito scientifico-filosofico è theorèin (probabilmente da thèa visione, cfr. thàuma, cosa meravigliosa, che è appunto oggetto di ammirazione; o theà, dea e orao, vedere). theoròi sono gli inviati a consultare un oracolo o gli ambasciatori mandati a partecipare a feste religiose, nelle quali ci si limita a osservare; theorìa significa dunque spettacolo, festa, o la stessa partecipazione a tali eventi. In Platone il termine è, come sempre, usato molto spesso nel suo significato consueto, ma in contesti topici, quelli della visione delle idee e della verità, acquista peso specifico e una particolare consistenza filosofica (es. tò alethèstaton theorèisthai, contemplare ciò che è sommamente vero, Phaedo 65e2; l’anima disincarnata contempla il vero, Phaedr. 247d, cfr. anche Resp. 511c6). Nell’Accademia antica il termine viene a designare l’attività filosofica (in particolare con Eraclide Pontico, come abbiamo già visto). Per Aristotele il fine supremo della vita è notoriamente la theoria, e la forma di vita ad essa dedita il bios theoretikòs,. In Platone non si trova ancora l’aggettivo theoretikòs. Theorìa nel senso di dottrina scientifica è raro e tardo.
Altro termine per noi rilevante è historie (da cui il nostro ‘storia’), che deriva dalla radice id (latino video) e designa l'osservazione dei fenomeni e la relativa descrizione; histor è colui che sa qualcosa per averla vista, osservata direttamente. Da ciò si capisce che in origine lo storico è molto più dello storico nel nostro senso del termine; pensiamo alla historia animalium. Opere come quelle di Tucidide o Erodoto, le cui storie sono appunto osservazione e descrizione di avvenimenti, usi e costumi, sono all’origine del restringimento del significato del termine al nostro uso consueto.
Ma anche il verbo noein, che in seguito viene a significare il pensare intuitivo, indica originariamente in molti contesti il vedere, soprattutto nel senso di ‘riconoscere’, o ‘scorgere’, cioè il vedere istantaneo. Ecco alcuni esempi tratti dall’Iliade.
Appena Menelao caro ad Ares lo vide (enòesen, verbo noèin) venire in fronte alla schiera a gran passi, come gode leone.…così godè Menelao, Alessandro bello come un dio vedendo con gli occhi…Ma come lo scorse (enòesen), verbo noèin) Alessandro bello come un dio/apparire tra i primi campioni, sbigottì in cuore … (Iliade, III 21-30)
Menelao scorge Paride e Paride Menelao. Oppure
Ettore li vide (enòesen) tra le file (Iliade V 590)
Talvolta è espressamente indicato che si tratta di un ‘vedere con gli occhi’
Ettore come vide con gli occhi (enòesen ophthalmòisin) il cugino (Caletore ucciso da Aiace) cader nella polvere davanti alla nave nera (Iliade XV 422-4)
Priamo prega Zeus di mandargli un uccello come segno vedendo il quale (en ophthalmòisi noèsas) troverà Achille.
Quando Ettore vede enòesen Achille viene preso da paura. Il vedere implica qualcosa di più della mera sensazione visiva, un rendersi conto di qualcosa, ed ecco perché noèin assume nel tempo maggiore pregnanza. Ma al tempo stesso vedere e noein sono talvolta nettamente distinti, appunto quando noèin assume la sfumatura di ‘riconoscere’
Lo scorse (idòn ) e lo riconobbe (enòese) Achille glorioso, piè veloce (Iliade XI 599)
Achille vede Nestore e lo riconosce. Gignòskein svolge la stessa funzione:
…Enea Apollo che lungi saetta/conobbe (ègno) guardandolo in viso (idòn) (XVII 333-334)
Talvolta questo noein è un riconoscere nel senso di ‘rendersi conto di una situazione’.
Dopo Omero noein non designa più, in modo diretto, il vedere. Sicchè quando troviamo, già prima di Platone, l'esortazione a guardare con il nous, siamo già su un piano metaforico.
guarda (leusso, poetico) le cose lontane (apeònta) tuttavia vicine alla mente (nòo pareònta)
(Parmenide B4, 9 Diels Kranz )
Il verso è di controversa interpretazione, ma è plausibile che si intenda qualcosa del genere: le cose lontane alla sensazione non si possono vedere o percepire; ciò che cade sotto il nous, invece, anche se lontano (spazialmente, una cosa fisicamente lontana; o qualcosa che è lontano perché distante dall’esperienza immediata) può essere reso presente. Al nòos qualsiasi cosa può essere resa presente; posso pensare a una persona, un oggetto lontano, o a oggetti astratti, come un triangolo, che non cadono sotto la mia esperienza immediata. Ciò che comunque ci interessa è che si possa guardare qualcosa con il noùs
Ugualmente in Empedocle.
Ma la concordia, tu mirala con la mente (nòos); non rimanere stupefatto con gli occhi (Empedocle B 17,30, trad. C. Gallavotti)
Si trovano anche metafore di questo genere: in Eschilo, phren ommatomène (Coefore 854) (mente provvista di occhi, nel senso di “vederci bene, capire”; o, nelle Eumenidi (103), Egisto dice: non potranno ingannarmi, perché ho mente provvista di occhi .
E ancora, Ippocrate nel perì tèchnes (11, 6-12) parla di sintomi e situazioni patologiche non visibili, cui bisogna arrivare con il ragionamento; di quello che sfugge alla vista degli occhi ci si può impadronire con la vista dell’intelligenza (tès gnòmes hòpsis) e con il ragionamento (logismòs)
Accanto alle metafore visive, anche le metafore tattili trovano molto impiego nella designazione di attività intellettuali, ancora nella nostra lingua. Pensiamo a verbi come comprendere, apprendere, afferrare, capire (dal latino capio, prendere), che rimandano tutti all’atto dell’impadronirsi di qualcosa prendendola tra le mani. In greco, sebbene sia presente l’impiego di tali metafore, raramente verbi che rimandano all’azione del prendere (lambànein e derivati) vengono a designare ordinariamente attività di comprensione intellettuale. Uno di questi è il verbo katalambànein Sarà lo stoicismo a coniare il termine tecnico di kataleptikè phantasìa e katàlepsis, rappresentazione comprensiva o catalettica, che è una rappresentazione che parte da un oggetto esistente, è ad esso pienamente corrispondente, è impressa nell’anima come un oggetto non esistente non potrebbe fare ed è dunque evidentemente vera. Il termine è introdotto da Cicerone nel lessico filosofico latino ed è all’origine della preponderanza dei verbi ‘tattili’ nella nostra lingua. Plutarco (Cicero 40.2, 1-6) ci informa (se ce ne fosse bisogno) che Cicerone trasponeva i concetti della fisica e della dialettica nella lingua latina, tra cui appunto katàlepsis
Platone, nonostante la preminenza delle metafore visive, fa ricorso anche a metafore tattili; quando il dialettico giunge alla visione dell’idea del bene, la ‘tocca’
per secondo segmento dell’intelligibile io intendo quello cui il discorso attinge con il potere dialettico, considerando le ipotesi non princìpi, ma ipotesi nel senso reale della parola, punti di appoggio e di slancio per arrivare a ciò che è immune da ipotesi, al principio del tutto; e, dopo averlo toccato apsàmenos autès, 511b7
In Aristotele ciò è ancor più visibile: egli ricorre spesso al verbo thiggànein, in particolare, in senso tecnico, per indicare il modo di apprensione delle entità incomposte, le essenze, per le quali non si dà verità e falsità nel senso consueto, ma solo apprendimento o non apprendimento; esse si colgono o non si colgono (metaph. 1051b; cfr. anche 1072b), sono oggetto, diremmo noi, di intuizione immediata (cfr. supra, la voce Verità).
Intuizione designa in generale una comprensione intellettuale immediata, concepita in base al modello della visione. Il verbo noèin viene col tempo a indicare questo tipo di attività intellettuale, il cui organo è il noùs, analogo della vista e definito appunto nel platonismo ‘occhio dell’anima’. La funzione specifica del nous alle origini può essere individuata nella produzione di immagini (Snell); il noos può essere inteso come quell' organo che suscita le rappresentazioni, quasi un occhio spirituale che vede con chiarezza; dal punto di vista funzionale avere nous significa avere idee chiare, corretto intendimento.
Abbiamo detto ‘attività intellettuale’, ma forse si tratta di un’espressione impropria. Proprio perché concepito sul modello della percezione visiva il nous si caratterizza piuttosto nei termini di una passività, è un recepire qualcosa, una funzione ricettiva più che attiva, diversa dal modo in cui solitamente intendiamo il pensare, che è un compiere operazioni (penso alla soluzione di un problema; un lavoro è ben pensato; penso a qualcuno)
Per noi è di uso consueto la coppia concettuale ‘sapere intuitivo’ e ‘sapere discorsivo’; in greco si può con una certa approssimazione fare corrispondere al primo il nous, al secondo la diànoia, dianoèisthai, dove la preposizione dià, attraverso, indica il pensare attraverso una concatenazione, un ragionare, una conoscenza mediata e processuale in opposizione a un’intuizione intellettuale, una conoscenza immediata che afferra direttamente il suo oggetto. Vedremo subito che i fondamenti di questa distinzione si trovano nei dialoghi di Platone, dove comunque la distinzione non è ovviamente così rigida; dianoèisthai è usato spesso in contesti dove si presume una conoscenza diretta e immediata (es. Fedone 65e; Teeteto 209b); tuttavia nella celebre analogia della linea nella Repubblica (infra) diànoia e noèsi vengono distinte in modo netto (anche se non è facile stabilire il contenuto preciso e le modalità di questi due procedimenti). Più difficile è stabilire se ciò dipenda da un uso ancora non rigidamente regolamentato del linguaggio o dal fatto che i due procedimenti non sono mai compiutamente distinti, ma inestricabilmente fusi l’uno con l’altro.
Il culmine della conoscenza è descritto comunque in passi chiave dei dialoghi sempre nei termini di una visione istantanea
Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’ac-[d] cende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima. (VII lettera 341c)
allora a stento, mentre che ciascun elemento (nomi, definizioni, immagini visive e percezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri, avviene che l’intuizione e l’intellezione (phrònesis kài noùs) di ciascuno brillino a chi com-[c] pie tutti gli sforzi che può fare un uomo. (id. 344b-c)
Nel passo appena citato viene sottolineata, poco prima, l’impossibilità di trasmettere a tutti questo sapere, evidentemente perché concepito in termini non discorsivi. Celebre è anche la descrizione, contenuta nel Simposio, della visione della bellezza:
Questo, caro Socrate, diceva la straniera di Mantinea, è il [d] momento della vita che merita, se altro mai, d'esser vissuto dall'uomo: quando contempla la bellezza in sé. La quale, se mai tu la veda una volta, non ti parrà comparabile né con oggetto d'oro, né con veste, né con quei bei fanciulli e giovinetti, alla cui vista ora rimani sgomento, e saresti pronto, tu e molti altri, pur di godere ininterrottamente della vista e della convivenza loro, a durare, se fosse possibile, senza mangiare e senza bere, solo a rimirarli e a star loro insieme. Che dunque dovremo credere che accada, diceva, se ad uno avvenisse di vedere proprio il bello in sé, schietto, puro, immune [e], e non già contaminato da carni umane né da colori né dalle molte altre vanità mortali: se proprio gli riuscisse di scorgere la bellezza in sé, divina e uniforme? (Simposio 211 c-e)
Anche qui si sottolinea il carattere straordinario di questa visione, che si presenta come un vero e proprio evento, possibilmente ripetibile, ma puntuale. Il fenomeno della vista continua dunque a offrire il suo modello alla conoscenza intellettuale in quanto di quest’ultima si sottolinea il carattere intuitivo, paragonabile a una visione istantanea che ci mette in condizione di cogliere un oggetto, di afferrarne la natura e di mantenerne una conoscenza che ci permette di riconoscerlo in qualunque momento. Questo in termini molto generici, ma naturalmente si pone il problema del rapporto tra questo aspetto del conoscere, facilmente equivocabile in termini mistici, e la sua componente logico-discorsiva (v. infra).
Uno dei termini chiave del tema della conoscenza è evidentemente episteme, solitamente tradotto in prima istanza con ‘scienza’, insieme al connesso verbo epìstamai, che deriva dalla preposizione epi e istamai, voce mediopassiva del verbo istemi (porre, mettere, all’intransitivo essere fisso, stabile; episteme è qualcosa che ‘sta saldo’).
Ricordiamo per curiosità l’etimologia fornita da Platone nel Cratilo (412a), da prendersi con le consuete cautele
E certo anche l’e¹pisth¿mh epistème (scienza) indica che l'anima, quella degna di considerazione, e¸pome¿nh epomène (segue) le cose in movimento, e né resta indietro né corre avanti: perciò si deve, introducendo l' eiÅ èi [e], darle nome e¸peisth¿mh epeistème.
Soprattutto a partire da Platone episteme designerà la scienza in senso forte, un corpo di cognizioni sistematico e completo relativo a un campo determinato, il cui possessore è in grado di rendere ragione di ciò che sostiene. Ma questa nozione è piuttosto un punto d’arrivo. In generale il verbo epistamai può indicare un sapere relativo a un’abilità, un saper fare, e in questo senso può essere impiegato come verbo servile che regge un infinito.
Socrate li costringeva a riconoscere che è della stessa persona il saper comporre (epistasthai poiein) tanto commedie quanto tragedie, e che chi, con coscienza dell'arte, è poeta tragico, è anche poeta comico. (Platone, Simposio 223d) Cfr. anche Crat. 390c10: ho erotàn epistàmenos, colui che sa interrogare
Epìstasthai può indicare la conoscenza di un oggetto (gràmmata epìsthasthai, conoscere le lettere), come, semplicemente, la conoscenza di una persona (es. Sofocle, Edipo re 1115). In molti casi corrisponde al nostro ‘sapere’ (Archiloco: so una grande cosa: Alcibiade primo 112e4: ouden epìstamai perì dikàion kai adìkon, non so nulla riguardo alle cose giuste e ingiuste) dunque può essere costruito (anche se tale uso non è molto frequente rispetto ad altri verbi come oida) con una proposizione oggettiva (Lach. 190: epistàmenoi hoti). Episteme in questo senso è un sapere relativo a fatti (Sofocle Trachinie 338)
Il verbo può in effetti indicare una conoscenza in generale, non necessariamente ‘scientifica’. Un esempio eloquente si ha nel Fedone platonico, in un celebre passo sulla dottrina della reminiscenza.
Vedi allora, rispose Socrate, se la cosa sta così. C’è qualche cosa, è vero?, di cui noi affermiamo che è eguale: e non già voglio dire di legno a legno, di pietra a pietra o di altro simile; bensì di cosa che è di là e diversa da tutti questi eguali, dico l’eguale in sé. Possiamo di questo eguale in sé affermare che è qualche cosa, o non è nulla affatto? - Dobbiamo affermarlo sicuramente, disse Simmia; proprio così. - E conosciamo (epistàmetha ) anche ciò [b] che esso è in se stesso? - Certo, rispose. (Fedone 74 a-b)
Socrate non può voler dire che tutti hanno una conoscenza epistemica in senso forte dell’idea dell’uguale (che sarà invece il frutto di un laborioso processo di reminiscenza), ma solo che la maggior parte delle persone ha una conoscenza della nozione di uguaglianza che mette loro in condizione, ad esempio, di riconoscere due cose uguali tra loro, o di usare correttamente il concetto di uguale (senza che per ciò stesso se ne debba conoscere, ad esempio, la definizione precisa).
Nello stesso Fedone (circostanza che ha creato notevoli difficoltà interpretative) Socrate fa uso poco dopo della stessa nozione in senso diverso, e molto più forte:
un uomo che sa (epistàmenos), di quello che sa, è in grado di rendere conto, o no? - Necessariamente, disse, o Socrate. - E credi anche che tutti quanti siano in grado di render conto (didònai lògon) di ciò di cui ragionavamo or ora? (Fedone 76b)
La risposta dell’interlocutore non può che essere negativa. Socrate è uno dei pochi in grado di rendere conto del suo sapere. E’ questo un esempio di torsione e trasposizione del linguaggio comune in senso filosofico da parte di Platone.
In Tucidide si trovano esempi interessanti:.
e se dovessero resistere, anche noi ci eserciteremo nella scienza navale, per più tempo, e quando avremo posto la nostra conoscenza (epistème) su un piano di ugugaglianza alla loro, saremo certo superiori nel coraggio. Storie, 1.121.4.2 - 5.1
Qui episteme si avvicina già all’idea di un corpo di cognizioni sistematico, un sapere tecnico, un’arte del combattimento navale (sinonimo di techne in II 87.4)
Nei dialoghi platonici troviamo spesso l’impiego del termine nel suo significato corrente, in vista però della costituzione di un sapere forte.
Platone conferisce al termine un significato forte nell’ambito della sua ontologia ed epistemologia . Un sapere saldo e stabile, incontrovertibile, che si rivolge a oggetti stabili e immutabili quali le idee. Il tipo di sapere che contrasta con l’epistème è ovviamente la doxa, l’opinione, sapere instabile che/in quanto si rivolge a oggetti in costante mutamento, ma anche altre nozioni sono a questo proposito importanti, come ad esempio quella di pìstis (infra) Partiamo da un passo del Gorgia platonico* (455 c-e) in cui vengono presentate importanti distinzioni.
SOCR. Avanti, allora, ed esaminiamo quest’altro punto. C’è qualcosa che tu chiami ‘sapere scientifico’ (memathekenai)? GORG. Sì. SOCR. E ancora, c’è qualcosa che chiami ‘credere’ (pepisteukènai)? GORG. Io sì! SOCR. E secondo te, sapere scientifico e credere, [d] scienza (màthesis) e credenza (pìstis), sono una stessa cosa o cose diverse? GORG. Personalmente, Socrate, credo che siano diverse. SOCR. Giusto, e potrai convincertene con questa osservazione. Se uno ti chiedesse: "Gorgia, può esserci credenza falsa e credenza vera?", tu, secondo me, dovresti rispondere di sì. GORG. Sì. SOCR. Ancora: può esserci una scienza (epistème) falsa e una scienza vera? GORG. Assolutamente no! SOCR. E’ chiaro, dunque, che credenza e scienza non sono la stessa cosa. GORG. Vero! SOCR. [e] Eppure tanto coloro che sanno, quanto coloro che credono, sono persuasi. GORG. Proprio così! SOCR. Vuoi allora che poniamo due specie di persuasione, l’una dovuta alla credenza non accompagnata da sapere, l’altra frutto di scienza? GORG. Senz’altro!
E’ evidente che in questo passo epistème e màthesis sono considerati sinonimi, ed entrambi sono opposti alla pistis. Dobbiamo sempre porci nell’ottica degli interlocutori dei dialoghi: non possiamo certo aspettarci che Gorgia sia a conoscenza della dottrina dell’episteme che troveremo nella Repubblica né tantomeno che la condivida. Il suo assenso immediato è basato sulla forza semantica del termine: episteme , in quanto tale, indica un sapere certo; una episteme falsa sarebbe una contraddizione in termini. La distinzione tra episteme e pistis, tra scienza e credenza, è ancora basata semplicemente sull’uso linguistico.
Anche nel Teteteto (187b)*, in cui si ricerca proprio la definizione di episteme, Teeteto giunge ad un certo punto a una definizione in termini di ‘opinione vera’ (alethès doxa), basandosi sul fatto che possono esservi opinioni false e che dunque la doxa di per sé, simpliciter, non può identificarsi con l’ episteme (l’implicazione evidente è che Teeteto escluda la possibilità che si dia una episteme falsa, senza perciò stesso condividere la distinzione platonica (infra) tra episteme e doxa, come mostra il fatto stesso che egli definisca l’ episteme come una doxa, sia pure aggiungendo la qualificazione di ‘vera’.
SOCRATE …Dimmi dunque, ancora una volta, che cosa è conoscenza? TEET. Dire che conoscenza è qualunque opinione non è possibile, o Socrate, perché ci sono anche opinioni false: direi che conoscenza è la opinione vera; e sia questa la mia risposta. Se poi, procedendo nel ragionamento, quel che ci pare ora non ci paia più, proveremo a dire qualche cos’altro. Platone, Teeteto 187b
La distinzione filosoficamente fondata tra scienza e opinione, epistème e dòxa si trova invece nel V libro della Repubblica (475e-480a)*
Qui la vera conoscenza (chiamata anche gnòme in quanto condizione di chi conosce (gignòskontos) viene fondata in base alla consapevolezza dell’esistenza di idee, eide, e alla loro conoscenza; chi possiede questa conoscenza è capace di contemplare ad es. l’idea del bello e le molteplici cose belle che partecipano di questa idea, tenendo le due realtà ben distinte, a differenza di chi non è grado di riconoscere l’idea né di starle dietro anche se ben indirizzato da qualcun altro. La vera conoscenza è infallibile e concerne ciò che essendo compiutamente è anche compiutamente intellegibile; ciò che non è, invece, è del tutto inconoscibile, e tale stato è definito ignoranza (àgnoia); ciò che invece è in posizione intermedia tra l’essere e il non essere deve dunque essere oggetto di una facoltà intermedia, che è appunto l’opinione (dòxa); questa è infatti, come l’episteme, una facoltà (dynamis), ma, se è vero che è una facoltà diversa dalla scienza (in quanto si è concordato che l’una è fallibile, l’altra infallibile), essa dovrà anche avere un diverso oggetto. L’ambito della doxa è costituito dalle molteplici cose che si può dire siano e non siano, in quanto non sono ciò che sono essere dette più di quanto non siano il suo opposto (le cose belle possono essere, sotto un differente rispetto, o in un tempo diverso, brutte, a differenza dell’idea del bello, che è sempre bella, simpliciter, senza restrizioni)
In altre parole conoscere è conoscere qualcosa che è, e conoscere ciò che è assolutamente sarà la massima forma di conoscenza, e questa è, secondo la forza depositata nel termine, la scienza; Come nel Timeo , l’esistenza di due forme diverse di conoscenza, l’una superiore all’altra, attestata nell’uso linguistico, è garante dell’esistenza di due generi di realtà.
Così dunque esprimo il mio parere: se l’intelligenza e la vera opinione sono due generi diversi, esistono assolutamente di per sé queste specie non percepibili da noi col senso, ma solo intelligibili: se poi, come sembra ad alcuni, la vera opinione non differisce per niente dall’intelligenza, si devono invece ritenere come fermissime tutte le cose che percepiamo per [e] mezzo del corpo. Ma si deve dire che quelli che quelli son due generi diversi, perché nati separatamente e aventi natura dissimile. Infatti l’un d’essi nasce mediante l’insegnamento, l’altro dalla persuasione: e l’uno è sempre con vera ragione, l’altro irrazionale; e l’uno immobile alla persuasione, e l’altro persuadibile; e dell’uno si deve dire che partecipa ogni uomo, dell’intelligenza gli dèi e piccol numero d’uomini. E se queste cose stanno così, si deve convenire [52a] che vi è una specie che è sempre nello stesso modo, non generata, né peritura, che non riceve in sé altra cosa da altrove, né passa mai in altra cosa, e che non è visibile, né percepibile in altro modo, ed è quella appunto che all’intelligenza fu dato di contemplare: ma v’è una seconda specie del medesimo nome e simile ad essa, sensibile, generata, agitata sempre, che nasce in qualche luogo e di là nuovamente perisce, e che si comprende mediante l’opinione accompagnata dal senso Platone, Timeo 51d-52a
Questo argomento è stato ritenuto uno dei pochi che Platone fornisce direttamente per l’esistenza di idee (eide) e al tempo stesso uno dei più forti. Come si può vedere, la premessa del ragionamento, che fonda la conclusione, è l’esistenza di un sapere forte, qui chiamato (noùs) distinto dal semplice opinare: se esiste il nous, allora esisteranno le idee; se esistono due distinte forme di conoscenza, il nous e l’opinione, allora si daranno due generi di realtà, uno stabile e imperituro, l’altro mobile e soggetto a generarsi e corrompersi. Il primato ontologico spetta alle idee, ma il darsi di una conoscenza forte è assunto a garanzia della loro esistenza. L’esistenza di due tipi di conoscenza è, nell’ordine delle cose, la conseguenza, nell’ordine dimostrativo la premessa del ragionamento.
Anche Glaucone nella Repubblica, come Gorgia nel dialogo omonimo, assente sulla base dell’uso comune del linguaggio. Ma Platone per bocca di Socrate fonda la distinzione su base ontologica, distinguendo due ordini di realtà.
Questa teoria non è esente da problemi. La differenza tra opinione e scienza potrebbe consistere nel fatto che l’una conosce un certo oggetto in modo rigoroso, l’altra conosce il medesimo oggetto in modo non altrettanto rigoroso; con ciò l’esistenza comprovata di due tipi di conoscenza non garantirebbe che ciascuna di queste forme abbia un suo oggetto peculiare. L’ignoranza, poi, è generalmente ritenuta non l’assenza di conoscenza di ciò che non è in nessun modo (altrimenti tutti sarebbero ignoranti per il fatto di non conoscere ciò che non è in alcun modo conoscibile, non perché inattingibile, ma perché, non essendo, non può costituire oggetto di conoscenza), ma la mancanza di consapevolezza dell’esistenza di qualcosa che è (es. ignoravo che esistesse un filosofo di nome Ellopione di Pepareto), oppure la conoscenza erronea di qualcosa che, ugualmente, è (chi pensi che l’ornitorinco è un felino).
La distinzione di episteme e doxa come facoltà distinte, ognuna con un suo ambito ben preciso è alla base della celeberrima analogia della linea nella Repubblica (509b ss.*), che prosegue l’analogia del sole, proponendosi esplicitamente come un suo approfondimento e che andiamo a leggere per intero. Partendo dalla divisione in mondo intelligibile e mondo visibile, una linea viene bisecata e ulteriormente divisa all’interno di ciascuna sezione.
Si tratta di uno dei passi più discussi dalla critica, anche perché le indicazioni di Platone sono tutto sommato generiche e si prestano a varie interpretazioni. Anche in questo caso, prima di entrare nel vivo dell’interpretazione, cerchiamo di chiarire il significato corrente dei termini chiave usati.
eikasìa: dal verbo eikàzo, che significa in primo luogo ‘produrre una rappresentazione somigliante di qualcosa, una sua immagine (eikòn) (e dunque al passivo ‘rassomigliare’), poi anche ‘descrivere mediante una similitudine’ e per questa via inferire da una somiglianza, un’analogia, per cui congetturare, indovinare,. (eikastès è l’indovino). (Thuc. Vi 60.2: VIII 87 eikàzein viene contrapposto a una conoscenza certa, saphès, dei fatti).
Il vocabolo eikasìa è quasi certamente coniato da Platone (si trova in Xen.mem. 3.10.1, e. graphikè; o forse Ippocrate de morbis I.I.10 nel senso di ‘congettura’). Intenderlo come ‘immaginazione’ può essere fuorviante se si intende nel senso di facoltà immaginativa, produzione di immagini. E’ piuttosto una forma di conoscenza che ha a che fare con immagini; in effetti è solo nella ricapitolazione che Platone usa il termine eikasìa; nella prima presentazione parla semplicemente di eikònes, immagini. Da notare che sembra riferirsi prima di tutto alle immagini naturali, cioè ai riflessi: ombre, riflessi degli oggetti nell’acqua, etc. Questi sono evidentemente qualcosa di diverso dalle immagini prodotte artificialmente (prodotti delle arti imitative), che sono piuttosto ‘copie’. E’ molto discusso, di conseguenza, a cosa Socrate si riferisca con l’espressione kai pan to toioùton, ‘e ogni fenomeno simile’ nella traduzione di Sartori, se cioè estenda l’ambito delle immagini anche alle copie o semplicemente alluda a ulteriori possibili forme del fenomeno dell’immagine riflessa (es. il guardare l’eclissi di sole in uno specchio d’acqua, cfr. Fedone 99d).
Considerato il significato ora ricordato di eikàzein, alcuni hanno inteso e. nel senso di conoscenza congetturale: un’ombra fa indovinare al cacciatore la presenza della preda; tramite l’ombra proiettata sul terreno è possibile misurare l’altezza di un edificio (nel momento in cui l’ombra proiettata da un oggetto di piccole dimensioni è uguale alla sua altezza); l’immagine riflessa in uno specchio d’acqua può essere l’unico modo in cui si acquisisce conoscenza del proprio volto, e altri casi analoghi. L’ eikasìa sarebbe dunque una modalità di conoscenza che si serve delle immagini come strumento e questo tipo di conoscenza, non attingendo l’oggetto direttamente, comporta una componente congetturale.
Pìstis, cfr. il verbo pistéuein, credere, avere fiducia in qualcuno; reso generalmente con credenza, o anche con ‘fede’; equivale al latino fides, fiducia; solo tardi, nel nuovo testamento, nel senso di ‘fede in Dio’ (ma è molto vicino a questo significato Platone, Leg. 966d); è usato anche in ambito commerciale, nel senso di ‘credito’ e avere credito. La condizione della pistis è quella di essere persuasi di qualcosa (legato a peithò, persuasione), di avere una convinzione, cfr. Aristotele De anima 428 a 20-21: all’opinione segue la convinzione; non è infatti possibile che chi ha una certa opinione non creda in ciò che è oggetto di questa opinione; da cui anche il senso di ‘prova’. Abbiamo visto nel Gorgia che la pistis, come la doxa, può essere vera e falsa. Nel Timeo (29d) si stabilisce la proporzione seguente: quel che è il divenire all’essere, è la pistis rispetto alla verità.
Notiamo innanzitutto, nell’analogia della linea, la sproporzione nello spazio dedicato ai due segmenti; quello inferiore descritto in assai minor numero di righe (16 contro 58). E’ evidente come a Platone interessi maggiormente l’attività dell’anima descritta nel segmento superiore.
Il problema di fondo si può riassumere così: si tratta di una classificazione onto-gnoseologica, che distingue differenti gradi di realtà e le relative forme di conoscenza, come appare a prima vista, o si tratta piuttosto di differenti metodologie conoscitive degli stessi oggetti? E si tratta di tappe o gradini della conoscenza, tali da far immaginare una progressione, oppure la conoscenza nella sua totalità risulta dal concorso di queste forme, dove ogni oggetto non può che essere conosciuto secondo la modalità corrispondente?
I due generi distinti sono l’intellegibile (noetòn) e il visibile (oratòn). Questo ha già creato difficoltà, in particolare la riduzione del sensibile al visibile; è evidente, infatti, che vi sono realtà percepibili dai sensi ma non visibili. L’eikasìa, inoltre, difficilmente potrebbe costituire una forma di conoscenza autonoma, considerato che ombre e riflessi sono oggetto del senso della vista, esattamente come gli oggetti del secondo segmento (pìstis). Per questo è nata e si è sviluppata, soprattutto in ambito anglosassone, un’interpretazione che si definisce ‘illustrativa’, secondo la quale i due segmenti inferiori si limitano a illustrare analogicamente il rapporto tra i due metodi di conoscenza, matematica e dialettica, descritti nel segmento superiore; la restrizione al visibile si spiegherebbe in quanto prosecuzione dell’analogia del sole; né gli stati cognitivi inferiori né i relativi oggetti avrebbero dunque un’autonoma rilevanza, ontologica o gnoseologica, ma servirebbero solo come analogie esemplificative: in alcuni casi la conoscenza si serve di immagini (cfr. supra ), così come i matematici si servono di immagini sensibili (infra) per illustrare i loro procedimenti.
Secondo altre interpretazioni l’eikasìa consiste piuttosto nel considerare reale (il mondo sensibile) ciò che in verità è solo una copia, un’immagine della realtà autentica (le idee)
Anche dal punto di vista della raffigurazione grafica l’interpretazione è controversa. Sembra certo che la linea vada disegnata in verticale, piuttosto che (come in molti manuali) in orizzontale; si parla infatti del ‘segmento più in alto’. Che i segmenti siano di lunghezza differente si basa sulla lezione anisa (‘disuguali’), ma c’è anche una lezione, seguita da Proco, an isa (‘uguali’) , da alcuni avvalorata perché solitamente dicha tèmnein significa tagliare in due parti uguali. Dividendo in parti uguali, si ottengono 4 segmenti uguali, nel rispetto delle condizioni indicate da Socrate: si divide in due metà uguali la linea iniziale e ciascuna suddivisione in altre due parti uguali, mantenendo il medesimo rapporto. Questa lettura rimane possibile, ma la maggioranza degli interpreti propende per segmenti di differente lunghezza: dal momento, infatti, che Socrate parla in seguito di maggiore o minor chiarezza degli oggetti contenuti nei segmenti, si pensa che la differente lunghezza dei segmenti possa simboleggiare proprio questa differenza; i segmenti più lunghi sarebbero in questo caso quelli corrispondenti ai procedimenti/oggetti più elevati. Secondo altre interpretazioni la lunghezza indica invece la popolazione dei segmenti e dunque i segmenti più lunghi sarebbero quelli corrispondenti agli oggetti di rango inferiore (molti i sensibili, una l’idea).
Se la linea viene divisa in parti diseguali secondo le proporzioni indicate, dapprima secondo un rapporto x/y, poi secondo il medesimo rapporto all’interno di ciascuna delle due suddivisioni ottenute, risulta che il secondo e il terzo segmento (pistis e diànoia) saranno di lunghezza uguale. E’ una conseguenza calcolata da Platone, o un limite della raffigurazione, dal momento che in tal modo verrebbe compromesso il differente grado di chiarezza degli oggetti?
Si è molto discusso, inoltre, sulla possibilità di istituire una correlazione biunivoca tra gradi della linea e le tappe dell’itinerario di liberazione e ascesa all’intellegibile percorso dal prigioniero nel successivo racconto della caverna. Alcune corrispondenze balzano subito agli occhi: nella caverna il prigioniero contempla prima ombre, poi gli oggetti reali che le producono; giunto all’esterno, contempla i riflessi nell’acqua degli oggetti reali; in entrambi i casi il termine estremo (fine della linea, termine dell’ascesa nella caverna) è costituito dal bene, la cui corrispondenza con il sole è garantita dalla precedente analogia. Problematico è però, per questa ipotesi della corrispondenza, che già la visione degli oggetti nella caverna, che dovrebbe corrispondere alla pistis, dunque alla condizione delle credenze ordinarie, sia presentata come una tappa successiva alla liberazione dalle catene. Ma non insistiamo su questo punto: rimangono residui problematici sia a negare del tutto la corrispondenza, sia a stabilirla in modo puntuale. E’ invece più importante, come detto, concentrarsi sui due segmenti superiori.
Va notato subito che le due sottosezioni dell’intellegibile si differenziano per l’uso di due metodi conoscitivi e non per il riferimento a differenti oggetti: nella prima sottosezione (cioè nel terzo segmento, poi chiamata diànoia 511d9; 533a8) l’anima si serve, come di immagini, degli oggetti che in precedenza erano gli oggetti imitati (cioè gli oggetti ‘tridimensionali’ del secondo segmento) e procede a partire da ipotesi, dirigendosi non verso il principio, ma verso la fine. Nella seconda sottosezione, poi chiamata nòesis (511d4) l’indagine procede invece partendo sempre da ipotesi, ma dirigendosi verso un principio non ipotetico (archè anypòthetos) senza far uso di immagini e rimanendo sempre nell’ambito di idee (èidesi di’hautòn). Socrate cerca di chiarire meglio questi procedimenti, ma la chiarificazione effettiva si limita al terzo segmento: il matematico, ad esempio, si serve nelle sue dimostrazioni di figure visibili, che hanno dunque una componente materiale (pensiamo in particolare a modellini di solidi tridimensionali). Ma naturalmente quando parla del cubo o di altre figure non si riferisce alla figura che ha concretamente di fronte, ma al cubo in sé, o al cubo ideale, che è il vero portatore delle proprietà di cui si parla (due cubi materiali non saranno mai perfettamente uguali, o una linea retta tracciata non è perfettamente retta, etc.). Nelle sue dimostrazioni parte da ipotesi, delle quali non rende ragione; ma non è chiaro se il carattere ipotetico del suo procedimento consista nell’assunzione indimostrata dell’esistenza di queste realtà o nel fatto che non ne fornisce una definizione (in altre parole, se il lògon didònai significhi ‘fornire una definizione’ o piuttosto ‘giustificare l’esistenza; che cosa appare ‘evidente a tutti’ (510d1), l’esistenza di triangoli o la loro natura, che dovrebbe essere espressa dalla definizione? Il procedimento si svolge in modo rigoroso e coerente (homologoumènos, 510d2), secondo una concatenazione logica interna, pervenendo a una conclusione
Ma c’è un oggetto specifico del terzo segmento la diànoia ? Da come i procedimenti vengono descritti, sembrerebbe potersi trattare degli oggetti della matematica, che si distinguono per molti versi dalle idee platoniche. Secondo una testimonianza di Aristotele, Platone pose gli enti matematici come intermedi (metaxù) tra le idee e i sensibili; intermedi perché sono molteplici come le cose sensibili (pensiamo a vari tipi possibili di triangolo), ma immateriali come le idee. Molti non sono però propensi a dare credito a questa testimonianza aristotelica. In seguito, tra l’altro (511d2) si dice che gli ‘oggetti’ del terzo segmento sono ‘intellegibili con un principio’ (noetòn metà archès); la differenza tra diànoia e nòesis non consisterebbe dunque negli oggetti di per sé, ma nella capacità di ricondurli a un principio, il che li renderebbe perfettamente intelligibili. All’interno della diànoia, non a caso, si parla del ‘quadrato in sé’, che è l’idea di quadrato.
E’ importante anche sottolineare che questo uso delle ipotesi, nel terzo segmento, appare una necessità inderogabile; l’anima è costretta (anankazomènen) a servirsi di ipotesi e non può andare oltre esse. Non si tratta dunque di una critica interna alle procedure dei matematici, ma di un limite intrinseco insuperabile rispetto alla possibilità che questo genere di sapere pervenga alle idee.
Glaucone parla della geometria e delle tecniche che sono sue consorelle (adelphài): a 530d8 si riparla di queste consorelle, così chiamate dai Pitagorici: matematica, astronomia, musica.
Il quarto segmento è il regno della dialettica (dynamis toù dialèghesthai). Qui le ipotesi non sono considerate principi, ma punti di slancio verso il principio non ipotetico del tutto. Una volta attinto (metafora tattile) questo principio e attenendosi costantemente a questo, è possibile ridiscendere verso la fine (teleutè); il processo parte da questo principio, che è l’idea del bene, e si svolge interamente all’interno della sfera eidetica, passando attraverso idee e terminando in idee, senza più nessun riferimento sensibile. Le indicazioni di Platone sono tutto sommato scarne e non lasciano comprendere sino in fondo la natura di questi procedimenti. Per saperne di più è necessario rifarsi ai dialoghi in cui il metodo dialettico trova ulteriori descrizioni e applicazioni (Fedro, Politico, Sofista, Filebo); ma per gli scopi del momento saranno sufficienti queste indicazioni.
Facciamo infine un rapidissimo accenno alla teoria aristotelica della scienza. Sappiamo già che, se Platone è l’autore che ha coniato un gran numero di termini tecnici filosofici, tuttavia il suo uso di tali termini è sempre piuttosto fluttuante ed elastico. Aristotele, invece, delimita più nettamente le varie sfere delle attività umane e le forme di sapere che ad esse si riferiscono. La teoria della scienza è esposta soprattutto negli Analitici posteriori, che fanno parte della raccolta di scritti logici chiamata Organon (strumento) dagli editori delle opere di Aristotele; ‘strumento’ appunto perché la logica e la teoria della scienza non sono discipline specifiche con un loro oggetto particolare, ma costituiscono piuttosto l’ossatura di tutte le scienze. Possiamo però partire da un passo dell’Etica Nicomachea, 1139 b 14-36, in cui si distinguono cinque ‘stati abituali’ (hexis), cioè possessi stabili, in virtù dei quali l’anima si trova nel vero, affermando o negando; questi sono essi sono l’arte-tecnica (tèchne), la scienza (epistème), la saggezza pratica (phrònesis), la sapienza (sophìa), l’intelletto (noùs). Possiamo porre una distinzione di fondo tra techne e phronesis da un lato, tra episteme nous sophia dall’altro. Le prime sono accomunate dal fatto di riferirsi a un ambito di realtà che può essere diversamente da come è, vale a dire che in quest’ambito l’uomo può operare, modificando la realtà: la techne è un’arte che produce oggetti, che siano concreti (l’arte del costruire, e analoghe) o no (la retorica è una tecnica che produce persuasione; la medicina una che produce la salute, etc.); il verbo caratterizzante questa sfera è poièin, fare; la phronesis non è una techne in quanto non ‘produce’ oggetti esterni al soggetto, ma agisce sulla realtà (decido di fare o di non fare una certa cosa, in vista del raggiungimento di un fine) modificandola; il suo fine è però interno al soggetto stesso che agisce. Le altre (episteme sophia nous) sono accomunate dal fatto di riferirsi a un ambito di realtà che, a differenza del precedente, non può essere diversamente da come è (ouk endechòmenos allos echein) e non è dunque modificabile dall’uomo (non posso decidere come debbono muoversi gli astri, o quali debbano essere le proprietà di un triangolo). L’unico atteggiamento possibile al soggetto nei confronti di questo ambito di realtà è quello della contemplazione (theorèin); Aristotele distingue infatti le scienze teoretiche nel libro E della Metafisica (1025b-1026a)in fisica (episteme physikè, che si occupa di entità separabili (cioè che hanno esistenza autonoma) e mobili, matematica (episteme mathematikè, che si occupa di entità immobili (perché non soggette al divenire) ma a quanto pare non separabili (un oggetto matematico è separabile solo mediante l’astrazione), e teologia (episteme theologikè, così chiamata solo qui, mentre altrove riceve il nome di ‘filosofia prima’) che si occupa di entità separate e immobili (le sostanze soprasensibili e il motore/i motori immobile/i). L’episteme si ha appunto di ciò che non può essere diversamente da come è. Avere scienza consiste, come in parte già sappiamo, nel conoscere le cause in virtù delle quali un oggetto è. Questa conoscenza è un sapere dimostrativo, che avviene mediante dimostrazione (apòdeixis). Letteralmente di-mostrare è il calco del greco apo-deiknumi, ‘mostrare a partire da’. La dimostrazione è strettamente un sillogismo, e un sillogismo scientifico; tale è quel sillogismo che parte da premesse vere, che rappresentano la causa della conclusione, in quanto sue cause sono anteriori ad essa e sono, rispetto alla conclusione, più note. Ci possono essere infatti anche sillogismi non scientifici, basati su premesse solo probabili o indossali (èndoxon è un’opinione probabilmente vera, o ritenuta tale dalla maggior parte delle persone, o dagli esperti, o dalla maggior parte di costoro); oppure sillogismi retorici, o entimèmi (che mancano di una premessa, ad esempio: il coraggio, essendo una virtù, va lodato, dove rimane inespressa la premessa: tutte le virtù vanno lodate). Vale pertanto che ogni dimostrazione è un sillogismo, ma non ogni sillogismo è una dimostrazione. Il sillogismo paradigmatico della conoscenza scientifica è quello di prima figura in Barbara, che parte da premesse universali affermative vere e giunge a una conclusione universale affermativa.
Ma cosa significa ‘anteriori’? Aristotele distingue tra ciò che è anteriore per natura (physei) e ciò che è anteriore rispetto a noi (pros hemàs), e ciò che è più noto per natura e ciò che è più noto a noi. Anteriori' e 'più noti rispetto a noi', sono gli oggetti più vicini alla sensazione, gli oggetti singoli che più immediatamente sono oggetto della nostra esperienza; anteriori' e ‘più noti in assoluto (haplòs), sono invece gli oggetti più universali (tà kathòlou) e più lontani dalla sensazione. Non c’è dunque coincidenza tra l’ordo cognoscendi e l’ordo essendi. La conoscenza procede dal particolare all’universale, che è ultimo per noi, ma primo nell’ordine naturale.
Ora, che cosa garantisce la verità delle premesse? Una premessa potrebbe essere vera in quanto conclusione di un precedente sillogismo, ma evidentemente non è possibile risalire all’indietro all’infinito. Esistono per ogni scienza principi primi indimostrabili, chiamati ‘assiomi’ (axiòmata, da àxion, di valore, degno), che è necessario conoscere per acquisire qualsivoglia sapere. In matematica, ad esempio, è tale il principio per cui sottraendo quantità uguali a entità uguali si ottengono entità uguali (An.Post. 76b14). Ma esistono anche principi comuni a tutte le scienze, quali il principio di contraddizione, che non fungono in genere da premesse nelle dimostrazioni, ma per così dire attraversano le dimostrazioni nella loro interezza. Di tali principi non c’è dimostrazione scientifica, ma essi possono essere mostrati indirettamente per via dialettica (il principio di contraddizione, ad esempio, mostrando che anche una sua eventuale confutazione dovrebbe presupporlo e farne uso, perché deve assegnare ai termini impiegati nel corso della confutazione stessa un certo significato e non un altro). I principi propri di ciascuna scienza sono invece da un lato le ipotesi che assumono l’esistenza dell’oggetto in questione, dall’altro le definizioni degli oggetti di quella scienza; anche delle definizioni non si dà dimostrazione per via sillogistica (non è possibile dimostrare l’essenza di qualcosa, cfr. An.Post. 91a sgg.). Ora, come si acquisisce conoscenza di ciò di cui non si dà dimostrazione?
Ciò che non è oggetto di dimostrazione è oggetto di una particolare facoltà, il nous, intelletto/intelligenza, ma anche intuizione, che procede con metodo induttivo, dal particolare all’universale. In questo senso il nous si può definire ‘il principio della scienza (archè epistèmes, An.post. 88b36), sempre vero (An. post. 100b). Il nous opera in continuità con la sensazione (àisthesis ): dalla sensazione ripetuta di un oggetto si genera la memoria, che è capacità di conservare il ricordo di tale oggetto anche quando esso non sia più presente alla sensazione; dalla memoria ripetuta della stessa cosa si origina l’esperienza (empeiria), e tramite l’esperienza si può pervenire a una conoscenza delle caratteristiche universali di un oggetto e dunque cogliere la sua definizione; questa conoscenza, una volta stabilmente impiantata nell’anima, è principio sia della techne che dell’epistème. Dalla definizione dell’oggetto, infatti, vengono dedotte per via sillogistica le proprietà che ad esso necessariamente appartengono. La conoscenza suprema (sophia) si compone dunque di episteme e nous ; in essa sono importanti sia l’aspetto discorsivo che quello intuitivo. E’importante tenere presente che ogni scienza particolare verte su un genere determinato e che per Aristotele non si dà una scienza universale (mathesis universalis) del tipo della dialettica platonica. Abbiamo visto in che senso una scienza generale dell’essere in quanto essere lasci sussistere nella loro autonomia una molteplicità di discipline, ciascuna riguardante una porzione circoscritta dell’essere, così come, per restare all’analogia del libro Gamma (vedi supra) una ipotetica scienza generale della salute lascia sussistere le molteplici discipline che con essa hanno a che fare a diverso titolo (la dietetica, la farmacologia etc.). Aristotele garantisce così autonomia, dignità e indipendenza alle singole scienze anche a fronte della filosofia, un sapere da lui ritenuto ad esse superiore; un fatto, questo, che avrà importanti ripercussioni nella storia del pensiero filosofico e scientifico occidentale.
Pindaro: tufloVn htor, cuore cieco (Nemea VII 23 ss.)
Fonte: http://omero.humnet.unipi.it/3/matdid/52/Nuove%20Dispense%202006-2007%20Ist.filos.antica.doc
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