Partiti politici

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Partiti politici

 

I partiti politici
Francesco Raniolo
1. Il nome e la cosa
1.1 Verso una definizione 
Ci possono piacere o non piacere, possono godere di buona salute o, più probabilmente, mostrare svariati segni di crisi, tuttavia, è indubbio che i partiti politici costituiscono degli “oggetti” piuttosto familiari dell’ambiente politico degli uomini e delle donne che hanno vissuto nel ventesimo secolo. D’altra parte, appena si esce di poco dal senso comune, non diversamente da quanto accade ogni volta che dal linguaggio quotidiano si passa a codici linguistici più specializzati, siano quelli del linguaggio azione dei politici o quello del discorso riflessivo delle scienze sociali, diventa ben più difficile definire cosa sono e  a cosa servono. Nella prima parte del capitolo vorremmo provare a rispondere a questi due interrogativi. Per fare ciò cominciamo con il porre una distinzione tra una accezione “generalissima”, per così dire universale e perciò a-storica, e una accezione più “specifica” e circostanziata, potremmo dire storicamente situata, di partito politico.
Il primo significato,  più  ampio e generale, consente di cogliere, ad un livello quasi intuitivo, una regolarità della vita politica. In tutti i tempi e sotto tutti i sistemi politici esistono dei «raggruppamenti [più o meno] organizzati in vista della conquista e dell’esercizio del potere politico» (Duverger 1980, 254). Ovunque la sfera della politica abbia acquistato una certa densità organizzativa e stabilità, ovunque le funzioni politiche si sono differenziate al loro interno e rispetto ad altre funzioni sociali, là gli uomini hanno dato vita a degli “aggruppamenti” in lotta tra di loro per la partecipazione all’esercizio del potere politico. In questa dinamica elementare troviamo la dialettica cruciale dell’esperienza politica: quella tra associazione e dissociazione, tra unità e disunità, tra amici e nemici, tra integrazione e conflitto (Duverger 1971; Schmitt 1972; Sternberger 2001).
Questo significato esteso e primigenio di partito politico è già trasparente nella stessa etimologia del termine. Partito deriva dal latino partire, che vuol dire dividere, da cui il termine partizione. Partito sta, dunque, per “parte”, per qualcosa che è divisa dal tutto, per una “frazione” rispetto ad un intero. Ovviamente, possiamo parlare, e di fatto si parla, di “partiti” artistici, o filosofici o religiosi, ecc…, ma quelli che qui ci interessano sono le divisioni che solcano la sfera politica. Vale a dire, quei gruppi che lottano per il controllo della produzione delle decisioni vincolanti una collettività o, come si diceva, per il controllo del potere politico. L’azione elementare del “dividere” in politica ha, però, almeno altre due implicazioni importanti ai fini dell’inquadramento semantico del nostro oggetto.
In primo luogo, ogni “partizione”, ogni scomposizione in “parti”, attiva due processi fortemente correlati, ma che si sviluppano in direzioni opposte. Il primo, rivolto verso l’esterno, è diretto ad affermare e ad ottenere il riconoscimento dell’esistenza e l’individuazione delle singole parti in campo. Il che comporta un processo di costruzione di una qualche forma di identità collettiva. Il secondo processo, invece, è rivolto verso l’interno ed è destinato a rinsaldare la tenuta e l’integrazione del gruppo politico. Ciò avviene attraverso l’identificazione degli individui con la loro “parte” e la conseguente formazione di lealtà e solidarietà durature. A questa incessante dialettica tra interno-esterno, tra riconoscimento e appartenenza, si riferisce un altro termine che, come partizione, deriva dalla comune radice latina, cioè “parteggiare”. Il significato prevalente questa volta è quello di “prendere parte” con/per questi piuttosto che con/per quelli. Tale scelta di campo comporta un impegno materiale e morale, ma anche un coinvolgimento emotivo. Un impegno «determinato dal fatto che [si] condividono convinzioni ed interessi con [altre] persone alle quali ora [si] assicura la [nostra] solidarietà» (Walzer 2001, 83). Un impegno che viene suggellato dal riconoscersi in simboli, rituali e discorsi condivisi. Accreditamento e riconoscimento verso l’esterno, verso gli altri, ed identificazione verso l’interno, verso i nostri, rappresentano le due facce elementari dell’organizzazione e dell’azione politica. 
In secondo luogo, il discorso fatto fin qui implica anche una ben precisa relazione tra “parte” e “tutto”. La scomposizione di una comunità politica in parti tra di loro in competizione/conflitto presuppone l’esistenza di un tutto pluralistico che è passibile di scomposizione. Di più, di un tutto pluralistico che attribuisca valore e utilità alle divisioni. Come avverte Sartori (2000, 22) «quando sosteniamo che il dissenso e la diversità sono buone per il corpo sociale e per la città politica, il sottinteso è che la città politica è fatta, e anzi è bene che sia fatta, di parti. E quelle parti che chiamiamo partiti si sono affermate, storicamente, in forza di quel sottinteso». In sostanza, nell’idea di partito c’è implicita il rigetto della visione unanimistica dell’ordine sociale. Gruppi e partiti politici non sono più visti come un “male”, magari talvolta necessario. Questo giudizio negativo riguarda, invece, le fazioni, cioè quei gruppi che lottano per il potere con finalità esclusivamente di parte. Come affermava Bolingbroke (1733-34) per quanto il partito possa essere «un diavolo politico,  la fazione è il peggiore dei partiti» (cit. in Cotta 2002). Si deve a Hume (1742), invece, la prima classificazione dei partiti politici a seconda che essi derivano «dall’interesse», cioè sono razionali e pienamente giustificabili, «dall’atteggiamento passionale» (affection), o «da un principio astratto o speculativo». In particolare, sarebbero questi ultimi a caratterizzare i tempi moderni. Ma ben più importante, per il pensatore inglese «abolire tutte le distinzioni di partito può non essere praticabile, e probabilmente neanche desiderabile in un governo libero» (ibidem). Si comincia ad affermare, così, una visione positiva della dialettica parti-tutto. Il fazionismo ora non è più un esito “naturale” della presenza dei partiti sulla scena politica ma, al limite, è solo un esito patologico della loro azione.
Quanto detto fin qui coglie la dualità costitutiva dell’azione dei partiti, che possiamo rendere con il contrasto tra la logica dell’identità, che attiene a ciò che i partiti sono e dicono di essere, e la logica della competizione, relativa a ciò che i partiti fanno e alle relazioni che intrattangono tra di loro . La prima logica coglie la faccia espressiva, il loro costituirsi come «collettività identificanti» che rendono possibile il riconoscimento intersoggettivo e la stessa partecipazione. La seconda, invece, sposta l’enfasi sulla faccia strumentale della loro azione orientata da criteri utilitaristici e di negoziabilità degli obiettivi. Qualche breve precisazione è forse utile. In primo luogo, l’identità di un soggetto collettivo (il partito) costituisce non già un’entità monolitica, ma piuttosto un processo complesso di bilanciamento tra esigenze diverse e, in ultima istanza, delle stesse aspettative degli individui che in essa si riconoscono. Gli esiti di questo processo possono essere «sia la modificazione dell’identità dei singoli (nel caso estremo l’uscita dal gruppo), sia la modificazione dell’identità del gruppo stesso (nel caso estremo la dissoluzione dell’identità collettiva)» (Sciolla 1994, 504). In secondo luogo, l’equilibrio tra le due logiche è di tipo ciclico. Più esattamente, «le fasi di formazione dell’identità collettiva registrano l’intensificarsi della partecipazione e la crescente disponibilità della militanza. Una volta, poi, raggiunto l’obiettivo del riconoscimento dell’identità, quando gli obiettivi successivi possono essere conseguiti attraverso la negoziazione, la partecipazione tende a calare»  (Pizzorno 1983, 145) e con essa, anche, il peso dell’identità si fa meno cogente.
1.2 Il partito come fenomeno storico specifico.
Veniamo alla seconda accezione, più specifica e circostanziata, del nostro oggetto. Il riferimento, fatto nel paragrafo precedente all’affermazione di un’idea positiva del partito politico si sviluppa sul piano della storia delle idee (quando nasce e si afferma il “nome” nel senso in cui oggi lo intendiamo). Tuttavia, la “modernità” del partito va colta anche sul piano della storia delle forme organizzative della politica. Ciò è quanto faremo in questo e nel prossimo paragrafo.
Abbiamo già visto come questa evoluzione positiva del termine era presente in alcuni pensatori e filosofi inglesi del XVIII secolo. Ma probabilmente dobbiamo il salto definitivo al controrivoluzionario Burke (1770) che definì i partiti come «onorevoli connessioni di individui». O, più esattamente, come «un corpo di individui uniti per promuovere, attraverso i loro sforzi comuni,  l’interesse nazionale, sulla base di un principio che ha determinato la loro alleanza» (cit. in Cotta 2002, 32 e ss.). Certo il terreno in cui si muovono i partiti di Burke era ancora quello delle assemblee parlamentari e «della cerchia dei colti e degli “illuminati”» (Pombeni 1997, 69) e non ancora quello della società. Si trattava, come si dirà, di partiti di origine interna alle istituzioni. Il punto che, però, merita di essere richiamato è un altro. Parlare di «connessioni onorevoli», di partiti parlamentari o «statuali», implicava già riconoscere le trasformazioni che le forme di organizzazione della politica avevano subito in Occidente a partire dalla dissoluzione della società di “antico regime”. Come non concordare con il giudizio di Carlo Morandi (1997, 4; prima edizione 1945) per cui, nella forma in cui li conosciamo, i partiti «sono nati quasi ad un parto con i moderni diritti di libertà e con gli istituti che vi sono connessi. In Europa è la Rivoluzione francese che li tiene a battesimo: è in quelle lotte e nella crisi che durante il periodo napoleonico ha investito gli anciens régimes del continente ch’essi cominciano a precisarsi, ad assumere colore e vigore». 
Giunti fin qui, non ci resta che tirare le fila di quanto detto. I partiti nella loro forma moderna sono caratterizzati da un imprinting ben determinato: hanno una qualche organizzazione formale (sia pure discontinua), partecipano alla competizione elettorale, aspirano al governo e, come aveva messo in risalto Burke, nel fare ciò sviluppano un orientamento ideale comune. Questa definizione è, per così dire, morfologica. Coglie alcune caratteristiche dei partiti moderni. Dobbiamo a Weber (1986, 282) una definizione analiticamente più precisa: «per partiti si debbono intendere le associazioni fondate su una adesione (formalmente) libera, costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno di una comunità, e ai propri militanti attivi possibilità (ideali e materiali) per il perseguimento di fini oggettivi o per il raggiungimento di vantaggi personali, o per entrambi gli scopi». Ritroviamo nella definizione di Weber i principali elementi caratterizzanti il partito politico come fenomeno sociologico moderno. Li riportiamo di seguito a mo’ di dimensioni cruciali per l’analisi del nostro oggetto. Vi ritorneremo, inoltre, nella prossima sezione utilizzandoli come criteri ai quali ricondurre le prospettive di studio classiche sui partiti. 
1) L’elemento organizzativo ― dato dalla struttura formale associativa che tiene assieme i capi, la cerchia ristretta dei loro collaboratori e i membri con una funzione essenzialmente passiva; questo elemento ci ricorda che l’acquisizione del potere politico implica, anche, la «capacità [dei capi] di costruire e dirigere apparati organizzativi di partito» (Poggi 2001, 149).
2) teleologico ― i partiti sono orientati a realizzare obiettivi deliberati siano essi materiali (come per i partiti di patronato diretti ad acquisire posizioni di potenza per il leader e cariche amministrative per i militanti), o interessi specifici (partiti di ceti o di classe che perseguono coscientemente gli interessi delle loro basi sociali), o ideali (come per i partiti ispirati a una intuizione del mondo);
3) competitivo ― il partito moderno si presenta come un’organizzazione costituita per la raccolta dei suffragi e per la presentazione agli elettori di candidati e programmi che essi devono scegliere, così, attraverso i partiti, la partecipazione dei cittadini mira ad «influenzare e controllare la direzione» dello stato;
4) istituzionale ― i partiti politici in senso moderno sono possibili solo all’interno di uno stato di tipo liberal-democratico (ovviamente il riferimento è ai partiti “democratici”) che attraverso procedure costituzionali e il riconoscimento di diritti soggettivi fondamentali limita il potere. 
Non va dimenticato, poi, che dalla definizione di Weber si ricava che l’azione dei partiti si colloca tra gli strumenti della distribuzione della “potenza” in una comunità . Il partito che ottiene il successo elettorale (vote-seeking) traduce il suo credito politico in influenza sociale o, più precisamente «nella facoltà di emettere e far eseguire comandi pubblicamente validi» (Poggi 2004, 54). Ciò, di norma, avviene attraverso tre meccanismi di base (Blondel 1994): il controllo delle cariche pubbliche (office-seeking), la distribuzione delle risorse pubbliche (patronage) e la possibilità di indirizzare le decisioni e le politiche pubbliche (policy-seeking), i «comandi pubblicamente validi» di Weber. In questo modo i partiti diventano fattori di stratificazione sia organizzativa che sociale. Cioè, rendono possibile un accesso diseguale alle risorse politiche sia all’interno dell’organizzazione partitica che del più ampio sistema politico. Inoltre, nella misura in cui tale stratificazione tende a strutturarsi e a diventare durevole possiamo parlare di una vera e propria «forma di dominio».
1.3 A cosa servono i partiti.    
Nel tentativo di inquadrare e definire in prima approssimazione il nostro oggetto siamo partiti da un interrogativo elementare: cosa sono i partiti politici? Il che ci ha anche spinto a chiederci di rimando: quando e perché per la prima volta è apparso il “nome” (profilo concettuale) e la “cosa”  (profilo fenomenico). In realtà, rispondendo a queste domande abbiamo incrociato una questione complementare: a cosa servono i partiti? Con questo secondo interrogativo ci chiediamo cosa fanno, qual è la loro funzione o, da una prospettiva più critica, se è vero che sono diventati «ridondanti» (Daalder 2000). Non è nostra intenzione entrare nel merito dell’analisi funzionale. Qui, faremo riferimento alle funzioni dei partiti in senso debole, cioè non come espressione di una sistematica teorizzazione dei fenomeni politici e sociali (il funzionalismo), ma come una esigenza di inquadramento della realtà. Tuttavia, anche se in questi termini meno impegnativi, o almeno apparentemente tali, non dobbiamo dimenticare che il ragionamento funzionale è zeppo di “trappole” e di “fallacie” (sulle quali rinvio per una trattazione sintetica a Levy jr. 1994).
Da quando si è cominciato a scrivere sui partiti, cercando di chiarirne la distintività rispetto alle fazioni, la prospettiva funzionale ha costituito un tassello saliente della riflessione. Il contributo forse più classico è quello di Bryce (1953; ed orig. 1921) che concludeva la sua analisi con l’affermazione della indispensabilità dei partiti per il funzionamento del governo rappresentativo. Questa indispensabilità, però, non è solo strumentale ma consiste nel tentativo di affrontare il problema della legittimazione politica lasciato senza soluzione dal processo di modernizzazione e di secolarizzazione della società occidentale (Pizzorno 1983). D’altra parte, l’analisi funzionale si è tradotta, spesso, nella stesura di cataloghi più o meno articolati di cose rilevanti che i partiti fanno o dovrebbero fare per il sistema politico . Tra i molteplici contributi mantiene ancora tutta la sua attualità quello elaborato, alla fine degli anni ’60, da Anthony King (1969). Secondo il politologo inglese le funzioni più importanti svolte dai partiti sono:
1. L’integrazione e la mobilitazione dei cittadini. L’azione dei partiti rende operativa nella mente e nei cuori dei cittadini (aderenti e simpatizzanti) l’idea di una più ampia comunità politica. Come suggeriva Otto Kirchheimer (1971, 188-189), i partiti fungono da «canali per integrare individui e gruppi nell’ordine politico esistente, o da strumenti per modificare o sostituire tale ordine (integrazione-disintegrazione)». In breve, avverte Pizzorno (1996, 983 e ss.), da un lato, i partiti «organizzano la partecipazione», il che implica un’attività di «socializzazione e di filtraggio» delle «informi domande che urgono dal basso». Dall’altro, attraverso l’elaborazione ideologica, favoriscono la costruzione «delle identità con le quali pretendono di farsi riconoscere».  
2. La strutturazione del voto. Vi rientrano tutte quelle attività definite genericamente di electioneering, e che hanno a che fare con la formazione degli orientamenti politici e delle opinioni degli elettori, con i processi di propaganda e di educazione, con la necessità di assicurare un collegamento tra candidati e partiti e con l’organizzazione delle campagne elettorali. Insomma, con la felice espressione di Bryce, in questo modo i partiti «producono ordine dal caos» o, nei termini di Morlino (1998; 2003), fungono da «ancore» del consolidamento dei regimi politici, in specie democratici.    
3. L’aggregazione degli interessi. Si riferisce alla nota funzione messa a fuoco da Gabriel A. Almond e Bingham G. Powell (1970), per cui i partiti trasformano le domande sociali e le richieste che sono state precedentemente “articolate” in alternative politico-programmatiche generali . Svolgendo tale funzione i partiti non si comportano come semplici «macchine banali», l’azione dell’aggregare implica sempre un mediare e regolare, una valutazione ed interpretazione. A monte questa funzione comporta, anche, l’esercizio di un ruolo di gatekeeper (di filtro) dei partiti rispetto ai gruppi. «Si tratta, più precisamente, del ruolo giocato dai partiti al governo e all’opposizione) o dal sistema partitico) nel controllare l’accesso dei gruppi di interesse e delle élite alle sedi decisionali e nello stabilire le priorità degli interessi rispetto alle diverse domande» (Morlino 2003, 160).      
4. Il reclutamento dei leader e del personale politico. Come conseguenza del processo di democratizzazione ― e, quindi, di elettoralizzazione ― i partiti hanno finito per controllare, in modo quasi esclusivo, i processi attraverso i quali si assegnano le posizioni di autorità, per tempi più o meno lunghi, in un dato sistema politico. Il monopolio di tale funzione è massimo rispetto alla selezione dei titolari di cariche elettive e, per lo più, anche delle cariche di governo, ma si presenta piuttosto esteso anche con riferimento ad un “paniere” più o meno ampio, a seconda delle epoche storiche e dei paesi, di cariche amministrative. La trasformazione dei partiti in selettorati rappresenta un formidabile passo avanti, non privo, però, di rischi esiziali, nella ricerca di forme di organizzazione della politica più democratiche.     
5. L’organizzazione  del potere di governo. Non tutti i repertori delle funzioni partitiche danno spazio a questo tipo di attività, eppure essa costituisce probabilmente un aspetto cruciale del funzionamento dei moderni sistemi politici democratici (e non). Innanzi tutto, perché i partiti svolgono una funzione «costituzionale» nel senso, ricordato da  Lowi (1999), di costituente, fondante, dello stesso regime democratico. Il che richiede, primariamente, la capacità di «canalizzare e socializzare il conflitto sul controllo del regime» (ibidem, 184) piuttosto che di definire le scelte del governare (le policies). In secondo luogo, perché i partiti assolvono ad importanti compiti procedurali o istituzionali. Il che implica che essi siano in grado di risolvere e di gestire i complessi problemi di coordinamento e di operatività impliciti nei rapporti inter-istituzionali ― a partire della fondamentale connessione tra esecutivo e legislativo (sistema di governo). 
6. L’influenza delle politiche pubbliche. Ci si riferisce alla capacità di problem solving dei partiti politici e, più in generale, di influenzare il processo di policy-making. Questa funzione, innanzi tutto, ha a che fare con la capacità di convertire gli impegni programmatici, rispetto ai quali si è chiesto il consenso degli elettori, in decisioni autoritative ― come previsto dalla cosiddetta «teoria del mandato». D’altra parte, è pur vero che il governo dei partiti è fortemente vincolato, sia da costrizioni interne al sistema politico (caratteri delle coalizioni, complessità politica e tecnica delle policies, ruolo della burocrazia, reazioni dei gruppi di interessi, ecc.) che esterne (influenza di decisioni sovranazionali, relazioni internazionali, trasformazioni economiche e sociali, globalizzazione, ecc.).       
Molti studiosi, piuttosto che procedere ad un’elencazione delle funzioni, hanno preferito imboccare un’altra strada che ha condotto alla messa a punto di criteri classificatori più stringenti. Gli sbocchi di questa diversa scelta metodologica sono stati principalmente due. Per un verso, si è cercato di stabilire un ordine di importanza tra le varie funzioni, il che ha portato ad individuare una funzione “minima”, o definiente, cioè senza la quale verrebbe meno la stessa possibilità di parlare di partito politico. In genere, per lo meno in un contesto democratico e pluralista, il riferimento è alla “funzione elettoralistica” (Sartori 1965, ora 2005; Epstein 1967). Parlare di una funzione “minimale” dei partiti significa sostanzialmente individuare il requisito funzionale che consente di discriminare i partiti politici da altre specie di attori politici, siano essi le fazioni del passato, i gruppi di pressioni, i movimenti sociali o le burocrazie. D’altra parte, una volta che i partiti politici vengono inquadrati sulla base di una attività svolta in maniera esclusiva, residua la necessità di distinguere le diverse specie di partiti. A tal fine può essere d’aiuto il ricorso a classificazioni funzionali più estese come quella di King. Il che, per esempio, ci permette di distinguere tra partiti di governo e partiti di opposizione, o tra partiti sociali (o di origine esterna) e partiti istituzionali (o di origine interna), e così via.
Per l’altro, alcune soluzioni hanno “ridotto” le tipologie funzionali provando a compendiare le diverse funzioni in classi più generali, in genere costruendo delle dicotomie per così dire macro-funzionali. Di questo tenore è la distinzione tra funzioni di input e funzioni di output spesso ricorrente in letteratura. Su questa scia si può ricordare il contributo di Alessandro Pizzorno (1980, 13; si veda anche il contributo seminale di Pasquino 1980) che propone di distinguere tra funzione di «trasmissione della domanda», cioè di richieste di provvedimenti politici che sorgono in seno alla società e si indirizzano al sistema politico, e «esercizio della delega», il che indica «i modi attraverso i quali i partiti vengono delegati ad agire per la conquista di quei posti dai quali emetteranno i provvedimenti atti a soddisfare quelle domande di cui sono portatori». Di recente, Stefano Bartolini e Peter Mair (2001) hanno contrapposto una  funzione rappresentativa che include le tradizionali funzioni di articolazione, aggregazione degli interessi e formulazione delle politiche ― oggi in gran parte recessiva, ad una  funzione istituzionale o procedurale che comprende il reclutamento del personale politico, l’organizzazione e il coordinamento delle attività istituzionali relative al governo, al parlamento e ai loro reciproci rapporti, così come ai rapporti con le altre istituzioni che con esse interagiscono ― oggi sempre più rilevante. In particolare, la prima serie di funzioni assicura l’integrazione politica, mentre la seconda serie l’integrazione istituzionale. Ora, il punto cruciale per i due studiosi è che oggi i partiti continuano a disimpegnare l’attività di coordinamento ed integrazione istituzionale ma in un contesto di crescente delegittimazione in conseguenza del fatto che la loro capacità di controllo, organizzazione ed integrazione politica degli elettori e dei gruppi è stata in gran parte erosa. Nei termini proposti nel primo paragrafo, possiamo scorgere in questa dissociazione funzionale il dilemma tra logica della competizione ― per il controllo delle risorse istituzionali ― e logica dell’identità.
Il ricorso alla prospettiva funzionale è uno strumento abituale in mano ai politologi. Tuttavia, è opportuno seguire l’invito di King per cui occorre definire con estrema precisione e nel dettaglio le diverse funzioni e tenere conto della loro evoluzione storica e del loro adattamento alle condizioni del contesto. Non si deve pensare che tutti i partiti espletano tutte le funzioni, né che le funzioni siano in qualche modo astoriche. Al giorno d’oggi alcune sono manifestamente recessive mentre altre mostrano una crescente salienza (Ignazi 1996). Ad ogni modo è la ricerca empirica che ci può indicare quali funzioni siano stabili, in crisi o in espansione e soprattutto che ci deve dire quali sono le conseguenze non intenzionali, gli «effetti perversi» come direbbe Boudon (1983), associate all’espletamento di queste funzioni. 
2. Le prospettive classiche
La seconda parte del capitolo è riservata ad una ricostruzione delle principali prospettive analitiche elaborate dai sociologi della politica e dai politologi per studiare i partiti politici. Per fare ciò ritorniamo alla definizione di Weber e ai quattro elementi caratterizzanti i partiti che da essa abbiamo ricavato (organizzativo, teleologico, competitivo ed istituzionale). In sostanza, ci sembra di poter sostenere che ognuno di questi elementi-dimensioni, con qualche aggiustamento, costituisce il focus attorno al quale si sono costruite le principali prospettive di studio sui partiti. In breve ci si riferisce, con un ordine leggermente diverso rispetto alle precedenti presentazioni, alle seguenti prospettive: quella socio-strutturale, quella organizzativa, quella competitiva e quella istituzionale. Cominciamo l’esposizione dalla prospettiva sociologica o socio-strutturale. 
2.1 La prospettiva socio-strutturale: partiti, cleavages e famiglie politiche
Dal punto di vista socio-strutturale i partiti riflettono le divisioni fondamentali e le linee di conflitto che attraversano stabilmente una società. Per ricorrere ad un termine oramai invalso possiamo parlare di struttura dei cleavages (fratture, divisioni). Nella letteratura specializzata che a partire dal dopoguerra  ha affrontato il tema non è stato sempre chiaro cosa volesse dire cleavage. Non a caso, Bartolini e Mair (1990, 213) hanno avvertito che nel dibattito contemporaneo, questo concetto «è rimasto sostanzialmente vago ed ambiguo e pochi tentativi sono stati fatti per specificare le sue connotazioni analitiche». Da qui la proliferazione di definizioni e di tipologie tra di loro  eterogenee e difficilmente conciliabili (Zuckermann 1975; Ersson e Lane1986; Bartolini 2000). Non  è questa la sede più adatta per ripercorre il lungo e stimolante dibattito sul concetto di cleavage. Dibattito che del restoaffonda le radici in quel filone del pensiero sociologico classico che ha messo a centro della sua analisi la teoria del conflitto (Marx, Weber e, soprattutto, Simmel).
In linea molto generale, si può sostenere che «i cleavages sono i criteri che dividono i membri di una comunità,  o subcomunità, in gruppi» (W. Rae e Taylor 1970, 23). Dal nostro punto di vista, questi cleavages sono “rilevanti” se sono in grado di dividere i membri di una comunità sulla base «di differenze politiche fondamentali» (ivi). Ragionando a ridosso di questa definizione possiamo desumere alcuni dei tratti salienti delle fratture politiche. Innanzi tutto, i cleavages sono delle linee di  divisione, delle fratture, che attraversano una comunità e che costituiscono dei «conflitti particolarmente forti e prolungati, radicati nella struttura sociale» (Flora 2002, 58-59). In secondo luogo, in quanto basi per i conflitti essi costituiscono dei fattori di aggregazione e di identificazione dei  membri di una collettività o di segmenti di essa. In altri termini danno vita a processi di mobilitazione degli individui sulla base dello schema binario amico-nemico. Insomma, sono alla base di quella che abbiamo chiamato logica dell’identità. In terzo luogo, quando ciò accade, e un cleavage acquista salienza, si creano le condizioni per l’affermazione di un soggetto politico (movimento o partito). Va, però, precisato che i partiti assolvono qui ad una funzione ambivalente. Poiché se è vero che da un lato sono strumenti di lotta politica dall’altro, come si è detto (par. 1.3), svolgono anche un’importante funzione di integrazione. I partiti «assicurano l’integrazione di  domande contraddittorie più di quanto non favoriscano l’esplosione dei conflitti senza limiti. Essi possono essere allora più facilmente considerati sia come agenti  dei più diversi conflitti, che organizzano e coordinano, sia come strumenti di integrazione di quegli stessi conflitti» (Birnbaum 1996, 222). In quarto luogo, una volta affermatisi, e superata la sfida dell’istituzionalizzazione i  partiti politici tendono a sopravvivere alla perdita di rilevanza della linea di conflitto originario.
Cosa possiamo dire, invece, sui tipi di cleavages? Dobbiamo a Lipset e Rokkan (1967) l’ambizioso compito di analizzare la formazione dei sistemi di partito europei dalla prospettiva che qui abbiamo chiamato socio-strutturale. In estrema sintesi, «nel cuore della loro analisi troviamo quattro tipi fondamentali di fratture interpretati come prodotti delle due maggiori rivoluzioni del “lungo XIX secolo”: la rivoluzione nazionale e la rivoluzione industriale» (Flora 2002, 62). Alla rivoluzione nazionale (rivoluzione francese e le sue conseguenze) sono collegate la frattura centro-periferia e la frattura Stato-Chiesa. Alla rivoluzione industriale (a partire dalla metà ‘800) la frattura industriale (o urbano)-rurale e la frattura lavoro-capitale. Grosso modo, lo schema di Rokkan suggerisce la possibilità della comparsa di sistemi partitici di cinque o sei partiti posizionati sul continuum destra-sinistra: un partito conservatore, un partito agrario (o un partito etnico), un partito liberale, un partito confessionale, un partito socialista. Il formato del sistema si complica dopo la «rivoluzione internazionale del 1917», in quei casi dove si registra l’aggiunta di partiti anti-sistema, di origine comunista o fascista. Per di più queste configurazioni tendono ad essere stabili nel tempo. «I sistemi partitici degli anni sessanta riflettono, con poche ma significative eccezioni, la struttura delle fratture degli anni venti (…). Le alternative partitiche e in numero considerevolmente alto di casi le organizzazioni di partito, sono più vecchie degli elettorati nazionali» (Rokkan e Lipset 1967, 50).
Lo schema «tipologio-topologico» di Rokkan non va, però, letto in termini meccanicistici. Alcune fratture, come quella stato-chiesa e, soprattutto, quella tra operai e datori di lavoro, hanno lasciato tracce sulle altre e hanno acquistato una maggiore salienza (Crouch 2001). Ma forse il punto più importante è che l’esistenza di una data frattura non si traduce automaticamente nella formazione di uno specifico partito. Qui entrano in gioco, non solo le condizioni istituzionali (come vedremo nel prossimo paragrafo), ma anche le strategie degli attori sociali e politici, i loro sistemi di alleanze e di opposizione. A limite, gli attori politici possono attivare ex novo o rivitalizzare una data frattura o, all’opposto, pur in presenza di condizioni «oggettive» adeguate possono non riuscirvi. I partiti, in questo gioco non sono né agenti passivi né attori liberi. In realtà, essi agiscono strategicamente nel tentativo di politicizzare le fratture per loro più favorevoli e di de-politicizzare quelle che non lo sono. Lo stesso vale se ci chiediamo come l’esistenza di un dato cleavage si traduca, o meno, nella comparsa di un certo tipo di partito. Kalyvas (1996), per esempio, mostra come l’affermazione di partiti democristiani sia stata la conseguenza di strategie difensive della chiesa cattolica in risposta alle pressioni liberali e anticlericali diffuse in alcuni paesi alla fine del XIX secolo. «La formazione dei partiti confessionali si è compiuta in tre tappe» (ibidem, 354). La prima, coincide con la strategia organizzativa difensiva, si formano delle organizzazioni cattoliche di massa che spargono il seme dell’identità cattolica; la seconda, la strategia partecipativa, comporta che queste organizzazioni e coalizioni pro-chiesa si affacciano sulla scena elettorale; la terza, «nonostante le intenzioni della Chiesa e dei conservatori» (ivi), il successo elettorale portò alla affermazione di veri e propri partiti politici confessionali.   
D’altra parte, si è posta la questione del rapporto fra teoria dei cleavages e cambiamento politico. In realtà, per quanto a tutto oggi ci siano molti dati a favore della tesi della sopravvivenza della struttura originaria delle fratture (Lijphart 2001; Crouch 2001), non mancano evidenze contrarie (Flanagan e Dalton 1984; Dalton e Wattemberg 2000; Kervonen e Kuhnle 2002). In generale, i processi di mutamento delle fratture sono riconducibili all’una o l’altra delle seguenti fattispecie, o ad una loro combinazione: perdita di rilevanza delle fratture tradizionali ― declino elettorale dei partiti tradizionali (classisti e religiosi); riattivazione di fratture latenti ― comparsa dei partiti etnico-regionalisti; l’attivazione di nuove linee di divisione ― formazione dei partiti ecologisti o dei partiti populisti.
La prospettiva socio-strutturale, infine, può arricchirsi qualora la formazione dei partiti politici venga ricollegata all’esistenza di  familles spirituelles (von Beyme 1987). La nozione di famiglia spirituale o ideologica rinvia al fatto che i partiti politici si possono ricondurre a delle specifiche «comunità di valori e di norme» (ibidem, 17) o, se si preferisce, a delle «comunità di destino». Tuttavia, non si deve indugiare oltremisura sugli aspetti «spirituali» e volontaristici delle famiglie politiche. Innanzi tutto, l’analisi delle famiglie ideologiche deve far tesoro dell’avvertenza di Barnes (1966, 523): «ogni volta che le ideologie appaiono importanti in politica, ciò avviene perché possiedono una solida base organizzativa». Inoltre, esse hanno un preciso collegamento con i «grandi conflitti (...) sociali che hanno determinato la nascita di specifici partiti» (von Beyme 1987, 12-13). Il che, per inciso, consente di integrare l’approccio delle famiglie ideologiche con quello dei cleavages. In breve, riprendendo il contributo di Bartolini (2000), potremmo dire che il punto di vista socio-strutturale enfatizza tre fondamentali dimensioni dell’agire politico: la base sociale, l’esistenza di comunità di valori e di un network organizzativo. 
La classificazione delle famiglie ideologiche di von Beyme, riproposta da Ware (1996, 21-43), è la seguente: 1) liberali e radicali; 2) conservatori; 3) socialdemocratici e socialisti; 4) agrari; 5) etnici e regionali; 6) cristiano-democratici e protestanti; 7) comunisti; 8) fascisti; 9) di protesta borghesi; 10) movimenti ecologici. Lo schema a 10 classi richiede qualche parola di commento. Innanzi tutto, è piuttosto difficile definire le varie famiglie partitiche, fissarne con certezza i confini, e risolvere i problemi connessi con la classificazione dei casi marginali . D’altra parte, come si è detto prima per i cleavages, alla presenza di alcuni dei conflitti previsti dallo schema non sempre consegue la formazione del partito corrispondente. Affinché ciò accada i partiti devono superare delle barriere che ne condizionano e vincolano la comparsa e l’istituzionalizzazione (Beyme 1987, 11-14 e 19-23). Inoltre, nel corso del tempo i partiti possono cambiare la loro collocazione ideologica, orientarsi verso nuove alleanze, ridefinire le priorità e i temi della propria agenda programmatica. In realtà, questi non sono cambiamenti semplici. I partiti sono prigionieri della loro storia e devono fare i conti con la loro identità.
D’altra parte, i partiti di nuova formazione spesso sfuggono alla classificazione in termini di famiglie ideologiche tradizionali. Infine, anche per le famiglie ideologiche, si pone il problema della persistenza. In un precedente lavoro sui partiti nell’Europa occidentale (Raniolo 2000) si è mostrato come, in oltre mezzo secolo, nell’ambito delle famiglie ideologiche di destra, i partiti confessionali e quelli liberali hanno subito il maggior declino. Per contro, i partiti conservatori hanno avuto maggiore fortuna elettorale. Altre analisi comparative hanno evidenziato la crisi elettorale dei comunisti, mentre per le altre famiglie ideologiche esistono trends più incerti (Lane e Ersson 1996). Inoltre, per quanto gli ultimi vent’anni mostrino una crescita elettorale delle nuove formazioni politiche (i verdi, i partiti populisti e quelli regionalisti), quasi tutti i «partiti rilevanti» nel secondo dopoguerra sono tali ancora oggi (Mair 1997). Una delle poche eccezioni è data dalla destrutturazione del sistema partitico italiano dei primi anni ‘90.
2.2 La prospettiva istituzionale
La prospettiva istituzionale critica l’idea che le determinanti ultime dei fenomeni politici siano da rinvenire nei modelli di conflitto sociale o in altre variabili strutturali, siano esse economiche o culturali. Per contro, rivendica che la lotta politica e finanche le stesse preferenze degli attori in campo sono mediate e condizionate dagli assetti istituzionali. Cioè, dall’insieme di regole, procedure, nome e valori incorporati nelle istituzioni. Nello specifico, tanto la formazione dei partiti che il loro cambiamento, così come altri rilevanti aspetti della loro vita politica sono influenzate principalmente dallo sviluppo delle istituzioni statali moderne. Ciò, però, non esclude come è stato fatto osservare (Stokes 1999, 248), che l’istituzionalismo per dare pienamente conto dei sistemi di partito  necessita dell’integrazione con la prospettiva della «sociologica politica comparata» che abbiamo chiamato conflittuale.  
Secondo Dahl (1980) le democrazie di massa, o come lui preferisce chiamarle le poliarchie, sono dei regimi che offrono ai cittadini delle «opportunità di partecipazione» e di espressione delle loro preferenze e, al tempo stesso, assicurano le «garanzie istituzionali» per fare ciò. Così facendo fissano le «regole del gioco istituzionali di un dato sistema politico» (Rokkan 1982, 140), o come preferiamo dire la struttura delle opportunità di partecipazione. Cioè quella «specifica configurazione di risorse, assetti istituzionali e precedenti storici» (Kitschelt 1986, 58) che rende possibile la partecipazione e la mobilitazione dei gruppi e dei cittadini . Storicamente questa struttura è il prodotto di processi e trasformazioni di lunga durata dei sistemi politici europei (Hintze 1980). In questo scenario «il XVIII secolo appare come un’interruzione fondamentale nella storia dell’Europa occidentale. Prima di allora le masse popolari erano completamente escluse dall’esercizio dei diritti pubblici; da allora, sono diventate cittadini, e, in questo senso, partecipi della comunità politica» (Bendix 1969, 92). Il nuovo quadro delle relazioni tra individui e stato che ora si viene strutturando poggia su due pilastri: il sistema delle libertà personali centrate sul riconoscimento dei diritti soggettivi e lo sviluppo delle istituzioni rappresentative basate sull’affermazione del diritto di voto. Ovvero, sulla cittadinanza civile e sulla cittadinanza politica (Marshall 1976).
La ricostruzione di questi sviluppi è al centro di uno dei contributi più noti di Rokkan (1982; 2002). Secondo il politologo norvegese la strutturazione della politica di massa in Europa può essere guardata, oltre che dalla prospettiva dei cleavages sulla quale ci siamo soffermati nel paragrafo precedente, da una prospettiva che possiamo chiamare top-down che enfatizza la «risposta del sistema: gli output d’adattamenti istituzionali di fronte alle pressioni dal basso e dall’esterno» (Rokkan 1982, 140-142). Questi output istituzionali possono essere considerati come delle «soglie», o delle «chiuse», che vengono superate durante il processo di democratizzazione. Vediamole più da vicino. 
1. La soglia della legittimazione; implica il riconoscimento da parte delle élites politiche dei diritti di petizione, di critica, di dimostrazione contro il regime, della libertà di opposizione. Nei termini di Isaiah Berlin potremmo parlare di libertà negative. Ciò richiede la tutela dei diritti di associazione e di unione, di espressione e di stampa. Il superamento di questa prima soglia comporta anche un ulteriore aspetto spesso trascurato. L’affermazione del «governo responsabile» nei confronti delle assemblee parlamentari. Un elemento costituzionale, questo, altrettanto importante del diritto di associazione e del suffragio universale per spiegare la comparsa dei partiti (Sartori 1976). Liberalizzazione e cittadinanza civile agiscono da pre-condizioni per la comparsa e la moltiplicazione di nuove forme di sociabilità e di associatività.
2. La soglia dell’incorporazione; il superamento di questa soglia richiede la comparsa dei diritti di partecipazione politica. Qui ci imbattiamo nel processo di estensione del suffragio, fino al limite del riconoscimento eguale del voto a tutti i cittadini, maschi e femmine (anche se il suffragio femminile dovrà aspettare ancora parecchio), con il solo vincolo dell’età. Questo processo si approssima a due modelli storico-ideali, quello francese, che prevede l’abbassamento immediato della barriera alla partecipazione delle masse, e quello inglese, dove l’estensione del suffragio segue modalità più graduali. Inoltre, questa fase comporta il riconoscimento di alcuni elementi di contorno al diritto di voto, come l’abolizione del voto plurimo e, soprattutto, la garanzia della segretezza del voto.
3. La soglia di rappresentanza; si supera quando si indeboliscono le barriere istituzionali alla rappresentanza dei nuovi partiti politici. Il che accade quando a sistemi elettorali chiusi e «selettivi» si sostituiscono sistemi elettorali più aperti e «proiettivi». In altri termini, quando i metodi di scrutinio maggioritari vengono rimpiazzati da metodi proporzionali. Con l’esclusione della Gran Bretagna e di altri pochi casi riconducibili alla sua esperienza, l’abbassamento di questa soglia ha riguardato, pur con tempi e modalità diverse, l’intera Europa continentale. Come afferma Schattschneider (1998, 154), adesso l’attenzione della politica «non è più sul diritto a votare ma sull’organizzazione della politica» (ibidem, 156).  Il che apre l’era dell’ingegneria elettorale.
4. La soglia del potere esecutivo, infine, è relativa al riconoscimento della responsabilità del governo a tutti i partiti o coalizioni di partiti che riescono a controllare la maggioranza dei seggi parlamentari. Come afferma lo stesso Rokkan (1982, 160): «quanti voti, quanti seggi sono necessari prima che sia data al partito la possibilità di influenzare realmente le decisioni cruciali per il sistema politico?». Ovviamente, ciò non dipende solo da problemi di aritmetica politica, o dall’eventuale capacità dei sistemi elettorali di costruire «maggioranze artificiali», ma da condizioni che attengono alla cultura politica delle élites e dei cittadini. Ma anche al grado di legittimazione dei contendenti e al livello di accettazione degli esiti dal gioco politico, qualunque essi siano. 
Le prime due tappe hanno a che fare con il superamento della politica ristretta e cospirativa delle élites e l’avvento della politica di massa. Dahl, sintetizza questa evoluzione quando parla dei processi di liberalizzazione e di inclusione. D’altra parte, nelle democrazie contemporanee è presente una tensione strutturale tra questi due processi, o se si preferisce tra orientamenti costituzionali e partecipativi (Eisenstadt 2002). Comunque sia, il risultato più rilevante della massificazione della politica «sarà quasi invariabilmente una corsa all’organizzazione per il reclutamento del sostegno e per il consolidamento delle identità politiche» (Rokkan 2002, 326). Compaiono i partiti organizzati di massa e si assiste alla istituzionalizzazione dei canali di voice. Comunque, anche nel superamento delle quattro soglie di Rokkan non c’è nulla di deterministico e unilineare. Di certo, non è sostenibile una ricostruzione di maniera che interpreti la storia politica dell’Europa contemporanea come un inesorabile processo verso la democrazia e l’emancipazione. Tra i diversi paesi ci sono delle chiare differenze nei tempi e nelle modalità di superamento delle diverse soglie e in alcuni, addirittura, appaiono delle drammatiche barriere e si verificano delle discontinuità, più o meno lunghe, del regime democratico. Forse la stessa tipologia delle soglie di Rokkan andrebbe aggiornata. Nelle democrazie avanzate, infatti, ne sembra attiva una quinta che possiamo chiamare soglia della governance. Potremmo chiederci, allora, a quanta rappresentanza ed effettività della cittadinanza è disposta a rinunciare una democrazia allo scopo di assicurare certi livelli di efficienza del sistema politico?

Tav. 1 –  I “sentieri” verso la democrazia e tipi di partito

 

 

USA

 

Regno Unito

 

Germania

 

Belgio, Olanda, Scandinavia

Riconoscimento dei diritti civili e instaurazione del governo responsabile

presto

presto

Tardi

relativamente presto

Introduzione del suffragio universale

presto

gradualmente

Presto

gradualmente

Industrializzazione e urbanizzazione

tardi

Presto

Presto

tardi

Tipi di partito

partito di patronage

partito di elite

partito di massa

partiti interclassisti (religiosi), partiti sezionali (agrari)

Fonte: Daalder (2001, 42); con adattamenti.

Un interessante schema di sintesi di queste prime due prospettive di analisi dei partiti è stato proposto di recente da Daalder (2001). In questo schema le prime democratizzazioni sono associate a tre processi cruciali: l’affermazione del governo responsabile e delle libertà civili, l’estensione del suffragio e il processo di industrializzazione-urbanizzazione. Abbiamo riportato lo schema di Daalder nella tav. 1 con qualche aggiustamento e aggiungendo l’ultima colonna e la riga relativa ai tipi di partito. Sulla base della combinazione dei tempi e delle modalità dei vari processi si possono individuare diversi sentieri che conducono alla democrazia. Una volta imboccate queste strade condizionano gli sviluppi futuri dei diversi paesi e la stessa «qualità» dell’esito democratico. Ben più rilevante per il nostro discorso, è la centralità che in certe condizioni possono assumere i partiti nell’assicurare quel risultato. Essi, infatti, possono funzionare da fattori di ancoraggio. Innanzi tutto e direttamente, attraverso la costruzione di una pervasiva organizzazione che penetra in profondità la società e il controllo delle relazioni con gli interessi economici (gate-keeping). Ma anche, per il ruolo che essi possono svolgere nell’attivazione di reti clientelari o, più indirettamente, nel funzionamento di assetti neocorporativi (Morlino 2003).
2.3 La prospettiva organizzativa
Non abbiamo difficoltà a condividere l’affermazione di Panebianco per cui «qualunque altra cosa siano i partiti e a qualunque altro tipo di sollecitazioni possano rispondere, essi sono prima di tutto organizzazioni e pertanto l’analisi organizzativa deve precedere ogni altra prospettiva» (1982, 10; corsivo nostro). Eppure, negli stessi anni in cui scriveva Panebianco, Janda (1983, 319) affermava, non senza ironia, che «le organizzazioni partitiche sono i leprechaunus della foresta politica, leggendarie creature dotate di speciali poteri che non si fanno vedere». Ciò non vuol dire, ovviamente, che il tema della dimensione organizzativa dei partiti sia stato del tutto trascurato dalla scienza e dalla sociologia della politica. Schiere di studiosi si sono esercitati e hanno sviluppato i contributi seminali di Ostrogorski, Weber, Michels, Duverger. Né si deve pensare che il giudizio del politologo americano sia eccezionale. Circa dieci anni dopo la valutazione di Janda, Katz e Mair (1992, 2) affermavano che «nonostante l’ampia conoscenza e comprensione che deriva dalla vasta letteratura [sui partiti], e nonostante il grande volume di dati che sono stati raccolti, noi continuiamo a sapere sorprendentemente poco circa lo sviluppo organizzativo dei partiti». E concludevano asserendo che «la dimensione organizzativa è oggi una delle rarissime lacune che restano nella ricerca cross-national sui partiti, e solo per questa ragione essa merita una sostanziale indagine» (ibidem, 3). A questo punto di vista tradizionalmente negletto dedichiamo il resto del paragrafo.
In particolare, l’analisi organizzativa dei partiti si è sviluppata lungo alcune direttrici di ricerca destinate, in un modo o nell’altro, ad integrarsi. Rientrano in questo ambito tre filoni di studio relativi rispettivamente alla costruzione dei tipi di partito, all’analisi della loro forza organizzativa e del cambiamento organizzativo. Ai tre settori di ricerca individuati da Mair (1992) possiamo aggiungere anche quel filone di studi che ha indagato la fase genetica dei partiti dal punto di vista organizzativo e la loro istituzionalizzazione (Panebianco 1982; Bartolini 1996; Randall e Svåsand 2002). Qui isoliamo, per la sua rilevanza scientifica e didattica, il primo tema; per alcune riflessioni sugli altri tre rimandiamo a Raniolo (2004; 2005). Sul piano espositivo prenderemo come base della nostra ricostruzione la classica tipologia tripartita: partito di èlite, partito di massa e partito elettorale . Mentre, sotto il profilo teorico proponiamo di concettualizzare il partito come un’organizzazione complessa che persegue una molteplicità di scopi,  vote-, office- e policy-performances (Strom 1990), e che tende soprattutto alla sopravvivenza e all’espansione della stessa organizzazione. Nello specifico ciò ci consente di ricostruire la sequenza di tipi storici alla luce di un’ipotesi di base per cui ogni partito, in quanto organizzazione, deve far fronte a quattro problemi organizzativi cruciali: quello dell’azione collettiva, quello del coordinamento, quello della mobilitazione delle risorse e quello strategico. La tesi è che i diversi tipi di partito si differenziano per la rilevanza attribuita e la soluzione data ad ognuno dei quattro problemi organizzativi e, in generale, per la l’enfasi assegnata ad uno dei due corni del dilemma dell’azione strategica: identità o competizione,  si veda la tav. 2 ― e la recente rassegna critica di Ignazi (2004). 
Iniziamo il nostro esame dai partiti di élite. Si tratta di partiti «aristocratici» e «borghesi» o, se si preferisce, conservatori e liberali, formatisi in un contesto di suffragio limitato, prima in Gran Bretagna e poi diffusisi nel resto dell’Europa. Dal punto di vista della partecipazione sono partiti, per dirla con Neumann (1971, 152), di «rappresentanza individuale», cioè rappresentano gli interessi di segmenti ristretti di elettori. L’attività partecipativa si risolve sostanzialmente nel voto, mentre la membership di partito è costituita da gruppi limitati ed élitari. D’altra parte, sia che essi si presentino come coalizioni di notabili o come semplici seguiti personali, il rapporto con i leader si basa su relazioni personali e sulla deferenza. La base del potere dei leader di partito è data dalla traslazione dei privilegi sociali ed economici in influenza politica. Con le parole di Duverger (1961, 105-106), nel partito di élite «la qualità predomina su tutto: vastità del prestigio, abilità della tecnica, importanza della ricchezza. Ciò che i partiti di massa ottengono col numero, i partiti di quadri l’ottengono con la qualità». La mobilitazione delle risorse non è problematica e segue canali personali. Il potere politico nell’era dei partiti dei notabili conserva ancora forti tratti patrimoniali (Weber 1986). Sotto il profilo strutturale questi sono partiti “leggeri”, poco organizzati. I partiti di élite hanno una struttura a «fisarmonica», si attivano sul territorio solo in occasione delle elezioni (come comitati elettorali) per ritornare a disattivarsi nel periodo tra due elezioni. Etichette come «partiti di quadri» (Duverger 1961) o «partiti intermittenti di élite» (Sartori 1965, ora 2005), o più di recente, partiti «top down» (Mair 1997), mettono in risalto proprio questi tratti organizzativi. Se, invece, volgiamo lo sguardo alle loro dimensioni strategiche, questi partiti sembrano assorbiti dalle relazioni con le istituzioni. Sono stati definiti «partiti elettorali-legislativi» (Sartori 1965, ora 2005), cioè partiti che rispondono principalmente ad esigenze di coordinamento dell’azione parlamentare e al raccordo che si comincia a strutturare tra governo e assemblee rappresentative. Queste esigenze di coordinamento sono, poi, tanto più avvertite quanto più si considera che la funzione principale di questi partiti è la selezione di rappresentanti che, una volta eletti, dovrebbero seguire nella propria attività parlamentare la propria coscienza (mandato indipendente). Occorreva quindi un meccanismo che evitasse che questa contingenza istituzionale degenerasse in anarchia.

Tav. 2 – Tipi di partito e problemi organizzativi

 

Problemi/processi organizzativi

 

Partito di élite

 

Partito di massa

 

Partito elettorale

 

 

 

Partito
 pigliatutto

Partito professionale, cartel party

 

Problema dell’azione collettiva (partecipazione)

 

Suffragio ristretto, membership limitata ed élitista, incentivi selettivi e di scopo

 

Estensione del diritto di voto e  suffragio universale; membership ampia ed omogenea; legami di solidarietà e lealtà forti; incentivi di appartenenza

 

Suffragio universale; membership eterogenea e aperta a tutti;  de-identificazione e incentivi individuali e di scopo

 

Organizzazione “leggera”, de-differenziata, strutture reticolari, esternalizzazione, centralizzazione decisionale; ruolo nevralgico dei leaders

 

 

Crisi delle risorse interne, finanza pubblica e sponsorizzazione da parte dei gruppi di interesse; canali di comunicazione mediali e virtuali; i partiti come campaign organizations; expertise e conoscenze specialistiche, per es., nel campo delle tecniche di comunicazione; capital intensive 

Competizione su tutto il mercato elettorale; formazione e manipolazione delle preferenze degli elettori; relazioni opportunistiche o neutrali con i gruppi; prevalenza delle funzioni di coordinamento istituzionale e procedurali; logica della competizione (ma anche della collusione); cartellizzazione

Problema del coordinamento
(istituzionalizzazione)

Organizzazione intermittente; bassa penetrazione sociale; relazioni stratarchiche; leadership monocratica o oligarchica

Organizzazione burocratica, diffusa territorialmente e articolata dimensionalmente; internalizzazione delle attività; alta pervasività sociale; incapsulazione organizzativa; leadership democratica con deviazioni monocratiche

Problema della mobilitazione delle risorse

Potere patrimoniale, ricchezza privata; canali di comunicazione interpersonali e  affermazione della sfere pubblica; modello notabiliare tipico dei ceti di possesso e di cultura  

Risorse interne al partito, militanza e tesseramento; labour intensive; canali di comunicazione partitici; competenze generaliste, professionalizzazione (“si vive di politica”) 

 

Problema strategico (identità vs competizione)

Influenza sociale e posizioni ascrittive, rapporto fiduciario con gli elettori; Distribuzione di privilegi e patronage;  integrazione e coordinamento istituzionale; logica della competizione (ristretta, tra élites)

Capacità di rappresentanza e di controllo degli apparati; segmentazione del mercato elettorale (elettorato di appartenenza); strutturazione dei sistemi di partito; rapporti simbiotici con i gruppi ; le funzioni istituzionali sono subordinate a quelle rappresentative; logica dell’identità

 

I partiti di élite, quindi, assolvono ad una cruciale funzione di «integrazione istituzionale» (Bartolini e Mair 2001; Bartolini 2003). D’altra parte, però, l’interpretazione canonica duvergeriana secondo cui i partiti borghesi sono di origine parlamentare (interna) è stata ridimensionata, se non proprio ribaltata, dalle analisi che hanno messo in luce l’importanze del retroterra sociale anche per queste formazioni politiche (Pombeni 1990; Pizzorno 1996). Nella fase del parlamentarismo tra governanti e governati si viene a creare «uno spazio pubblico che dà vita a una nuova forma di sociabilità» (Meyer e Perrineau 1992, 10). Come nell’Inghilterra del XVIII secolo dove tale spazio della sociabilità, o sfera pubblica, «si manifesta in petizioni sempre più numerose, in discussioni in luoghi pubblici, o in luoghi semi privati (taverne, caffè, clubs), dove si riunisce la nuova classe media di commercianti e di professionisti, lettrice di pubblicazioni periodiche (…)» (Pizzorno 1996, 972).
I mutamenti che investirono i sistemi politici, in seguito all’allargamento del suffragio, contribuirono alla crisi della fase parlamentare o «criptodemocratica» dei governi rappresentativi. Si gettarono, allora, le basi per l’instaurazione di un nuovo tipo di regime più congruente con le esigenze della politica di massa: la democrazia dei partiti(Manin 1996). Protagonista di questa nuova era politica fu il partito «burocratico» (Weber 1986) o «organizzativo di massa» (Sartori 1965, ora 2005), o nei termini di (Neumann 1971), il «partito di integrazione sociale», che però accanto alla variate democratica ne conobbe anche una totalitaria. In queste definizioni si scorgono, già, le principali caratteristiche funzionali e strutturali di questi nuovi partiti. Nei nostri termini il modo in cui rispondono ai quattro problemi organizzativi. A differenza di quanto accade ai partiti di élite, per i partiti di massa l’organizzazione della partecipazione e il coordinamento dell’azione collettiva rappresenta un problema cruciale. L’integrazione politica delle masse, che da poco hanno acquistato la cittadinanza politica, costituisce una sfida nuova per il partito di massa. Per affrontare la quale occorrono nuove forme di mobilitazione delle risorse come il tesseramento e il lavoro volontario dei militanti. Ma anche nuove soluzioni organizzative. Per Duverger (1961, 105-106), la distinzione tra questo tipo di partito e quello che lo ha preceduto «non si basa sulla loro dimensione, sul numero dei loro membri: non si tratta di una diversità di misura ma di struttura».  Che, poi, è anche una distinzione di funzioni. Il partito di massa, infatti, «cerca per prima cosa di dare un’educazione politica alla classe operaia (e ai ceti popolari), di suscitare una élite capace di assumere il governo e l’amministrazione del Paese: gli iscritti perciò sono la materia stessa del partito, la sostanza della sua azione. (…) Dal punto di vista finanziario, il partito si basa essenzialmente sulle quote versate dai suoi membri: primo dovere della sezione e di assicurare la regolare esazione».
Con la loro comparsa la partecipazione politica diventa principalmente un fatto organizzativo e associativo (Bartolini e Mair 1990; Kalyvas 1996). Si partecipa attraverso e nei partiti. Innanzi tutto, ciò comporta che l’organizzazione deve essere in grado di distribuire incentivi di solidarietà ed ideologici che allettino militanti, iscritti e simpatizzanti, così come incentivi selettivi (materiali) che devono remunerare i “carrieristi” e i capi che vivono per e di politica. Sotto il profilo strutturale il partito di massa è un partito radicato nel territorio (attraverso le sezioni) e che, per di più, cerca di incapsulare iscritti ed elettori in un microcosmo sociale e organizzativo (subcultura). Ma è anche un partito fortemente burocratizzato nel senso che presenta consistenti apparati organizzativi, sia per numero di funzionari che per articolazione. Proprio nella relazione tra il partito organizzazione (dei leader) e il partito associazione (degli iscritti) troviamo uno dei principali dilemmi cui deve far fronte il partito di massa: efficienza vs democrazia. Come aveva precisato Michels (1966), non soltanto il partito di massa è diventato oggetto e fine della partecipazione degli aderenti, ma tende a costituire un mezzo per la riproduzione dei gruppi dirigenti e ciò indipendentemente da altre considerazioni di ordine politico o ideologico.
Sul versante strategico, delle relazioni con l’ambiente circostante, i partiti di massa, siano essi classisti o interclassisti, assolvono al «compito di costruire, preservare e rafforzare le identità politiche (…). Tale attività consiste nel produrre simboli che servono ai membri di una collettività data per riconoscersi come tali, comunicarsi la loro solidarietà, concordare l’azione collettiva» (Pizzorno 1993, 175). I partiti quindi funzionano da istituzioni di integrazione politica ed organizzativa dirette ad affermare e preservare una ben definita identità. Ciò richiede in larga parte dell’elettorato lo sviluppo di legami duraturi, di lealtà stabili, in breve di una forte identificazione con i partiti. Attraverso la segmentazione del mercato elettorale (comparsa di elettori di appartenenza), la formazioni di ampi sistemi di solidarietà e di canali di comunicazione partigiani, i partiti attivano un ambiente funzionale ad una visione “ideologica” della politica. 
Con la fine di quella che Hobsbawm ha chiamato «l’età dell’oro» degli anni ’60 la politica di massa in Europa registra una cesura cruciale. Ricompare la tensione tra partecipazione istituzionale e di movimento. Si espandono le opportunità per forme di partecipazione innovative, non convenzionali e soprattutto si riaprono spazi di partecipazione e d’opinione individualizzati. La sfera pubblica, che nella fase precedente era controllata dai partiti, riconquista una propria autonomia ed effervescenza e torna a divaricarsi dalla sfera politico-elettorale. Sulla scia del dibattito aperto da sociologi come Lipset e Bell sul declino delle ideologie, Kirchheimer (1971) elaborò (la prima formulazione è del 1966) la nota categoria del partito pigliatutto. Tale tipo di partito segnò la definitiva crisi della prassi e dell’ideologia del partito di massa, sia nella variante classista che inter-classista. Nelle democrazie occidentali si aggira un nuovo soggetto politico, destinato a diventare ben presto egemonico, il partito elettorale. Il partito di pigliatutto, con la sua «accettazione della legge del mercato politico», né è senza dubbio la prima e più nota incarnazione. Un tale tipo di partito affronta in modo del tutto diverso i nostri quattro problemi organizzativi.
Come tutte le organizzazioni tipiche della società post-moderna, il partito elettorale vede l’organizzazione come un costo più che come una risorsa. Gli apparati burocratici sono considerati come freno all’innovazione. Più che costruire apparati pervasivi il partito elettorale mira a realizzare  strutture leggere ed intermittenti. Questo, però, non vuol dire che questo tipo di partito sia del tutto disinteressato agli iscritti. Anzi, in alcune sue versioni, come nel cosiddetto “nuovo partito di quadri” (Koole 1994), si spendono cospicue energie e tempo per offrire opportunità di partecipazione interna più democratiche (primarie, procedimenti deliberativi, referendum continui, ecc.). Semmai, i partiti elettorali sono meno interessati ai militanti attivi, sovente visti come portatori di interessi e di razionalità d’azione in contrasto con la leadership.
D’altra parte, ridurre i costi burocratici è funzionale per sviluppare la versatilità e l’adattabilità a mercati elettorali sempre più competitivi e turbolenti. Ciò richiede anche lo sviluppo di una considerevole capacità di produzione simbolica e comunicativa diretta a favorire la formazione di lealtà, per quanto leggere queste possono oggi essere, e a contenere i rischi di defezione degli elettori-simpatizzanti. Da una prospettiva più ampia, la stessa partecipazione, elettorale ed associativa, diventa problematica. Da un lato, aumentano i fenomeni di assenteismo e disinteresse degli elettori, dall’altro la stessa qualità della partecipazione viene seriamente pregiudicata. In effetti, i partiti elettorali non si pongono più il compito di integrare elettori e gruppi nel sistema politico, ma di attrarli attraverso la costruzione e diffusione delle immagini dei leader e dei loro intenti programmatici. Ma proprio in questi processi comunicativi «svolgono un ruolo sempre più importante [le] tecniche di persuasione e di manipolazione dell’opinione» (Poggi 2001, 149).
Così come il partito di massa gestiva i processi di politicizzazione delle masse, il partito elettorale diventa la soluzione organizzativa per gestire i processi di spoliticizzazione dei cittadini delle democrazie avanzate. La mobilitazione delle risorse necessarie alla loro sopravvivenza ed azione diventa un problema di difficile soluzione. Il capitolo della finanza politica diventa un tema cruciale, specie in un contesto di lievitazioni dei costi della politica dovuti alla sua mediatizzazione e commercializzazione (Crouch 2003). Abbiamo già visto come la crisi della partecipazione interna costituisca al riguardo un elemento critico, che solo in parte può essere affrontato dalle campagne per il procacciamento di nuovi iscritti. Oggi le risorse del partito sono per lo più esterne. Per un verso, derivano direttamente dallo stato, per l’altro, dai gruppi di interesse. Tanto la statalizzazione, che riguarda non solo la finanza ma anche l’acquisizione di risorse organizzative e dell’accesso alla televisione, come la commercializzazione, che espone i partiti alla logica del mercato e degli interessi economici, hanno rilevanti conseguenze sull’autonomia dei partiti e sulla loro competizione (Lanchester 2000). Non è un caso che una delle immagini che ha avuto più successo negli ultimi anni è quella del cartel party, del partito di cartello o, forse meglio, “cartellizzato” (Katz e Mair 1995). Ci si riferisce al fatto che i partiti, specie quelli stabili e che gravitano attorno all’area del governo, tendono a sviluppare tra di loro strategie collusive e di protezione, piuttosto che di aperta competizione al fine assicurarsi le risorse necessarie e di rendere più prevedibile il loro ambiente operativo. La «cartellizzazione», però, ha dei costi che si evidenziano, talvolta anche drammaticamente, nello scollamento tra funzioni istituzionali e funzioni rappresentative dei partiti, ovvero nel dilemma privilegi versus legittimità. Ecco spiegata, almeno in parte, la crescita del sentimento antipartitico e l’opportunità per l’affermazione di partiti radicali ed estremisti (Mudd 1996).     
Il partito elettorale, quindi, diventa un partito minimo se guardato dal punto di vista organizzativo e dei rapporti con la società ma tende a diventare massimo se visto dal punto di vista istituzionale, o come abbiamo detto dell’integrazione sistemica. Ciò tra le altre cose comporta l’ipertrofia di una funzione già segnalata da Kirchheimer (1971, 189-199): «la scelta dei candidati per una legittimazione popolare come titolari di uffici pubblici» e lo sviluppo di nuove tendenze collegate a questa funzione quali la professionalizzazione, il crescente ruolo dei media, la statalizzazione.
2.4 La prospettiva competitiva
L’analisi dei partiti non si può fermare alla considerazione dei partiti in sé. Lo stesso concetto di partito, come abbiamo visto nel primo paragrafo, in quanto entità/parte, rinvia ad una più generica e comprensiva cornice, appunto, al sistema di partito. Ma che cos’è un sistema partitico? La definizione canonica è che esso è il risultato delle interazioni, cooperative o competitive, tra diversi partiti. Nei termini dell’analisi sistemica è un effetto di composizione di azioni e retroazioni che avvengono tra i diversi elementi (i partiti-parte) del sistema. Questa definizione coglie la dimensione orizzontale della relazione tra partiti, ma può essere arricchita dalla dimensione verticale che attiene ai rapporti tra elettori, partiti, parlamenti e governi (Pasquino 1997, 127). Comunque sia, qui ci soffermeremo sostanzialmente sul piano delle interazioni tra partiti, che dipendono, come vedremo, dal numero di attori e dalla natura delle loro relazioni .
Più esattamente, va detto che la qualità di queste relazioni e la stessa complessità del sistema dipendono in primo luogo, dal numero dei partiti e ciò, tra le altre cose, implica delle valutazioni sul grado di  concentrazione-dispersione del potere all’interno del sistema politico. Non stupisce, quindi, se l’impulso iniziale all’analisi e alla classificazione dei sistemi di partito sia stato improntato all’argomento “aritmetico”, cioè al conteggio dei partiti. Su questa scia si è mosso Duverger (1961) che ha distinto i sistemi di partito in mono-partitici, bi-partitici e multi-partitici. C’è, però, una sottile linea rossa che divide i tre tipi. Il primo tipo, il monopartitismo, individua, infatti, un «genere» quello dei regimi non-democratici. Gli altri due, invece, costituiscono delle «specie» nell’ambito del genere dei regimi democratici. In questa seconda famiglia (quella democratica) Duverger (1961, 275-177) colloca il tipo più importante, perché «sembra presentare un carattere naturale», quello bipartitico. Questa tendenza bipartitica secondo lo studioso francese trovava, poi, rinforzo nel materiale storico offerto dall’esperienza del sistema politico britannico ― da sempre oggetto di ammirazione entusiasta e di tentativi di emulazione . L’approccio duvergeriano, comunque, fu presto sottoposto a critiche radicali. Innanzi tutto, la classificazione alla luce del criterio numerico non reggeva all’accertamento empirico: non tutti i regimi «non-democratici» avevano un solo partito e, del resto, non mancano sistemi democratici con un solo partito; i regimi bipartitici sono più unici che rari; la categoria residuale del pluripartitismo contiene più varianti. D’altra parte, empiricamente non era neanche vero che il bi-partitismo fosse l’unico sistema partitico funzionante, basti pensare all’esperienza dei multipartitismi delle piccole democrazie europee, Olanda, Svizzera e Belgio  (Lijphart 1977). Ma, soprattutto la sua classificazione non chiariva come andavano contati i partiti.
Riprendiamo il discorso dai criteri di rilevanza, cioè idonei a contare solo i partiti che «contano» e a tralasciare quelli marginali e insignificanti. A tal fine esistono varie soluzioni. Una è quella pragmatica dell’individuazione di una soglia dimensionale, in genere elettorale, alla quale far ricorso, per esempio, il 5% o il 10%. Come si vede si tratta di un’opzione del tutto arbitraria e poi la rilevanza dimensionale non coincide con la rilevanza politica (il Partito Repubblicano Italiano, per esempio, con il 2% ha esercitato una notevole influenza nei governi democristiani). Si potrebbe, anche, decidere di conteggiare soltanto i partiti parlamentari, quelli che hanno guadagnato dei seggi. Questo criterio lascia fuori le liste bandiera e i partiti fantoccio  «stritolati» dal filtro elettorale ma ripropone per i partiti  parlamentari lo stesso quesito di partenza: quali partiti, pur avendo ottenuto dei seggi, non contano e quali, invece, contano?  Una delle soluzioni più convincenti messa a punto e che sfugge ai limiti delle soluzioni quantitative è quella proposta da Sartori (1976). Lo studioso fiorentino ha suggerito due regole di conto dei partiti: 1) un partito per quanto piccolo deve essere contato se ha  potenziale di coalizione, cioè se sono indispensabili per formare maggioranze di governo (indipendentemente se partecipano  realmente al governo o se si limitano ad un semplice sostegno parlamentare); 2) un partito che non abbia affinità coalizionali deve essere contato se ha potenziale di ricatto (o di intimidazione), cioè se la sua presenza è in grado di condizionare la direzione della competizione politica e la produzione delle politiche pubbliche ― sull’analisi dei sistemi di partito di Sartori si veda da ultimo la puntuale valutazione di Pasquino (2005).
Una volta che i partiti sono stati contabilizzati adeguatamente il loro numero (corretto) costituisce il formato del sistema partitico. Le classi complessivamente individuate da Sartori sono sette: monopartitismo, sistemi a partito egemonico, sistema a partito predominante, bipartitismo, multipartitismo moderato, multipartitismo estremo, sistemi atomizzati (si vada la tav. 3). Anche in questa classificazione uno spartiacque cruciale è costituito dalla differenza tra un partito e più di uno. Questa, infatti, è la soglia che individua il passaggio da un sistema autoritario ad un sistema democratico. Anche se, va precisato che i regimi democratici non escludono la presenza di «partiti pre-dominanti» ― che cioè sovrastano gli altri partiti per taglia elettorale e/o parlamentare e/o per potere di governo ― ma ciò dipende dalle condizioni competitive piuttosto che da barriere istituzionali o dal ricorso alla violenza politica (Sartori 1976; Morlino 1998) .     
Tuttavia, per capire come funziona un sistema partitico, così come un qualunque altro sistema di interazioni, non solo occorre sapere quante sono le “parti” rilevanti, ma è necessario sapere qualcosa sulla qualità di queste interazioni. Occorre, cioè, far uso di un criterio in grado di dar conto della logica di funzionamento, cioè della meccanica, del sistema partitico. Più esattamente, Sartori coglie questa logica nel grado di distanza ideologica o polarizzazionetra partiti. In sintesi, aggregando le diverse componenti possiamo individuare tre configurazioni sistemiche: quella unipolare tipica delle situazioni monopartitiche non democratiche, senza competizione e, men che meno, ricambio dei gruppi al potere; quella bipolare, che assorbe i casi bipartitici e i multipartitismi moderati, con una direzione della competizione centripeta (cioè moderata) e con elevata probabilità di produrre alternanza tra governo e opposizione; infine, quella multipolare che coincide con i multipartitismi estremi, dove la competizione tende ad essere centrifuga, la politica estremizzata ed immoderata e l’alternanza al governo lascia il posto al monopolio del governo da parte di partiti (di centro) dominanti . Nella tav. 3 sono riportati gli sviluppi della tassonomia.

 

 

 

 

 

 

Tav. 3 – Schema analitico della tassonomia di Sartori

 

Classificazione
(formato)

 

Tipologia
(formato + meccanica)

 

Proprietà principali

 

Poli

 

Partito unico
(totalitario, autoritario, pragmatico)

 

Monopartitismo totalitario

 

Monopolio, coercizione ed estrazione decrescente

 

 

 

Unipolare

 

 

Partito egemonico
(ideologico o pragmatico)

 

[Linea della democrazia]

 

Egemonico-ideologico
Monopartitismo autoritario
Monopartitismo pragmatico
Egemonico-pregmatico

 

Partito predominante
(qualsiasi formato)

 

Sistema a partito predominante

 

Competizione frustrata

 

Possibilità diverse

 

Bipartitismo

 

Bipartitismo

 

Competizione moderata, alternanza al governo

 

 

Bipolare

 

 

Pluralismo limitato
(3-5 partiti)

 

Multipartitismo moderato

 

Competizione centripeta coalizioni omogenee,

 

Pluralismo estremo
(più di 5 partiti)

 

Multipartitismo polrarizzato

 

Competizione centrifuga, coalizioni eterogenee

 

Multipolare

 

[soglia della destrutturazione]

Partiti “polvere”

 

 

Sistema partitico atomizzato

 

 

Centrifugazione

 

 

Atomizzazione

 

Fonte: Sartori (1968, 223) con tagli e adattamenti

Definite le caratteristiche morfologiche e la logica di funzionamento di un sistema partitico dobbiamo porci ancora due interrogativi: quando e come un sistema partitico funziona in quanto tale? Quando e come un sistema partitico cambia? Sotto il primo profilo, un sistema per essere tale deve superare la fase della mera destrutturazione, o della «atomizzazione», deve ciò presentare un qualche livello di regolazione ed organizzazione. A tal fine, come precisa Sartori (1995, 51-52), il sistema partitico deve essere percepito sempre di più «come un “sistema di canalizzazione” naturale della società politica». Il punto, però, è che «noi “vediamo” un sistema partitico strutturato soltanto quando il partito organizzato di massa sostituisce i partiti di notabili». Pertanto, tra strutturazione del sistema ed istituzionalizzazione dei partiti c’è un reciproco condizionamento. Ma ciò non è tutto. Infatti, in questo gioco tra sistema partitico e tipi di partito si inserisce una variabile interveniente di notevole rilevanza: il sistema elettorale. Il punto è che i sistemi elettorali producono effetti, diretti ed indiretti, sia sulle scelte degli elettori che sulle caratteristiche dei sistemi di partito e di riflesso sui singoli partiti. Tali effetti, però, si producono quando i sistemi elettorali sono «forti» , ovvero fortemente riduttivi, il che si verifica quanto maggiore è il grado di dis-proporzionalità del sistema elettorale. Tale esito, inoltre, è più probabile quando i partiti hanno raggiunto una certa complessità strutturale e visibilità e il sistema prodotto dalle loro relazioni un certo grado di organizzazione e stabilità. Gli effetti combinati dei sistemi elettorali e dei sistemi di partito sono schematizzati nella tav. 4.
Veniamo adesso alla questione, oggi centrale, relativa a come cambiano i sistemi di partito (Mair 2003). In prima battuta potremmo leggere il mutamento ricorrendo ai criteri tassonomici utilizzati dallo stesso Sartori. In breve, il cambiamento, implica un’alterazione del formato e/o della meccanica del sistema partitico, ovvero del numero dei partiti rilevanti e del grado di polarizzazione. In sostanza, il cambiamento si traduce nel passaggio da un tipo all’altro tra quelli previsti da Sartori. In realtà, è appena il caso di ricordare che per il politologo fiorentino lo spostamento più interessante è quello che da sistemi multi-partitici polarizzati conduce a sistemi multi-partitici moderati. Ovvero, da un punto di vista più generale il passaggio più rilevante è quello che porta da sistemi multipolari a sistemi bipolari. D’altra parte, le trasformazioni che hanno caratterizzato le democrazie occidentali negli ultimi dieci-quindi anni sembrano indicare anche situazioni diverse e più articolate. Così, per esempio, esistono evidenze della scomparsa dei sistemi a partito predominante, dell’esistenza di sistemi multipartitici estremi (per numero dei partiti) e, tuttavia, depolarizzanti (specie dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989), per non parlare dei casi di neo-polarizzazione, come sembra essere, almeno in parte, l’Italia degli anni ’90.  
Proprio per dar conto di queste situazioni si è cercato di far ricorso ad altri criteri classificatori pur complementari a quella di Sartori. Segnaliamo, in particolare, la proposta di Smith (1989; ma si veda anche Mair 2003) che ha distinto quattro livelli di cambiamento sistemico: fluttuazioni  temporanee, cambiamento ristretto, cambiamento  generalizzato e trasformazione. Questa tipologia cerca di integrare approcci quantitativi e qualitativi al cambiamento del sistema partitico e di distinguere i casi di cambiamento nel sistema, che lasciano intatta la core structure, dai cambiamenti del sistema in cui si sfalda anche il “cuore” del sistema, cioè il ruolo dei partiti tradizionalmente dominanti viene meno. Questa seconda evenienza è tipica dei casi del cambiamento generalizzato e della trasformazione. L’ultimo, in particolare, comporta un mutamento anche del tipo di regime, ovvero del sistema di governo. È appena il caso di ricordare che, sia pure in un numero limitato di casi (Italia, Giappone, Nuova Zelanda), la rivolta elettorale degli anni ’90 contro i partiti al governo e i partiti tout court ha prodotto livelli di cambiamento riconducibili alle forme più intense se non addirittura alla trasformazione. In effetti, nei tre paesi richiamati il vento del mutamento ha investito non solo il «cuore partitico» ma con le riforme delle leggi elettorali, anche, il «cuore istituzionale» del sistema. Se volgiamo uno sguardo al recente passato un altro esempio significativo di trasformazione di regime e del sistema partitico può essere trovato nel passaggio, alla fine degli anni ’50, dalla IV alla V Repubblica francese.

Tav. 4 –  Effetti combinati dei sistemi elettorali e partitici

 

 

Sistema elettorale

 

 

 

 

 

Sistema partitico

 

Forte
(sistemi maggioritari o
 sistemi proporz. impuri)

Debole
(sistemi proporzionali puri
 o scarsamente impuri)

 

 

Forte
(strutturato)

 

I
Effetto riduttivo
del sistema elettorale

(Gran Bretagna)

 

II
Effetto controbilanciante
del sistema partitico

(Austria, Irlanda )

 

 

Debole
(non-strutturato)

 

III
Effetto riduttivo-bloccante
a livello di collegio

(India, Italia post-‘93)

 

IV
Nessun influenza

(America Latina, Europa dell’Est)

Fonte: Sartori (1995, 57)

3. Le tendenze recenti
In questa sezione ci limiteremo ad isolare, senza alcuna pretesa di esaustività e con una certa dose di arbitrarietà, alcuni ambiti di ricerca oggi al centro dell’attenzione degli studiosi. Faremo ciò ricollegandoli, per comodità espositiva, ancora una volta ai quattro problemi che i partiti politici devono affrontare se vogliono sopravvivere come organizzazioni politiche (si veda il par. 2.3).
Innanzi tutto, come si ricorderà, ci si riferisce al problema dell’azione collettiva e della partecipazione. Superata l’immagine di maniera, un po’ naif, dei partiti come semplici strumenti di partecipazione popolare alla sfera del potere politico, così come, la visione, del tutto ribaltata, dei partiti come machines politiche che distorcono e burocratizzano la partecipazione degli iscritti ai fini di mera sopravvivenza organizzativa, le riflessioni più recenti hanno teso a rendere più problematico il rapporto tra iscritti e leader. Per un verso, le trasformazioni del legame tra partiti e aderenti sembrano facilmente delineate nei loro aspetti empirici. A partire dalle evidenze del declino dei partiti in quanto «associazione di iscritti» (da ultimo si veda Scarrow 2000; Mair e Biezen 2001). Si può, così, sostenere, senza neanche troppe forzature, che l’espressione Parties without partisans (Dalton e Wattenberg 2000) è diventata senso comune politologico. D’altra parte, non deve stupire se di queste ricorrenze empiriche sono state offerte diverse chiavi di lettura. Qui, tra le tante possibili, ne enfatizziamo tre che rispettivamente chiamiamo: dei «costi opportunità», dell’«adesione identificante» e della «individualizzazione».
Per la prima interpretazione possiamo rammentare che «in Europa l’equilibrio tra costi e benefici dell’iscrizione ad un partito è cambiato, sia per le élites dei partiti politici che per i semplici cittadini, e che l’effetto di questo cambiamento è di rendere la membership meno attraente per entrambi» (Katz 1990, 158). Gli individui del XXI secolo sono meno propensi ad impegnarsi direttamente nella vita associativa, ma allo stesso tempo sono più esigenti. Il che spiegherebbe il moltiplicarsi a partire dalla metà degli anni ’80, un po’ in tutta Europa, della sperimentazione delle primarie e di altre forme di partecipazione democratica interna come strategie per offrire agli iscritti incentivi diffusi (Pennings e Hazan 2001; Ignazi 2002 e ora 2004). La seconda interpretazione, invece, insiste sulla caduta della partecipazione identificante. Crouch (2000, 147) ha toccato con chiarezza il punto: «esiste il problema di motivare la gente in senso morale, anche quando si vuole da loro solamente qualcosa di quotidiano». Come la semplice quota di iscrizione. Tuttavia, proprio questa capacità di suscitare un impegno morale sembra diventata difficile per i partiti. Più crescono sfiducia e sentimenti antipolitici più i cittadini ricercano il coinvolgimento volontario in sfere del sociale al riparo dalla politica (Raniolo 2002). Alcuni dei temi ricorrenti in queste analisi ricompaiono nell’interpretazione che, con Beck (2000, 45-46), abbiamo etichettato dell’individualizzazione. Secondo questa terza interpretazione, le esigenze di autorealizzazione, successo professionale e ampliamento degli spazi di libertà personali che caratterizzano la «società degli individui» (o della «seconda modernizzazione») non provocano una caduta pura e semplice delle relazioni di solidarietà, ma piuttosto comportano la ricerca di nuovi legami basati sulla spontaneità e non formalizzati in vincoli organizzativi rigidi. In entrambi i casi si generano delle esigenze palesemente in contrasto con i presupposti della partecipazione organizzativa tradizionale. Si assiste ad una crescente insofferenza verso i principali pilastri che hanno caratterizzato fino ad oggi l’impegno politico convenzionale in grandi organizzazioni ― siano queste partitiche o sindacali. Si afferma un cittadino riflessivo i cui atteggiamenti verso la politica sono influenzati dall’erosione delle gerarchie, dall’individualizzazione del rapporto con le norme e dall’apprendimento basato sulla propria esperienza (Sciolla 1999). Ci imbattiamo, dunque, in individui sempre più riflessivi, esigenti e anche dalle preferenze fluide che cercano nuovi punti di ancoraggio delle proprie scelte politiche. I semplici iscritti e gli elettori diventano sempre più volatili. Le loro fedeltà sempre più leggere.
La crisi delle adesioni va di pari passo con un più generale processo di de-burocratizzazione. Anche per i partiti potremmo parlare di una tendenza alla de-differenziazione (Clegg 1990). Cioè, allo sviluppo verticale si sostituisce l’attivazione di un sistema di relazioni, di una rete di scambi tra diverse entità organizzative autonome o semi-autonome. Reti e incapsulazione organizzativa caratterizzavano anche i partiti integrativi di massa. Ma adesso queste relazioni sono meno gerarchiche, meno centrate su legami rigidi, appunto di incapsulazione. Il ricorso da parte dei partiti a moduli organizzatori inusitati, flessibili e finalizzati, come quelli civilistici delle “fondazioni” e altre innovazioni in questo senso esprimono tali tendenze di sviluppo. Né dobbiamo dimenticare che oggi lo sviluppo di queste architetture organizzative si avvantaggia del ricorso alla tecnologia del Web. La mappa dei siti e dei collegamenti diventa così il nuovo organigramma (virtuale) di questi networks politici. Questo processo abbassa certo i costi di coordinamento (o burocratici) ma, per converso, accresce i costi di transazione (di relazione). La politica “estera” dei partiti, la pratica delle alleanze con gli altri partiti e lo sviluppo di rapporti opportunistici con gli interessi organizzati e le istituzioni diventa il nuovo baricentro dell’azione partitica.
Queste poche battute ci conducono dritti al tema delle risorse strategiche delle quali essi oggi hanno bisogno e che non possono più essere trovare, o “prodotte”, all’interno degli apparati. Tra le risorse il cui procacciamento è diventato, nelle democrazie avanzate, sempre più critico possiamo indicare: quelle finanziarie, comunicative, di expertise o professionali. Abbiamo già fatto cenno al tema della finanza partitica (Melchionda 1997) e alla spirale inflazionistica collegata ai cambiamenti avvenuti nelle tecnologie comunicative e all’avvento dei nuovi professionisti della politica (new politics). Sotto il primo profilo, diversi studiosi hanno distinto nelle democrazie occidentali, a partire dal secondo dopoguerra, tre fasi negli sviluppi della comunicazione politica. Farrel e Webb (2002) hanno parlato di una fase «premoderna» alla quale hanno fatto seguito la fase della «rivoluzione televisiva» e, infine, quella della «rivoluzione delle telecomunicazioni». Queste ultime due fasi sono state indicate dalla Norris (1996), rispettivamente, come età moderna e post-moderna della comunicazione politica. Le principali caratteristiche di queste tappe evolutive della comunicazione politica sono indicate nella tav. 5 . Ben più importante ai nostri fini è ricordare che queste fasi coincidono e si sovrappongono a quelle relative allo sviluppo dei tipi di partito, rispettivamente: il partito di massa e qualche variante del partito elettorale (partito pigliatutto, partito personale, cartel party, ecc.).
In particolare, il passaggio dalla fase moderna a quella post-moderna della comunicazione politica ha comportato la trasformazione dei modelli di relazioni tra politica e media. Sotto il profilo tecnologico va ricordato il definitivo superamento dell’era della televisione generalista e l’avvento delle nuove tecnologie comunicative e degli sviluppi della stessa TV (Tv tematica, via cavo, satellitare, ecc.), per non parlare di Internet. Si tratta di sviluppi qualitativamente diversi rispetto alle fasi precedenti. Le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione – in particolare si pensi ad Internet – si presentano come più economiche, veloci, caratterizzate dall’assenza di confini, dalla multimedialità, dalla disintermediazione della comunicazione. Ma anche dall’elevata interattività e dalla compresenza di flussi comunicativi verticali, utilizzati dall’alto per esempio dai politici, e orizzontali quando l’emittente è costituita dai cittadini (Bentivegna 2002, 4-8). Sul versante politico il cambiamento è stato altrettanto profondo. L’era dei grandi partiti è stata caratterizzata dal modello che potremmo chiamare della segmentazione, Sani (2001, 13) usa l’espressione «compartimentalizzazione», in cui la comunicazione politica tende a riprodurre e rinforzare le relazioni di appartenenza tra elettori e partiti. Per contro, le tendenze più recenti sono caratterizzate dal modello dell’influenza, centrato sugli effetti non trascurabili dei media (Barisone 2001). Come avvertono Farrell e Webb (2002) i partiti sono diventati delle campaign organizations, non devono più mobilitare un gruppo predefinito di aderenti ― gli elettori di appartenenza che non scelgono ma testimoniano ― ma difendere delle immagini, per lo più, dei leadero proporre delle issues che abbaino un altro grado di attrazione per gli elettori. Tenendo conto, però, e questo è il punto cruciale che differenzia i partiti elettorali dal più tradizionale partito pigliatutto, degli interessi e delle preferenze specifiche dei diversi gruppi di elettori. Si afferma, quindi, un modello di rappresentanza che è stato chiamato democrazia del pubblico, o, forse, sarebbe meglio dire  dei pubblici. In questo passaggio d’epoca si intravedono grandi opportunità per la partecipazione dal basso e la democrazia ― mai come ora il tema della «democrazia elettronica» sembra a portata di mano ― eppure non mancano i rischi. A partire, dell’affermazione di un dilemma cruciale per la stessa classe politica e i partiti: «[la] modernizzazione della comunicazione offre ai protagonisti della politica numerose opportunità ma, al tempo stesso, essa li vincola rendendoli schiavi, o quanto meno prigionieri, della logica dei media» (Sani 2001, 13).

 

Tav. 5 – Le fasi della comunicazione politica e della campagna elettorale

 

FASE I –
Pre-moderna

FASE II –
Moderna

FASE III –
Post-moderna

Evoluzioni tecniche
Preparazione della campagna

 

Utilizzo dei media

 

 

Evoluzioni nelle risorse
Organizzazione della campagna

 

 

Agenzie, consulenti

 

Risorse di feedback

 

 

Evoluzioni tematiche
Eventi della campagna

 

Targeting degli elettori

 

Comunicazioni della campagna

 

Breve termine, ad hoc

 

 

Diretto e indiretto
Diretto= stampa di partito, pubblicità sui giornali, tabelloni pubblicitari

Decentralizzata
Organizzazione locale del partito
Scarsa standardizzazione
Staff: volontariato dei militanti

Utilizzo minimo; ruolo generalista

Impressionistico, sentimento
Ruolo importante degli attivisti elettorali, dei leader del gruppo

Incontri pubblici
Tour elettorali a vasto raggio
Sostegno su base di classe
Mantenere il voto di specifiche categorie sociali

 

Propaganda

 

Lungo termine, comitato di specialisti formato 1-2 anni prima di elezioni

 

Enfasi sull’indiretto
Diretto= campagne pubblicitarie
Indiretto= pubbliche relazioni, media training

Nazionalizzazione, centralizzazione
Staff: basato sul partito, professionisti salariati

 

Crescente importanza dei consulenti specialisti

Sondaggi di opinione su larga scala
Maggiormente scientifiche

 

Dibattiti televisivi, conferenze stampa

Pigliatutto
Cercare di mobilitare gli elettori di tutte le categorie sociali

Concepita come vendita

 

Campagna permanente: creazione di dipartimenti di specialisti di campagne
Enfasi sul diretto

Diretto= pubblicità mirata, direct mail, videomail; TV via cavo, Internet

Decentramento delle operazioni con supervisione centrale
Staff: basato sul partito-candidato, professionale, lavoro contrattuale, crescita del leader’s office

Consulenti come personalità della campagna

Estensione più ampia dei sondaggi
Capacità interattive del cavo o di Internet

 

Come in precedenza, eventi mirati localmente

Segmentazione del mercato
Targeting di specifiche categorie di elettori

 

Concepita come marketing

Fonte: Farrell e Webb (2002, 33)

Questi cambiamenti sono andati di pari passo, e siamo al secondo profilo, con i processi di professionalizzazione della politica. Nel senso, non più weberiano della comparsa di chi vive di e per la politica, ma della crescita dell’importanza delle competenze specialistiche e delle expertise. Cioè delle risorse immateriali di conoscenza che i partiti acquistano all’esterno, al di fuori dei tradizionali circuiti della militanza. Quanto più questo bisogno di competenze cresce tanto più il rapporto tra specialisti (professionisti) e militanti ordinari si ribalta. Esperti  e consulenti si sono formati al di fuori dell’organizzazione, sono stati assunti in base ad una verifica iniziale delle loro competenze e operano con vasti margini di discrezionalità e di iniziativa personale. Ciò che li lega all’organizzazione partitica è sempre di più la fedeltà ad un leader. Più in generale, il declino dei finanziamenti autonomi, l’impatto dei nuovi media elettronici e la domanda di professionalità esterne favoriscono le spinte alla centralizzazione e l’affermazione di una stabile leadership. Siamo così ricondotti ad uno dei più classici dilemmi della vita interna di un partito quello tra logica dell’efficienza e della democrazia. Anche se la debolezza del momento associativo lo rende meno stringente.
Un’altra risorsa critica che vale la pena di richiamare sia pure rapidamente è la legittimazione sociale. Ebbene, Daalder (ora in 1992) ha ricordato che il lungo dibattito sulla crisi dei partiti  politici ha assunto tre forme: la «negazione», il «rigetto selettivo» e la «ridondanza». Segnatamente, le prime due “versioni”  della crisi partitica sono state associate con due distinte espressioni del sentimento antipartitico (Mudde 1996): l’estremismo (la negazione/rifiuto) e il populismo (il rigetto selettivo). Il punto è che nelle democrazie avanzate l’estremismo tenderebbe a lasciare il posto ad un meno radicale ma pur virulento populismo. Queste forme di antipartitismo e di delegittimazione sociale dei partiti sono oggi piuttosto stabili e radicate nella società. Con molta probabilità potremmo farli rientrare in quella che è stata con efficacia chiamata sindrome di «antipartitisno culturale». Un misto di attitudini ciniche rivolte ai partiti, ma anche di disaffezione, disinteresse e di passività di lunga durata (Torcal, Gunther e Montero 2002). D’altra parte, i tre studiosi hanno anche individuato una forma di antipartitismo, meno intensa ma non per questo meno diffusa. Ci si riferisce, al cosiddetto «antipartitismo reattivo», in genere associato all’insoddisfazione dei cittadini per il comportamento delle èlites, così come per il funzionamento delle istituzioni. In questi termini l’antipartitismo reattivo sembra strettamente associato alla terza forma di crisi dei partiti delineata da Daalder, la “ridondanza funzionale” ― su questi aspetti si veda Mastropaolo (2005).
Non ci vuole molto a rendersi conto che quanto detto fin qui porta al centro del dibattito scientifico il rapporto tra partiti e democrazia. Provare ad affrontare questo cruciale tema è impossibile nello spazio che ci resta. Lo stesso sviluppo della tipologia (storica) dei partiti dà per scontata una forte associazione tra tipi di partito, democratizzazione e modelli di democrazia. Nella misura, poi, in cui la relazione tra i nostri due termini implica la ricostruzione degli aspetti “genetici”, o di quelli “competitivi” o, ancora, “funzionali” siamo ricondotti a quanto detto nei paragrafi precedenti. Certo, nel discorso tra partiti e democrazia, occorre, tenere conto anche degli effetti perversi, delle conseguenze non intenzionali, dei dilemmi e delle promesse non mantenute accertabili empiricamente che derivano dall’azione dei partiti nei regimi democratici di massa. Se è vero, infatti, che i partiti politici sono delle organizzazioni per loro natura interessati alla sopravvivenza della democrazia, talvolta ne sono stati anche la causa principale di morte e, con maggiore frequenza, di deterioramento della stessa qualità democratica. Troviamo qui un intreccio pernicioso per la vitalità della democrazia tra crescita dei sentimenti antipolitici, declino delle passioni politiche e la stessa recessione del pubblico-statutale (Mastropaolo 2005).
D’altra parte, questo legame non va visto solo da una prospettiva empirica ma va anche considerato in chiave normativa (Pomper 1992; Stokes 1999). Ci riferiamo al rapporto tra partiti e qualità della democrazia(Morlino 2003). Nella proposta di Morlino (ibidem, 228) una democrazia di qualità è «quell’assetto istituzionale stabile che attraverso istituzioni e meccanismi correttamente funzionanti realizza libertà ed eguaglianza tra i cittadini». Più esattamente, una democrazia che voglia raggiungere certi obiettivi in termini di eguaglianza e tutela dei diritti dei cittadini, deve confrontarsi con tre dimensioni di variazione: «1) rule of law, ovvero rispetto della legge; 2) accountability, ovvero la responsabilità [degli eletti]; 3) la responsiveness, ovvero la rispondenza [cioè la ricettività dei governanti]». Le prime due sono dimensioni procedurali, poiché definiscono le regole del gioco e solo secondariamente i contenuti, mentre la terza attiene agli esiti del funzionamento delle istituzioni democratiche in termini di «capacità di risposta che incontra la soddisfazione dei cittadini e della società civile» (ibidem, 229). Ora è facile scorgere che dietro queste dimensioni e processi operano attori e istituzioni molteplici. Il punto rilevante qui, però, è di valutare il contributo che i partiti possono dare alla qualità della democrazia. Ciò probabilmente comporta la necessità di collegare le funzioni tradizionalmente assegnate ai partiti, la loro trasformazione e/o ridondanza (par. 1.3), con le dimensioni della qualità democratica. Ma forse, più in generale, la stessa soluzione del dilemma (strategico) tra logica della competitività e logica dell’identità ci porta dritti al cuore della qualità del rapporto tra partiti e democrazia.  

Qui competizione sta per elettoralismo con il conseguente offuscamento delle differenze ideologiche tra partiti e lo sviluppo di strategie e di moduli organizzativi congruenti con questo obiettivo. Lo scongelamento degli elettorati nazionale ne rappresenta una del principali pre-condizioni.    

Vale a dire, la possibilità di un individuo o gruppo di imporre, in una relazione sociale, la propria volontà, anche, contro le resistenze degli altri attori coinvolti nella relazione. Le altre forme di distribuzione della potenza, oltre ai partiti, sono le “classi” e i “ceti”. Solo i primi, però, appartengono propriamente e direttamente alla sfera della potenza.

Fra tutte le possibili attività che svolgono i partiti qui ci interessano quelle che hanno rilevanza «sistemica».

In questa specializzazione funzionale sta la differenza tra partiti politici e gruppi di pressione.

La griglia di Beyme fu costruita con riferimento alla realtà politica Europa (e dell’Australia e della Nuova Zelanda), mentre ne fu negata la validità per il Canada e gli Stati Uniti. Oggi si pone la questione della sua estensione ai paesi dell’Est Europa e alle democrazie di più recente formazione.

Come si intuisce in questa pagine adottiamo un punto di vista istituzionale più ampio del semplice riferimento agli effetti dei sistemi elettorali sui partiti politici secondo la classica analisi di Duverger (1961).

Ovviamente una classificazione tripartita è più riduttiva di altre soluzioni più articolate come, per esempio, quella a quattro tipi di Katz e Mair (1995). Inoltre, non ci permette di tener conto dei diversi sotto-tipi (Diamond e Gunther 2001). Ai fini espositivi ci sembra, però, ancora utile. 

L’analisi del sistema partitico può essere svolta da diversi approcci: quello genetico (par. 2.1), istituzionale (par. 2.2), morfologico (in questo paragrafo) e spaziale-competitivo (Bartolini 1996). In particolare, ci soffermeremo sulla proposta teorica di Sartori. Il punto da fermare qui è che Sartori con la sua analisi sistemica dei partiti «intende spiegare i fenomeni politici con riferimento alle regole, ai meccanismi, alle istituzioni politiche: spiegare la politica con la politica» (Pasquino 2005, 176). Il che comporta il ridimensionamento della prospettiva genetica e del riduzionismo sociologico in essa implicito. D’altra parte, egli ha una visione più complessa del rapporto tra istituzioni e sistema partitico che non si limita alla processo di massificazione della politica. Da qui la centralità dei sistemi elettorali e dei sistemi di governo (Sartori 1995).

In Italia le argomentazioni di Duverger sono state sviluppate da Galli, a cui si deve l’interpretazione del sistema politico italiano come «bipartitismo imperfetto» (1968).

Va ricordato che Sartori distingue tra partito dominante e «sistema a partito predominante». Nel primo caso a rilevare è il singolo attore politico, nell’altro, invece, la «dominanza» imprime una precisa meccanica all’intero sistema.  

L’unica forma di avvicendamento possibile della classe di governo è costituito dal cosiddetto «ricambio periferico», in cui il partito dominante (o pivot) resta al governo e si assiste al cambio dei partners minori della coalizione (si ricordi il caso della Dc italiana).

La ricostruzione delle diverse fasi è stata fatta ricorrendo a tre insiemi di criteri: le tecniche di comunicazione e i tipi di media utilizzati; le risorse organizzative, l’organizzazione della campagna, il tipo di professionalità coinvolte (agenzie/consulenti) e gli effetti di feed-back; ed infine le tematiche sul tappeto, eventi, targeting degli elettori, strategie di comunicazione.

Fonte: http://scienzepolitiche.unical.it/bacheca/archivio/materiale/314/Scienza%20Politica/Partiti%20Politici.doc

Sito web da visitare: http://scienzepolitiche.unical.it/

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