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G. W. Friedrich Hegel
FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza: signoria e servitù
L’autocoscienza è in e per sé in quanto e perché essa è in e per sé per un'altra; ossia essa è soltanto come un qualcosa di riconosciuto. Il concetto di questa sua unità nella sua duplicazione, ossia il concetto dell’infinità realizzantesi nell'autocoscienza, è un intreccio multilaterale e polisenso; e così i momenti di siffatto intreccio debbono in parte venir tenuti rigorosamente gli uni fuori degli altri, in parte, in questa distinzione, venire in pari tempo anche presi e conosciuti come non distinti, ossia debbon venir presi sempre e riconosciuti nel loro significato opposto. Il doppiosenso del distinto sta nell'essenza dell'autocoscienza, essenza per cui l'autocoscienza è infinitamente e immediatamente il contrario della determinatezza nella quale è posta. L'estrinsecazione del concetto di questa unità spirituale nella sua duplicazione ci presenta il movimento del riconoscer.
[L’autocoscienza duplicata]. — Per l’autocoscienza c’è un’altra autocoscienza; essa è uscita fuori di sé. Ciò ha un duplice significato: in primo luogo l’autocoscienza ha smarrito se stessa perché ritrova se stessa come una essenza diversa; in secondo luogo essa così ha superato l’altro, perché non vede anche l’altro come essenza, ma nell’altro vede se stessa.
Essa deve togliere questo suo esser-altro; ciò è il togliere del primo doppiosenso, ed è perciò di nuovo un secondo doppiosenso; in primo luogo la coscienza deve procedere a togliere l’altra essenza indipendente e, mediante ciò, a divenir certa di se stessa come essenza; in secondo luogo provvede con ciò a toglier se stessa, perché questo altro è lei stessa.
Questo togliere in doppio senso questo esser-altro in doppio senso, è altrettanto un ritorno in doppio senso in se stessa; ché, in primo luogo, essa, mediante il togliere, riottiene se stessa, perché diviene ancora eguale a se stessa mediante il togliere del suo esser-altro; ma, in secondo luogo, restituisce di nuovo a lei stessa anche l’altra autocoscienza, perché era a se stessa nell’altro; nell’altro toglie questo suo essere, e quindi rende di nuovo libero l’altro.
Ma in questa guisa tale movimento dell'autocoscienza nel rapporto con un'altra autocoscienza è stato presentato come l'operare dell'una; ma anche questo operare dell'una ha il duplice significato di essere il suo operare non meno dell'operare dell'altra; l'altra è infatti altrettanto indipendente e conchiusa in se stessa; nulla è in lei che non sia mediante lei stessa. La prima autocoscienza non ha l'oggetto di fronte a sé, com'esso sul principio è solo per l'appetito; anzi ora l'oggetto è un oggetto capace di essere per sé e indipendente; né l'autocoscienza è in grado di disporre per sé di esso, se esso stesso non opera in se stesso ciò ch'essa opera in lui. Il movimento è dunque senz'altro il movimento duplice di entrambe le autocoscienze. Ciascuna vede l'altra fare proprio ciò ch'essa stessa fa; ciascuna fa da sé ciò che esige dall'altra; e quindi fa ciò che fa, soltanto in quanto anche l'altra fa lo stesso; l'operare unilaterale sarebbe vano, giacché ciò che deve accadere può venire attuato solo per opera di entrambe.
L'operare non ha dunque un duplice senso solo in quanto esso è un operare sia rispetto a sé, sia rispetto all’Altro; ma lo è anche perché è inseparatamente l’operare tanto dell’Uno quanto dell’Altro.
In questo movimento noi vediamo ripetersi quel processo che si presentò come gioco delle forze, ma nella coscienza. Ciò che in esso era per noi, ora è proprio per gli estremi stessi. Il medio è l'autocoscienza che si scompone negli estremi, e ciascun estremo è questa permutazione della sua determinatezza, ed è assoluto passaggio nell'estremo opposto. Ma come coscienza, ciascun estremo esce bensì fuori di sé; non di meno nel suo esser fuori di sé è in pari tempo trattenuto in se stesso, è per sé, e il suo fuori-di-sé è per esso. E per esso di essere o di non essere immediatamente altra coscienza; ed è altrettanto per esso che quest'altra coscienza sia sol per sé, giacché essa togliesi come qualcosa che è per sé, ed è per sé solo nell'esser-per-sé dell'altra. Ciascun estremo rispetto all'altro è il medio, per cui ciascun estremo si media e conchiude con se stesso; e ciascuno è rispetto a sé e all'altro un'immediata essenza che è per sé, la quale in pari tempo è per sé solo attraverso questa mediazione. Essi si riconoscono come reciprocamente riconoscentisi. È ora da considerare questo puro concetto del riconoscere, della duplicazione dell'autocoscienza nella sua unità; è da considerare, cioè, come il suo processo appaia per l'autocoscienza. Esso presenterà da prima il lato dell'ineguaglianza di ambedue le autocoscienze; o presenterà l'insinuarsi del medio negli estremi, il quale medio, in quanto estremi, è opposto a sé: l'un estremo è solo ciò che è riconosciuto, mentre l'altro è solo ciò che riconosce.
[La contesa delle autocoscienze opposte]. – Dapprima l’autocoscienza è semplice esser-per-sé, è eguale a se stessa, perché esclude da sé ogni alterità; a lei sua essenza e suo assoluto oggetto è l’Io; ed essa in questa immediatezza o in questo essere del suo esser-per-sé è qualcosa di singolo. Ciò che per lei è un altro, lo è come oggetto inessenziale, segnato col carattere del negativo. Ma l’altro è anch’esso un’autocoscienza; un individuo sorge di fronte a un individuo. In questa posizione immediata gli individui sono l’un per l’altro a guisa di oggetti qualunque; sono formazioni indipendenti e, - dacché l’oggetto essente si è qui determinato come vita, - sono coscienze calate nell’essere della vita, le quali non hanno ancora compiuto l’una per l’altra il movimento dell’assoluta astrazione, consistente nel sopprimere ogni immediato, e nell’essere soltanto l’essere puramente negativo della coscienza eguale a se stessa; ossia son coscienze le quali non si sono ancora presentate reciprocamente come puro esser-per-sé, vale a dire come autocoscienze. Ciascuna è bensì certa di se stessa, non però dell’altra; e quindi la sua propria certezza di sé non ha ancora verità alcuna, perchè di una sua verità si potrebbe parlare qualora il suo proprio esser-per-sé le si fosse presentato come oggetto indipendente, o, - ciò che è lo stesso, - l’oggetto si fosse presentato come pura certezza di se stesso. Ma, secondo il concetto del riconoscere, ciò non è possibile se non in quanto, come l'altro oggetto per il primo, così il primo per l'altro compia in se stesso questa pura astrazione dell'esser-per-sé mediante l'operare proprio, e, di nuovo, mediante l'operare dell'altro.
Ma la presentazione di sé come pura astrazione dell’autocoscienza consiste nel mostrare sé come pura negazione della sua guisa oggettiva, o nel mostrare di non essere attaccato né a un qualche preciso esserci, né all'universale singolarità dell'esserci in generale, e neppure alla vita. Tale presentazione èl'operare duplicato: l'operare dell'altro e l'operare mediante se stesso. Finché si tratta dell'operare dell'altro, ognuno mira alla morte dell'altro. Ma così è già presente anche il secondo operare, l'operare mediante se stesso; quell'operare dell'altro, infatti, implica il rischiare in sé la propria vita. La relazione di ambedue le autocoscienze è dunque così costituita ch'esse danno prova reciproca di se stesse attraverso la lotta per la vita e per la morte. — Esse debbono affrontare questa lotta, perché debbono, nell'altro e in se stesse, elevare a verità la certezza loro di esser per sé. E soltanto mettendo in gioco la vita si conserva la libertà, si dà la prova che all'autocoscienza essenza non è l'essere, non il modo immediato nel quale l’autoscienza sorge, non l'esser calato di essa nell'espansione della vita: — si prova anzi che nell’autocoscienza niente è per lei presente, che non sia un momento dileguante, e ch'essa è soltanto puro esser-per-sé. L'individuo che non ha messo a repentaglio la, vita, può ben venir riconosciuto come persona; ma non ha raggiunto la verità di questo riconoscimento come riconoscimento di autocoscienza indipendente. Similmente ogni individuo deve aver di mira la morte dell'Altro, quando arrischia la propria vita, perché per lui l'Altro non vale più come lui stesso; la sua essenza gli si presenta come un Altro; esso è fuori di sé, e deve togliere il suo esser-fuori-di-sé; l'Altro è una coscienza in verio modo impigliata che vive nell'elemento dell'essere; ed esso deve intuire il suo esser-altro come puro esser-per-sé o come assoluta negazione.
Ma questa prova attraverso la morte toglie e la verità che ne doveva scaturire, e, insieme, anche la certezza di se stesso in generale; infatti, come la vita è la posizione naturale della coscienza, l’indipendenza senza l’assoluta negatività, così la morte è la negazione naturale della coscienza medesima, la negazione senza l’indipendenza, negazione che dunque rimane priva del richiesto significato del riconoscere. Mediante la morte si è bensì formata la certezza che ambedue, mettendo a repentaglio la loro vita, la tenevano in non cale in loro e nell’altro; ma tale certezza non si è formata per quelli che sostennero questa lotta. Essi superano la coscienza loro posta in quell’essenza estranea che è l’esserci naturale; ovvero superano se stessi e vengono superati come gli estremi che vogliono essere per sé. Ma così dal gioco dello scambio dilegua il momento essenziale: quello di scomporsi in estremi con determinatezze opposte. E il medio coincide con una unità morta, scomposta in morti estremi, i quali sono estremi meramente essenti, e non già opposti; e ambedue non sanno né abbandonarsi né riceversi reciprocamente e vicendevolmente mediante la coscienza; ma si concedono a vicenda una libertà fatta soltanto d'indifferenza, quasi fossero delle cose. L'opera loro è la negazione astratta; non la negazione della coscienza che supera in modo da conservare e tenere il superato, e con ciò sopravvivere al suo venir-superato.
In questa esperienza si fa [chiaro] all'autoscienza che a lei la vita è così essenziale, come lo è l'autocoscienza pura. Nell'autocoscienza immediata l'Io semplice è l'oggetto assoluto, che peraltro per noi o in sé è l'assoluta mediazione, e ha per momento essenziale l'indipendenza sussistente. Resultato della prima esperienza è la risoluzione di quell'unità semplice; mediante quell'esperienza son poste un'autocoscienza pura e una coscienza la quale non è pura per se stessa, ma per un altro: vale a dire che è come coscienza nell'elemento dell'essere o nella figura della cosalità. Entrambi i momenti sono essenziali; poiché da prima essi sono ineguali ed opposti, e la loro riflessione nell'unità non è ancora risultata, essi sono come due opposte figure della coscienza: l'una è la coscienza indipendente alla quale è essenza l'esser-per-sé; l'altra è la coscienza dipendente alla quale è essenza la vita o l'essere per un altro; l'uno è il signore, l'altro il servo.
[Il signore e il servo.- La signoria]. — Il signore è la coscienza che è per sé; ma non più soltanto il concetto della coscienza per sé, anzi coscienza che è per sé, la quale è mediata con sé da un'altra coscienza, cioè da una coscienza tale, alla cui essenza appartiene di essere sintetizzata con un essere indipendente o con la cosalità in genere. Il signore si rapporta a questi due momenti: a una cosa come tale, all'oggetto, cioè, dell'appetito; e alla coscienza cui l'essenziale è la cosalità; e mentre egli a) come concetto dell'autocoscienza è immediato rapporto dell'esser-per-sé, pur essendo in pari tempo b) come mediazione o come un esser-per-sé che è per sé soltanto mediante un altro, si rapporta a) immediatamente ad ambedue, e b) mediatamente a ciascheduno mediante l'altro. Il signore si rapporta al servo in guisa mediata attraverso l'indipendente essere, ché proprio a questo è legato il servo; questa è la sua catena, dalla quale egli non poteva astrarre nella lotta; e perciò si mostrò dipendente, avendo egli la sua indipendenza nella cosalità. Ma il signore è la potenza che sovrasta a questo essere; giacché egli nella lotta mostra infatti che questo essere gli valeva soltanto come un negativo; siccome il signore è la potenza che domina l'essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sull'altro individuo, così, in questa disposizione sillogistica, il signore ha sotto di sé questo altro individuo. Parimente, il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo; anche il servo, in quanto autocoscienza in genere, si riferisce negativamente alla cosa e la toglie; ma per lui la cosa è in pari tempo indipendente; epperò, col suo negarla, non potrà mai distruggerla completamente; ossia il servo col suo lavoro non fa che trasformarla. Invece, per tale mediazione, il rapporto immediato diviene al signore la pura negazione della cosa stessa: ossia il godimento; ciò che non riuscì all'appetito, riesce a quest'atto del godere: esaurire la cosa e acquetarsi nel godimento. Non poté riuscire all'appetito per l'indipendenza della cosa; ma il signore che ha introdotto il servo tra la cosa e se stesso, si conchiude così soltanto con la dipendenza della cosa, e puramente la gode; peraltro il lato dell'indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora.
In questi due momenti per il signore si viene attuando il suo esser-riconosciuto da un'altra coscienza; questa infatti si pone in essi momenti come qualcosa di inessenziale; si pone una volta nell'elaborazione della cosa, e l'altra volta nella dipendenza da un determinato esserci; in entrambi i momenti quella coscienza non può padroneggiare l'essere e arrivare alla negazione assoluta. Qui è dunque presente il momento del riconoscere per cui l'altra coscienza, togliendosi come esser-per-sé, fa ciò stesso che la prima fa verso di lei; ed è similmente presente l'altro momento, che l'operare della seconda coscienza è l'operare proprio della prima; perché ciò che fa il servo è propriamente il fare del padrone; a quest'ultimo è soltanto l'esser-per-sé, è soltanto l'essenza; egli è la pura potenza negativa cui la cosa non è niente; ed è dunque il puro, essenziale operare in questa relazione; il servo peraltro non è un operare puro, sì bene un operare inessenziale. Ma al vero e proprio riconoscere manca il momento per quale ciò che il signore fa verso l’altro individuo lo fa anche verso se stesso, e pel quale ciò che il servo fa verso di sé lo fa verso l’altro. Col che si è prodotto un riconoscere unilaterale e ineguale.
La coscienza inessenziale è quindi per il signore l’oggetto costituente la verità della certezza di se stesso. E’ chiaro però che tale oggetto non corrisponde al suo concetto; è anzi chiaro che proprio là dove il signore ha trovato il suo compimento, gli è divenuta tutt’altra cosa che una coscienza indipendente; indipendente; non una tale coscienza è per lui, ma piuttosto una coscienza dipendente; egli non è dunque certo dell'esser-per-sé come verità, anzi la sua verità è piuttosto la coscienza inessenziale e l'inessenziale operare di essa medesima.
La verità della coscienza indipendente è, di conseguenza, la coscienza servile. Questa da prima appare bensì fuori di sé e non come la verità dell'autocoscienza. Ma come la signoria mostrava che la propria essenza è l'inverso di ciò che la signoria stessa vuol essere, così la servitù nel proprio compimento diventerà piuttosto il contrario di ciò ch'essa è immediatamente; essa andrà in se stessa come coscienza riconcentrata in sé, e si volgerà nell'indipendenza vera.
[La paura]. — Noi abbiamo veduto soltanto ciò che la servitù è nel comportamento della signoria. Ma poiché la servitù è autocoscienza, devesi allora considerare ciò ch'essa è in sé e per sé. Da prima per la servitù l'essenza è il signore; e quindi la verità le è la coscienza indipendente che è per sé, verità tuttavia che per essa servitù non è ancora in lei medesima. Solo, essa in effetto ha in lei stessa questa verità della pura negatività e dell'esser-per-sé, avendo in sé sperimentato una tale essenza. Vale a dire, tale coscienza non è stata in ansia per questa o quella cosa e neppure durante questo o quell'istante, bensì per l'intiera sua essenza; essa ha infatti sentito paura della morte, signora assoluta. E’ stata, così, intimamente dissolta, ha tremato nel profondo di sé, e ciò che in essa v’era di fisso ha vacillato. Ma tale puro e universale movimento, tale assoluto fluidificarsi di ogni momento sussistente, è l’essenza semplice dell’autocoscienza, è l’assoluta negatività, il puro esser-per-sé che, dunque, è in [an] quella coscienza. Tale momento del puro esser-per-sé è anche per essa, che che signore tale momento è l’oggetto di questa coscienza. La quale inoltre non è l’oggetto di questa coscienza. La quale inoltre non è soltanto questa universale risoluzione in generale, ché, nel servire, essa la compie affettivamente; quivi essa toglie in tutti i singoli momenti la sua adesione all’esserci naturale e, col lavoro, lo trasvaluta ed elimina.
[Il formare o coltivare]. — Ma il sentimento della potenza assoluta in generale e, in particolare, quello del servizio è soltanto la risoluzione in sé; e sebbene la paura del signore sia l'inizio della sapienza, pure la coscienza è quivi per lei stessa, ma non è l'esser-per-sé; ma, mediante il lavoro, essa giunge a se stessa. Nel momento corrispondente all'appetito nella coscienza del signore, sembrava bensì che alla coscienza servile toccasse il lato del rapporto inessenziale verso la cosa, poiché quivi la cosa mantiene la sua indipendenza. L'appetito si è riservata la pura negazione dell'oggetto, e quindi l'intatto sentimento di se stesso. Ma tale appagamento è esso stesso soltanto un dileguare, perché gli manca il lato oggettivo o il sussistere. Il lavoro,invece, è appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto; ovvero: il lavoro forma. Il rapporto negativo verso l'oggetto diventa forma dell'oggetto stesso, diventa qualcosa che permane; e ciò perché proprio a chi lavora l'oggetto ha indipendenza. Tale medio negativo o l'operare formativo costituiscono in pari tempo la singolarità o il puro esser-per-sé della coscienza che ora, nel lavoro, esce fuori di sé nell'elemento del permanere; così, quindi, la coscienza che lavora giunge all'intuizione dell'essere indipendente come di se stessa.
Tuttavia il formare non ha soltanto questo significato positivo, che cioè in esso la coscienza servile come puro esser-per-sé diventi a sé l'essente; ma ha anche il significato di contro al suo primo momento, la paura. Infatti, nel formare la cosa, la negatività propria di quella coscienza, il suo esser-per-sé, le diventa un oggetto, sol perché essa toglie l'essente forma opposta. Ma tale negativo oggettivo è appunto l'essenza estranea, dinanzi alla quale la coscienza servile ha tremato. Ora peraltro essa distrugge questo negativo che le è estraneo; pone sé, come un tale negativo, nell'elemento del permanere e diviene così per se stessa un qualcosa che è per sé. Alla coscienza servile l'esser-per-sé che sta nel signore è un esser-per-sé diverso, ossia è solo per lei; nella paura l'esser-per-sé è in lei stessa; nel formare l'esser-per-sé diviene il suo proprio per lei, ed essa giunge alla consapevolezza di essere essa stessa in sé e per sé. Per il fatto di venire esteriorizzata, la forma alla coscienza servile non si fa un Altro da lei; ché proprio la forma è il suo puro esser-per-sé che quivi alla coscienza servile si fa verità. Così, proprio nel lavoro, dove sembrava ch'essa fosse un senso estraneo, la coscienza, mediante questo ritrovamento di se stessa attraverso se stessa, diviene senso proprio. — Per tale riflessione son necessari entrambi questi momenti: sia la paura e il servizio in generale, sia il formare; e necessari tutti e due in guisa universale. Senza la disciplina del servizio e dell'obbedienza la paura resta al lato formale e non si riversa sulla consaputa effettualità dell'esistenza. Senza il formare la paura resta interiore e muta, e la coscienza non diviene coscienza per lei stessa. Se la coscienza forma senza quella prima paura assoluta, essa è soltanto un vano senso proprio; infatti la sua forma o negatività non è la negatività in s é; e quindi il suo formare non può fornirle la consapevolezza di sé come essenza. Se la coscienza non si è temprata alla paura assoluta, ma soltanto alla sua particolare ansietà, allora l'essenza negativa le è restata solo qualcosa di esteriore, e la sua sostanza non è intimamente penetrata di tale essenza negativa. Siccome non ogni elemento ond’è riempita la sua coscienza naturale ha cominciato a vacillare, quella coscienza appartiene, in sé, ancora all'elemento dell'essere determinato: il senso proprio è pervicacia, libertà ancora irretita entro la servitù. Quanto meno a siffatto senso proprio la pura forma può diventare l'essenza, tanto meno questa stessa pura forma, considerata come un espandersi oltre il singolo, può essere universale formare o coltivare, concetto assoluto; è invece soltanto un'abilità che ha potere sopra un singolo alcunché, ma non sopra l'universale potenza né sopra l'intera essenza oggettiva.
Fonte: http://www.manualedifilosofia.altervista.org/alterpages/files/HEGELFenomenologiadellospirito.Signoriaeservit.doc
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Autore del testo: indicato nel documento di origine
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