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Il concetto e le classificazioni del diritto del lavoro
Il diritto del lavoro, inteso in senso lato, può essere definito come l'insieme delle norme che disciplinano il rapporto di lavoro, ossia la relazione giuridica intercorrente tra il prestatore ed il datore di lavoro. Tale relazione rappresenta un rapporto giuridico complesso, avente ad oggetto tanto l'obbligo del lavoratore di prestare la propria attività e l'obbligo del datore di corrispondere la retribuzione, quanto una molteplicità di situazioni giuridiche soggettive attive e passive, facenti capo alle due parti del rapporto.
Il diritto del lavoro è una disciplina giuridica relativamente nuova, sviluppatasi essenzialmente a partire dai primi anni dell'Ottocento, quando emerse con tutta evidenza la necessità di mediare le esigenze della tutela dei lavoratori con quelle della produzione. Disciplina che ha subito un'evoluzione fortemente condizionata dalle varie fasi attraversate nella storia sociale, economica e politica del nostro Paese.
Il diritto del lavoro presenta connotazioni peculiari rispetto alle altre branche del diritto, in quanto si sottrae alla partizione tradizionale - ma sempre più, oggi, contestata - del diritto nei due rami del diritto pubblico e del diritto privato. In esso, infatti, confluiscono:
La dottrina tradizionale distingue nell'ambito del diritto del lavoro inteso in senso ampio:
Le fonti del diritto del lavoro
Il sistema delle fonti di produzione del diritto del lavoro in senso stretto presenta aspetti di particolare complessità e problematicità, in ragione del concorso di una molteplicità di atti che, se pur dotati di un diverso grado di efficacia, hanno tutti la forza giuridica di incidere sulla regolamentazione concreta del rapporto di lavoro e di determinarla.
In via di prima approssimazione, le fonti che concorrono alla produzione del diritto del lavoro possono essere suddivise nel modo che segue:
Le fonti sovranazionali
Ricordato che a termini dell'art. 35, co. III, Cost., la Repubblica "promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro", occorre precisare che nel novero delle fonti sovranazionali od internazionali si distinguono due livelli di produzione normativa:
Con riferimento al primo livello, oltre ai vari trattati internazionali stipulati anche dall'Italia, rivestono fondamentale importanza alcuni atti ad efficacia esterna emanati dall'O.I.L. (Organizzazione internazionale del lavoro, istituzionalmente deputata a favorire il progresso delle classi lavoratrici nel mondo), e cioè:
Con riferimento al secondo livello, va ricordato che, a differenza delle norme del diritto internazionale, quelle del diritto comunitario - che hanno assunto, specie nell'ultimo decennio, una sempre crescente importanza - possono esplicare efficacia immediata e diretta all'interno degli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Tali norme sono quelle contenute:
Le fonti legislative
In materia di diritto del lavoro, le fonti legislative sono le seguenti:
La Costituzione
La nostra Carta costituzionale, definita da taluno "lavoristica" (MAZZIOTTI), considera il rapporto di lavoro come il più importante rapporto interprivato. Prova ne è che nella grande area delle garanzie costituzionali attinenti ai rapporti tra privati, le garanzie relative al rapporto di lavoro sono di gran lunga prevalenti (GHERA).
Il rilievo dato dalla Costituzione al lavoro si evince, innanzitutto, dall'art. 1, co. I, ai sensi del quale "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro".
Nonostante qualche autorevole opinione contraria, sembra doversi ritenere che, nel contesto di tale disposizione, il termine lavoro assuma un significato ampio, tale da comprendere cioè non solo il lavoro salariato, ma ogni altra attività, anche imprenditoriale.
Vengono, quindi, dettati in altre norme costituzionali, altri principi fondamentali volti a rendere più concreta la disposizione di cui all'art. 1, co. I.
In realtà, è necessario distinguere in proposito le norme della Costituzione sociale dalle norme della Costituzione economica. Infatti, come osserva Ghera, "la tutela del soggetto contraente debole rappresenta indubbiamente la finalità delle norme dettate dalla Costituzione in materia di lavoro, ma non si tratta più di una finalità esclusiva: si aggiunge, infatti, ad essa la finalità ulteriore e più ampia della garanzia dei diritti sociali. Al tradizionale obiettivo della tutela della posizione contrattuale debole si affianca perciò l'obiettivo della tutela della libertà e dignità sociale del lavoratore".
Gli articoli della Costituzione sociale che vengono in rilievo sono:
Gli articoli della Costituzione economica relativi alla materia del lavoro sono:
I codici
Nell'ambito delle leggi ordinarie, una posizione preminente, quale fonte del diritto del lavoro, spetta al Codice Civile ed in particolare al suo libro V che reca l'intestazione "Del lavoro". Va, però, precisato, al riguardo, che non tutte le norme in esso contenute afferiscono alla materia del lavoro, così come, per converso, molte norme appartenenti al diritto del lavoro sono contenute in altri libri del codice.
Di più, alcune speciali figure di contratti di lavoro ed alcune categorie di prestatori di lavoro rinvengono la loro disciplina nel codice della navigazione.
Sempre con riguardo ai codici, va rammentato che il codice di procedura civile conteneva le norme relative alle controversie in materia di lavoro; ma tali norme sono state integralmente riformate con la L. 11 agosto 1973, n. 533.
Gli altri atti aventi forza di legge
Per legge deve intendersi anche ogni altro atto avente forza di legge, e quindi:
Le leggi speciali
Numerosissime sono le c.d. leggi speciali volte a tutelare il lavoratore, non solo in quanto contraente debole, ma anche nella sua qualità di soggetto che impegna la propria persona nel rapporto di lavoro, ricavandone un reddito che costituisce, nella maggior parte dei casi, la sua unica fonte di sostentamento. Nella più recente legislazione si registra la tendenza a tutelare, oltre all'integrità fisica del lavoratore, anche l'integrità morale dello stesso.
Si citano qui soltanto alcune delle più importanti leggi speciali, e cioè:
Le fonti contrattuali
Non tutta la disciplina relativa alla materia del lavoro è contenuta nel codice o nelle leggi integratrici - pure numerose - o, ancora, nei decreti-legge e nei decreti legislativi emanati dal Governo.
Altra regolamentazione, che si aggiunge a quella generale, può essere rinvenuta:
Il contratto collettivo viene stipulato a più livelli. Esso può essere:
Nelle ipotesi in cui i contratti di diverso livello predispongano discipline in contrasto fra loro, il criterio risolutore del conflitto deve essere individuato, per la dottrina e la giurisprudenza dominanti, nel criterio della specialità, ossia nella preferenza accordata alla disciplina speciale rispetto a quella generale.
Per quanto concerne i rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale va detto che essi sono strettamente regolati, nel nostro ordinamento, dal meccanismo dell'inderogabilità in peius di natura reale; è invece possibile che il contratto individuale si discosti dal contratto collettivo derogandolo in melius.
Tuttavia, in tema di fonti del diritto del lavoro, l'argomento di maggior interesse è quello del rapporto tra la legge e contrattazione collettiva. Tra tali fonti possono stabilirsi tre forme di relazione funzionale:
Gli usi
L'uso è costituito da un comportamento costante ed uniforme, dal ripetersi cioè di un dato comportamento nel tempo ("diuturnitas"), accompagnato dalla convinzione della conformità al diritto e della necessità giuridica del comportamento stesso ("opinio iuris ac necessitatis").
Nella loro qualità di fonti del diritto del lavoro, gli usi assumono una valenza peculiare. Essi sono sempre dispositivi in quanto si applicano, di regola, solo in mancanza di disposizioni di legge o di contratto collettivo e non possono derogare la disciplina del contratto collettivo né prevalere su quella del contratto individuale. Tuttavia, essi, se più favorevoli al prestatore, prevalgono - è questa la deroga, contenuta nell'art. 2078, c.c., alla regola generale sancita dall'art. 8, preleggi - sulle norme dispositive di legge.
Da tale categoria di usi - i c.d. usi normativi - va tenuta distinta quella degli usi aziendali, che esplicano la loro efficacia nell'ambito, non della comunità generale, ma di una singola unità produttiva. Gli usi aziendali non hanno valore di norma inderogabile e, secondo la giurisprudenza, possono essere esclusi dalle parti, ancorché solo al momento della stipulazione del contratto individuale.
La dottrina tradizionale considerava il rapporto di lavoro subordinato nel settore privato l'oggetto esclusivo del diritto del lavoro in senso stretto. Di tale branca del diritto si registra, invece, oggi una tendenza espansiva; la tendenza cioè a regolamentare anche altri rapporti di lavoro, diversi da quello dipendente, ma ritenuti parimenti meritevoli di tutela giuridica.
Ciò detto, si pone innanzitutto il problema dell'individuazione dei caratteri costitutivi del rapporto di lavoro subordinato (c.d. "locatio operarum"), di quello autonomo (c.d. "locatio operis" o contratto d'opera) e di quello parasubordinato.
La distinzione tra questi diversi tipi di rapporto non è questione di poco momento: basti pensare, a titolo esemplificativo, che la disciplina particolarmente favorevole dettata in tema di recesso del datore di lavoro ovvero di previdenza ed assistenza si applica, in linea di principio, al solo rapporto di lavoro subordinato.
Il rapporto di lavoro subordinato
L'art. 2094, c.c., riferendosi al rapporto di lavoro alle dipendenze di un'impresa, definisce il prestatore di lavoro subordinato come colui che "si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore". Per i rapporti di lavoro con datori non imprenditori provvede l'art. 2239, c.c., che dispone l'applicabilità anche a questi ultimi della normativa del lavoro nell'impresa, in quanto compatibile con la specialità del rapporto.
Sulla base del dettato dell'art. 2094, c.c., gli elementi di qualificazione del lavoro subordinato vengono individuati nella subordinazione e nella collaborazione del prestatore.
La subordinazione
La subordinazione rappresenta l'elemento qualificante del rapporto di lavoro in oggetto, indipendentemente dal luogo in cui questo si svolge, e ciò in quanto esso implica per definizione una prestazione non autonoma, ma svolta alle dipendenze e sotto la direzione del datore o di chi per lui.
Il grado di subordinazione effettiva varia, riducendosi via via che si passa dal lavoro meno qualificato alle prestazioni di alta specializzazione: questa, però, è solo un'implicazione di fatto, non conferente sul piano giuridico-formale.
La subordinazione del lavoratore presenta i seguenti caratteri:
Come osserva la dottrina prevalente (SANTORO, PASSARELLI, PERA), la subordinazione è una notazione non meramente economica - da intendere cioè in termini di inferiorità socio-economica e, dunque, di condizione sociale - ma propriamente giuridica - imposta cioè dalla normativa del codice. Essa comporta, infatti, che l'osservanza delle disposizioni a cui è tenuto il prestatore sia garantita dalle sanzioni che colpiscono le infrazioni del lavoratore, così come anche gli abusi del datore.
Proprio perché nel rapporto di lavoro di cui trattasi il prestatore si mette a disposizione del datore per svolgere l'attività dedotta nel contratto, i rischi connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa gravano sul datore. Più precisamente, su quest'ultimo gravano il rischio economico e la responsabilità verso i terzi per i danni causati dai dipendenti, mentre è coperto per legge da assicurazioni sociali obbligatorie il rischio dell'inabilità al lavoro e ricadono sugli istituti di assistenza e previdenza obbligatori - e solo indirettamente sul datore - i rischi per gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali.
La collaborazione
Venendo all'altro carattere costitutivo del rapporto di lavoro subordinato, e cioè la collaborazione, va rilevato che autorevole dottrina ritiene che il riferimento ad essa, contenuto nell'art. 2094, c.c., sia da considerare quale "omaggio ideologico" alle tesi dominanti all'epoca dell'emanazione del codice. Secondo tali tesi, l'ordinamento del rapporto di lavoro doveva essere proiettato al superamento del conflitto tra le classi sociali; conflitto inconciliabile con il sistema corporativo di disciplina dei rapporti di produzione (GHERA).
Tuttavia, l'elemento della collaborazione può ritenersi ancora oggi attuale se inteso come descrittivo, per così dire, del fenomeno della partecipazione di un soggetto all'attività lavorativa di un altro soggetto.
Più in dettaglio, si ritiene che la collaborazione si specifichi:
Anche il grado di collaborazione effettiva, come quello di subordinazione, varia col variare dell'intensità del vincolo che lega il prestatore al datore.
Gli indici della sussistenza della subordinazione
Se è vero che quelli di cui si è appena detto sono i caratteri costitutivi del rapporto di lavoro subordinato, è anche vero che non sempre nel caso concreto è facile stabilire se un determinato rapporto di lavoro partecipi oppure no di tali caratteri.
L'elemento della subordinazione, in particolare, non sempre può agevolmente apprezzarsi. Tale difficoltà ha dato vita ad un nutrito contenzioso che ha portato la giurisprudenza ad individuare determinate circostanze di fatto, ricavate per massima d'esperienza dalla realtà sociale, da considerarsi come indici o spie della sussistenza dell'elemento della subordinazione. Se ne menzionano alcune, e cioè:
Si sottolinea, però, che nessuno di tali criteri - e degli altri che pure sono stati individuati dalla giurisprudenza - è decisivo ai fini dell'esatta qualificazione del rapporto di lavoro, essendo la stessa sempre rimessa alla prudente valutazione del giudice.
Il rapporto di lavoro autonomo
Ai sensi dell'art. 2222, c.c., si ha lavoro autonomo o "locatio operis" o contratto d'opera "quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente".
Come si evince dalla lettura di tale norma, nel rapporto di lavoro autonomo, l'oggetto della prestazione è rappresentato dall'"opus perfectum", ossia dal risultato finale dell'attività organizzata dallo stesso prestatore; risultato che potrà essere ovviamente assai diverso a seconda della specifica natura dell'opera o del servizio il cui compimento è dedotto in obbligazione.
Dunque, il lavoratore autonomo si trova in una posizione di autonomia, essendo rimessa alla sua piena discrezionalità la scelta circa le modalità, il luogo ed il tempo di organizzazione della propria attività e ricadendo completamente su di lui il rischio inerente all'esercizio dell'attività lavorativa (salva l'ipotesi di cui all'art. 2228, c.c.).
Tale posizione di autonomia rappresenta l'elemento che differenzia il lavoratore autonomo dal lavoratore dipendente, che si trova, al contrario, in una posizione di subordinazione, dovendo prestare il proprio lavoro secondo le direttive, la vigilanza ed il controllo del datore sul quale incide il rischio connesso allo svolgimento dell'attività lavorativa. Ancora, nel rapporto di lavoro dipendente oggetto della prestazione non è il risultato, ma le "operae" (pertanto si parla di "locatio operarum"), ossia le energie lavorative che il datore impiega per conseguire un risultato utile a proprio rischio.
La giurisprudenza ha anche chiarito che nel caso di contemporanea sussistenza di rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo va applicata la disciplina del rapporto i cui caratteri assumono prevalente rilevanza qualitativa e quantitativa.
Il rapporto di lavoro parasubordinato
Il rapporto di lavoro parasubordinato può essere definito come quel rapporto che, a prescindere dalla sua formale ed incontestata autonomia, si caratterizza, oltre che per la continuità, per il carattere strettamente personale della prestazione, integrata dall'impresa e da questa coordinata (PERA).
Quindi, tale rapporto di lavoro è caratterizzato dalla:
Del rapporto di lavoro in oggetto manca, allo stato attuale, una regolamentazione sostanziale diretta e protettiva. Tuttavia, la considerazione della posizione di inferiorità socio-economica in cui versa il lavoratore rispetto al committente, ha indotto il legislatore ad estendere, con la L. 11-88-73, n. 533, la disciplina delle controversie individuali di lavoro anche ai "rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d'opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato".
Le forme tipiche di rapporto parasubordinato sono dunque:
La giurisprudenza ha, poi, ritenuto che rientrino, tra gli altri, nello schema del rapporto di lavoro parasubordinato:
I soggetti del rapporto di lavoro subordinato: il datore di lavoro
Nozione e classificazione dei datori di lavoro
E’ datore di lavoro chi dà ad altri un lavoro alle proprie dipendenze in cambio di una retribuzione. Per lo status giuridico di datore di lavoro non sono previsti requisiti particolari, applicandosi senza eccezioni le norme generali dettate per la capacità giuridica e di agire.
I datori di lavoro possono essere distinti in vari modi. La più usuale classificazione è tra datori di lavoro non professionali e professionali [1].
[1] Questi ultimi sono a loro volta suddivisi in industriali, commerciali, agricoli, artigiani.
La Pubblica amministrazione come datore di lavoro
Prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 29/’93, la natura giuridica pubblica o privata del datore di lavoro rivestiva un’importanza fondamentale. Infatti, qualora il datore di lavoro fosse lo Stato od un Ente Pubblico non economico, non si applicava la disciplina del lavoro subordinato bensì la normativa relativa al pubblico impiego. In seguito al citato D.Lgs. e ad una serie di successivi provvedimenti, si è giunti ad una quasi totale equiparazione del rapporto di impiego alle dipendenze della P.A. al rapporto privato di lavoro subordinato.
Il prestatore di lavoro subordinato
Ai sensi dell’art. 2094 c.c. è prestatore di lavoro subordinato colui che “si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Tale definizione, tuttavia, risulta incompleta in quanto esclude le forme di lavoro subordinato che non vengono prestate nell’ambito dell’impresa come il lavoro domestico o il lavoro a domicilio. La dottrina è pertanto pervenuta a definire il lavoratore subordinato come “colui che si obbliga, dietro retribuzione, a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione di un altro soggetto”.
Il volontariato
L’art. 2 della L. 266/91 (legge quadro sul volontariato) definisce come attività di volontariato quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organiz-zazione cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà. Tale attività non può essere retribuita ed è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro, autonomo o subordinato, con l’organiz-zazione di appartenenza. Al lavoro di volontariato non si applica la disciplina del lavoro, eccetto l’obbligo di assicurazione dei volontari contro gli infortuni e le malattie connessi all’attività prestata e per la responsabilità civile verso i terzi.
Il problema della fonte del rapporto di lavoro: il prevalere delle tesi contrattualistiche e la configurazione del contratto di lavoro come contratto di scambio.
Una delle questioni più dibattute dalla dottrina giuslavoristica è quella concernente l'origine contrattuale oppure no del rapporto di lavoro. Si possono distinguere, al riguardo, due diversi orientamenti di pensiero, in quanto:
Nell'ambito del primo orientamento, discorrendo in termini sintetici, possono ulteriormente distinguersi:
Le teorie suesposte sono però generalmente respinte dalla dottrina dominante che, seguita anche dalla giurisprudenza, si fa portatrice di concezioni contrattualistiche, individuando la fonte del rapporto di lavoro nel contratto ed osservando:
Una volta accolta la tesi contrattualistica, sorge però il problema di individuare la natura giuridica del contratto di lavoro. Questo viene di volta in volta configurato in vario modo, cioè a dire:
Quest'ultima concezione è quella seguita dalla dottrina più accreditata, che, tuttavia, incontra il problema ulteriore dell'inquadramento del contratto di lavoro negli altri contratti di scambio.
Un primo tentativo di risoluzione della questione si sviluppa nel senso di ricondurre il contratto alla compravendita, attribuendo alle energie lavorative la natura di beni immateriali che si staccano dalla persona del prestatore e che costituiscono, dunque, l'oggetto dello scambio. Tuttavia, in senso critico, è facile porre in evidenza l'impossibilità di scindere le energie dalla persona del lavoratore; impossibilità da cui deriva, a voler accogliere la concezione in discorso, la conseguenza di ritenere il lavoratore oggetto del contratto, con un'inaccettabile lesione della sua dignità.
Pertanto, è preferibile fare ricorso allo schema classico della "locatio operarum", effettuando, però, un distacco di tale figura dalla categoria generale della locazione, il cui elemento essenziale consiste sempre in un dare. La "locatio operarum" ha, invece, come contenuto un facere, cioè l'obbligo del lavoratore di prestare la propria opera al servizio del datore.
Così, il contratto di lavoro può, finalmente, essere definito come un contratto di scambio con il quale il prestatore si obbliga a mettere a disposizione dell'imprenditore, o altro datore, la sua attività, e questi si obbliga a corrispondere al prestatore di lavoro una retribuzione
Il contratto collettivo di lavoro è l’accordo tra un datore di lavoro (o un gruppo di datori di lavoro) ed un’organizzazione o più di lavoratori, allo scopo di stabilire il trattamento minimo garantito e le condizioni di lavoro alle quali dovranno conformarsi i singoli contratti individuali stipulati sul territorio nazionale.
Fra le prerogative più evidenti occorre notare:
Quanto alla natura giuridica del contratto collettivo, la dottrina è pressoché unanime a inserirlo nelle categoria dei contratti normativi, di quei contratti cioè che invece di regolare immediatamente gli interessi delle parti, determinano i contenuti di una futura produzione contrattuale.
Tipologie, scopo e fondamento dei contratti collettivi
Nella dinamica della contrattazione collettiva possiamo individuare due tipi di contratti collettivi:
Scopo dei contratti collettivi è quello di stabilire le condizioni uniformi e obbligatorie valide per tutti i prestatori di una determinata categoria onde evitare una possibile e dannosa concorrenza sia fra i prestatori che fra i datori di lavoro.
Il fondamento giuridico del contratto collettivo sta da un lato nell’autonomia che l’ordinamento giuridico concede alle organizzazioni sindacali e, dall’altro, nel rapporto interno che unisce il sindacato ai suoi membri, per cui il primo rappresenta giuridicamente i secondi.
Soggetti e livelli della contrattazione collettiva
Soggetti del contratto collettivo possono definirsi quelle entità collettive che risultano portatrici, per investitura dei singoli, del relativo potere negoziale di autonomia. Benché dette entità possano essere talvolta il risultato di una rappresentanza occasionale e limitata, solitamente si tratta invece di soggetti investiti della negoziazione collettiva in via permanente e cioè i sindacati.
Nel nostro paese si è instaurata una prassi di contratto a tre (CGIL, CISL, UIL) dalla parte dei lavoratori con la Confindustria dalla parte dei datori di lavoro. I livelli principali della contrattazione sono:
Oggetto della contrattazione collettiva
L’oggetto della contrattazione collettiva è individuabile essenzialmente in due diversi contenuti:
Nella realtà aziendale, le clausole obbligatorie – cioè tutte quelle clausole che istituiscono direttamente fra le associazioni stipulanti rapporti di obbligazione, il cui eventuale inadempimento determina la insorgenza di una responsabilità delle stesse associazioni – possono essere molteplici. Fra le più importanti:
La procedura di stipula del contratto collettivo
Ogni contratto collettivo ha generalmente durata biennale o triennale. Alla scadenza si procede alla rinnovazione del contratto stesso mediante un procedimento che si articola nelle seguenti tre fasi:
Già prima della scadenza (ed entro comunque tre mesi), le organizzazioni sindacali solitamente presentano delle piattaforme rivendicative (c.d. “pacchetti”). Queste contengono specifiche richieste che rappresentano la base minima della futura contrattazione.
I rapporti tra le diverse fonti di disciplina del contratto di lavoro
Per il rapporto di lavoro la gerarchia delle fonti è la seguente:
L’applicazione rigida di tale schema presupporrebbe che nel contratto collettivo contenente deroghe rispetto alle disposizioni di legge, queste ultime prevarrebbero comunque rispetto ai contratti collettivi stessi. Sennonché, il principio del favore verso il lavoratore fa prevalere, fra più fonti regolatrici del rapporto di lavoro, quella più favorevole verso il lavoratore [2] (derogabilità in melius).
[2] Restano comunque escluse le norme assolutamente inderogabili.
Quanto ai rapporti fra contratto collettivo e contratto individuale, il secondo può derogare al primo solo in melius. Le eventuali clausole del contratto individuale difformi da quelle del contratto collettivo sono nulle.
Il contratto collettivo di diritto comune e la sua efficacia
L’unico tipo di contratto collettivo che possa realizzarsi nel nostro ordinamento è il contratto collettivo di diritto comune (così chiamato perché regolato da norme di diritto comune). Tale tipo di contratto – proprio per un principio di diritto comune –vincola esclusivamente gli associati alle organizzazioni sindacali che lo hanno stipulato. Nei fatti, tuttavia, la giurisprudenza ha esteso in taluni casi l’efficacia di tali contratti anche nei confronti di lavoratori non appartenenti alle associazioni stipulanti, in particolare:
Il contratto individuale di lavoro è il contratto mediante il quale il prestatore si obbliga a mettere a disposizione del datore di lavoro la sua attività di lavoro e questi si obbliga a corrispondere al prestatore una retribuzione. Trattasi di un contratto:
Presupposti soggettivi del contratto di lavoro
La capacità giuridica e di agire del datore
Al datore si applicano le norme dettate per la generalità dei soggetti in tema di capacità giuridica e di agire. Una disciplina sotto alcuni aspetti particolare vige, però, se il datore è un imprenditore, posto che in tal caso incombono su di lui alcuni obblighi e limiti, determinati dall'esigenza di tutela del lavoratore subordinato alle dipendenze dell'impresa, soprattutto media o grande. La qualità di imprenditore del datore assume rilevanza anche sotto il profilo della c.d. spersonalizzazione dell'imprenditore agli effetti della formazione e conclusione del contratto nonché della successione nello stesso. Sotto il primo aspetto, in omaggio al principio della continuità dell'impresa, si applica al lavoro subordinato l'art. 1330, c.c., ai sensi del quale la proposta o l'accettazione provenienti da un imprenditore restano ferme anche in caso di morte o di sopravvenuta incapacità prima della conclusione del contratto. Sotto il secondo aspetto, l'art. 2112, c.c., dispone che "in caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con l'acquirente ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano": da tale norma si desume agevolmente il principio della normale irrilevanza della persona dell'imprenditore ai fini della successione anche mortis causa nel contratto di lavoro.
La capacità giuridica e di agire del lavoratore
Al lavoratore si applicano tutte le regole generalmente dettate per la capacità giuridica e di agire delle persone fisiche, in quanto, in ragione dell'implicazione delle energie del lavoratore nella prestazione, solo le persone fisiche sono capaci di prestare il proprio lavoro e di agire al riguardo ponendo in essere i relativi negozi. Una parte della dottrina afferma l'esistenza, in materia di lavoro, di una capacità giuridica speciale, stante la vigenza di una disciplina particolare che - salve le disposizioni di legge che stabiliscono età minime inferiori o superiori - fissa l'età minima di ammissione al lavoro a quindici anni. Il che, come si vede, costituisce una deroga al principio di cui all'art. 1, c.c., che sancisce che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita. Con riguardo alla capacità di agire, va detto che l'art. 2, c.c., dopo aver ribadito, al co. I, che con il compimento della maggiore età (18 anni) si acquista la capacità di porre in essere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un'età diversa, fa salve, con il co. II, le leggi speciali che stabiliscono un'età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro, statuendo che "in tal caso il minore è abilitato all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro". Dunque, vi è coincidenza tra la capacità giuridica, i.e. l'idoneità ad essere parte di un rapporto di lavoro, e la capacità al lavoro, ossia l'attitudine a prestare il proprio lavoro. In virtù di tale coincidenza tra capacità giuridica e capacità di agire in anticipazione rispetto alla regola generale, non vi è più spazio - secondo la dottrina maggioritaria - per l'intervento del genitore ovvero di qualunque altro rappresentante legale (nemmeno a titolo di semplice assistenza) nella stipulazione del contratto. Restano salvi, comunque, i casi in cui questo intervento sia espressamente previsto da norme speciali. A parte l'illiceità e, dunque, la nullità dei negozi contrari alle norme imperative di cui si è fin qui discorso, è prevista l'irrogazione di sanzioni penali per i datori che vi contravvengono e per i soggetti rivestiti di autorità o incaricati della vigilanza sui minori cui le violazioni si riferiscono.
Le documentazioni relative al lavoratore: il libretto di lavoro
Sotto l'aspetto della capacità giuridica del lavoratore possono essere considerate anche alcune documentazioni relative alla sua persona, poiché esse condizionano la validità o quantomeno la regolarità della conclusione del contratto. Rientrano nella categoria di cui trattasi le iscrizioni dei prestatori in albi, registri, liste, ecc., richieste ai fini del collocamento e dell'assunzione. In tale contesto, qualche cenno va riservato alla disciplina generale del libretto personale di lavoro, contenuta nella L. 112/1935. Il libretto è obbligatorio per quasi tutti i prestatori di lavoro. Esso contiene una serie di indicazioni relative al prestatore, alcune delle quali provenienti dal sindaco (contro le quali è sempre ammessa la prova contraria); altre provenienti da ogni singolo datore di lavoro (contro le quali è ammesso anche il ricorso del lavoratore all'Ispettorato del lavoro per la rettifica). Il libretto rimane, per tutto il periodo di occupazione, presso il datore di lavoro, che, ove commetta abusi, è passibile di sanzioni penali. Nei casi in cui è esclusa l'obbligatorietà del libretto, è previsto il rilascio, da parte del datore, all'atto della cessazione del rapporto di lavoro o del tirocinio, di un attestato del lavoro o del tirocinio compiuto e della sua durata.
Gli elementi essenziali del contratto di lavoro
L’accordo delle parti
Il contratto di lavoro è un contratto consensuale, che si perfeziona con l'incontro delle volontà espresse dalle parti. Come è stato osservato (GHERA), nella formazione del contratto di lavoro, la disciplina generale del contratto dettata dal Codice Civile si applica con alcuni rilevanti caratteri di specialità, a causa dei numerosi limiti imposti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, che restringono in misura notevole il margine dell'autonomia privata. L'efficacia di tali limiti è particolarmente penetrante e si attua per mezzo del meccanismo dell'inserzione automatica di clausole (art. 1339, c.c.), e della sostituzione di diritto delle clausole difformi del contratto individuale (art. 1419, c.c.). Tuttavia, essa, incidendo solo sul piano della libera determinazione del contenuto del contratto, non esclude l'origine contrattuale del rapporto di lavoro e, in secondo luogo, non inficia la natura del contratto di lavoro che è e resta, come si è detto, un contratto consensuale.
La causa
La causa del contratto di lavoro deve essere individuata nello scambio tra lavoro e retribuzione, scambio vincolato alla reciprocità per cui l'obbligazione e la prestazione di una parte sono in funzione dell'obbligazione e della prestazione dell'altra (SANTORO PASSARELLI). Dalla causa vanno tenuti distinti i motivi, che sono i particolari interessi o bisogni che rappresentano lo scopo concreto che, tramite gli effetti del negozio, le parti intendono raggiungere. Essi sono, di regola, giuridicamente irrilevanti, a meno che le parti si siano determinate a concludere il contratto esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe, nel qual caso il contratto è illecito (art. 1345, c.c.).
L'oggetto
Secondo la dottrina dominante, l'oggetto del contratto di lavoro è rappresentato sia dalla prestazione lavorativa sia dalla retribuzione. I requisiti che esso deve possedere sono quelli richiesti dall'art. 1346, c.c., per il contratto in generale, ossia:
La forma
Il contratto di lavoro è un contratto a forma libera. Al principio della libertà della forma, tuttavia, si deroga in tutte le ipotesi in cui particolari patti, ovvero gli elementi accidentali del contratto, costituiscano clausole negoziali sfavorevoli al prestatore. Così devono risultare a pena di nullità da atto scritto:
Al principio della libertà della forma si deroga anche per determinati tipi di contratti di lavoro, tra cui si ricordano:
Ipotesi a sé stante è, poi, quella rappresentata dal contratto di lavoro a tempo determinato del personale di volo, per il quale è richiesta, sì, la forma scritta, ma non ad substantiam, bensì ad probationem, cioè ai soli fini probatori.
Gli elementi accidentali del contratto di lavoro
Gli elementi accidentali del contratto sono quegli elementi che le parti sono libere di apporre o meno, ma che una volta apposti incidono sull'efficacia del contratto stesso. Essi possono essere inseriti anche nel contratto di lavoro: nella pratica, ricorrente è soprattutto l'apposizione della condizione e del termine.
La condizione ed il patto di prova
La condizione - che è un avvenimento futuro ed incerto dal quale le parti fanno dipendere la produzione degli effetti del contratto, cui la condizione è opposta, ovvero l'eliminazione degli effetti già prodotti dal contratto - può inerire in maniera esplicita od implicita al contratto di lavoro, e può essere:
Si osservano i principi civilistici con una particolarità: la retroattività della condizione sospensiva non può risalire oltre l'effettivo inizio della prestazione di lavoro; la retroattività della condizione risolutiva è sicuramente esclusa per l'impossibilità di restituzione delle prestazioni di lavoro già eseguite.
Una parte della dottrina (GHERA, MAZZIOTTI) configura, quale particolare forma di condizione, il patto di prova, cioè la clausola scritta inserita nel contratto di lavoro, con la quale le parti subordinano la definitiva assunzione all'esperimento positivo di un periodo di prova (art. 2096, c.c.). Si è detto che il patto di prova è una clausola scritta: esso, infatti, deve risultare da atto scritto contenente l'indicazione della durata della prova: in mancanza, l'assunzione del lavoratore si considera definitiva.
Poiché la prova è evidentemente uno strumento predisposto più nell'interesse del datore che del prestatore, la legge fissa il limite massimo di sei mesi per la sua durata. L'art. 2096, co. III, c.c., regola il recesso dal periodo di prova, stabilendo che "ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine". Con riguardo al recesso, la Corte costituzionale, con la sent. 16/12/1980, n. 189, ha chiarito che esso non può essere immotivato, ma deve trovare la sua ragione nell'esito negativo della prova: è, dunque, illegittimo il licenziamento in periodo di prova se non è stato concretamente consentito al lavoratore di dimostrare le sue qualità professionali.
Se poi l'esperimento dà esito positivo, il periodo di prova si trasforma nel rapporto di lavoro subordinato vero e proprio. Se, invece, l'esperimento dà esito negativo, il datore è obbligato a corrispondere al prestatore il trattamento di fine rapporto e le ferie retribuite o la relativa indennità sostitutiva, nonché ogni altro emolumento previsto per il lavoratore che non sia incompatibile con la particolare natura del periodo di prova.
Il termine ed il contratto a tempo determinato
Si è detto che il contratto di lavoro è un contratto di durata. Ad esso, tuttavia, può anche essere apposto un termine finale. Lo sfavore del nostro ordinamento per il contratto di lavoro a tempo determinato risultava, in passato, chiaramente dal dettato dell'art. 2097, c.c., che consentiva l'apposizione del termine - richiedendo per essa la forma scritta - soltanto in presenza di un rapporto di lavoro che presentasse il carattere della specialità.
L'art. 2097, c.c., è stato abrogato dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, intitolata "Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato", che è ancora più drastica, in quanto non si limita a richiedere la specialità del rapporto e la forma scritta per l'apposizione del termine, ma elenca in maniera tassativa le ipotesi nelle quali tale apposizione può aversi. Si tratta dei seguenti casi:
A queste ipotesi, la L. 84/1986 ne ha aggiunto un'altra, che si verifica quando l'assunzione viene effettuata da aziende di trasporto aereo e da aziende esercitanti i servizi aeroportuali ed abbia luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci. Ancora possono essere stipulati contratti di lavoro a termine:
L'art. 2, L. 230/1962, stabilisce che "il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, eccezionalmente prorogato, non più di una volta e per un tempo non superiore alla durata del contratto iniziale, quando la proroga sia richiesta da esigenze contingibili ed imprevedibili e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato". Il contratto si considera a tempo indeterminato fin dalla data della prima assunzione del lavoratore qualora:
Obbligo d’informazione sulle condizioni applicabili al rapporto di lavoro
Ai sensi del D.Lgs. n. 152/97, il datore di lavoro ha l’obbligo di informare per iscritto il lavoratore circa le condizioni applicabili al contratto o rapporto di lavoro. Tale obbligo, che deve essere adempiuto entro 30 giorni dall’avvenuta assunzione, si sostanzia in una serie di dettagliate notizie che devono essere rese al prestatore, in particolare:
Quanto alle modalità per rendere al lavoratore le informazioni suddette, si hanno in sostanza due possibilità:
Interpretazione ed integrazione del contratto di lavoro
Per quanto riguarda l’interpretazione del contratto di lavoro, non vi sono particolari differenze rispetto alla normativa civilistica generale. Assumono rilievo gli usi quando i datori di lavoro sono commercianti, artigiani, agricoltori.
L’integrazione del contratto trova vasta applicazione: il contratto di lavoro si limita in generale alle indicazioni essenziali, rinviando poi alla contrattazione collettiva e alle leggi.
La patologia negoziale: cause di nullità e di annullabilità del contratto di lavoro
Le vicende patologiche del contratto di lavoro sono regolate dai principi comuni di diritto privato. Perciò, tale contratto può essere:
[3] Trattasi di nullità parziale in quanto la clausola viziata è sostituita di diritto con le norme imperative violate.
Ciò detto in generale, occorre segnalare due fattispecie proprie del diritto del lavoro in cui il legislatore fa scaturire effetti giuridici da contratti di lavoro radicalmente nulli, e cioè:
Effetti dell’invalidità contrattuale
L’invalidità del contratto di lavoro, come abbiamo visto, può derivare sia da cause di nullità, sia da cause di annullabilità. Le differenze sono rilevanti:
In deroga alla disciplina di diritto comune, secondo la quale il contratto nullo è inefficace fin dall’origine e quello annullabile conserva la sua efficacia sino al momento della pronuncia di annullamento, in materia di lavoro entrambi i vizi fanno salvi gli effetti giuridici prodotti dal contratto invalido al fine di evitare che il prestatore di lavoro subisca le conseguenze sfavorevoli della dichiarazione di nullità o dell’annullamento del contratto stesso (art. 2126).
Sistemi di collocamento ordinario
Limiti all’autonomia negoziale nella formazione del contratto di lavoro
Il contratto di lavoro, considerata la sua rilevanza sociale, è sottoposto a numerosi limiti. Questi, per quanto attiene alla fase iniziale del procedimento formativo, possono essere ricondotti a tre categorie:
Delle tre categorie di limiti di cui si è appena discorso l'ultima è sicuramente la più importante. Pertanto, di essa si tratterà più diffusamente nei paragrafi che seguono.
La funzione del collocamento
Come afferma MAZZIOTTI, "il collocamento si esplica attraverso l'esercizio non di un semplice servizio, ma di una vera e propria funzione: infatti esso dà luogo non all'erogazione di prestazioni amministrative, come nel caso di un servizio pubblico, bensì all'esercizio di una serie di poteri autoritativi, sia nella fase del procedimento che si conclude con l'iscrizione del lavoratore nelle liste di collocamento, sia nella fase successiva che si conclude con l'atto di avviamento". Si tratta di un istituto volto sia a proteggere il prestatore contro le sopraffazioni eventualmente perpetrate a suo danno dal datore - il quale potrebbe anche, in ipotesi, condizionare l'assunzione al versamento di una somma di danaro -, sia a debellare il deprecabile fenomeno della mediazione privata.
Il collocamento, inteso come sistema normativo predisposto per lo svolgimento della mediazione fra domanda ed offerta di lavoro, in vista dell’assunzione di manodopera, costituisce una funzione pubblica. Tale funzione, esercitata dallo Stato in via esclusiva prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 469/97, è ora esercitata dalle Regioni e da alcune agenzie private dotate di particolari requisiti di professionalità e patrimonialità. A partire dalla L. 608/96 fino al D.Lgs. 469/97, si è avviata una progressiva deregolamentazione del sistema delle assunzioni, accompagnata dal passaggio del ruolo svolto dallo Stato da una funzione preventiva obbligatoria ad una funzione prevalentemente di controllo a posteriori e di indirizzo, promozione e coordinamento.
Gli organi
La funzione del collocamento è svolta quasi esclusivamente dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale, per mezzo di un apparato che, secondo una concezione piramidale, si articola in:
Alla concreta gestione del collocamento contribuiscono anche le organizzazioni sindacali, attraverso la presenza dei rappresentanti delle parti sociali nelle diverse commissioni a composizione mista, istituite nell'ambito della struttura burocratica facente capo al Ministero del lavoro, e cioè:
Le fasi: l'iscrizione e l'avviamento
Il collocamento si esercita attraverso due fasi fondamentali, a ciascuna delle quali corrisponde un procedimento amministrativo:
Il primo procedimento ha inizio con la domanda di iscrizione presentata dal lavoratore; domanda che l'ufficio di collocamento è obbligato ad accettare essendo l'iscrizione un atto dovuto (GHERA la classifica tra le ammissioni).
I requisiti per la domanda sono:
I lavoratori vengono iscritti nelle liste secondo i seguenti criteri:
Esiste anche una lista speciale nella quale vengono iscritti i lavoratori che si dichiarino disponibili a svolgere attività part-time. La L. 407/90 e la L. 223/91 hanno previsto inoltre particolari liste di mobilità ove debbono essere iscritti i lavoratori da lungo tempo in cassa integrazione straordinaria o iscritti nelle liste di collocamento da lungo periodo.
Ulteriori classificazioni, nell'ambito di ciascuna classe, vengono operate con riguardo ai settori di produzione, alle categorie professionali ed alle qualifiche possedute dai lavoratori. In base a tali classificazioni, i lavoratori vengono inclusi nelle graduatorie di avviamento, per la formazione delle quali si tiene conto:
Il lavoratore iscritto ha l'obbligo di comunicare alla sezione circoscrizionale competente ogni mese (ovvero nel diverso termine eventualmente fissato dalla commissione regionale per l'impiego) la permanenza dello stato di disoccupazione, a pena di cancellazione dalle liste (analoga sanzione è comminata nel caso in cui il lavoratore non risponda alla convocazione o rifiuti un posto di lavoro a tempo indeterminato, corrispondente ai suoi requisiti professionali, per due volte consecutive e senza giustificato motivo).
La seconda fase del procedimento di collocamento, ossia quella dell'avviamento al lavoro, ha inizio con la richiesta che il datore deve inoltrare, per iscritto, all'ufficio competente.
L’art. 9bis, come si è detto, ha totalmente innovato il sistema del collocamento dei lavoratori dando facoltà a tutti i datori di lavoro di assumere direttamente i prestatori. Precedentemente alla L. 608/96, il datore di lavoro in cerca di manodopera doveva presentare una richiesta agli uffici di collocamento e in particolare:
[4] A tutela dei lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli, è predisposto un istituto, chiamato in sostanza a sostituire il vincolo dell'avviamento numerico: è previsto, cioè, che i datori che occupano più di 10 dipendenti devono riservare una percentuale del 12% delle nuove assunzioni a particolari categorie di lavoratori (quelli iscritti da più di 2 anni nella prima classe delle liste di collocamento; quelli iscritti nelle liste di mobilità; quelli appartenenti a speciali categorie determinate con delibera della Commissione regionale per l'impiego, approvata dal Ministro del lavoro).
Attualmente, tutte le assunzioni possono essere fatte direttamente, senza il preventivo nulla-osta da parte degli organi del collocamento, necessario solo per l’assunzione di extracomunitari non residenti in Italia e di lavoratori italiani destinati a prestare la propria opera in paesi non appartenenti alla CE. Permane comunque per i lavoratori, l’obbligo di iscrizione nelle liste di collocamento.
Al momento dell’assunzione il datore di lavoro è tenuto a registrare immediatamente il lavoratore nel libro matricola ed a consegnargli una dichiarazione sottoscritta dei dati relativi a tale registrazione. Deve inoltre comunicare agli uffici di collocamento, entro 5 giorni dall’avvenuta assunzione, l’assunzione stessa.
Il collocamento obbligatorio
Il collocamento obbligatorio, regolato sino ad oggi dalla L. 482/68, è destinato ad una significativa riforma per effetto della L. 68/99. Quest’ultima si pone come finalità “la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”, intendendosi, per collocamento mirato dei disabili, l’insieme di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative allo scopo di inserirli in idonei posti di lavoro.
La disciplina del 1968
In base alla L. 482/68, i soggetti da assumere obbligatoriamente sono:
Quanto alla disciplina possiamo così riassumere:
La disciplina del 1999
La L. 68/99 estende il suo ambito di operatività:
Tra le principali novità della L. 68/99 rileva la variazione delle quote di riserva a carico dei datori di lavoro pubblici e privati, distinte nelle seguenti:
A differenza della precedente normativa basata esclusivamente sul meccanismo della richiesta numerica, la L. 68/99 prevede la richiesta nominativa per:
Promozione dell’occupazione
Numerosi sono gli strumenti predisposti dal legislatore per favorire l’inserimento occupazionale dei giovani e, più in generale, degli inoccupati e disoccupati appartenenti alle aree geografiche più svantaggiate.
Anzitutto rileva il contratto di formazione e lavoro che, accanto all’apprendistato, ha l’obiettivo di mediare l’esigenza dell’immediato inserimento del giovane nel mondo del lavoro con quella di una contestuale attività formativa. Entrambi gli strumenti negoziali sono stati da ultimo oggetto di una significativa riforma apportata dalla L. 196/97 (c.d. “pacchetto Treu”). Quest’ultima legge, inoltre, ha stabilito:
La formazione professionale e la formazione continua
Al fine di potenziare la crescita culturale e professionale dei giovani, ferme restando le disposizioni vigenti per quanto riguarda l’adempimento e l’assolvimento dell’obbligo dell’istruzione, l’art. 68 della L. 144/99 ha istituito l’obbligo di frequenza di attività formativa fino al compimento del diciottesimo anno di età. Tale obbligo può essere assolto in percorsi anche integrati di istruzione e formazione nel sistema di istruzione scolastica, della formazione professionale di competenza regionale e nell’esercizio dell’apprendistato. Inoltre, allo scopo di riqualificare e ampliare l’offerta formativa destinata ai giovani e agli adulti, occupati e non occupati, è istituito il sistema della istruzione e formazione tecnica superiore (IFTS) al quale si accede di norma con il diploma di scuola secondaria superiore.
In precedenza, l’art. 17 della L. 196/97 ha istituito alcuni principi atti a favorire la c.d. formazione continua intesa come insieme di attività rivolte a soggetti adulti, occupati o disoccupati, generalmente predisposte dalle imprese, cui il lavoratore può partecipare anche per autonoma scelta, al fine di adeguare o elevare la propria preparazione professionale.
Le assunzioni agevolate
Al fine di incentivare il ricorso delle imprese ad avvalersi di nuova forza lavoro, si è dato vita nel tempo al sistema delle assunzioni agevolate, ovvero di assunzioni di particolari categorie di lavoratori cui sono connessi sgravi contributivi e incentivi economici o fiscali che determinano una riduzione del costo del lavoro per l’impresa.
Misure straordinarie per l’occupazione giovanile
Particolari misure sono volte alla promozione dell’occupazione giovanile:
Il divieto di intermediazione nel rapporto di lavoro
Accanto al divieto di mediazione privata nel collocamento della manodopera, sancito dalla L. 264/49, il nostro ordinamento prevede anche il divieto di intermediazione e di interposizione nel rapporto di lavoro, posto dall'art. 1, L. 23 ottobre 1960, n. 1369. Tale norma trova il suo immediato precedente legislativo nell'art. 2127, c.c., che vieta il cd. cottimo collettivo affidato ad un dipendente dell'imprenditore e dispone che, in caso di violazione di tale divieto, l'imprenditore risponde direttamente, nei confronti dei prestatori di lavoro assunti dal proprio dipendente, degli obblighi derivanti dai contratti di lavoro da essi stipulati.
L'art. 1, L. 1369/1960, ha, rispetto all'art. 2127, c.c., una portata più ampia. Esso, infatti, da un lato, estende il divieto di interposizione al lavoro a cottimo organizzato - oltre che dal dipendente dell'imprenditore - da un terzo o da una società, anche cooperativa; d'altro, pone il più generale divieto, per l'imprenditore, di affidare in appalto o in subappalto, od in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l'esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l'impiego di manodopera assunta e retribuita dall'appaltatore o dall'intermediario, qualunque sia la natura dell'opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono.
L'art. 1, co. III, L. 1369/1960, chiarisce che per appalto di mere prestazioni di lavoro deve intendersi ogni forma di appalto o subappalto, anche per l'esecuzione di opere o di servizi, ove l'appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante, quand'anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all'appaltante.
In caso di violazione dell'art. 1, L. 1369/1960, i lavoratori occupati sono considerati a tutti gli effetti dipendenti dell'imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni. Come appare, si è in presenza di un'ipotesi peculiare di invalidità del contratto di lavoro, dal quale scaturiscono egualmente effetti giuridici per i prestatori.
Sia il divieto di mediazione privata che quello di intermediazione e appalto nelle prestazioni di lavoro, un tempo di carattere assoluto, hanno oggi, a seguito della L. 196/97 e del D.Lgs. 469/97, determinati spazi di in operatività. L’ordinamento ammette infatti la mediazione privata svolta con requisiti e alle condizioni di cui all’art. 10 D.Lgs. 469/97, così come ammette, ai sensi degli artt. 1-11 L. 196/97, il lavoro interinale, molto vicino ad un appalto di manodopera.
Il lavoro interinale
Nel lavoro interinale, un’agenzia di collocamento privata smista soggetti in cerca di occupazione indirizzandoli temporaneamente presso imprese che necessitano di manodopera. L’introduzione nell’ordinamento della disciplina sul lavoro interinale, approvata con L. 196/97, consente di superare, entro certi limiti, i vincoli previsti dal divieto di mediazione e interposizione di manodopera ex. art. 2127 c.c., L. 264/49 e L. 1369/60.
Il rapporto di lavoro interinale consta di tre figure cardine:
Il rapporto tra impresa fornitrice e impresa utilizzatrice è regolato dal contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo. Il rapporto tra impresa fornitrice e lavoratore è regolato da un contratto per prestazioni di lavoro temporaneo. In entrambi i casi risulterà essere nulla qualsiasi clausola che tenda, anche indirettamente, a limitare l’impresa utilizzatrice o il lavoratore nel continuare il rapporto di lavoro dopo la scadenza del contratto di lavoro temporaneo.
Quanto all’ambito di applicazione, il contratto di lavoro interinale può essere stipulato:
Il prestatore di lavoro temporaneo ha diritto a ricevere la retribuzione e il pagamento dei contributi previdenziali esclusivamente dall’impresa fornitrice. Quanto alla determinazione della retribuzione stessa, il trattamento economico non deve essere inferiore a quello cui hanno diritto tutti i dipendenti inquadrati allo stesso livello nell’organico della impresa utilizzatrice
Il rapporto di lavoro si configura come un rapporto complesso per la molteplicità degli elementi che concorrono a definire la posizione giuridica delle parti, e cioè i loro reciproci diritti e doveri che possiamo così riassumere:
L’OBBLIGAZIONE DI LAVORO
Il contenuto sostanziale della prestazione, e cioè l’attività dedotta nel rapporto, è desunta da una serie di elementi, e precisamente dalle mansioni, dalle qualifiche e dalle categorie.
Mansioni
Le mansioni indicano l’insieme dei compiti e delle concrete operazioni che il lavoratore è chiamato ad eseguire e che possono essere pretesi dal datore di lavoro: indicano, in sostanza, l’oggetto specifico dell’obbligazione lavorativa.
Qualifiche
La qualifica designa lo status professionale del lavoratore, legalmente e contrattualmente identificato secondo il contenuto delle mansioni. In particolare essa esprime il tipo e il livello di una figura professionale e concorre con le mansioni a determinare la posizione del lavoratore nella struttura organizzativa dell’impresa, da cui derivano una serie di diritti e doveri inerenti al rapporto di lavoro.
Categorie
Le categorie costituiscono delle entità classificatorie che raggruppano i vari profili professionali. Si tratta di un sistema di classificazione professionale che, al pari delle qualifiche, delinea il particolare regime giuridico cui il lavoratore e sottoposto ai fini del trattamento economico. L’individuazione delle categorie si desume dall’art. 2095 c.c. nonché dalla contrattazione collettiva. E’ possibile, in tal modo, distinguere le categorie legali da quelle contrattuali.
Le categorie legali
L'art. 2095, co. I, c.c., come novellato dall'art. 1, L. 190/1985, contempla quattro categorie di prestatori di lavoro, destinatarie di determinate regolamentazioni previste dalla legge: dirigenti, quadri, impiegati ed operai. Lo stesso articolo, al co. II, rinvia alle leggi speciali ed alla contrattazione collettiva per la determinazione dei requisiti di appartenenza alle categorie legali di cui al co. I, sia per quanto attiene alla collocazione nelle singole imprese, sia per ciò che concerne la collocazione nei vari settori.
I dirigenti: L'art. 1 del contratto collettivo nazionale di lavoro del 3 ottobre 1989, per i dirigenti industriali, definisce i dirigenti come quei lavoratori che "ricoprono nell'azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplicano la loro funzione al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell'impresa". La peculiarità degli interessi dei dirigenti rispetto a quelli degli altri lavoratori comporta:
Ancora, ai dirigenti non si applicano alcune leggi di tutela, ossia quelle sull'orario di lavoro, sul contratto a termine, sul licenziamento.
I quadri: L'art. 2, L. 190/1985, definisce i quadri come i "prestatori di lavoro subordinato che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa". Lo stesso articolo rimanda alla contrattazione collettiva nazionale o aziendale per la determinazione dei requisiti di appartenenza alla categoria "in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura organizzativa dell'impresa". Come per la definizione dei dirigenti, anche per quella dei quadri il legislatore fa riferimento alle funzioni, e non alle mansioni svolte dal prestatore. Tuttavia, sul piano della disciplina, la differenziazione tra le due categorie è netta. Per i quadri è prevista, infatti, l'applicabilità delle norme che regolano il rapporto individuale di lavoro degli impiegati, salvo diversa disposizione dei contratti collettivi; si esclude, inoltre, che possano essere ricompresi nella categoria dei quadri i lavoratori già classificati come dirigenti.
Gli impiegati
L'art. 1, R.D. 13 novembre 1924, n. 1825, definisce l'impiegato come colui che professionalmente presta la propria attività alle dipendenze di un imprenditore privato, con la funzione di collaborazione, tanto di concetto che di ordine, eccettuata ogni prestazione che sia semplicemente di mano d'opera.
La prestazione di lavoro dell'impiegato si caratterizza, dunque, per:
Con riferimento al primo elemento, l'art. 1, R.D. 1825/1924, distingue la collaborazione di concetto da quella d'ordine, senza però definirle. Per la Cassazione, il criterio discretivo consiste non tanto nel carattere intellettivo della prestazione, quanto, piuttosto, nella parziale autonomia dell'impiegato di concetto rispetto ai superiori, autonomia da valutare non in ragione dell'incarico conferito, ma del lavoro effettivamente svolto.
Gli operai: L'art. 1, R.D. 1825/1924, fornisce una definizione in negativo dell'operaio, essendo tale, per questa disposizione, il lavoratore che non può essere inquadrato in nessuna delle altre categorie. Con riguardo alla distinzione tra impiegato ed operaio, la dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengono, dopo molte incertezze, che sia determinante, non il carattere intellettuale o manuale del lavoro prestato, bensì il grado della collaborazione fornita dal lavoratore al datore. Così, mentre la prestazione dell'impiegato, anche d'ordine, si caratterizza per l'attività di "collaborazione all'impresa" - di cui si è detto al paragrafo precedente -, quella dell'operaio si caratterizza per la "collaborazione nell'impresa", consistente in un generico apporto al processo produttivo, realizzato mediante la mera attuazione delle direttive ricevute.
Categorie contrattuali
Si tratti di categorie di origine contrattuale, introdotte cioè dalla contrattazione collettiva in aggiunta a quelle legali. Le figure professionali che si individuano in tale ambito sono:
L’inquadramento unico
La distinzione tra impiegati ed operai è oggi parzialmente superata dall'introduzione, ad opera della contrattazione collettiva, di un nuovo sistema di inquadramento professionale: il c.d. sistema di inquadramento unico. Esso si fonda su una classificazione unica dei lavoratori, che vengono ordinati in una pluralità di livelli professionali, e non più, come avveniva in passato, per gruppi di qualifiche all'interno delle varie categorie.
L’appartenenza a tali categorie è determinata sulla base di:
Le novità introdotte dal nuovo sistema possono, così, sintetizzarsi:
Il mutamento delle mansioni
L'art. 2103, c.c., novellato dall'art. 13 dello Statuto dei lavoratori, al co. I, prima parte, testualmente recita: "Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione". Tale disposizione limita il c.d. jus variandi, ossia il potere unilaterale del datore di modificare le mansioni del lavoratore, il quale, oltre che alle mansioni per le quali è stato assunto, può essere adibito soltanto:
L'art. 2103, ult. co., c.c., prevede espressamente che "ogni patto contrario è nullo". Si tratta di un'ipotesi di nullità testuale che determina l'inefficacia di ogni modificazione in peius delle mansioni del prestatore, con attribuzione a quest'ultimo del diritto alla restituzione delle mansioni originarie o equivalenti ovvero, in alternativa, al risarcimento del danno causato alla sua professionalità.
Il trasferimento del lavoratore
L'art. 2103, co. 1, c.c., disciplina anche il potere di trasferimento, disponendo che il lavoratore "non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive". Ciò in quanto il trasferimento può comportare la lesione di interessi lavorativi ed extralavorativi. L'onere della prova della legittimità del trasferimento è a carico del datore. Va notato che l'art. 2103, c.c., non si riferisce al trasferimento da una località all'altra, ma al trasferimento da un'unità produttiva all'altra: per unità produttiva deve intendersi ogni articolazione autonoma dell'impresa o azienda, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività di produzione di beni o servizi dell'impresa della quale è elemento organizzativo.
OBBLIGHI E DIRITTI DEL LAVORATORE
La prestazione
La prestazione di lavoro subordinato consiste nella messa a disposizione del proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore (art. 2094). Trattasi di una obbligazione di mezzi che impegna il prestatore a tenere un determinato comportamento, ma anche a raggiungere mediante tale attività, un risultato ulteriore.
La prestazione di lavoro deve essere:
Obblighi integrativi
L'obbligo di diligenza
Il primo degli obblighi integrativi facenti capo al prestatore è l'obbligo di diligenza. L'art. 2104, c.c., sancisce che "Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale". La norma in esame fa riferimento a tre criteri, alla cui stregua la diligenza del prestatore deve essere valutata, e cioè quelli:
L'inosservanza del dovere di diligenza comporta per il prestatore:
L'obbligo di obbedienza
Il co. II dell'art. 2104, c.c., pone a carico del prestatore l'obbligo di obbedienza, sancendo che egli deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro che gli vengono impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende. Come la giurisprudenza ha ripetutamente precisato, la soggezione del prestatore al datore ed ai suoi collaboratori non può superare i limiti imposti dalle norme di legge - in particolare, da quelle dello Statuto dei lavoratori - e dalle norme contrattuali, potendo, in caso contrario, il lavoratore, esercitare il c.d. jus resistentiae, cioè rifiutarsi di osservare le disposizioni impartite. L'inosservanza dell'obbligo di obbedienza può costituire, nei casi più gravi, giustificato motivo (soggettivo) di licenziamento.
L'obbligo di fedeltà
L'art. 2105, c.c., rubricato "Obbligo di fedeltà" pone a carico del prestatore un obbligo volto a tutelare l'interesse dell'imprenditore alla capacità di concorrenza dell'impresa (GHERA). Esso trae origine dal principio generale per il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (artt. 1175 e 1375, c.c.).
Tre sono i divieti che costituiscono il contenuto dell'art. 2105, c.c., e cioè:
Sul piano civilistico, la violazione dell'art. 2105, c.c., dà luogo sia alla responsabilità disciplinare sia al risarcimento del danno eventualmente causato al datore.
In conclusione, va anche ricordato che per alcuni autori (BUONCRISTIANO, MAZZIOTTI) e per la giurisprudenza (Cass. 5257/87), l'art. 2105, c.c., è una norma dispositiva e non imperativa, per cui l'autonomia delle parti - individuali o collettive - può sia consentire lo svolgimento di attività in concorrenza sia vietare al lavoratore l'espletamento di altre attività, autonome o subordinate, a favore di terzi, indipendentemente dalla rilevanza o meno di esse sotto il profilo della concorrenza.
Il patto di non concorrenza
Il divieto di concorrenza, sancito dall'art. 2105, c.c., avendo natura contrattuale, si estingue al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Tuttavia, l'art. 2125, c.c., consente alle parti di limitare lo svolgimento dell'attività del prestatore anche successivamente alla cessazione del contratto, con la stipulazione del "patto di non concorrenza". Tale stipulazione è circondata da particolari garanzie, essendo richiesti:
La violazione del patto di non concorrenza può dar luogo ad una condanna al risarcimento del danno, ma non ad un ordine di cessazione dell'attività svolta.
Diritti del lavoratore
I diritti del lavoratore costituiscono le situazioni giuridiche attive, riferibili alla prestazione lavorativa, che si esprimono nelle facoltà, libertà e prerogative riconosciute al lavoratore. Tali diritti possono essere classificati nel modo seguente:
I diritti personali
I diritti personali sono i diritti inerenti alla personalità del lavoratore nel cui ambito assumono peculiare rilievo:
I diritti sindacali
I diritti sindacali sono diritti che costituiscono espressioni tipiche dell'attività sindacale, riconosciuta ai singoli prestatori di lavoro.
La dottrina più accreditata distingue:
Le invenzioni e le opere dell’ingegno del lavoratore
Il linea generale, la disciplina che riguarda tale ipotesi (artt. 2590 c.c. e 23 L.brev.) stabilisce che mentre il diritto morale alla paternità dell’opera resta all’inventore, il diritto patrimoniale al rilascio del brevetto e alla sua utilizzazione spetta al datore di lavoro. La logica sottesa a tale disciplina, infatti, è che l’invenzione spetti non a chi l’ha realizzata ma a colui che ha promosso, organizzato e finanziato l’attività della ricerca. Tuttavia possono presentarsi tre diverse fattispecie con altrettante diverse soluzioni (artt. 23 e 24 L.brev.):
OBBLIGHI E POTERI DEL DATORE DI LAVORO
Anche la posizione giuridica del datore di lavoro ha una struttura complessa dovuta alla sussistenza di diritti e doveri collegati con i corrispondenti diritti ed obblighi del lavoratore. Per quanto concerne la posizione attiva va rilevato che i relativi diritti possono essere configurati come poteri giuridici in senso proprio, esercitabili in modo discrezionale per la tutela di un interesse proprio o dell’impresa. La forma di manifestazione di tali poteri è del tutto libera potendo essere sia orale che scritta. Naturalmente i poteri dell’imprenditore incontrano dei limiti legislativi, primo fra tutti il divieto di discriminazione previsto dall’art. 15 St. La.
Il potere direttivo
Il potere direttivo in senso stretto si configura come potere organizzativo diretto a conformare l’attività utile di ciascun lavoratore alle esigenze dell’impresa stessa. Esso si traduce sul piano generale nelle istruzioni che il datore ed i suoi collaboratori impartiscono per l’esecuzione e la disciplina del lavoro.
In tale ambito si suole ricomprendere l’esercizio dei seguenti poteri:
Il potere di vigilanza e di controllo
Il potere di vigilanza e di controllo è strettamente correlato al potere direttivo ed è diretto a verificare che l’esecuzione dell’attività lavorativa venga effettuata secondo le modalità stabilite dal datore di lavoro. Tale potere incontra alcuni limiti:
Il potere disciplinare
L'inosservanza delle disposizioni dettate dal legislatore in tema di diligenza e fedeltà del prestatore di lavoro (artt. 2104 e 2105, c.c.) può dar luogo all'irrogazione da parte del datore di sanzioni disciplinari, proporzionate alla gravità dell'infrazione (art. 2106, c.c.). La tipologia delle sanzioni previste dai contratti collettivi è divenuta, con il passare del tempo, sempre più complessa. Le sanzioni disciplinari oggi irrogabili sono, in ordine crescente di gravità:
Sono illecite, invece, quelle sanzioni che determinano un mutamento definitivo del rapporto di lavoro (ad esempio, la retrocessione, che però è ammessa nel settore degli auto-ferrotranvieri). L'irrogazione delle sanzioni è espressione del potere disciplinare del datore, nel quale la dottrina dominante ravvisa un potere autoritativo, unilaterale e punitivo, previsto in via del tutto eccezionale nell'ambito dei rapporti tra privati e che trova la sua ratio nel vincolo di subordinazione tecnico-funzionale del lavoratore; le sanzioni disciplinari vengono configurate quali speciali pene private, che adempiono però ad una funzione non risarcitoria, ma preventiva. Il potere disciplinare trova oggi la sua principale fonte di regolamentazione, oltre che nel Codice Civile e nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 29 novembre 1982 - di cui si dirà al capitolo XIV quando si tratterà del licenziamento disciplinare -, nell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori. Tale articolo, al fine di tutelare la libertà e la dignità dei prestatori, limita notevolmente l'esercizio del potere disciplinare, depotenziando, in tal modo, l'autorità del datore come capo dell'impresa. In particolare, esso afferma due principi fondamentali:
La fase procedurale della contestazione e della discolpa si svolge davanti al datore, che non è terzo, ma parte in causa e che è chiamato ad applicare la sanzione se reputa insufficiente la discolpa del lavoratore. L'imparzialità dell'organo è invece prevista per la fase eventuale e successiva dell'impugnativa della sanzione, che, ai sensi dell'art. 7, co. VI, St. lav., può avvenire mediante:
Gli obblighi del datore di lavoro
Gli obblighi del datore di lavoro, cui corrispondono altrettanti diritti del lavoratore, possono così individuarsi:
La retribuzione è l'obbligazione fondamentale a cui il datore di lavoro è tenuto nei confronti del prestatore. Essa "può essere considerata il corrispettivo della messa a disposizione delle energie lavorative, in quanto costituisce il prezzo di quest'ultima, prezzo che non risponde a criteri strettamente economici essendo troppi i fattori sociali e politico-sindacali che si intrecciano nella determinazione del suo ammontare. Determinazione che trova la sua prima fonte in una norma costituzionale, l'art. 36, co. I" (MAZZIOTTI). Questa norma testualmente recita "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa". Nonostante la genericità dell'art. 36, co. I, Cost., è possibile individuare il significato:
Altri caratteri della retribuzione sono:
L'art. 36, Cost., ha innanzitutto natura programmatica, in quanto vincola il legislatore a stabilire, con provvedimenti del Governo o con appositi meccanismi procedurali di carattere amministrativo, il salario minimo spettante al lavoratore. Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico, non è mai stata emanata una legislazione determinatrice dei minimi salariali, per cui la giurisprudenza riconosce all'art. 36, Cost., oltre che la natura di norma direttiva, anche una funzione precettiva, considerandola direttamente vincolante nei confronti dell'autonomia privata. In altri termini, i giudici affermano che, in assenza di determinazione convenzionale della retribuzione o nell'ipotesi in cui la retribuzione pattuita sia insufficiente, il datore deve corrispondere un emolumento equivalente alla retribuzione minima prevista nei contratti collettivi di categoria o del settore produttivo di appartenenza del lavoratore, integrando i medesimi il requisito della sufficienza voluto dall'art. 36, Cost.. Per tale via, si realizza l'estensione erga omnes delle norme dei contratti collettivi riguardanti le tariffe salariali, che si applicano, infatti, in tal modo, anche ai prestatori dipendenti da imprese non aderenti alle associazioni sindacali.
Gli elementi della retribuzione
La retribuzione presenta una struttura composita perché "pur essendo il corrispettivo della prestazione di lavoro può essere utilizzata, a causa della sua intrinseca elasticità, per realizzare determinati scopi aziendali" (MAZZIOTTI). Dunque essa si compone di vari elementi, quali:
Un cenno a sé merita l'indennità di contingenza, istituto volto a correggere, almeno in parte, la natura della retribuzione come credito di valuta e, quindi, ad adeguarne il valore nominale a quello reale. Il sistema si è basato, fin dall'origine, sulla c.d. scala mobile, meccanismo che comporta un adeguamento automatico del livello retributivo al costo della vita attraverso il riferimento alle variazioni dei prezzi di particolari beni costituenti il c.d. paniere. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Settanta, l'istituto della scala mobile è entrato in crisi e, dopo vari interventi legislativi, è stato soppresso con il protocollo triangolare di intesa tra Governo e parti sociali del 31 luglio 1992.
Il principio di omnicomprensività della retribuzione
Problema particolarmente discusso in dottrina ed in giurisprudenza è quello dell'individuazione delle attribuzioni patrimoniali da far rientrare nel concetto giuridico di retribuzione. Esso inerisce alla sussistenza o meno, nel nostro ordinamento, del principio di omnicomprensività della retribuzione, per il quale essa ricomprende non solo il compenso che costituisce il diretto corrispettivo della prestazione lavorativa, ma anche tutti gli emolumenti che presentano carattere continuativo, periodico o costante nel tempo. Tale principio non è privo di risvolti sul piano pratico: primo fra tutti, quello dell'individuazione delle erogazioni che possono essere prese in considerazione per il calcolo di istituti che assumono la retribuzione come base di computo. La giurisprudenza era, in passato, nel senso della omnicomprensività della retribuzione, sostenuta sulla base di una congerie di argomentazioni, delle quali la più rilevante era quella dell'applicazione estensiva dell'art. 2121, c.c.. Oggi, anche a causa della modifica di tale articolo ad opera della L. 297/1982, tale orientamento è mutato e prevale quello per cui non esiste nel nostro ordinamento un concetto monolitico di retribuzione ed è da escludere che l'omnicomprensività valga oltre i casi richiamati espressamente dalla legge e dai contratti collettivi.
I sistemi retributivi
Alla stregua dell'art. 2099, c.c., la retribuzione può essere:
Il cottimo può poi essere:
A tutela dei prestatori, l'art. 2101, c.c., dispone che "L'imprenditore deve comunicare ai prestatori di lavoro i dati riguardanti gli elementi costitutivi della tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguirsi e il relativo compenso unitario".
Ancora, sempre a termini dell'art. 2099, c.c., la retribuzione può essere:
Le modalità di pagamento della retribuzione
La retribuzione è, di regola, corrisposta in danaro ed è, quindi, soggetta alla disciplina dettata dagli artt. 1277 e ss., c.c.. La contrattazione, collettiva ed individuale, fissa generalmente l'ammontare della retribuzione con riferimento ad un anno di lavoro; la corresponsione avviene, tuttavia, in ratei periodici e, per il principio c.d. della post-numerazione, dopo l'espletamento della prestazione lavorativa. Le modalità ed i termini di corresponsione della retribuzione sono quelli in uso nel luogo in cui il lavoro viene svolto, che è anche il luogo in cui la retribuzione viene pagata. In ordine alle modalità, la L. 5 gennaio 1953, n. 4, sanzionata penalmente, fa obbligo al datore di accompagnare la corresponsione della retribuzione con la consegna di un "prospetto paga", recante l'indicazione di tutti gli elementi costitutivi di essa.
Il trattamento di fine rapporto e l'indennità in caso di morte
La L. 29 maggio 1982, n. 297, ha sostituito all'indennità di anzianità - consistente nella retribuzione che maturava al momento della cessazione del rapporto di lavoro e che era pari al prodotto dell'importo dell'ultima retribuzione per il numero di anni di servizio prestato - il diverso istituto del trattamento di fine rapporto. Quest'ultimo, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti, ha natura retributiva e previdenziale insieme, perché rappresenta quella parte di retribuzione cui il lavoratore alle dipendenze di un privato o di un ente pubblico economico ha diritto in ogni caso di cessazione del rapporto, al fine di superare le eventuali difficoltà economiche connesse a tale cessazione.
L'art. 2120, c.c., nella nuova formulazione, dispone che il trattamento di fine rapporto si calcola accantonando, anno per anno, una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. Il totale delle quote accantonate - con esclusione della quota maturata nell'anno - è incrementato, su base composta, al 31 dicembre di ciascun anno, con l'applicazione di un tasso costituito dall'1,5% in misura fissa e dal 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall'ISTAT, rispetto al mese di dicembre dell'anno precedente.
Nella retribuzione media da prendere a base del calcolo devono farsi rientrare tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese. Previsioni diverse possono, però, essere contenute nei contratti collettivi a cui la L. 297/1982 concede ampio spazio, tanto che la Cassazione ritiene possibili anche deroghe in peius, purché la disciplina pattizia assicuri al prestatore un trattamento complessivamente più favorevole.
L'art. 2120, co. VI, c.c., dispone che il lavoratore, con almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore, può chiedere in costanza di rapporto di lavoro, un'anticipazione non superiore al 70% sul trattamento cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta. I commi dal VII all'XI dello stesso articolo contemplano una serie di limiti per tale anticipazione, che deve essere giustificata dalla necessità di:
L'indicazione delle finalità per cui può essere chiesta l'anticipazione è evidentemente generica: ciò si spiega in considerazione dell'ampio margine che la legge lascia in materia alla contrattazione collettiva ed individuale, chiamata ad integrare e migliorare la disciplina legislativa.
Il trattamento di fine rapporto, unitamente all'indennità di preavviso, spetta nel caso di morte del prestatore, ai "superstiti", ossia al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del lavoratore, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo grado. La ripartizione deve seguire i criteri stabiliti dall'accordo tra i superstiti; in difetto di accordo, il criterio del bisogno attuale di ciascuno.
Secondo l'orientamento dottrinale prevalente, il diritto spetta ai prossimi congiunti indicati dalla legge "iure proprio", ciò che implica importanti conseguenze sotto il profilo fiscale e sotto quello dei rapporti del de cuius con i creditori, che non possono rivalersi sull'indennità in questione avente natura anche previdenziale ed assistenziale. Solo in mancanza di "superstiti" subentrano le norme della successione testamentaria o legittima e l'acquisto avviene "iure successionis
La durata massima della prestazione di lavoro
La disciplina che limita la durata massima della prestazione di lavoro, concernente l'orario di lavoro, le pause settimanali e le ferie annuali, svolge una rilevantissima funzione di tutela della persona del lavoratore. Essa, infatti, è volta a consentire a quest'ultimo non solo di reintegrare le energie spese nello svolgimento della propria attività, ma anche di soddisfare le proprie esigenze ricreative, familiari e sociali.
Le principali fonti normative in materia sono:
La durata massima concerne il solo lavoro effettivo, ossia quello che richiede un'applicazione continua e senza soste. Per tale ragione, oltre che per le particolari mansioni svolte, sono escluse dalla disciplina generale alcune categorie di lavoratori, e cioè:
Inoltre, poiché per il calcolo della giornata lavorativa deve, come si è detto, farsi riferimento al solo lavoro effettivo, non possono prendersi in considerazione: i riposi intermedi (per la consumazione dei pasti); il tempo occorrente per recarsi al lavoro; quello necessario per indossare gli abiti di lavoro o per fornirsi degli attrezzi; le soste di lavoro non inferiori a 10 minuti dovute a forza maggiore oppure a necessità tecniche. Le parti possono protrarre l'orario di lavoro oltre il limite stabilito dalla legge nel caso di:
In tali ipotesi, il prolungamento dell'orario di lavoro va comunicato al competente Ufficio provinciale del lavoro. In conclusione, va notato anche che la durata massima della prestazione lavorativa, benché finalizzata alla tutela del prestatore, si configura quale limite ai poteri datoriali, con la conseguenza che, in caso di violazione, penalmente sanzionato è il solo comportamento del datore.
Il lavoro straordinario
Il lavoro straordinario è quello che eccede l'orario massimo. Al riguardo, l'art. 2108, co. I, c.c., dispone che "in caso di prolungamento dell'orario normale, il prestatore di lavoro deve essere compensato per le ore straordinarie con un aumento di retribuzione rispetto a quella dovuta per il lavoro ordinario". Il successivo co. III stabilisce, poi, che i limiti entro i quali il lavoro straordinario è consentito, la durata di esso e la misura della maggiorazione sono stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi. La legge cui rinvia l'art. 2108, c.c., è il R.D.L. 692/1923, che fissa limiti rigorosi per lo svolgimento del lavoro straordinario, stabilendo che esso può essere prestato sempreché:
Per le sole imprese industriali, è anche necessario che:
L'effettuazione del lavoro straordinario è esclusa per:
Gli studenti lavoratori possono, invece, rifiutarsi di svolgere lavoro straordinario. Ai termini dell'art. 1, co. II, R.D.L. 692/1923, agli impiegati con funzioni direttive per i quali non sia fissata la durata massima dell'orario di lavoro non spetta il compenso per lavoro straordinario. Tale esclusione non ha, però, secondo la giurisprudenza, carattere assoluto, essendo comunque soggetta a limiti di ragionevolezza.
Il lavoro notturno
Si ha lavoro notturno quando la prestazione viene eseguita di notte, e cioè, secondo l'opinione generale, tra le ore ventidue e le ore sei. Il lavoro notturno è soggetto ad una serie di divieti e di limitazioni, in quanto, alterando i ritmi biologici di vita del prestatore, risulta più dannoso e faticoso non solo del lavoro diurno, ma anche del lavoro straordinario. Così esso è vietato dalla legge:
L'art. 2108, co. II, c.c., dispone che il lavoro notturno deve, al pari di quello straordinario, essere retribuito con una maggiorazione rispetto al lavoro diurno. Tale regola non si applica al lavoro notturno compreso in regolari turni periodici, in quanto in tal caso viene meno il carattere di straordinarietà e la prestazione rientra nel normale lavoro dei turnisti (spesso, però, i contratti collettivi prevedono per tale ipotesi la stessa maggiorazione prevista per il lavoro notturno). Ai sensi del co. III dell'art. 2108, i limiti entro cui il lavoro notturno è consentito, la sua durata e la misura della maggiorazione sono stabiliti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
Il riposo settimanale
L'art. 36, co. III, Cost., riconosce il diritto irrinunciabile del lavoratore al riposo settimanale. Tale diritto è ribadito dall'art. 2109, c.c., che, al co. I, precisa che, di norma, il giorno di riposo deve coincidere con la domenica. La disciplina specifica è, essenzialmente contenuta nella L. 22 febbraio 1934, n. 370, che riconosce il diritto al riposo settimanale a tutti i prestatori e ne determina la durata in 24 ore consecutive (dalla mezzanotte di un giorno fino alla mezzanotte del giorno successivo). Anche la L. 370/1934 stabilisce che il riposo settimanale deve di regola coincidere con la domenica. Ciò è tassativamente disposto per i minori e gli adolescenti, mentre deroghe sono previste in relazione a determinati lavori o situazioni particolari, tra cui rientrano:
Se, per cause eccezionali, la prestazione lavorativa viene effettuata nel giorno di riposo, il prestatore ha diritto ad un giorno di riposo compensativo, e ad una maggiorazione della retribuzione. Nel caso in cui il lavoro svolto durante la domenica non venga compensato dal riposo in altro giorno della settimana, il lavoratore vanterà uno specifico diritto al risarcimento per la penosità del lavoro festivo.
Le festività infrasettimanali
Accanto al riposo settimanale si pongono le festività infrasettimanali, nazionali e religiose, disciplinate dalla L. 27 maggio 1949, n. 260, dalla L. 5 marzo 1977, n. 54 e dal D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 792. I giorni festivi oggi esistenti sono:
Durante tali festività, i datori di lavoro devono corrispondere ai propri dipendenti - compresi quelli retribuiti ad ore - la normale retribuzione giornaliera. Nel caso in cui, in tali giorni, i dipendenti lavorino, è loro dovuta, oltre la normale retribuzione globale di fatto giornaliera, comprensiva di ogni elemento accessorio, anche la retribuzione per l'attività svolta con la maggiorazione per il lavoro festivo. Nel settore del pubblico impiego, in luogo del trattamento economico, è previsto il recupero delle festività soppresse in altri giorni dell'anno come permessi straordinari o in aggiunta alle ferie, con il pagamento della retribuzione.
Le ferie annuali
L'art. 36, co. III, Cost., sancisce che "Il lavoratore ha diritto a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi". Tale diritto è riconosciuto anche dall'art. 2109, c.c., che, al co. II, dispone che il prestatore "ha anche diritto dopo un anno d'ininterrotto servizio ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro". Va segnalato che il requisito dell'"anno di ininterrotto servizio" è stato ritenuto incostituzionale dalla Consulta con sentenza 7 maggio 1963, n. 66, per cui oggi si ha diritto alle ferie proporzionalmente alla durata del periodo lavorativo. Sempre a commento del co. II dell'art. 2109, c.c., va rilevato come spetti al datore il potere unilaterale di stabilire il tempo in cui far ricadere il periodo di ferie, salvo l'onere di darne comunicazione preventiva ai lavoratori. Per la fissazione della durata delle ferie, il co. III dell'art. 2109, c.c., rinvia, invece, alla legge, ai contratti collettivi, agli usi o all'equità. Salve le disposizioni di legge dettate per categorie speciali di lavoratori - come, ad esempio, gli apprendisti -, nella pratica la durata del periodo feriale è di solito determinata dai contratti collettivi, con criteri basati soprattutto sulla categoria di appartenenza e sulla anzianità di servizio (c.d. scaglioni periodici). Al riguardo, va registrata la tendenza della contrattazione collettiva ad unificare il trattamento feriale per tutti i lavoratori. Durante il periodo feriale, il prestatore ha diritto alla retribuzione globale di fatto corrispondente a quella che percepisce normalmente (comprensiva anche delle voci più strettamente connesse alla prestazione lavorativa); in caso di retribuzione in natura ha diritto all'equivalente in danaro. Il datore, che acconsenta a che il prestatore non fruisca delle ferie, incorre in un comportamento illecito, ancorché non penalmente sanzionato; l'illiceità tuttavia non coinvolge il prestatore che ha diritto ad un equivalente trattamento economico: la c.d. indennità sostitutiva di ferie non godute. L'azione diretta ad ottenere tale indennità è considerata dalla giurisprudenza prevalente di natura risarcitoria, non contrattuale, con il conseguente onere per il lavoratore di provare il mancato godimento delle ferie. Un'importante notazione in tema di ferie: la sentenza della Corte costituzionale 30 dicembre 1987, n. 6161, ha dichiarato che l'art. 2109, c.c., è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospenda il decorso. Assimilati alle ferie sono poi alcuni periodi di sosta nello svolgimento della prestazione, previsti dalla legge e volti a permettere al lavoratore di assolvere ad alcuni impegni di carattere civile e personale. Essi possono essere retribuiti ovvero non retribuiti. Si citano qui, a titolo di esempio: il congedo per le elezioni politiche ed amministrative e per i referendum, previsto a favore dei componenti il seggio elettorale e dei rappresentanti di lista; il congedo matrimoniale; i permessi (non retribuiti) spettanti ai dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali per la partecipazione a convegni, congressi ed iniziative sindacali in genere.
Il part-time ed i contratti di solidarietà
Il rapporto di lavoro a tempo parziale consiste nello svolgimento di attività lavorativa ad orario inferiore rispetto a quello ordinario previsto dai contratti collettivi di lavoro (part-time c.d. orizzontale) o per periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell'anno (part-time c.d. verticale). Esso è stato disciplinato, per la prima volta, nel nostro ordinamento con il D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, nella L. 19 dicembre 1984, n. 863, che:
Nel rapporto di lavoro a tempo parziale, la retribuzione prevista per il rapporto a tempo pieno viene ridotta in proporzione all'orario di lavoro, per cui il principio della sufficienza della retribuzione sancito dall'art. 36, co. I, Cost., si relativizza in quello della proporzionalità, previsto dalla stessa norma.
I contratti di solidarietà possono, poi, essere considerati una forma particolare di contratto a tempo parziale e, al pari di quest'ultimo, rinvengono la loro disciplina nella L. 19 dicembre 1984, n. 863. Sono previste due ipotesi di contratti di solidarietà:
L’art 2087 c.c. fa obbligo al datore di lavoro di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro”. Il legislatore ha predisposto, in tal senso, due gruppi di norme: l’uno concernente la prevenzione degli infortuni, l’altro l’igiene del lavoro.
L’oggetto della prevenzione e le misure generali di tutela
La prevenzione nel campo della sicurezza del lavoro consiste nella “azione o la serie di azioni che mirano a cautelare dagli infortuni e ad evitarli”. Nell’art.3 del D.Lgs. 626/94 vengono elencati, tra le misure generali di tutela, i seguenti precetti tassativi in cui si sostanzia, in concreto, l’azione preventiva:
Accanto al principio della prevenzione troviamo quello della programmazione: la prevenzione deve svolgersi secondo modalità predefinite che consistono nella valutazione dei rischi, nella redazione del documento di sicurezza, nell’organizzazione di una specifica funzione aziendale denominata servizio di prevenzione e protezione, nella designazione di addetti alle procedure di sicurezza, nella elaborazione dei programmi di informazione e formazione dei lavoratori.
Il soggetto responsabile
L’obbligo giuridico di tutelare l’integrità psicofisica dei dipendenti mediante l’adozione ed il mantenimento in efficienza dei presidi antinfortunistici ricade sull’imprenditore datore di lavoro. L’individuazione della persona fisica responsabile, qualificabile come datore di lavoro, non è sempre agevole: tale identificazione è tuttavia di fondamentale importanza attesa l’eventuale responsabilità penale che, in quanto tale, non è riferibile alle persone giuridiche. La giurisprudenza si è avvalsa in passato del principio dell’effettività riconoscendo il datore di lavoro nel soggetto che – prescindendo dalle attribuzioni formali dei compiti nella gerarchia imprenditoriale – si occupa dell’assunzione del personale. L’art. 2 della “626” fornisce invece una definizione normativa di “datore di lavoro”: questi è il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva, in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa. Ed inoltre, nelle P.A. per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale.
I beneficiari della tutela prevenzionale
La disciplina prevenzionale si applica ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato, anche speciale [5]. Conseguenza importante è l’assenza per il lavoratore del rischio connesso agli incidenti sul lavoro e alle malattie professionali che, per legge, ricade sugli istituti di previdenza e assistenza obbligatoria e, indirettamente, sul datore di lavoro che è tenuto a versare a detti istituti i contribuiti assicurativi.
Il datore di lavoro è tenuto a fornire ai dipendenti tutte le informazioni relative ai rischi per la salute e la sicurezza e le corrispondenti misure di protezione adottate. Da ciò deriva anche l’obbligo per il datore di lavoro di corrispondere una adeguata formazione al lavoratore in materia di sicurezza e salute.
[5] La normativa prevenzionistica si applica con certezza ai seguenti rapporti speciali:
Sono altresì tutelati, a parere della maggiore dottrina, i collaboratori dell’impresa familiare o dell’impresa artigiana individuale.
La “626” riconosce specifici diritti dei lavoratori in caso di pericolo grave e immediato, in particolare:
Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
Tale soggetto è definito come la persona, ovvero le persone, eletta o designate per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro. Ai sensi dell’art. 19 della “626” sono attribuite al rappresentante per la sicurezza le seguenti funzioni:
La sorveglianza sanitaria obbligatoria
La sorveglianza sanitaria obbligatoria, svolta per il tramite di un professionista, comprende accertamenti preventivi e periodici al fine di valutare l’idoneità dei lavoratori alla mansione specifica cui sono destinati. Al termine degli accertamenti il medico competente potrà decidere sulla idoneità, idoneità parziale o non idoneità del lavoratore. Nel caso di idoneità parziale il lavoratore potrà svolgere l’attività cui è stato destinato solo nel rispetto di determinate condizioni di tutela. In caso di non idoneità il medico dovrà fornire indicazioni sulle possibilità di impiego del dipendente e dovrà darne comunicazione sia al datore che al lavoratore interessato
Il legislatore ha sempre inteso tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore minore d’età attraverso una normativa protettiva speciale. Di recente, la L. 128/98 ha enunciato i criteri di delega per il recepimento della Dir. 94/33/CE relativa alla protezione dei giovani sul lavoro. A tale direttiva è stata data attuazione con il D.Lgs. 345/99 che ha abrogato alcuni articoli della L. 977/67 e ne ha sostituito altri. Tale normativa si applica ai minori di 18 anni con un contratto di lavoro anche speciale. Non trova invece applicazione per gli adolescenti addetti a lavori occasionali o di breve durata concernenti servizi domestici prestati in ambito familiare o, comunque, prestazioni non nocive e non pericolose rese in imprese a conduzione familiare.
La disciplina del lavoro minorile e la riforma del D.Lgs. 345/99
Ai sensi dell’art. 3 della L. 97/67 modificato dal D.Lgs. 345/99, l’età minima per l’ammissione al lavoro coincide con quella in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria, comunque non inferiore a 15 anni compiuti [6].
[6] Occorre anche premettere che la normativa della riforma riguarda tutti i minori di età ed in particolare i bambini - minori di 15 anni ancora soggetti all’obbligo scolastico - e gli adolescenti - di età compresa fra i 15 e i 18 anni non più soggetti all’obbligo scolastico.
L’art. 6 stabilisce il divieto di adibire gli adolescenti alle lavorazioni e ai lavori potenzialmente pregiudizievoli per il pieno sviluppo fisico. Anche a tal fine sono previste visite mediche preassuntive e periodiche tese ad accertare l’idoneità del minore al lavoro.
Lo svolgimento dell’attività lavorativa avviene secondo la disciplina normativa generale salvo deroghe ed eccezioni più favorevoli per i minori. L’orario di lavoro non può superare le 7 ore giornaliere e le 35 settimanali nel caso di bambini, e le 8 ore giornaliere e le 40 settimanali per gli adolescenti. Il minore ha diritto ad almeno 2 giorni di risposo settimanale e pause giornaliere 4 ore e mezzo. L’art. 15 della stessa legge vieta di adibire al lavoro notturno i minori. Infine, i minori di anni 16 hanno diritto a 30 giorni di ferie annuali; i minori con più di 16 anni hanno diritto a 20 giorni di ferie.
Tutela della maternità
La normativa sulle lavoratrici prevede speciali garanzie e diritti idonei ad assicurare l’essenziale funzione familiare della donna e rispondenti all’esigenza di tutela della maternità. In tal senso è fatto divieto di adibire la lavoratrice al lavoro nel periodo che va da due mesi prima della presunta data del parto a tre mesi dopo il parto o aborto: durante questo periodo (astensione obbligatoria), la lavoratrice ha diritto ad una indennità pari all’80% della retribuzione, a carico dell’INPS, e l’anzianità di servizio decorre a tutti i fini. Dopo il periodo di astensione, le lavoratrici madri hanno facoltà di astenersi dal lavoro (astensione facoltativa) per un periodo di 6 mesi nel primo anno di vita del bambino, nonché, nei suoi primi 3 anni vita, nel caso di malattia dello stesso. Per tali periodi, validi ai fini dell’anzianità, si ha diritto ad una indennità a carico dell’INPS pari al 30% della retribuzione. Di particolare è l’art. 2 della L. 1204/71 che dispone un generale divieto di licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento del primo anno di vita del bambino
Avviene di frequente che il rapporto di lavoro venga sospeso per le ragioni più varie: sciopero, aspettativa, malattia, assistenza ai figli in tenera età, serrata ecc. Naturalmente l’impossibilità sopravvenuta della prestazione di una delle due parti del contratto di lavoro deve essere temporanea e non definitiva: in quest’ultimo caso, infatti, si determinerebbe la fine del rapporto stesso.
Cause di sospensione per fatto del lavoratore
Le cause di sospensione della prestazione per impossibilità del lavoratore sono le seguenti:
Sospensione del lavoro per fatto del datore di lavoro
Possiamo distinguere essenzialmente i seguenti casi:
Le integrazioni salariali
Il principio della continuità del salario trova la sua ratio nella esigenza di tutelare la posizione contrattuale del prestatore di lavoro di fronte alle situazioni variabili dell’impresa, svincolando per quanto possibile il diritto alla retribuzione dalle vicende del rapporto di lavoro. Tale principio trova la sua espressione nel sistema degli interventi ordinari e straordinari di integrazione salariale. Il rapporto di lavoro permane: tuttavia, in costanza di intervento di integrazione salariale, vengono sospese le obbligazioni principali connesse al rapporto medesimo, cioè la prestazione di lavoro e la retribuzione. Cessata la causa che ha legittimato la sospensione, il rapporto riprenderà regolarmente.
L’integrazione salariale è gestita dall’INPS tramite l’apposita “Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti”, in cui confluiscono le tre Casse (agricoltura, edilizia, industria), autonome tra loro.
La L. 144/99, nel dettare i criteri direttivi per una più generale riforma degli incentivi all’occupazione e degli ammortizzatori sociali, annuncia futuri interventi di modifica e razionalizzazione della disciplina delle integrazioni salariali.
Obiettivo dichiarato della riforma è il rafforzamento delle misure attive di gestione degli esuberi strutturali, tramite il ricorso a istituti e strumenti, anche collegati ad iniziative di formazione professionale, intesi ad assicurare la continuità ovvero nuove occasioni d’impiego.
L’intervento ordinario
La CIG (Cassa integrazione ordinaria) è prevista in caso di contrazione o sospensione dell’attività produttiva dipendente da situazioni aziendali, siano esse dovute ad eventi transitori e non imputabili all’imprenditore o ai dipendenti ovvero siano determinate da situazioni temporanee di mercato che non pongano in dubbio la ripresa della normale attività produttiva.
In tale eventualità l’INPS assicura una indennità agli aventi diritto nella misura dell’80% della retribuzione globale di fatto che ad essi sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate fra le 0 ore e il limite dell’orario contrattuale ma comunque non oltre le 40 ore settimanali. La durata massima di tale forma di integrazione è di tre mesi continuativi, eccezionalmente prorogabili trimestralmente fino ad un massimo complessivo di un anno ovvero, per periodi non continuativi, fino ad un massimo di 12 mesi in un biennio.
L’intervento straordinario
La Cassa integrazione straordinaria (CIGS) opera invece in caso di sospensione o riduzione di attività motivata da:
La CIGS è finalizzata a fronteggiare gravi situazioni di eccedenza occupazionale ed a garantire la continuità del reddito ai lavoratori sospesi dal processo produttivo. Presupposto necessario per l’erogazione del trattamento è la presentazione di un programma mirato al rilancio dell’attività ed alla salvaguardia dei livelli occupazionali. In questo caso l’INPS assicura ai dipendenti, in possesso di un’anzianità di servizio di almeno 90 giorni alla data della richiesta, una indennità nella misura dell’80% della retribuzione globale di fatto che ad essi sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate fra le 0 ore e il limite dell’orario contrattuale ma comunque non oltre le 40 ore settimanali
Il principio generale è che deve escludersi il trasferimento del contratto di lavoro in capo ad altro lavoratore a causa dei caratteri di personalità e di infungibilità della prestazione lavorativa. E’ invece ammissibile la successione della posizione del datore di lavoro che può verificarsi sia per atti inter vivos, sia per atti mortis causa.
Il trasferimento d’azienda
Il comma 1 dell’art. 47 della L. 428/90 ha stabilito che quando si intende effettuare un trasferimento d’azienda in cui siano occupati più di 15 lavoratori, l’alienante e l’acquirente devono darne comunicazione scritta, almeno 25 giorni prima, alle rappresentanze sindacali, costituite ex. art. 19 St. Lav., e alle rispettive associazioni di categoria. Ove le rappresentanze sindacali lo richiedano per iscritto, l’alienante e l’acquirente sono tenuti ad avviare un esame congiunto della situazione con le forze sindacali richiedenti.
L’art. 2112 c.c. dispone che “in caso di trasferimento d’azienda il rapporto di lavoro continua con l’acquirente e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”. Una deroga a tale norma è introdotta dall’art. 47 co.5 della L. 428/90 in riferimento ad aziende o unità produttive di cui sia stato accertato lo stato di crisi aziendale o imprese sottoposte a procedure concorsuali. Nell’ipotesi di trasferimento di dette imprese, qualora via sia un accordo sindacale per il mantenimento dei posti di lavoro, si consente in relazione ai lavoratori il cui rapporto continua con l’acquirente, la disapplicazione dei principi di continuità e di responsabilità solidale dell’art. 2112 c.c. e ciò per non gravare di ulteriori oneri l’acquirente di un’impresa già economicamente sofferente.
Il fallimento del datore di lavoro
Il forza dell’art. 2119 ultimo comma, il fallimento dell’imprenditore e la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda in crisi non costituiscono giusta causa di licenziamento. I rapporti di lavoro continuano con il curatore del fallimento il quale può effettuare licenziamenti solo qualora ricorrano giustificati motivi oggettivi.
Morte o estinzione del datore di lavoro
Nel caso in cui il datore di lavoro sia una persona fisica, il rapporto di lavoro continua con i suoi eredi o legatari. Nel caso di estinzione della persona giuridica, il rapporto di lavoro continua con i liquidatori ma in determinati casi (es. società costretta a chiudere per un consistente calo nelle vendite) la messa in liquidazione della società potrà accompagnarsi al licenziamento collettivo dei lavoratori.
VICENDE OGGETTIVE: Nel corso del rapporto di lavoro, si verificano frequentemente delle modificazioni dell’oggetto e del contenuto del contratto.
Modificazioni dell’oggetto
I casi più frequenti sono:
Modificazioni del contenuto
Possiamo ricordare i seguenti casi:
Casi di estinzione del rapporto di lavoro
Le fattispecie estintive del rapporto di lavoro possono essere individuate:
Non costituiscono, al contrario, causa di estinzione del rapporto il fallimento e la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa (art. 2119, ult. co., c.c.).
Il potere del datore di licenziare ed i suoi limiti sostanziali
Il potere del datore di licenziare il lavoratore trova la sua regolamentazione in una serie di fonti succedutesi nel tempo - Codice Civile, L. 604/1966, Statuto dei lavoratori, L. 108/1990, altre leggi speciali che lo assoggettano:
Con riguardo al limite sostanziale, il primo problema che si pone è quello del significato da attribuire al concetto di giusta causa ed a quello di giustificato motivo, tenuto conto anche del fatto che, in relazione a quest'ultimo, dottrina e giurisprudenza distinguono il giustificato motivo soggettivo da quello oggettivo.
La giusta causa
La nozione di giusta causa si ricava anzitutto dall'art. 2119, c.c., che contempla la possibilità per ciascuna delle parti di recedere dal contratto prima della scadenza del termine se il contratto è a tempo determinato, ovvero senza preavviso se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto. Anteriormente all'emanazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, recante "Norme sui licenziamenti individuali", la dottrina e la giurisprudenza ritenevano giusta causa di licenziamento, oltre all'inadempimento del lavoratore, anche ogni altro fatto idoneo a menomare il rapporto di fiducia personale, considerato connotato essenziale del rapporto di lavoro. Tale orientamento muta dopo l'entrata in vigore della L. 604/1966, alla luce della quale si attribuisce alla giusta causa un significato più ristretto, riportando il concetto di fiducia entro i limiti oggettivi dell'affidamento del creditore nell'esattezza dei successivi adempimenti, generalmente rilevante in tutti i rapporti di durata. In tal modo, il concetto di giusta causa trova "una puntuale definizione nella stessa nozione di giustificato motivo soggettivo, dal quale si differenzierebbe solo per la particolare gravità dell'inadempimento" (GHERA), e cioè solo da un punto di vista quantitativo, non anche qualitativo. Il comportamento del lavoratore deve essere valutato caso per caso dal giudice, anche quando - come di solito accade - esso sia espressamente previsto dai contratti collettivi come giusta causa di licenziamento. In altri termini, il giudice è chiamato a verificare la conformità delle disposizioni contrattuali alla nozione legale di giusta causa, e, dunque, in concreto, a verificare se le mancanze addebitate al prestatore siano così gravi da imporre la risoluzione del rapporto anziché l'irrogazione di sanzioni disciplinari.
Il giustificato motivo soggettivo
Il giustificato motivo soggettivo è analogo alla giusta causa, dalla quale si distingue, come si è detto, solo da un punto di vista quantitativo, per la minore gravità dell'inadempimento. Ai sensi dell'art. 3, L. 604/1966, l'ipotesi si verifica quando il lavoratore incorre in un "notevole inadempimento degli obblighi contrattuali"; l'inadempimento è notevole, per l'art. 1455, c.c., quando è di non scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse delle parti. Così come nell'ipotesi del licenziamento per giusta causa, la dottrina e la giurisprudenza ritengono non vincolanti per il giudice le tipizzazioni delle condotte legittimanti il licenziamento per giustificato motivo soggettivo contenute nei contratti collettivi.
Il giustificato motivo oggettivo
L'art. 3, L. 604/1966, contempla anche l'ipotesi di giustificato motivo oggettivo che si realizza in presenza di ragioni inerenti "all'attività produttiva, alla organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa". Tali ragioni - da intendersi come esigenze "effettivamente rispondenti a criteri obiettivi di ordinato svolgimento dell'attività produttiva, desumibili da regole di comune esperienza" (GHERA) - prevalgono sull'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. Non esiste uniformità di vedute in dottrina ed in giurisprudenza in ordine alla sindacabilità o meno delle scelte imprenditoriali che conducono al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da un lato, infatti, vi è chi, richiamandosi all'art. 41, Cost., sostiene l'insindacabilità nel merito da parte del giudice di tali scelte, dal lato opposto vi è chi afferma la necessità di un controllo di merito circa la loro razionalità. In ogni caso, la giurisprudenza prevalente ritiene legittimo solo il licenziamento che costituisce per il datore l'extrema ratio: quello che interviene, cioè, in mancanza di ogni reale possibilità di recupero del lavoratore nell'organizzazione produttiva. Ancora la giurisprudenza, infine, riconduce nell'ambito del giustificato motivo oggettivo alcuni casi di licenziamento che, benché collegati alla persona del lavoratore, non possono rientrare nell'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo perché non integrano un inadempimento: così è a dire, ad esempio, per il licenziamento per superamento del periodo di comporto, giustificato dal perdurare dell'impossibilità temporanea del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa.
I limiti procedurali posti al potere di licenziamento: la forma del licenziamento
Oltre ai limiti sostanziali di cui si è appena detto, il potere di licenziamento del datore incontra anche limiti procedurali, attinenti alla forma del licenziamento, che deve essere, infatti, comunicato al lavoratore per iscritto. Sempre per iscritto, contestualmente ovvero entro 8 giorni dalla richiesta del prestatore, deve essere comunicata la motivazione, che, una volta enunciata, è immodificabile. La giurisprudenza richiede anche l'immediatezza e la tempestività dell'adozione e, quindi, della comunicazione del licenziamento intimato per giusta causa; sembra logico ritenere che tale requisito, in ossequio ai princìpi generali in tema di risoluzione per inadempimento, per i quali la gravità di quest'ultimo va valutata alla stregua dell'interesse del creditore, debba valere anche in presenza di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. L'onere della prova della sussistenza del giustificato motivo o della giusta causa grava sul datore.
L'impugnazione del licenziamento
L'impugnazione del licenziamento, da parte del lavoratore, deve avvenire, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla sua comunicazione o da quella dei motivi, se non contestuale. La previsione di un termine di decadenza induce a ritenere che il legislatore non si riferisca alle ipotesi in cui il licenziamento è espressamente dichiarato dalla legge nullo od inefficace. L'impugnazione può anche essere stragiudiziale, ossia effettuata per mezzo di qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota, anche attraverso l'organizzazione sindacale, la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento. In tal caso, il prestatore può ricorrere al pretore dopo aver esperito la procedura di conciliazione prevista dagli accordi sindacali o dai contratti collettivi ovvero quella disciplinata dall'art. 7, L. 108/1990 e dagli artt. 410 - 412, c.p.c.. In proposito, va rilevato che una delle principali innovazioni introdotte dalla L. 108/1990 consiste nell'obbligo, imposto ad entrambe le parti del rapporto, di esperire il tentativo di conciliazione stragiudiziale se il licenziamento è intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo da datore soggetto alle regole della tutela obbligatoria; la comunicazione della richiesta di conciliazione equivale ad impugnazione del licenziamento ed impedisce la decadenza. In caso di esito positivo, tanto della conciliazione obbligatoria quanto di quella facoltativa, il verbale è reso esecutivo con decreto del pretore; in caso di esito negativo, le parti possono definire la controversia mediante arbitrato irrituale.
Il D.Lgs. 387/98, disciplinante la riforma del pubblico impiego, ha introdotto anche norme di modifica al processo del lavoro: attualmente l’art. 410 c.p.c. prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione che deve essere promosso, anche tramite associazione sindacale, da chi intenda impugnare giudizialmente l’atto di licenziamento. L’esperimento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda volta all’impugnazione giudiziale del licenziamento.
Le sanzioni contro il licenziamento illegittimo
Il licenziamento illegittimo perché non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo è annullabile; quello illegittimo per ragioni formali (cioè intimato senza il rispetto della forma scritta, senza l'indicazione dei motivi ovvero senza il rispetto delle formalità previste dall'art. 2, L. 604/1966) è inefficace; infine, quello "discriminatorio", quello delle lavoratrici madri e quello intimato per causa di matrimonio sono nulli. Ai fini dell'individuazione delle conseguenze della declaratoria di illegittimità del licenziamento, occorre distinguere:
Ora per stabilire se la tutela accordata al prestatore sia quella reale oppure quella obbligatoria occorre far riferimento alle dimensioni dell'impresa, sotto il profilo del numero dei dipendenti, tenendo presente che nel computo vanno compresi anche i lavoratori a tempo indeterminato parziale in proporzione all'orario effettivamente svolto ed i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, mentre non vanno computati il coniuge ed i parenti entro il 2deg. grado del datore. Dunque, l'art. 18, St. lav., modificato dall'art. 1, L. 108/1990, che disciplina la c.d. tutela reale, stabilisce che essa si applica nei confronti dei datori, imprenditori e non imprenditori, che occupano più di 15 dipendenti in ciascuna unità produttiva o ufficio in cui svolge la propria attività il lavoratore licenziato o più di 5 se si tratta di impresa agricola o più di 15 (o 5 se impresa agricola) nello stesso comune sebbene in più unità produttive od uffici, ovvero nei confronti dei datori che abbiano complessivamente alle proprie dipendenze più di 60 prestatori di lavoro. Come osserva GHERA, l'innovazione più importante introdotta dalla L. 108/1990 è costituita dal riferimento alla complessiva dimensione organizzativa del datore: pertanto, risultano oggi garantiti dalla tutela reale i lavoratori dipendenti da datori che comunque abbiano alle proprie dipendenze più di 60 prestatori, indipendentemente dal frazionamento organizzativo in unità produttive. La tutela obbligatoria, invece, spetta ai sensi dell'art. 8, L. 604/1966, come modificato dall'art. 2, L. 108/1990, nei confronti dei datori che occupano fino a 15 dipendenti per ogni unità produttiva (fino a 5 se impresa agricola) o fino a 60 dipendenti ovunque essi si trovino. In conclusione, un chiarimento merita il concetto di "unità produttiva" che la giurisprudenza, anche anteriore alla L. 108/1990, definisce come quella porzione della più vasta organizzazione imprenditoriale dotata di autonomia in senso tecnico-produttivo. Dalla interpretazione giurisprudenziale non si discosta la dottrina dominante, che valorizza l'aspetto funzionale dell'unità produttiva caratterizzata dal fatto di realizzare un risultato autonomo, che tuttavia si inserisce in quelli perseguiti dalla più ampia organizzazione anche non imprenditoriale (DE LUCA TAMAJO, D'ANTONA, PISANI).
Il recesso ad nutum
La disciplina limitativa del potere di licenziamento, finora esaminata, non si applica nelle ipotesi in cui è ammesso il recesso ad nutum, cioè la possibilità per il datore di licenziare senza alcun vincolo di giustificazione. Essa ricorre solo in alcune ipotesi espressamente previste, e cioè nei confronti:
Divieto di licenziamento
Sussiste, invece, un vero e proprio divieto di licenziamento nei casi di:
e nei confronti dei:
Il licenziamento discriminatorio
L'art. 3, L. 108/1990, sancisce esplicitamente la nullità del licenziamento intimato per ragioni discriminatorie (politiche, sindacali, religiose, razziali, di lingua e di sesso), a prescindere dall'applicabilità o meno della normativa limitativa dei licenziamenti e, quindi, anche nelle aree in cui è ammesso il recesso "ad nutum". Il licenziamento discriminatorio dà in ogni caso diritto, al lavoratore che ne sia vittima alla tutela reale, quali che siano le dimensioni dell'impresa.
Il licenziamento disciplinare
Il licenziamento disciplinare, intimato come misura sanzionatoria, ha dato luogo in passato a contrasti giurisprudenziali sia in ordine alla sua legittimità sia in ordine alla sua riconducibilità nell'area di applicazione dell'art. 7, St. lav.. I dubbi interpretativi sono sorti perché l'art. 7, co. 4, St. lav., statuisce che "fermo restando quanto disposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro". Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai superato (Cass. S.U., 20 marzo 1981, n. 1781), al licenziamento doveva riconoscersi natura disciplinare quando il contratto collettivo lo contemplava tra le sanzioni disciplinari e rinviava esplicitamente alla procedura di contestazione di cui all'art. 7, St. lav.. Oggi, in seguito alla sentenza n. 204/82 della Corte costituzionale, i commi 1, 2 e 3 dell'art. 7, St. lav., si applicano anche "alla sanzione disciplinare del licenziamento, per la quale la normativa si limiti ad includere il licenziamento medesimo tra le sanzioni disciplinari e non richiami espressamente il regime per questo previsto dall'art. 7, L. 300/1970". Anche il licenziamento disciplinare è dunque sottoposto ai vincoli di carattere procedurale contemplati dall'art. 7, St. lav.: così, il datore ha l'obbligo di portare il codice disciplinare a conoscenza del lavoratore, di contestare preventivamente l'addebito a quest'ultimo e di sentirlo a sua difesa. La mancata osservanza della procedura disciplinare determina la nullità del licenziamento, con conseguente applicazione dell'art. 18, St. lav..
I licenziamenti collettivi
La L. 23 luglio 1991, n. 223, recante "Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro", disciplina anche i licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Essa dispone che quando un'impresa che occupa più di 15 dipendenti decide di effettuare almeno 5 licenziamenti nell'arco di 120 giorni, in conseguenza di una riduzione o trasformazione dell'attività o del lavoro, nell'ambito di ciascuna unità produttiva o di più unità produttive presenti sul territorio della stessa provincia, è tenuta a darne comunicazione preventiva per iscritto alle rappresentanze sindacali aziendali nonché alle rispettive associazioni di categoria. In mancanza di tali rappresentanze, la comunicazione deve essere effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. In ogni caso, la comunicazione deve contenere l'indicazione:
Entro 7 giorni dalla data di ricevimento della comunicazione, a richiesta delle rappresentanze sindacali aziendali e delle rispettive associazioni, si procede ad un esame congiunto tra le parti, che ha il fine di esaminare le cause che determinano l'eccedenza del personale e di evitare i licenziamenti. Qualora la consultazione abbia esito negativo, il direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione convoca le parti al fine di un ulteriore esame della situazione, anche formulando proposte per la realizzazione di un accordo. Esaurita questa fase senza che un accordo sia raggiunto, l'impresa ha facoltà di licenziare i lavoratori eccedenti, individuati secondo i criteri di scelta indicati dai contratti collettivi o, in difetto, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: carichi di famiglia; anzianità; esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale è:
L'impugnazione deve avvenire nel termine di 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, con qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnazione. Se l'illegittimità del licenziamento è riconosciuta dal giudice, si applica l'art. 18, St. lav..
La mobilità
La L. 223/1991 prevede anche che i prestatori di lavoro, in caso di licenziamenti collettivi per riduzione o trasformazione di attività o lavoro, siano posti in mobilità, mediante l'iscrizione in una lista di collocamento preferenziale, che dovrebbe consentire di accedere con più facilità a nuove occasioni di lavoro; ad essi spetta anche la c.d. indennità di mobilità, ossia un trattamento economico variabile in base all'età del lavoratore. La mobilità è prevista anche per l'ipotesi in cui l'impresa ammessa al trattamento straordinario d'integrazione guadagni non sia in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi né di ricorrere a misure alternative.
Il preavviso
Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il lavoratore che si dimette è tenuto a dare al datore preavviso del recesso stesso nel termine e nei modi stabiliti dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità; lo stesso deve fare il datore che intende avvalersi del potere di licenziare ad nutum o per giustificato motivo (art. 2118, co. 1, c.c.). L'obbligo del preavviso è volto ad evitare che l'interruzione ex abrupto del rapporto possa comportare conseguenze dannose per la controparte. In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto a corrispondere all'altra parte un'indennità (la c.d. indennità di mancato preavviso) equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. Tale indennità ha natura risarcitoria, sicché essa è dovuta anche in caso di dimissioni per giusta causa, essendo l'interruzione immediata del rapporto - la giusta causa non ne consente la prosecuzione neanche provvisoria - conseguenza di un fatto dipendente dal datore
Rapporti di lavoro speciali sono tanto i rapporti la cui fattispecie si discosta notevolmente da quella dell'art. 2094 c.c., quanto quelli in cui assume particolare rilevanza la tutela dell'interesse pubblico. Quest'ultima categoria ricomprende rapporti di lavoro - quelli di lavoro nautico, marittimo ed aereo e quelli nel settore del trasporto ferroviario ed autoferrotranviario - che non pongono particolari problemi di qualificazione perché la loro natura subordinata è ben definita.
Rapporti particolari inerenti l’esercizio dell’impresa
Alcuni rapporti di lavoro subordinato presentano caratteristiche particolari che li differenziano dal modello tipico tradizionale del rapporto subordinato a tempo pieno e indeterminato, e, pertanto, sono definiti rapporti di lavoro speciali.
L’apprendistato o contratto di tirocinio
Il datore di lavoro ha l’obbligo di impartire all’apprendista l’insegnamento necessario per il conseguimento della qualificazione. I lavoratori devono essere iscritti in appositi elenchi presso gli uffici del lavoro territorialmente competenti e l’instaurazione del rapporto è subordinata all’autorizzazione del servizio ispettivo della Direzione provinciale del lavoro. L’età richiesta va dai 16 ai 24 anni. La durata del rapporto non può essere inferiore a 18 mesi e superiore a 4 anni.
Il lavoro a tempo parziale (part-time)
Consiste nello svolgimento di una attività lavorativa ad orario inferiore rispetto a quello ordinario. I lavoratori che siano disponibili a prestare lavoro part-time debbono essere iscritti in una apposita lista di collocamento. Il contratto deve stipularsi per iscritto.
Il lavoro ripartito (job-sharing)
Trattasi di un contratto di lavoro subordinato con il quale due o più lavoratori si assumono in solido l’adempimento di un’unica obbligazione lavorativa. Essendo i due lavoratori tenuti ad eseguire un’unica prestazione lavorativa ripartita tra essi, ciascuno la eseguirà parzialmente, sia con riferimento all’oggetto di essa sia con riferimento al tempo di lavoro, secondo le modalità convenute.
Il contratto di formazione e lavoro
Può essere definito come quel contratto con cui si istaura un rapporto di lavoro subordinato a termine, con lavoratori di età giovane (di regola tra i 16 e i 32 anni), svolto secondo tempi e modalità previste da appositi progetti predisposti dal datore di lavoro o da associazioni di categoria, con lo scopo di avviamento al lavoro dei giovani e della loro formazione professionale.
Dirigenti d’azienda
Il lavoro dirigenziale presenta caratteri di specialità rispetto all’ordinario rapporto di lavoro, soprattutto per:
Il lavoro societario
Si discute se rientrino nei rapporti di lavoro (anche se speciali) quelli intercorrenti tra società, soci ed amministratori. In particolare:
Il lavoro familiare e l’impresa familiare
Datore e prestatore di lavoro sono parenti o affini e sono conviventi. Si ha quindi presunzione di gratuità, che può essere vinta dalla prova contraria. Nell’impresa familiare il lavoratore ha diritto:
Non è comunque esclusa la possibilità di lavoro subordinato.
Il lavoro a domicilio
L'art. 1 della L. 18 dicembre 1973, n. 877, modificato dalla L. 16 dicembre 1980, n. 858, definisce lavoratore a domicilio "chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia disponibilità, anche con l'aiuto accessorio di membri della sua famiglia conviventi a carico, ma con esclusione di manodopera salariata e di apprendisti, lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime o accessorie e attrezzature proprie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi". Prima dell'emanazione della L. 858/1980, si discuteva, in dottrina ed in giurisprudenza, della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro a domicilio. Oggi il problema è superato nel senso che deve farsi ricorso ad una valutazione caso per caso, essendo prevista sia l'ipotesi di:
Con riferimento alla disciplina del rapporto, si segnalano:
Il telelavoro
È il lavoro svolto a distanza ovvero fuori dell’azienda o dagli altri luoghi in cui tradizionalmente si presta l’attività lavorativa. La normativa sul telelavoro è, ad oggi, ancora contenuta per lo più in accordi quadro tra le parti sindacali e datoriali. Solo nel pubblico impiego si è avvenuta un’apposita normativa.
Rapporti inerenti l’esercizio di particolari attività
Il lavoro marittimo ed aereo
I principi generali della loro regolamentazione sono contenuti nel Codice della navigazione, e molte norme sono di carattere inderogabile, data la connessione con l’interesse pubblico. Il contratto è disciplinato dalla legge nazionale del veicolo.
Il lavoro in agricoltura
Possiamo distinguere fra:
Il lavoro sportivo
La L. 23 marzo 1981, n. 91, disciplina il lavoro sportivo, qualificando, all'art. 2, come sportivi professionisti "gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l'attività sportiva a titolo oneroso, con carattere di continuità nell'ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l'osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell'attività dilettantistica da quella professionistica". L'attività svolta dall'atleta a titolo oneroso e con carattere di continuità costituisce l'oggetto di un rapporto di lavoro dipendente. Lo sportivo professionista assume, invece, la veste di lavoratore autonomo quando ricorre anche uno solo dei seguenti requisiti:
Ora, se è vero che di regola il lavoro sportivo si configura come lavoro subordinato, è anche vero che la sua disciplina si differenzia notevolmente da quella di quest'ultimo. Le principali particolarità riguardano:
Il lavoro artistico
Presenta delle affinità con il lavoro sportivo il lavoro artistico, che consiste nell'attività di spettacolo e nelle prove svolte dal personale artistico e tecnico - orchestrali, corali, ballerini, artisti e tecnici della produzione televisiva, cinematografica, radiofonica, teatrale, e lavoratori ad essi equiparati. Come afferma MAZZIOTTI, "la valutazione come autonomo o dipendente del lavoro artistico svolto con una certa continuità deve essere operata tenendo conto della particolarità delle prestazioni artistiche e dell'alto grado della loro autonomia". Il lavoro artistico è soggetto ad uno speciale collocamento.
Il lavoro giornalistico
Il lavoro giornalistico, di norma, è un rapporto di lavoro dipendente che si instaura tra il giornalistica professionista, da un lato, e gli editori di quotidiani o riviste o agenzie di informazione per la stampa, dall'altro. Da tale definizione si evince che l'attività giornalistica può essere svolta solo dagli appartenenti all'ordine professionale: giornalisti e pubblicisti.
La particolarità del rapporto - derivante sia dalla natura intellettuale della prestazione lavorativa sia dalla natura dell'attività imprenditoriale (che è quella di un'impresa di tendenza) - consiste in un affievolimento del vincolo di subordinazione. Tale affievolimento comporta che i giornalisti, in caso di cambiamento dell'indirizzo politico del giornale, possono dimettersi senza perdere né i benefici economici né la c.d. indennità fissa, cioè quella particolare indennità cui hanno diritto nell'ipotesi di licenziamento dovuto a colpa dell'editore.
Rapporti non inerenti l’esercizio dell’impresa
Il lavoro domestico
Il rapporto di lavoro domestico può essere definito come quel rapporto avente ad oggetto la prestazione dei servizi necessari al governo della casa ed ai bisogni personali e familiari del datore di lavoro da parte di terzi estranei, che assumono la posizione tipica di lavoratori subordinati. E ciò sia che si tratti di personale con qualifica specifica (istitutori, maggiordomi, bambinaie diplomate, ecc.), sia che si tratti di personale adibito a mansioni generiche (cameriere, cuochi, bambinaie comuni, ecc.). Al fine dello svolgimento della prestazione di lavoro domestico, non sempre è necessaria la coabitazione; tuttavia, essendo il lavoro prestato nella stessa sfera in cui si svolge la vita privata del datore, esso implica sempre l'elemento della convivenza, inteso in senso lato. Ciò spiega perché non è considerato lavoro domestico:
La disciplina del lavoro domestico è contenuta:
In particolare, la L. 339/1958 dispone che:
Ai lavoratori domestici sono poi stati estesi i diritti relativi:
La L. 339/1958 istituisce anche una commissione centrale per la disciplina del lavoro domestico con compiti consultivi e commissioni provinciali con compiti di rilevazione e regolamentari.
Infine, va detto che deve essere considerato rapporto di lavoro domestico subordinato anche il rapporto c.d. di "ospitalità alla pari", se presenta i caratteri della collaborazione domestica.
Il lavoro alla pari
I datori di lavoro sono tenuti a corrispondere la remunerazione; se si obbligano al vitto e all’alloggio, vi sono particolari precisazioni (es. nutrizione sufficiente). Per gli stranieri si applica l’accordo europeo di Strasburgo del 24.11.69, ratificato dalla L. 304/73.
Il rapporto di portierato
Si ha rapporto di portierato quando il lavoratore (portiere) è adibito alla custodia di uno stabile condominiale, abitato cioè da più proprietari od affittuari. Tale rapporto è disciplinato da alcune leggi speciali e dalla contrattazione collettiva. Presenta le seguenti particolarità:
Al portiere, come corrispettivo del lavoro svolto, deve essere garantito:
Il rapporto di pubblico impiego
Gli elementi caratteristici del rapporto di pubblico impiego
Il rapporto di pubblico impiego è un rapporto di lavoro dipendente che si distingue dal rapporto di impiego privato in ragione di alcuni caratteri peculiari che la dottrina dominante (VIRGA) individua:
Ora, sembra lecito ritenere che questi criteri siano idonei a differenziare il rapporto di pubblico impiego dal rapporto di lavoro privato anche a seguito dell'emanazione del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 - successivamente modificato ed integrato dai decreti legislativi n. 470 e n. 546 del 1993 - con il quale sono state realizzate la c.d. privatizzazione del pubblico impiego e la riforma della dirigenza pubblica, che si esaminano qui di seguito nelle loro linee fondamentali.
La c.d. privatizzazione del pubblico impiego: l'applicazione della normativa di diritto comune e la contrattualizzazione
L'art. 2, co. II, D.Lgs. 29/1993, nel testo sostituito dall'art. 2, D.Lgs. 546/1993, dispone che "I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II del libro V del Codice Civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, salvi i limiti stabiliti dal presente decreto per il perseguimento degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione amministrativa sono indirizzate". Con tale disposizione viene realizzata una ridefinizione del sistema delle fonti della disciplina del rapporto di pubblico impiego. Ridefinizione che può sintetizzarsi nella sottrazione di tale rapporto allo specifico corpus normativo vigente con la correlativa graduale sua riconduzione sotto la disciplina del diritto comune e con la sua contrattualizzazione. Si fa eccezione, tuttavia, per alcune categorie che restano escluse dalla privatizzazione: magistrati ordinari ed amministrativi, avvocati e procuratori dello Stato, personale militare e delle forze di polizia, dirigenti generali ed equiparati, personale delle carriere diplomatica e prefettizia. L'art. 2, D.Lgs. 29/1993, va posto in relazione con l'art. 55, co. II, D.Lgs. 29/1993, ai sensi del quale "La L. 20 maggio 1970, n. 300, si applica alle pubbliche amministrazioni, a prescindere dal numero dei dipendenti". Questa disposizione pone fine alle antiche dispute, sorte soprattutto in sede giudiziaria, circa i limiti di applicabilità dello Statuto dei lavoratori al settore del pubblico impiego; dispute che, difatti, vengono oggi risolte nel senso dell'estensione dello Statuto alle pubbliche amministrazioni, senza limitazioni né sotto il profilo dei soggetti destinatari, né sotto quello delle modalità di applicazione. Unica eccezione è quella relativa all'attribuzione delle mansioni proprie della qualifica superiore di cui si tratterà al paragrafo IV.
L'assoggettamento del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici alla disciplina di cui si è detto comporta necessariamente la contrattualizzazione dello stesso (art. 2, co. III, D.Lgs. 29/1993). Infatti, con la riforma del 1993, si attribuisce il ruolo di fonte diretta e primaria di regolamentazione del rapporto ai contratti collettivi, eliminando la necessità della loro recezione in atti a carattere normativo e realizzando, al tempo stesso, una notevole semplificazione del procedimento per la loro stipula.
Si stabilisce, infatti, che la contrattazione collettiva è nazionale e decentrata e si svolge su tutte le materie relative al rapporto di lavoro, eccezion fatta per quelle riservate alla legge ed agli atti normativi ed amministrativi, previste dall'art. 2, co. I, lett. c), L. 421/1992. Il D.Lgs. 29/1993 prevede quattro livelli di contrattazione collettiva, per cui si hanno:
In sede di contrattazione collettiva, la P.A. è rappresentata dall'Agenzia per la rappresentanza negoziale, organismo tecnico dotato di personalità giuridica e sottoposto alla vigilanza della Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica, che si sostituisce alle preesistenti delegazioni pubbliche differenziate per i singoli comparti e facilmente permeabili alle influenze politico-clientelari.
L'accesso al pubblico impiego
Differenze notevoli fra la disciplina del pubblico impiego e quella del lavoro privato permangono, anche a seguito della c.d. privatizzazione, in materia di assunzione, che nel settore pubblico avviene, di regola, mediante concorso (art. 97, co. III, Cost.). Più precisamente, l'art. 36, D.Lgs. 29/1993, nel testo sostituito dall'art. 17, D.Lgs. 546/1993, dispone che l'assunzione avviene:
Le mansioni del dipendente pubblico
L'art. 56, co. I, D.Lgs. 29/1993, dopo aver ribadito il principio generale per cui il pubblico dipendente deve essere adibito alle mansioni della qualifica di appartenenza, introduce una novità rispetto alla normativa previgente precisando che nella suddetta qualifica "rientra comunque lo svolgimento di compiti complementari e strumentali al perseguimento degli obiettivi di lavoro". Ancora più innovative sono, però, le disposizioni contenute nel co. II dell'art. 56 e quelle dettate dall'art. 57, D.Lgs. 29/1993, così come sostituito dall'art. 25, D.Lgs. 546/1993; disposizioni che rappresentano una deroga al principio della generale applicabilità dello Statuto dei lavoratori alle P.A. Le ipotesi previste da tali articoli sono tre, e cioè:
La riforma della dirigenza pubblica
Con il D.Lgs. 29/1993, e successive modificazioni ed integrazioni, viene realizzata, oltre che la privatizzazione del pubblico impiego, anche la riforma della dirigenza pubblica. Punti qualificanti di essa sono i seguenti:
Lineamenti della nuova disciplina della giurisdizione
Il naturale corollario della sottoposizione dei pubblici dipendenti alla disciplina civilistica del rapporto di lavoro subordinato è la devoluzione al giudice ordinario individuato nella persona del "Pretore del lavoro" - e non più dunque al giudice amministrativo - di tutte le controversie afferenti al pubblico impiego (art. 68, D.Lgs. 29/1993, nel testo sostituito dall'art. 33, D.Lgs. 546/1993). Si fa eccezione solo per quelle concernenti le materie rimaste assoggettate alla normazione unilaterale pubblicistica di cui ai numeri da 1 a 7 dell'art. 2, co. I, lett. c), L. 421/1992 e per quelle riguardanti le categorie di personale di cui all'art. 2, co. IV e V, D.Lgs. 29/1993, nel testo sostituito dall'art. 2, D.Lgs. 546/1993.
In considerazione dei rilevanti problemi organizzativi a cui la nuova normativa dà luogo, il legislatore delegato, opportunamente, ne differisce l'applicazione ad un momento successivo all'entrata in vigore del D.Lgs. 29/1993, e cioè a partire dal febbraio 1996.
Infine, l'art. 69, D.Lgs. 29/1993, come sostituito dall'art. 34, D.Lgs. 546/1993, nell'intento di realizzare una deflazione del contenzioso in materia di pubblico impiego, obbliga, a pena di improcedibilità della domanda, al tentativo di conciliazione stragiudiziale delle controversie individuali devolute al giudice ordinario
Parte del diritto del lavoro tende a tutelare la libertà e la personalità del lavoratore per la sua particolare condizione di inferiorità economica nei confronti del datore di lavoro; tale tutela ha carattere inderogabile, in quanto basata su norme imperative e, spesso, coercitive. La sua concreta attuazione si realizza sia attraverso l’attività diretta dello Stato (es. collocamento della manodopera), sia attraverso una attività di vigilanza affidata in genere ad organi della P.A., sia infine attraverso un’attività repressiva e di tutela giuridica.
L’attività di vigilanza
I poteri e l’esercizio dell’attività di vigilanza sull’applicazione delle norme in materia di lavoro sono affidati anzitutto alle Direzioni regionali e provinciali del lavoro. Le prime svolgono funzioni di indirizzo, coordinamento e vigilanza sulle attività delle Direzioni provinciali; quest’ultime svolgono attività di vigilanza tecnica e ordinaria sull’osservanza della disciplina di legge.
Gli enti ausiliari dello Stato nel campo previdenziale (fra cui INPS e INAIL) sono anch’essi investiti di un potere di vigilanza in materia di norme di legislazione sociale. Tuttavia il loro potere è limitato alla vigilanza sull’assolvimento degli obblighi contributivi e l’erogazione delle prestazioni previdenziali.
Altri organi di vigilanza sono:
Infine, alle associazioni sindacali la legge riconosce spesso il diritto di assistere il lavoratore per la tutela dei diritti derivategli dal rapporto di lavoro; gli istituti di patronato e di assistenza sociale assolvono un’importante funzione per garantire il conseguimento, in via amministrativa, delle prestazioni previdenziali di fine rapporto.
Garanzie e disposizione dei diritti del prestatore
Varie norme speciali, di carattere imperativo, prevedono molteplici garanzie per la tutela dei diritti del prestatore di lavoro. Ciò nella considerazione che il lavoratore, nella sua posizione di contraente più debole, possa essere indotto a non esercitare propriamente i propri diritti nel timore di ritorsioni da parte del datore.
Privilegi e garanzie
I crediti del lavoratore per retribuzioni, per indennità legate alla cessazione del rapporto di lavoro e per risarcimento danni in conseguenza di un licenziamento illegittimo sono assistiti in via principale dal privilegio generale sui beni mobili del datore; in via sussidiaria da privilegio, rispetto ai creditori chirografari, sul prezzo degli immobili. Solo in particolari rapporti valgono garanzie speciali.
Relativa indisponibilità dei diritti del prestatore
La retribuzione, per espressa previsione costituzionale, è destinata a soddisfare le esigenze vitali del lavoratore e della sua famiglia. Per tale motivo il legislatore ha posto alcuni limiti alla disponibilità dei diritti del prestatore. In particolare:
Rinunce, transazioni e quietanze liberatorie
Nel concludere l'esame dei principali istituti che formano il rapporto di lavoro, dalla sua costituzione fino alla sua cessazione, volti essenzialmente a tutelare il prestatore nella sua posizione di contraente debole, è necessario trattare degli atti di disposizione dei diritti dei lavoratori. L'art. 2113, co. I, c.c., nel testo modificato dall'art. 6, L. 11 agosto 1973, n. 533, dispone che "Le rinunce e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'art. 409 del codice di procedura civile, non sono valide". I negozi giuridici con cui può realizzarsi la disposizione dei diritti dei lavoratori ai quali si riferisce l'art. 2113, co. I, c.c., sono dunque:
Dalle rinunce e dalle transazioni bisogna tenere distinte le c.d. quietanze a saldo o quietanze liberatorie, con le quali il prestatore dichiara di aver ricevuto una certa somma attestando di essere soddisfatto di ogni spettanza e di non avere nulla a pretendere. In un primo momento, la giurisprudenza era incline a ravvisare nella quietanza a saldo l'animus rinunciandi; oggi è giunta all'opposta conclusione che la quietanza è una mera dichiarazione di scienza che non contiene alcuna volontà di rinuncia ad ogni altro eventuale credito del prestatore nei confronti del datore. La rilevanza di tale atto come rinuncia può, dunque, aversi solo nei casi in cui precisi elementi testuali e circostanze di fatto denotino la sussistenza dell'animus rinunciandi. L'impugnazione delle rinunce e transazioni di cui all'art. 2113, co. 1, c.c., con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione del rapporto o dalla data della rinuncia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima. L'invalidità prevista dall'art. 2113, c.c., è della specie dell'annullabilità, come si desume dalla previsione di un regime di impugnazione - il diritto di impugnazione ex art. 2113 è un diritto potestativo concesso solo al prestatore, intrasmissibile agli eredi - e dalla fissazione di un termine di decadenza. Il mancato esercizio del potere di impugnazione sana le rinunce e le transazioni altrimenti invalide.
Prescrizione e decadenza
Come si sa, la prescrizione estintiva produce l'estinzione del diritto soggettivo per effetto dell'inerzia del titolare che non lo esercita o non ne usa per il tempo determinato dalla legge. Ora, il tema della prescrizione dei diritti del prestatore di lavoro è strettamente connesso a quello della disposizione degli stessi, in quanto "l'effetto estintivo della prescrizione può essere considerato sostanzialmente equivalente all'effetto dismissivo proprio della rinuncia e della transazione, previste dall'art. 2113 c.c., a vantaggio del datore di lavoro" (GHERA). In materia di lavoro si distingue:
Alla prescrizione estintiva si affianca la prescrizione presuntiva, di diversa natura, fondamento e disciplina; essa si sostanzia in una presunzione di pagamento perché fa presumere che, decorso un determinato periodo di tempo, il credito si sia estinto. Tale prescrizione, in materia di lavoro, è:
La prescrizione presuntiva ammette come prova contraria soltanto la confessione giudiziale ed il giuramento decisorio. I termini di prescrizione dei crediti retributivi decorrono:
Quelli relativi a diritti non retributivi decorrono secondo il normale regime di diritto civile (Corte cost. n. 66/63, n. 174/72). Anche la decadenza come la prescrizione è un istituto collegato al decorso del tempo: essa si concreta, infatti, nella perdita, per il titolare di un diritto, della possibilità di esercitarlo a causa del mancato compimento di una certa attività o di un certo atto entro un termine perentorio. La decadenza è:
La L. 533/73 ha delineato un procedimento ispirato a criteri di snellezza e semplicità. Costituiscono caratteristiche salienti del diritto del lavoro:
Il campo di applicazione della normativa in esame, oltre che ai rapporti di lavoro subordinato, si estende:
Il giudice unico
A partire dal 2-6-99 è operativa la riforma del giudice unico di primo grado introdotta con il D.Lgs. 51/98. Tale riforma concentra in un unico ufficio di primo grado, il Tribunale, le competenze giudiziarie tradizionalmente divise tra Tribunale e Pretura allo scopo di superare la eccessiva polverizzazione della rete giudiziaria al fine di accrescerne efficienza e funzionalità. Dal 2-6-99 è stato dunque soppresso l’ufficio del pretore con la conseguenza che le controversie previste dall’art. 409 c.p.c. sono decise in primo grado dal Tribunale in funzione di giudice del lavoro. Il Tribunale del lavoro è giudice monocratico. La competenza per territorio, inderogabile, è determinata dal luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro.
Il tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale
L’art. 410 c.p.c. (riformato dall’art. 36 del D.Lgs. 80/98) prevede che il tentativo di conciliazione extragiudiziale sia obbligatorio: esso è condizione di procedibilità della domanda giudiziale e, in suo difetto, il giudice deve sospendere il giudizio, fissando alle parti un termine perentorio per proporre il tentativo. La comunicazione della richiesta di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. Il tentativo di conciliazione deve essere espletato entro 60 giorni dalla presentazione della richiesta. In difetto, si considererà comunque espletato. Se il tentativo riesce si redige processo verbale che il giudice dichiarerà esecutivo con decreto; se non riesce si redige processo verbale con l’indicazione delle ragioni del mancato accordo.
Il giudizio
La domanda si propone con ricorso, che viene depositato presso la cancelleria del pretore competente il quale fissa l'udienza di discussione con decreto. Questo è notificato con il ricorso al convenuto.
Nell'udienza di discussione il giudice interroga liberamente le parti e tenta la conciliazione della lite. Se questa non riesce, egli procede all'istruzione probatoria, alla quale seguono la discussione orale, le conclusioni delle parti e la pronuncia della sentenza il cui dispositivo viene immediatamente letto in aula. La sentenza è provvisoriamente esecutiva: se pronunciata a favore del lavoratore può essere sospesa dal tribunale se all'altra parte può derivare un gravissimo danno; se pronunciata a favore del datore di lavoro può essere sospesa quando ricorrono gravi motivi. Quanto alla fase di impugnazione, per effetto della riforma introdotta dal D.Lgs. 51/98, a far data dal 2-6-99, l’appello contro le sentenze dei processi di lavoro deve essere proposta con ricorso davanti alla Corte di Appello territorialmente competente in funzione di giudice del lavoro. La procedura ricalca quella di primo grado.
Occorre infine ricordare che il giudice del lavoro è anche competente per i giudizi relativi ad assicurazioni sociali, infortuni sul lavoro e malattie professionali, assegni familiari, ogni altra forma di previdenza e assistenza obbligatoria.
La conciliazione e l'arbitrato
Il co. IV dell'art. 2113, c.c., statuisce che le disposizioni dello stesso articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli artt..185, 410 e 411 del codice di procedura civile, che può essere giudiziale o stragiudiziale. La prima, prevista in generale dall'art. 185, c.p.c., non presenta particolarità di sorta e può avvenire in ogni momento del processo su iniziativa del giudice, che la tenta già nell'udienza fissata per la discussione della causa. Se la conciliazione è raggiunta, viene redatto il relativo processo verbale, che ha efficacia di titolo esecutivo. La conciliazione stragiudiziale, invece, trova il suo fondamento nell'autonomia privata, ha carattere facoltativo e può avvenire sia in sede amministrativa - dinanzi ad apposite commissioni intersindacali istituite presso l'ufficio provinciale del lavoro o presso le relative sezioni zonali -, sia in sede sindacale - quando è prevista dai contratti collettivi per la risoluzione di controversie concernenti la loro applicazione. Il relativo processo verbale acquista efficacia di titolo esecutivo in virtù di un apposito decreto del Pretore del lavoro, emesso su istanza di parte, che ne accerta esclusivamente la regolarità formale. Diverso dalla conciliazione è l'arbitrato, sia rituale sia irrituale, di cui si tratta in questa sede perché esso si inserisce nel sistema di garanzie predisposte dal legislatore per rafforzare la tutela dei diritti del lavoratore. In generale, l'arbitrato trova la sua fonte nella clausola compromissoria, con la quale si stabilisce che le controversie relative all'applicazione di un contratto siano risolte da un arbitro già designato o da designare al momento della controversia, con un ulteriore atto di autonomia definito compromesso - che può essere anche l'unica fonte dell'arbitrato nel caso in cui manchi la clausola compromissoria (MAZZIOTTI). L'arbitrato è:
Nel secondo caso il lodo arbitrale è parificato alle rinunce e transazioni ed è quindi invalido se viola disposizioni inderogabili di legge oppure di contratti o accordi collettivi; ad esso sono applicabili i co. II e III dell'art. 2113, c.c., con la conseguente possibilità di impugnazione del lodo, per il lavoratore, nel termine di decadenza di sei mesi
Il diritto comunitario del lavoro è costituito dall’insieme delle norme che regolano l’organizzazione e lo sviluppo delle Comunità Europee e i rapporti tra queste e gli Stati membri. Il diritto comunitario si distingue in:
Il diritto comunitario del lavoro, in particolare, si propone come obiettivo il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ed in particolare:
Il diritto sindacale può definirsi come il complesso normativo disciplinante le associazioni di carattere economico-professionale, istituite a tutela degli interessi collettivi delle categorie dei prestatori e dei datori di lavoro. La normazione, oggetto del diritto sindacale, può distinguersi essenzialmente in due parti:
Il sindacato
Il sindacato professionale può definirsi l’associazione libera e spontanea di singoli individui nel particolare status di prestatori di lavoro subordinato o in quello di datori di lavoro; è un’associazione che rappresenta, attraverso i suoi organi elettivi interni, tutti gli individui che lo compongono nella loro qualità di soci; è un’associazione che agisce collettivamente al fine di tutelare i comuni interessi professionali nei confronti degli stessi soci, delle altre associazioni, degli altri soggetti giuridici. La giurisprudenza ha successivamente precisato che perché ad un’associazione possa riconoscersi natura sindacale occorre che la sua attività di assistenza e di tutela sia svolta non soltanto a vantaggio degli associati, ma anche a vantaggio di tutti gli appartenenti alla categoria, anche se rimangono al di fuori dell’organizzazione. La mancata attuazione dell’art. 39 Cost. (che richiederebbe la registrazione del sindacato con conseguente riconoscimento della personalità giuridica) fa sì che le organizzazioni sindacali siano oggi delle mere associazioni non riconosciute. I soci, detti comunemente iscritti al sindacato, sono coloro che fondano l’associazione (cd. promotori) oppure che vi aderiscono successivamente mediante l’iscrizione. Il sindacato è un’associazione aperta: per iscriversi occorrono essenzialmente due requisiti:
Una volta ottenuta l’iscrizione, l’associato acquista posizioni giuridiche soggettive attive e passive così sintetizzabili:
L’organizzazione dei sindacati
L’organizzazione sindacale dei lavoratori è strutturata sia su base verticale (in base cioè all’attività svolta dal lavoratore nell’impresa), sia su base orizzontale (ovvero su base professionale). Su base verticale abbiamo i sindacati, organizzati per categoria economica i quali, a loro volta, confluiscono nel sindacato provinciale di categoria; dal quest’ultimo si passa alle federazioni nazionali che, a loro volta, danno vita alla Confederazione. Le confederazioni di maggior rilievo, anche per numero di iscritti, sono tre:
Alle tre confederazioni storiche si è recentemente aggiunta l’Unione Generale del Lavoro (UGL), di ispirazione corporativa.
L’art. 39, comma 1, della Costituzione, sancisce la libertà dell’organizzazione sindacale che costituisce una autonoma e specifica manifestazione del generalissimo principio di libertà di associazione, di cui all’art. 18 Cost.
La libertà sindacale e lo Statuto dei Lavoratori
L’art. 39, comma 1, della Costituzione, sancisce la libertà dell’organizzazione sindacale che costituisce una autonoma e specifica manifestazione del generalissimo principio di libertà di associazione, di cui all’art. 18 Cost. La fonte normativa più importante dopo la Costituzione, in materia di libertà sindacale, è oggi la L. 300/70 meglio nota come Statuto dei Lavoratori. Essa ha recepito i principi fondamentali fissati dalla Costituzione stessa tendendo non a disciplinare la libertà sindacale, bensì a garantire l’esercizio delle medesima all’interno delle unità produttive, predisponendo, al riguardo, anche un efficiente apparato sanzionatorio.
La rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale
Ai sensi dell’art. 19 St. Lav. si può definire la rappresentanza sindacale aziendale come qualunque tipo di organizzazione attraverso cui il sindacato è presente nell’azienda, purché derivi dall’iniziativa dei lavoratori ed abbia qualificazione sindacale, cioè sia riferibile alla struttura sindacale. Inoltre, in seguito al referendum ex D.P.R. 312/95 che ha portato alla riformulazione dello stesso art. 19, “rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva. Nell’ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento”.
Lo sciopero, da sempre mezzo tipico di lotta sindacale, può considerarsi la principale forma di autotutela dei lavoratori. Esso si configura come una astensione totale e concertata dal lavoro da parte di più lavoratori subordinati per la tutela dei loro interessi collettivi. La titolarità del diritto di sciopero è attribuita al singolo prestatore di lavoro, il quale lo può esercitare senza il bisogno di alcun benestare sindacale. Tuttavia, se è vero che il diritto di sciopero si configura come individuale quanto alla sua titolarità, è anche vero che si configura come collettivo quanto al suo esercizio.
Limiti al diritto di sciopero
Il diritto di sciopero incontra limiti esterni (relativi cioè ad eventuali contrasti tra l’interesse garantito dal diritto di sciopero con altri interessi costituzionalmente tutelati) ed interni (derivanti cioè dalla stessa nozione di sciopero).
Quanto ai primi, la necessità di assicurare il godimento di diritti costituzionalmente garantiti ha comportato l’esclusione della titolarità del diritto di sciopero per tutti quei lavoratori occupati in attività connesse o strumentali alla tutela di tali diritti. In specie si discute circa l’ammissibilità dello sciopero per le seguenti categorie di lavoratori:
Per quanto riguarda i possibili limiti oggettivi al diritto di sciopero, la Corte Costituzionale ha stabilito la legittimità dello sciopero politico (inteso quale modo di partecipazione dei lavoratori alle decisioni politiche) purché esso non sia inteso a sovvertire l’ordinamento costituzionale ed impedire od ostacolare il libero esercizio dei legittimi poteri nei quali si esprime la sovranità popolare.
Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali
Al fine di “contemperare l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione” è stata emanata la L. 146/90.
Il diritto di sciopero, nei servizi pubblici essenziali, è consentito nel rispetto di tre condizioni:
I soggetti che promuovono lo sciopero devono garantire un minimo esercizio del servizio, nonché le prestazioni indispensabili. Inoltre, una apposita Commissione permanente nominata dal Presidente della Repubblica, deve procedere ad un tentativo di conciliazione fra le parti. Nel caso in cui lo sciopero possa recare gravi pregiudizi ai diritti della persona costituzionalmente garantiti, la pubblica autorità può precettare le organizzazioni sindacali ed i singoli lavoratori, affinché il servizio non sia sospeso. Infine, sono previste sanzioni in caso di inosservanza delle prescrizioni legislative per i prestatori di lavoro (è escluso tuttavia il licenziamento), le organizzazioni sindacali e di datori di lavoro.
Mezzi di lotta del datore di lavoro: la serrata
La serrata è la chiusura, da parte del datore di lavoro, dei normali luoghi di lavoro, tale da rendere impossibili le prestazioni lavorative. Le finalità della serrata possono identificarsi nell’impedire eventuali azioni illegittime da parte dei lavoratori o per indurre gli stessi a recedere da un determinato comportamento (serrata di ritorsione). L’art. 502 c.p., che punisce la serrata, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 29/60 della C. Cost. La Costituzione, mentre riconosce il diritto di sciopero, nulla dice per quanto riguarda la serrata. Parte della dottrina ritiene ammissibile, in caso di serrata (considerata come illecito civile), l’azione di risarcimento danni da parte del dipendente per “mora accipiendi” ex art. 1206 c.c. e segg
Il diritto penale del lavoro è quel complesso di norme che puniscono, con sanzioni tipiche del diritto penale, i comportamenti diretti a violare il diritto all’integrità fisica, alla salute dei lavoratori ed altri diritti previdenziali.
In relazione alle finalità di tutela dell’interesse pubblico, le norme riguardano:
Fra le fattispecie più notevoli costituenti delitti ricordiamo:
Le contravvenzioni rappresentano la quasi totalità delle fattispecie panali in materia di lavoro. E’ consentita l’oblazione che estingue il reato, a norma dell’art. 162 c.p., se è prevista la sola ammenda, e a norma dell’art. 162bis c.p. se è prevista, in alternativa, la pena dell’arresto. Una speciale causa di estinzione del reato è prevista dal D.Lgs. 758/94 subordinata alla rimozione della violazione accertata dagli organi di vigilanza.
Norme particolari sono dettate anche in campo penale dallo Statuto dei lavoratori. L’art. 38 punisce, con l’ammenda o con l’arresto, la violazione delle norme di cui agli artt. 2,4,5,6,8,15 e 33 della medesima L. 300/70. Il sindacato è ammesso alla costituzione di parte civile. L’art. 28 punisce, ai sensi dell’art. 650 c.p. l’inottemperanza da parte del datore di lavoro all’ordine del giudice di cessazione o rimozione degli effetti della condotta antisindacale. Sono previste anche le seguenti sanzioni atipiche:
Fonte: http://studiando.altervista.org/UNIVERITY/2anno/LAVORO/DISPENSA.doc
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