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VII. LA CRISI DEI FONDAMENTI SCIENTIFICI
E LA FILOSOFIA DELLA SCIENZA
(Comte, Popper, Khun, Lakatos, Feyerabend)
Questo tratto della filosofia, nello specifico, della filosofia della scienza parte dalla rivoluzione scientifica e ci porta con il postpositivismo fino alla contemporaneità. Il percorso tratteggiato privilegia sostanzialmente il rapporto tra scienza e verità: la parabola che il concetto di verità evidenzia.
~ LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
~ IL POSITIVISMO DI COMTE
~ La dottrina della scienza
~ La legge dei tre stadi
~ LA CRISI DEI FONDAMENTI
~ IL FALSIFICAZIONISMO DI POPPER
~ Il falsificazionismo
~ L’induttivismo
~ Scienza e verità
~ Il realismo dell’ultimo Popper
~ IL POSTPOSITIVISMO DI KHUN, LAKATOS E FEYERABEND
~ Khun: La struttura delle rivoluzioni scientifiche
~ Lakatos: La metodologia dei programmi di ricerca
~ Feyerabend: Contro il metodo
~ CONCLUSIONI
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
E’ qui il caso di accennare, per sommi capi, la definizione che abbiamo dato di filosofia e di avvertire della profonda differenza che si produce con la rivoluzione scientifica operata dai filosofi della natura, nome con cui venivano chiamati gli scienziati fino al XIV secolo.
La verità è, ad un tempo, alétheia cioè ciò che ‘sta in luce’, ed epistéme cioè ciò che ‘sta sopra’. La verità così caratterizzata è sapere assoluto, incontrovertibile, eterno, immutabile che né uomo né Dio possono mettere in discussione. Il mezzo che la filosofia sceglie per giungere a questo sapere è il Lógos, la ragione, la logica. Ancora, fin dall’inizio la verità viene concepita all’interno del Tutto. Il Tutto è la dimensione della verità. Il Tutto è ciò di cui non è possibile pensare altro e oltre. Ogni cosa è parte del Tutto e solo la comprensione del Tutto può portare alla luce e ‘fermare’ ogni singola cosa. Aristotele dirà che un braccio staccato dal corpo è un “braccio dipinto” ad intendere che un elemento, staccato dalla relazione con la totalità, non può essere inteso veramente; perché è un elemento a cui mancano, appunto, le relazioni con il Tutto. Un braccio staccato dal corpo, per intenderci, non può restituirci più la funzione all’interno del sistema corpo, la relazione con il cervello, ecc. al massimo è, sotto la lama, non più braccio, ma pezzo di carne sanguinolenta di nervi senza relazione, muscoli senza comandi, ecc. carne morta ,“dipinta”. Detto in altri termini un elemento in un sistema è altro che lo stesso elemento fuori da un sistema.
Lo sguardo della filosofia al suo nascere è uno sguardo che guarda al Tutto. L’albero, la nuvola, l’unghia non ha una sua verità se non all’interno del Tutto. Lo sguardo della filosofia è a 360°, mai si sofferma su ciò che è il particolare. Non è certo un caso che Talete, con cui si vuole far iniziare questo viaggio di folli, pone in maniera ‘cristallina’ la domanda sull’identità dei diversi.
Altro tratto caratteristico del fare filosofico è il Lógos come mezzo per arrivare alla verità. Il greco pensa che la evidenza razionale, logica è essa stessa prova della verità. Il Lógos, portando le cose dal buio indistinto alla luce, le recupera all’epistéme. La verità è la evidenza con cui le cose si presentano al Lógos. Per il greco basta che attraverso il Lógos si mostri, in maniera chiara e distinta, una cosa perché essa sia vera.
Proprio come aveva detto Hegel, questa identità di certezza e verità viene meno in quel movimento del pensiero che da Cartesio arriva a Kant: non siamo sicuri che al Lógos, al pensiero spetti una verità assoluta.
Ora, proprio all’inizio di questo movimento, avviene ciò che chiamiamo rivoluzione scientifica attraverso l’opera di Galileo, Bacone, Newton, Cartesio, ecc.
Dal punto di vista squisitamente filosofico, questa rivoluzione complessivamente produce una rottura epistemologica col fare filosofico precedente.
L’inizio, come in ogni rivoluzione, fu flebile: si voleva solo aggiustare qualche canna dell’organo di Aristotele. Si finì con il mandarlo in soffitta!
I filosofi della natura operano innanzitutto una riduzione dello sguardo. L’occhio ora si concentra sui particolari: albero, nuvola, unghia. Se Aristotele ammoniva contro il “braccio dipinto” Bacone farà l’apologia della scienza come “dissezione della natura”. Dunque, riduzione o isolamento! La rivoluzione scientifica opera, dunque, una prima riduzione: dal Tutto al particolare.
Non basta! L’albero, la nuvola, l’unghia è unione di aspetti qualitativi e quantitativi. In fondo lo stesso grande Democrito, ora certo più attuale di Aristotele, aveva insegnato questa duplicità. Democrito aveva distinto gli aspetti quantitativi o qualità primarie, che potevano essere oggetto di verità perché comuni, dagli aspetti qualitativi o qualità secondarie, che avevano carattere soggettivo. La conoscenza vera era la conoscenza degli aspetti quantitativi, oggettivamente sperimentabili da chiunque.
La rivoluzione scientifica guarda al materialismo di Democrito nel tentativo di scrollarsi dal groppone la “sillogistica aristotelica”. In ciò la rivoluzione scientifica opera la seconda riduzione: dal particolare alla sola quantità.
Dunque, la rivoluzione scientifica opera una doppia riduzione:
1) dal Tutto al particolare;
2) dal particolare alla sola quantità.
Con quale strumento possiamo cogliere, al di là dell’aspetto sensibilepercettivo, la struttura quantitativa delle cose? Quantità, dunque, misura, ergo, matematica! La matematica è il passepartout del libro dell’universo. Ecco che Galileo può dire senza indugio che “Egli [l’universo] è scritto in lingua matematica...". (Il Saggiatore)
Non basta, la scienza opera sostanzialmente attraverso l’induzione: lo strumento per scoprire le cause prime. La scienza si muove nella convinzione che, partendo dall’osservazione, sia possibile formulare leggi e ipotesi predittive.
La filosofia della natura parte dalla convinzione che bisogna rovesciare l’impostazione metafisica precedente: dal Tutto al particolare. Bisogna partire dal particolare per poi assemblare, sommare i pezzi e ricostruire la Totalità. Dal particolare al Tutto. Per la scienza bisogna partire dal “braccio dipinto”, per poi legarlo al torace, e scoprirne le funzioni, nella relazione ‘viva’ con il corpo.
L’incedere filosofico è messo sottosopra!
Parallelamente alla doppia riduzione, la scienza avanza una doppia strumentazione per giungere alla verità che è, ad un tempo, anche doppio controllo o verificazione, fare scientifico.
Il Lógos, la ragione rimane lo strumento indispensabile che governa e tiene unito il procedimento conoscitivoscientifico, dalla ipotesi all’esperimento, ma ora la dimostrazione meramente logica non può più essere considerata la ‘dimostrazione’, ma solo una sua parte.
La verità dell’ipotesi scientifica è imbrigliata o saldata in una serie di operazioni pratiche che, isolando le parti, le osserva per confermare o meno la previsione dell’ipotesi. L’ipotesi è, dunque, resa vera o falsa attraverso l’esperimento, il “cimento” (Galileo). Alla evidenza razionale ora si affianca l’esperimento. Il Lógos raddoppia con l’esperimento!
Dunque, la rivoluzione scientifica trova il modo per accedere e dimostrare la verità attraverso un raddoppio dello strumento del controllo:
1) Lógos;
2) esperimento.
Un circolo che propone teoria e prassi e tale da legare l’uno all’altra in maniera che il Lógos non possa involarsi nelle regioni della metafisica.
La rivoluzione scientifica infine, si situa all’interno della filosofia e con la filosofia condivide il problema della verità. La scienza è verità seppur limitata ad elementi particolari, ma che si ampliano sempre più. La scienza inscrive la sua attività nella dimensione della verità, seppur decurtata. Ciò che essa afferma corrisponde alla verità fuori di noi: rispecchia la verità della natura.
IL POSITIVISMO DI COMTE
Auguste Comte (Montepellier, 1798 – Parigi, 1857) è il positivismo, o buona parte di esso!
Comte è l’espressione filosofica della grande industria, della borghesia in ascesa di metà Ottocento e dei suoi interessi rivoluzionari; rivoluzionari in quanto, pur essendo decisamente di classe, finiscono per diventare storicamente generali, globali: coincidenti con gli interessi generali di un processo storico gravido di portentosi sviluppi.
La borghesia e il positivismo, che in Comte ha una plastica raffigurazione, ripone nella scienza l’unica chance di salvezza dalle catene della metafisica, della religione e della tradizione.
La scienza è, ancora, l’unico strumento capace di porre uno sviluppo senza limiti, nel mentre spiana la strada verso un controllo sempre maggiore della natura. Il positivismo identifica senz’altro lo sviluppo con il progresso. La scienza è il metodo scientifico, è l’unica modalità che ci permette uno sviluppo costante in campo culturale e materiale, dunque, davanti a noi si erge sicuro un progresso storico senza pari: sorti progressive!
I testi più importanti di Comte sono: Corso di filosofia positiva (1830) e Discorso sullo spirito positivo (1844). Il “bisogno fondamentale”, la molla che ha spinto la riflessione di Comte è la costruzione di una filosofia della storia, l’individuazione di una legge di sviluppo dell’umanità. Tuttavia la parte della sua riflessione che ebbe più risonanza è sicuramente quella che concerne la dottrina della scienza.
Per Comte la scienza è “garante del consorzio umano”, poiché essa è l’unica fonte di sapere libero e soprattutto condivisibile, universale, che sfugge alle secche della dóxa e, ancor più, della metafisica e del suo involversi in pure e semplici, astruse e insensate fantasticherie.
Il positivismo è caratterizzato da una fiducia assoluta, incondizionata nella ragione e nel sapere come mezzi principali per il progresso, versus qualsiasi ingerenza irrazionale o dimensione religiosa o che si appelli alla autorità della tradizione. Per certi versi, quindi, essa è simile all’Illuminismo settecentesco, ma se ne distacca, tuttavia, per la minore carica polemica e per l’intento più rilevante di assolutizzazione e riordinamento del quadro scientifico e delle modalità del procedere scientifico.
La dottrina della scienza
La scienza è l’arma attraverso cui l’uomo potrà esercitare il proprio predominio.
Comte si inserisce in quella lunga linea di pensiero che da Bacone a Cartesio aveva presagito il dominio dell’uomo sulla natura attraverso la scienza. Rammentiamo che, in maniera chiara e cristallina, in Bacone il sapere, nella fattispecie la scienza, aveva perso il candore di un sapere disinteressato, un sapere per il mero sapere ed era ora potenza: capacità di penetrare la natura per porla al servizio dei propri bisogni.
La scienza per Comte ha carattere essenzialmente speculativoteoretico, da non confondere con la scienza tecnicopratica. La scienza ha una base razionale e teorica che permette di prevedere i fenomeni per poter, solo successivamente, modificarli a proprio piacimento e vantaggio. Il suo scopo è quindi formulare delle leggi attraverso l’attenta osservazione dei fatti, in modo da comprenderli ed esplicarli completamente.
Dunque, la scienza è formulazione di leggi che permettono la previsione e questa, a sua volta, permette l’azione:
scienza, donde previsione; previsione, donde azione.
Osservazione dei fatti e formulazioni di leggi. Formulazione di leggi al fine della previsione che garantisce la possibilità di potersi servire dei fatti per la soddisfazione dei propri bisogni.
Da ciò è evidente l’impostazione empiristica del pensiero di Comte, che infatti fa proprio il principio che da Tommaso a Locke recita che Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu (Nell’intelletto non vi è niente che non sia già stato nei sensi). Tuttavia, in contrasto col pensiero del filosofo inglese, egli è fermamente convinto che al di sotto del fenomeno, l’oggetto di indagine dell’esperienza, non vi sia affatto un noumeno, una realtà nascosta e più stabile.
Tuttavia si possono notare anche alcuni spunti razionalistici condivisi da Comte, come l’adozione del principio di regolarità nell’analisi della realtà: non si ha conoscenza senza una previa concettualizzazione del mondo, senza che ogni singolo evento venga ricondotto attraverso la scienza ad una teoria generale ed astratta. Inoltre, le teorie stesse devono essere il più concise e universali possibili, in quanto se vi fosse una legge specifica per ogni accadimento della realtà, questa finirebbe col diventare un duplicato della realtà stessa, che vanificherebbe l’utilità della scienza: tale obiettivo viene definito da Comte come “principio di economia”.
Infine, la scienza per Comte è avalutativa, in quanto non crea valori e non ne fa uso. Ciò non significa però che la morale non necessiti della scienza, in quanto senza quest’ultima essa risulterebbe illogica e ingiustificabile.
Partendo dalle suddette influenze, Comte si preoccupa di distinguere ciò che è pura scienza dal ciarpame pseudoscientifico, creando una enciclopedia generale di tutte le conoscenze scientifiche.
La legge dei tre stadi
La legge dei tre stadi: sulla base di considerazioni storiche e antropologiche Comte afferma che ogni ambito del sapere umano si articola attraverso tre fasi teoricamente, ma anche socialmente, differenti: lo stadio teologico, lo stadio metafisico e lo stadio positivo.
• Nello stadio teologico, che è il necessario punto di partenza dell’intelligenza umana, l’uomo, ricercando le cause prime e la natura delle cose, finisce per attribuire ai fenomeni un’origine sovrannaturale, il cui intervento spiega tutte le anomalie dell’universo. A questa forma di pensiero corrisponde la monarchia teocratica del Medioevo;
• Nello stadio metafisico, che non funge nient’altro che da tramite verso il sapere positivo, l’elemento sovrannaturale viene sostituito da forze astratte, come le essenze, capaci anche stavolta di giustificare da sole l’andamento della natura. Lo stadio metafisico è tipico del mondo moderno, governato dalla sovranità popolare, che si trova in una fase di crisi e transizione;
• Nello stadio positivo, infine, l’uomo rinuncia ad indagare l’origine dell’universo; per scoprirne piuttosto le leggi che lo governano, ovvero le relazioni di successione e somiglianza. Com’è ovvio, il positivismo si addice all’organizzazione scientifica che assume la società industriale e borghese.
Il problema principale della conoscenza umana è ora, secondo Comte, l’assenza di un sapere positivo in alcuni campi fondamentali, ed in particolare nelle scienze sociali:
Infatti, mentre esistono allo stadio positivo una fisica celeste, che studia gli astri e i loro moti, una fisica terrestre, che si occupa della meccanica e della chimica e finanche una fisica organica, che tratta scientificamente gli esseri viventi, non vi è alcuna fisica sociale e tale mancanza provoca una condizione di anarchia intellettuale, a cui consegue la crisi politica e morale che affligge la società contemporanea.
La fisica sociale è tuttavia, almeno per ora, irrealizzabile, in quanto in essa coesistono i tre stadi del sapere, e ciò non permette di ottenere un ordine prestabilito che porti al superamento della crisi.
Proprio per questo Comte, riprendendo il percorso già cominciato da Cartesio, Galileo e Bacone, tenta di tratteggiare i principi generali ed universali della filosofia positiva, delineando i tratti della già citata enciclopedia.
In essa Comte racchiude non le scienze pratiche, le arti o la tecnica, ma piuttosto le scienze speculative; egli si limita, inoltre, ad affrontare solo quelle generali ed astratte, rifuggendo dalle analisi più specifiche, concrete e particolari.
Il criterio con le quali le suddette scienze vengono classificate è l’ordine decrescente di semplicità, in modo che la loro disposizione coincida con la successione con cui esse sono entrate nella loro fase positiva.
Secondo questo parametro, in primo luogo si possono distinguere i fenomeni che interessano gli enti più semplici, cioè i corpi inorganici, che sono appunto oggetto di studio da parte della fisica inorganica; vi è poi l’analisi dei fenomeni che interessano i corpi più complessi, organizzati, gli esseri viventi, attraverso la fisica organica.
A sua volta la prima può essere divisa, nuovamente, in base alla complessità della materia trattata, nello studio dei corpi celesti, l’astronomia, o fisica celeste, e nella fisica terrestre, che si occupa delle interazioni tra i corpi (nella fisica propriamente detta) e della loro composizione (nella chimica).
La seconda, invece, viene suddivisa anch’essa in due parti, in quanto essa ha, sì, un campo di analisi individuale, ma anche uno collettivo, relativo all’intera specie: si parla quindi, nel primo caso, di biologia, ovvero una fisica organica fisiologica, e di sociologia, ovvero di fisica organica sociale, nel secondo.
Le cinque scienze fondamentali, che vanno a costituire l’enciclopedia, sono: l’astronomia, la fisica, la chimica, la biologia e la sociologia.
Comte esclude quindi dall’enciclopedia discipline quali la matematica, la logica e la psicologia.
Per quanto riguarda la matematica, essa viene esclusa non perché Comte non la consideri una scienza vera e propria, ma piuttosto poiché essa è ritenuta la base di tutte le altre scienze, un fondo sul quale poggiano tutte le scienze.
La logica, invece, viene considerata come concreta e particolare, in quanto essa non è un sapere generale, ma un metodo con cui ogni branca del sapere stesso sussiste e prende forma.
Infine, la psicologia viene esclusa poiché non è una vera e propria scienza, in quanto il suo campo d’analisi, similmente a come dirà più tardi Popper, non è tangibile, poiché la ragione non può essere in alcun modo osservata dall’esterno mentre agisce.
La sociologia, invece, rappresenta il fine ultimo di tutte le scienze positive, in quanto da essa dipendono i concetti, fondamentali per l’uomo, di ordine e progresso.
Questi due concetti fanno capo a due compartimenti della sociologia, complementari l’uno con l’altro.
L’ordine viene analizzato dalla statica sociale, che mette in luce le relazioni necessarie tra le varie parti della società, mentre il progresso e lo sviluppo sono prerogativa della dinamica sociale. Quest’ultima spiega anche la presenza degli “uomini di genio”, che vengono hegelianamente interpretati come uno strumento, un’espressione della volontà di affinamento del genere umano attraverso, appunto, il progresso.
Per questo Comte auspica l’avvento di quella che egli chiama “sociocrazia”, ovvero di un regime pressoché perfetto, fondato proprio sulle scienze sociali: culla ideale di un’umanità volta sempre più verso il perfezionamento di sé stessa.
Infine, va rilevato come l’esaltazione della scienza positiva diventa in Comte, alla fine, una sorta di apologia quasi religiosa della scienza che ben trova nell’idea di un “calendario positivista” la sua figura più esplicita ed esaltata.
LA CRISI DEI FONDAMENTI
Alla fine dell’Ottocento quelle che si pensavano fossero le solide basi della scienza tremano, meglio, franano e con esse le verità che la scienza ci aveva abituato a considerare ferme: epistéme. E’ la crisi dei fondamenti!
Le categorie fondamentali della scienza, spazio, tempo, causa, si ritrovano al centro di una vera tempesta in cui non sembra esservi nulla di solido e stabile ma tutto è fluttuante e relativo. Le basi della matematica e della fisica si ritrovano ricacciate nell’incertezza e tutto sembra essere costruito non sulla solida roccia, ma su fango molle, cedevole.
Matematica
La matematica era stata considerata a partire da Euclide e fino a Kant la scienza per eccellenza: un sapere perfetto. Non è certo un caso che Kant nella Critica aveva ammesso al consesso scientifico la matematica e la fisica e aveva risolutamente escluso qualsiasi volo della ‘colomba metafisica’ denunciandone l’astrazione come fabula.
Ora la matematica, che aveva nella geometria la sua radice più profonda, vacilla perché è lo stesso grattacielo della geometria euclidea a vacillare a flettere al vento di altre geometrie. La geometria di Euclide (323285 a. C.) dopo duemila anni sembrano vacillare con l’irrompere delle geometrie non euclidee.
Gauss e Lobacevskkij (inizio 1800) misurano la crosta terrestre, prendendo in considerazione il triangolo avente per vertici Terra, Sole, Sirio e rilevano che la somma degli angoli è meno di 180°. Lobacevskij e Bolyai, indipendentemente, costruiscono una geometria iperbolica a somma angoli minore di 180° e, dato una retta r e un punto P esterno a essa, esistono almeno due rette (e non una come voleva Euclide) passanti per P e parallele a r.
Riemann costruisce una geometria ellittica, dove la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180° e dove, in generale, non esistono rette tra loro parallele.
La geometria euclidea che aveva costituito la base sicura della matematica non è la sola possibile, dunque, da qui si cercherà, attraverso vari tentativi, una rifondazione epistemologia della matematica:
a) sull’aritmetica (Peano);
b) sulla logica (Frege, Russell);
c) sull’intuizione (Brouwer).
Un’altra importante spallata alla certezza matematica viene da un giovanotto di appena venticinque anni: Kurt Gödel. Gödel con il suo teorema di completezza (1930) dimostra che la logica è un sistema coerente e completo: da assiomi, attraverso regole, si possono derivare tutte e sole verità logiche.
Lo stesso Gödel, l’anno successivo, con il teorema di incompletezza (1931) dimostra, invece, l’impossibilità di fondare la matematica come sistema coerente: se non vogliamo avere antinomie dobbiamo avere incompletezza; se vogliamo completezza dobbiamo convivere con le antinomie riprendendo, dunque, quanto Kant aveva affermato in sede gnoseologica nella sua Critica della ragion pura.
Fisica
A partire dall’inizio del Novecento anche la fisica mostra vari spazi critici che, tuttavia, possiamo sintetizzare in due punti che danno il senso di veri e propri cambi di paradigma. cioè di cambio del modello scientificoculturale:
1. Einstein: teoria della relatività: la meccanica newtoniana non da risultati corretti se applicata a oggetti molto grandi che si muovono a grande velocità;
2. Plank: meccanica quantistica: la teoria newtoniana non è corretta se si applica ad oggetti molto piccoli, particelle subatomiche.
Il FALSIFICAZIONISMO DI POPPER
Il falsificazionismo
Karl Popper (Vienna, 1902 – Londra, 1994) è il filosofo del falsificazionismo!
Falsificazionismo che Popper elabora a partire dalla influenza che su di lui avrà il grande Albert Einstein e le sue teorie scientifiche. Popper fin dall’inizio rimase colpito dal fatto che Einstein avesse formulato le proprie teorie non tanto in vista di facili verifiche, quanto di rischiose previsioni e, dunque di possibili smentite (o falsificazioni). Insomma, le teorie di Einstein potevano essere falsificate a differenza ad es. del marxismo o della psicanalisi. La psicanalisi poteva spiegare un evento o la mancanza di un evento con una facilità estrema senza mai contraddirsi. Ugualmente, la teoria della storia di Marx faceva si che si giustificasse e spiegasse con eguale eleganza sia che una cosa accadesse che non accadesse. Insomma nulla a che fare con l’impostazione della teoria di Einstein, che faceva previsioni molto definite e precise: i raggi luminosi provenienti da stelle lontane sarebbero stati deviati dal campo gravitazionale del sole: cosa che venne confermata dalle osservazioni.
Inoltre, come Einstein, Popper elabora la propria rivoluzione epistemologica a partire dalla convinzione che le teorie scientifiche non sono verità assolute ma semplici ipotesi, congetture destinate ad essere superate.
Se la teoria di Newton, che era stata controllata nel modo più rigoroso era stata confermata meglio di quanto uno scienziato si sarebbe mai potuto sognare, era poi stata smascherata come ipotesi malsicura e superabile, allora era cosa disperata l’aspettarsi che una qualsiasi altra teoria fisica potesse raggiungere qualcosa di più che lo stato di ipotesi. (I due problemi fondamentali della conoscenza)
Il falsificazionismo è, dunque, il metodo attraverso cui è possibile distinguere il grano dalla pula, la scienza dal semplice racconto. Tale problema viene definito demarcazione, e Popper vi trova una soluzione appunto nel principio di falsificabilità: a differenza del verificazionismo, che intendeva elevare a scienza tutto ciò che fosse stato, appunto, verificato dall’esperienza, egli introduce il criterio della validità di una teoria in virtù della sua possibilità di essere smentita dalla stessa esperienza.
Per questo motivo risultano, quasi paradossalmente, scientifiche solo quelle teorie che possono essere falsificate, o quantomeno quelle che presentano potenzialmente un elemento falsificatore in loro stesse.
Perciò la metafisica, secondo Popper, sicuramente non è una scienza, ma egli non la ritiene come un qualcosa privo di senso, in quanto riconosce la sua funzione propulsiva nei confronti della scienza. Infatti, le idee “dogmatiche” al suo fondamento rappresentano la fonte “da cui rampollano le teorie delle scienze empiriche”.
Da quanto detto sopra risulta che non sarà mai possibile definire come certa e assolutamente vera anche una singola teoria, poiché servirebbero infinite conferme ad essa, mentre basta una semplice asserzione contraria per smontare un impianto apparentemente scientifico. Questo principio esprime l’assoluta superiorità epistemologica del falsificazionismo sul verificazionismo, che tuttavia lascia la scienza senza un fondamento assoluto, ma piuttosto con delle convenzioni. La scienza risulta cioè costruita non sulla solida roccia, ma su “fragili palafitte”, decise dagli scienziati stessi che ne fanno uso in un determinato periodo storico per i loro scopi:
La base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di assoluto. La scienza non posa su un solido strato di roccia. L’ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude. E’ come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall’alto, giù nella palude: ma non in una base naturale o data; e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza stabili da sorreggere la struttura. (La logica della scoperta scientifica)
La superiorità epistemologica della falsificabilità, secondo Popper, sta anche nella evidente asimmetria logica tra verificabilità e falsificabilità. Basta un solo fatto negativo per confutare una teoria rispetto a miliardi di conferme.
La scienza è, quindi, non il mondo delle verità ma l’universo delle ipotesi.
Tuttavia, alcune teorie sono ritenute più affidabili di altre. Popper spiega questo meccanismo con il concetto di corroborazione.
Una teoria si dice infatti corroborata quando essa ha superato il confronto con un’esperienza che si riteneva potenzialmente falsificante.
Vi è quindi un criterio di preferenza verso la verità, che, in certi casi, risulta più forte persino della falsificabilità stessa: in primo luogo, anche le esperienze falsificanti devono essere ritenute valide, e quindi sottoposte allo stesso criterio di cui sono strumenti, il quale potrebbe smentirle a loro volta, ridando validità scientifica alla teoria attaccata; inoltre, qualora una teoria venisse falsificata definitivamente (anche se a questo punto di falsificazione definitiva non si può più parlare), essa non potrebbe essere sostituita fino alla costruzione di una teoria migliore.
Per questo, Popper elabora un modello flessibile, diremmo pluriteorico, nel quale vi è un confronto non solo tra teoria ed esperienza, ma anche tra teorie rivali.
Tale modello si basa su una procedura specifica alla base della scienza, che egli definisce procedimento per congetture e confutazioni, il quale consiste nel rispondere ai problemi attraverso delle ipotesi sottoposte alla critica dell’esperienza. In questo senso Einstein e una semplice ameba adottano lo stesso metodo per sopravvivere in un ambiente: la differenza sta nel fatto che il signor Einstein ha la capacità di imparare dai suoi errori!
Vi è quindi un trittico “problemiteoriecritica” alla base del tutto, il quale finisce con lo stabilire l’importanza, paradossalmente, dell’errore, all’interno della scienza, che è perciò non più epistéme, sapere immutabile, ma disciplina che si costruisce e si corrobora man mano, imparando dai propri sbagli, che sono un passaggio necessario verso il miglioramento.
L’induttivismo
La deduzione o inferenza deduttiva è una modalità del nostro ragionamento che si esplica ad es. nel modo seguente: Tutti gli italiani amano il vino rosso. Antonio è un italiano. Antonio ama il vino rosso.
I primi due enunciati sono premessa della inferenza deduttiva. Se le premesse sono vere la conclusione deve essere vera.
Nella inferenza induttiva, invece, possiamo partire da premesse vere e arrivare a conclusioni false. Ci muoviamo da premesse su oggetti che abbiamo esaminato a conclusioni su oggetti che non conosciamo affatto: dal particolare al generale. Nonostante ciò il ragionamento induttivo è indispensabile nella vita di tutti i giorni.
Il grande Hume poneva il problema: se il sole è sorto fino ad oggi ciò non significa che sorgerà domani! Per Hume il principio induttivo non può essere affatto dimostrato razionalmente. Esso è semplicemente una abitudine animale, una fede cieca.
Noi presupponiamo la uniformità della natura, ma non possiamo dimostrarla. Per dimostrare che la natura è uniforme dovremmo fare degli esempi che concluderebbero con il ribadire che fino ad oggi si sono comportati così e finiremmo, con ciò, con il creare un circolo. Il sole, domani, potrebbe non sorgere!
L’idea di fondo dell’induttivismo è che la scienza parta da osservazioni, fa delle generalizzazione e predice gli avvenimenti.
Uno scienziato osserva attentamente una quantità enorme di uccelli e inferisce che:
1) Tutti i corvi sono neri;
2) Tutti i cigni sono bianchi.
Le preposizioni sono, entrambe, il frutto di un attento e duro lavoro, ma solo la prima é vera! La seconda è stata vera in Europa solo fino al diciottesimo secolo, quando, i primi esploratori dell’Australia, osservarono cigni neri. Il prossimo corvo osservato potrebbe essere rosso?
Si capisce che le inferenze scientifiche non producono mai verità ma, magari, solo alti gradi di probabilità. E’ quanto sostiene anche B. Russell dopo le riflessioni sul tacchino induttivista: “la probabilità è tutto ciò che dobbiamo cercare”. Per quanto riluttanti, per Russell bisogna credere nel principio di induzione come in una cieca fede.
Popper si scaglia contro l’induzione, ovvero quella linea di pensiero che da Bacone in poi sosteneva di poter derivare dall’esperienze particolari delle teorie generali ed universalmente valide.
La tradizione induttivista, come aveva già rilevato Hume, non ha alcun valore poiché anche numerose prove a favore di una teoria non bastano a renderla vera immutabilmente. Non sappiamo se domani il sole sorgerà o non sorgerà! (Hume)
A tal proposito, in tono brioso quanto arguto, Bertrand Russell spiegava l’impotenza dell’induttivismo con il racconto del ‘tacchino induttivista’:
Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell’allevamento dove era stato portato, gli veniva servito il cibo alle 9 del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, sia che piovesse che splendesse il sole. Così, arricchiva ogni giorno il suo elenco di una proposizione osservativa in condizioni più disparate. Finché la sua coscienza induttivista fu soddisfatta ed elaborò un’inferenza induttiva come questa: ‘Mi danno il cibo alle 9 del mattino’. Purtroppo, però, questa conclusione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato. (in A. F. Chalmers, Che cos’è questa scienza?)
Scienza e verità
Il rifiuto dell’induttivismo porta Popper anche al rifiuto dell’osservazionismo cioè di quella concezione che vuole lo scienziato come un neutrale e asettico osservatore di fatti. Per Popper lo scienziato non è affatto un osservatore neutro. La nostra mente non è una tabula rasa o contenitore vuoto ma, al contrario, un “faro” che illumina cioè un fascio di ipotesi, consce o inconsce, con cui vediamo il mondo. Insomma, come aveva detto anche se in altro contesto Heidegger, “l’uomo non è un occhio puro sul mondo” o se si vuole, Nietzsche: “non esistono fatti ma interpretazioni”!
Quando ci accingiamo ai fatti essi sono già “impregnati” di teoria. L’osservazione è “carica di teoria” (theoyi laden)!
La metafora del “faro” che illumina si presta ad un parallelo con Kant e la sua rivoluzione copernicana che sposta il problema della conoscenza dai fatti al soggetto. Concordemente con Kant Popper ritiene che la nostra mente impone delle leggi alla natura ma diversamente da Kant che afferma la validità oggettiva, necessaria e universale di tali leggi, Popper ritiene che le leggi non sono affatto necessariamente valide ma che, al contrario la natura si mostra assai refrattaria ad accoglierle e più spesso le rigetta. (Congetture e confutazioni)
Dunque, per Popper la scienza non è epistéme, ma dóxa, opinione, semplice ipotesi di lavoro, congettura. Le teorie scientifiche sono solo corroborate il che significa momentaneamente nonfalsificate. Quelle che chiamiamo verità scientifiche non hanno nessun fondamento su cui poggiare in maniera stabile e sicura. Al contrario, il sapere scientifico è strutturalmente problematico e incerto e a nulla vale la domanda se possiamo giustificare o meno il nostro sapere: essa è priva di senso. All’uomo compete la ricerca non la verità! Dunque, dal punto di vista filosofico Socrate aveva ragione! Dal punto di vista epistemologico Popper riprende dunque Socrate.
Il fallibilismo [falsificazionismo] non è altro che il nonsapere socratico. In breve abbiamo: 1) Socrate: io so di non sapere nulla (e nessuno sa più di questo); 2) Kant: la teoria di Newton è scienza che può essere giustificata, e perciò sapere certo. (Dunque Socrate vien contraddetto dal fatto dell’esistenza del sapere scientifico.) […] 3) Einstein: il sapere scientifico riguardante la realtà è incerto. […] Dunque il fallibilismo di Socrate continua ad esser dalla parte della ragione. (I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza)
Per Popper lo scopo della scienza non è la verità, come sapere assoluto, immutabile, ecc, quanto il raggiungimento di teorie sempre più verosimili, cioè che “appare più vicina alla realtà”. Se non possiamo dimostrare che una teoria è definitiva possiamo, tuttavia, dimostrare che una teoria è da preferire ad un’altra, cioè che rappresenti un progresso verso la verità.
Innanzitutto, tra una teoria scientifica e una nonscientifica è sicuramente da preferire quella scientifica perchè può essere falsificata, cioè sottoposta al controllo empirico.
Tra teorie entrambe scientifiche è da preferire quella in cui il contenuto di verità, cioè la corrispondenza ai fatti, è superiore all’altra e il contenuto di falsità è minore.
In effetti lo stesso Popper ammise repentinamente che la rappresentazione della verosimiglianza era errata. Tuttavia il criterio di scelta tra teorie rimane, per Popper, inscritto nell’ambito di una analisi razionale e, ovviamente, di una comparabilità delle teorie.
Lo sviluppo della nostra conoscenza è il risultato di un processo strettamente rassomigliante a quello chiamato da Darwin “selezione naturale”; cioè la selezione naturale delle ipotesi.
Il realismo dell’ultimo Popper
L’ultimo Popper prende posizione – in sintonia con Galileo contro lo strumentalismo ovvero quella concezione secondo cui le teorie scientifiche non sarebbero che utili strumenti di previsione. Per Popper le teorie sono anche enunciati descrittivi e non solo strumenti di previsione e di calcolo. In questo senso è possibile parlare di una ripresa del realismo nella riflessione filosofica di Popper che stronca una possibile deriva relativistica che pure era immaginabile non avendo fatti ma interpretazioni, non avendo verità ma ipotesi, congetture.
L’ultimo Popper muove verso l’ipotesi realistica semplicemente perché è l’unica posizione che può “rammentarci che le nostre idee possono essere errate”. Proprio l’errore ci permette di distinguere nettamente tra la realtà e la teoria e coglierne la corrispondenza o meno. Ciò significa pure sottolineare una realtà esterna alla teoria.
Chiamiamo “vera” una asserzione se coincide con i fatti, se corrisponde ai fatti, o se le cose sono tali quali l’asserzione le presenta. E’ questo il concetto cosiddetto assoluto o obiettivo di verità.
Anche se il realismo nei suoi fondamenti teorici è “non dimostrabile, nè confutabile”, in definitiva nessuno è stato ancora capace di opporre una teoria migliore. Perché una teoria venga messa da parte occorre che se ne abbia a disposizione una migliore!
Il POSTPOSITIVISMO DI KHUN, LAKATOS E FEYERABEND
Il postpositivismo ha tre figure ormai classiche a cui far riferimento e che ben rappresentano la critica al neo positivismo sia nella versione del Circolo di Vienna sia nella versione del falsificazionismo popperiano.
La critica dei tre filosofi, pur nella loro differenza, si concentra a) nella assoluta convinzione che i fatti non esistono come realtà obiettiva ma solo nel loro essere all’interno di un sistema, di un quadro teorico; b) non è possibile alcuna verificazione di una teoria o falsificabilità proprio perché non esistono fatti obiettivi; c) il sapere scientifico è un sapere che si muove all’interno di una configurazione storicoconcreta; d) nella elaborazione scientifica confluiscono elementi assolutamente extrascientifici ; e) il Lògos, la Ragione è ormai solo un mito che va rifiutato come strumento che ci porta alla verità; f) le teorie non hanno nulla a che vedere con la verità quanto, piuttosto, con il consenso.
Khun: La struttura delle rivoluzioni scientifiche
Secondo Thomas Samuel Kuhn (192296) lo sviluppo storico della scienza si snoda attraverso un ‘alternarsi di periodi “scienza normale” e periodi di “rotture rivoluzionarie”.
Il periodo di scienza normale è caratterizzato da determinati paradigmi, ovvero insiemi complessi e organizzati di teorie, modelli di ricerca e di sperimentazioni.
Il quadro complessivo di un periodo è caratterizzato non solo da questioni scientifiche in senso specifico, ma da un complesso di elementi culturali: religiosi, etici, estetici, politici, ecc. che incidono pesantemente su una determinata teoria favorendola o screditandola.
Lo stesso Kuhn cercherà di chiarire cosa si debba intendere per paradigma nella sua opera più importante, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962):
Con tale termine voglio indicare conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerche. (La struttura delle rivoluzioni scientifiche)
Un paradigma è una conquista scientifica (come la grande teoria geocentrica di Tolomeo o il copernicanismo, la meccanica di Newton o la teoria evolutiva di Darwin...) che per un certo periodo costituisce la base della ulteriore ricerca. Ricerca ulteriore consistente in quella che Kuhn chiama “scienza normale”. La scienza normale è cumulativa; lo scienziato normale non cerca la novità; egli è un risolutore di “rompicapi”, cioè di problemi emergenti dal paradigma e risolvibili con i mezzi del paradigma stesso.
La scienza normale entra in crisi per effetto di un sommarsi di anomalie che rompono il paradigma esistente fino a quel momento così si opera una vera rottura rivoluzionaria.
Aumentando il contenuto informativo della teoria, lo scienziato “normale” espone il paradigma alle “anomalie”, a problemi che resistono agli assalti dei sostenitori del paradigma. I dogmi vengono messi in dubbio; gli scienziati perdono la fiducia nella teoria finora abbracciata: siamo in piena crisi del paradigma. E’ un periodo, di solito breve, di “ricerca sgangherata”; è la “scienza straordinaria”, dalla quale poi emerge un nuovo paradigma attorno al quale si articolerà di nuovo la scienza normale, e così all’infinito. Gli scienziati, che fino ad allora si erano mossi nella conservazione del paradigma che garantiva stabilità, ora si avventurano per sentieri inesplorati e vedono cose nuove guardando le stesse cose di prima. Il noto diventa ignoto!
Cambiano completamente i quadri o sistemi concettuali. Cambiano i paradigmi!
Per Khun, d’accordo con Popper, i fatti sono “carichi di teoria”. I fatti non esistono se non all’interno di una teoria che, dunque, li determina come fatti. Diversamente da Popper, però, Khun è più radicale nella conseguenza che ciò comporta cioè che non è possibile confrontare, paragonare due diverse teorie. Per Popper due teorie per quanto diverse, l’astronomia di Tolomeo e quella di Aristotele, sono commensurabili. Per Khun, invece, esiste una vera e propria incommensurabilità tra teorie perché esiste una incommensurabilità tra paradigmi.
Su che basi dunque si può accettare un nuovo paradigma?
I singoli scienziati abbracciano un nuovo paradigma per ogni genere di ragione, e di solito per parecchie ragioni allo stesso tempo. Alcune di queste ragioni […] si trovano completamente al di fuori della sfera della scienza. Altre possono dipendere da idiosincrasie autobiografiche e personali. Persino la nazionalità o la precedente reputazione dell’innovatore e dei suoi maestri. (La struttura delle rivoluzioni scientifiche)
La risposta è davvero spiazzante e ci riporta ad una dimensione tutt’altro che razionale. La scelta del paradigma non è affatto, secondo Khun, una scelta logica e/o sperimentale ma inscritta in una dimensione storicosociologicopersonale. Giustamente Lakatos dirà che per Khun “la rivoluzione scientifica è irrazionale, è una questione di psicologia di massa”. Insomma, al di fuori di ciò che siamo abituati a pensare come scienza.
È per questo che quindi Khun vede il passaggio a un nuovo paradigma non come un avvicinamento progressivo alla verità, ma una semplice “conversione delle comunità scientifiche”. Insomma conversioni religiose! E’ chiaro che se i paradigmi non sono commensurabili non è neanche pensabile un progresso della scienza. Infatti, Khun pensa che la scienza si muova non tanto verso un progressivo avvicinamento alla verità quanto, semplicemente, ci allontaniamo da stadi primitivi di ricerca nel senso che siamo sempre più bravi nell’articolare i problemi.
Lakatos: la metodologia dei programmi di ricerca
Imre Lakatos (19221974) offre un fitto contronto con Khun e Popper di cui è un ammiratore considerandolo come l’esponente più importante della filosofia del ventesimo secolo che regge il confronto con Hume e Kant.
Le opere più importanti sono: La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici (1970) e La storia della scienza e le sue ricostruzioni razionali (1971).
Innanzitutto Lakatos, in polemica con Khun, contesta che si possa passare da un paradigma ad un altro come con una conversione religiosa: un “irrazionale cambiamento di fede”. In questo modo Lakatos mantiene la sua riflessione in un alveo sicuramente più razionale o razionalista di Khun.
Lakatos spiega il passaggio da un paradigma ad un altro non tanto per il presentarsi di “esperimenti cruciali” che contraddicono o confutano una teoria quanto per la presenza di una teoria rivale. Con ciò Lakatos è distante sia da Khun che intende lo sviluppo della scienza come continue ‘conversioni’, sia da Popper secondo cui si procede per congetture ed errori.
Lakatos ritiene che si proceda attraverso una serie di programmi di ricerca in razionale confronto tra loro.
La storia della scienza confuta sia Popper, sia Khun: a un esame accurato, sia gli esperimenti cruciali di Popper, sia le rivoluzioni di Khun risultano essere dei miti: ciò che di solito accade è che un programma di ricerca progressivo ne rimpiazza un altro.
Nello specifico Lakatos definisce un programma di ricerche come un insieme di teorie scientifiche coerenti tra loro e che obbediscono ad alcune regole metodologiche.
In un programma di ricerca è possibile scorgere un “nucleo” ovvero asserzioni inconfutabili “in virtù di una decisione metodologica dei suoi sostenitori”, e una “cintura protettiva” ovvero una serie di ipotesi ausiliarie che hanno la funzione di proteggere il nucleo.
Un programma di ricerca è “progressivo” se continua a “predire fatti nuovi”, altrimenti è “regressivo” ovvero si limita a dare spiegazioni post hoc.
Dunque, i programmi di ricerca si susseguono non in base a strane conversioni o in base a confutazioni quanto a decisioni razionali che sostituiscono programmi ormai regressivi.
Feyerabend: Contro il metodo
Contro il metodo (1980) di Paul Feyerabend è il testo ormai classico di una “epistemologia anarchica“ o “dadaista”, non a caso il sottotitolo recita: Per una conoscenza anarchica del sapere.
l’anarchismo, pur non essendo forse la politica più attraente, è senza dubbio una eccellente medicina per l’epistemologia e per la filosofia della scienza. (Contro il metodo)
Feyerabend è estremamente radicale nella sua impostazione epistemologica: non esiste la verità, non esiste un “metodo scientifico” non esiste una “regola”, non esiste un “criterio di eccellenza”.
Gli uomini intelligenti non si lasciano limitare da norme, regole, metodi, neppure da metodi “razionali”, ma sono degli opportunisti, ossia utilizzano quei mezzi mentali e materiali che, all’interno di una determinata situazione, si rivelano i più idonei al raggiungimento del proprio fine. (La scienza in una società libera)
En passant, notiamo, come questa ‘tirata’, faccia pendant con quella vena anarchica individualistica di Nietzsche. Opportunismo e scienza, ovvero volontà di potenza e mancanza di regole. Insomma, “tutto può andar bene” (anything goes)!
Secondo Feyerabend, occorre abbandonare la chimera stando alla quale le regole “ingenue e semplicistiche” proposte dagli epistemologici possano render conto di quel “labirinto di interazioni” offerto dalla storia reale:
la storia in generale, la storia delle rivoluzioni in particolare, è sempre più ricca di contenuto, più varia, più multilaterale, più viva, più astuta, di quanto possano immaginare anche il miglior storico e il miglior metodologo.
Ne deriva che
l’idea di un metodo che contenga principi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida nell’attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene messa a confronto con i risultati della ricerca storica. (Contro il metodo)
E questo, secondo Feyerabend, appare con tutta chiarezza quando questi principi (per esempio quelli formulati da Popper) vengono messi a confronto con l’effettiva storia della scienza.
Progressi significativi si sono avuti solo perché le norme metodologiche furono violate consapevolmente o inconsapevolmente:
Troviamo infatti che non c’è una singola norma, per quanto plausibile e per quanto saldamente radicata nell’epistemologia, che non sia stata violata in qualche circostanza. Diviene evidente anche che tali violazioni non sono eventi accidentali, che non sono il risultato di un sapere insufficiente o di disattenzioni che avrebbero potuto essere evitate. Al contrario, vediamo che tali violazioni sono necessarie per il progresso scientifico. In effetti, uno fra i caratteri che più colpiscono delle recenti discussioni sulla storia e la filosofia della scienza è la presa di coscienza del fatto che eventi e sviluppi come l’invenzione dell’atomismo nell’antichità, la rivoluzione copernicana, l’avvento della teoria atomica moderna, il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce si verificarono solo perché alcuni pensatori o decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche ovvie o perché involontariamente le violarono. (Contro il metodo)
La lotta contro il metodo vuole essere, dunque, una lotta per la libertà di metodo: l’anarchismo metodologico è la libertà di non aver metodi e di avere una idea e di poterla sconfessare subito dopo per una contingenza qualsiasi.
Sbaglia, Lakatos a pretendere che delle teorie o dei programmi di ricerca possano essere confrontati: non ci sono criteri per giudicare una teoria se non pure quelli psicologici, sociologici e culturali.
Per Khun i fatti, come aveva già registrato Popper, non esistono al di fuori della teoria ovvero di un sistema di “quadri mentali”. Tuttavia in Feyerabend tale assunzione viene portata alle estreme conseguenze relativistiche e irrazionalistiche diversamente dall’ultimo Popper.
Recuperando Khun contro Popper, Feyerabend ritiene che, non solo le teorie possono essere comparate, ma neanche i termini più semplici come ad es. il termine massa in Newton e in Einstein.
Se la verità non esiste, se la scienza non ha un criterio in base al quale scegliere una teoria piuttosto che un’altra in quanto incommensurabili, allora non rimane che un criterio di tipo pragmatico cioè di efficienza o se si vuole di capacità di persuasione, di momentaneo potere, ecc.
Ora questo criterio impone che quando si valuta le teorie dal punto di vista storico bisogna farlo assumendo un metro di valutazione interno alla teoria stessa. Ad es., non è possibile smontare la fisica di Aristotele con la fisica degli ultimi due secoli giacchè si dovrebbe dimostrare che la scienza moderna è migliore di quella aristotelica.
Feyerabend cerca conferme della sua concezione nel caso Galileo ribaltando l’ormai acclarato giudizio storico sull’errore della Chiesa.
La chiesa all’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali delle dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta. (in Corriere della Sera, 25/01/2008)
Una lettura simile era stata avanzata negli anni Trenta da Husserl nella Crisi delle scienza europee tuttavia Feyerabend autonomamente sostiene, appunto, che la condanna delle dottrine galileiane fu emessa sulla base non tanto di ragioni teologiche, quanto delle conoscenze diffuse nel contesto scientifico dell’epoca. Insomma, la Chiesa applicò al caso Galileo una ‘razionalità’ più ampia di quella galileana. Anzi, deve essere dimostrato che gli standard scientifici sono più sicuri, e soprattutto più utili di quelli religiosi!
Le conclusioni, paradossali, sono perfettamente in linea con la metodologia storiografica di Feyerabend: la plausibilità di una teoria scientifica dev’essere valutata in relazione all’epoca.
CONCLUSIONI
Il percorso che si è dipanato in questo capitolo, dalla rivoluzione scientifica al postpositivismo, sembra consegnarci, attraverso la riflessione in atto nella filosofia della scienza, la perdita, l’oblio di qualsiasi relazione tra scienza e alétheia ovvero con quel concetto, inaudito, da cui tutto era partito e aveva, d’incanto, aperto nuovi orizzonti e fondato, nientemeno, l’Occidente.
Sicuramente a partire, all’ingrosso, dall’inizio del Novecento la filosofia della scienza, sia sotto la pressione della crisi dei fondamenti, che con l’avanzare dell’irrazionalismo e del nichilismo ha fatto registrare una vera parabola del concetto di verità fino ad annichilirlo completamente. La verità decurtata, che la rivoluzione scientifica aveva di fatto elaborata, finisce per essere anch’essa vaporizzata, sublimata, addirittura, in probabilità, in consenso. Del concetto di alétheia non rimane più niente!
Ma iniziamo dall’inizio!
La rivoluzione scientifica segna una differenza all’interno del fare filosofico. La filosofia della natura, (la scienza) si distingue sempre più e prepotentemente dal fare metafisico per imboccare una strada che cerca ancora la verità assoluta ma con una modalità tutta nuova.
La rivoluzione scientifica è la filosofia che decisamente riperimetra il concetto di verità e lo riduce doppiamente dal Tutto al particolare e, ancora, il particolare lo riconduce a solo ciò che può essere comune a tutti: alla quantità. E’ chiaro che questa doppia riduzione ridefinisce il concetto stesso di verità che non ha più i contorni della pienezza, non ha più le forme parmenidee della perfetta rotondità, ma, pur limitata al solo aspetto parziale e quantitativo, essa ha comunque le caratteristiche della necessità e universalità.
La Totalità, il Tutto è al di là da venire nell’infinita sommatoria di verità singole e parziali.
La modalità per arrivare a questa verità decurtata è ancora il Lògos ora diversamente modulato con il cimento, con l’esperimento.
Dal punto di vista propriamente filosofico la rivoluzione scientifica si presenta, dunque, come doppia riduzione della natura e raddoppio del controllo. Il raddoppio del controllo permetterà di evitare di involarsi nelle asfittiche aree iperuraniche della metafisica come più tardi ci suggerirà la colomba di Kant.
Il positivismo non è altro che la rivoluzione scientifica che, ormai matura, è brandita dalla borghesia storicamente ancora rivoluzionaria che ha, nella grande industria e nella sua capacità egemonica, la sua immensa forza motrice. La grande industria, che fagocita il globo, nello stridore dei macchinari e nei pennacchi di fumo onnipresenti, crea il suo inno alla scienza. Questo incedere tumultuoso non può che far scrivere sulla bandiera: Keine Metaphisik mehr! (Niente più metafisica!).
Il positivismo e il neopositivismo anche se in maniera più articolata e disincantata, soprattutto con il Circolo di Vienna e il Circolo di Berlino rimangono nella scia dell’illuminismo, del razionalismo antimetafisico e, infine, della corrispondenza delle teorie ai fatti: la conoscenza come corrispondenza adaequatio.
Viceversa il falsificazionismo di Popper e il postpositivismo incarnano in ambito epistemologico l’irrazionalismo che avanza diremmo da Schopenhauer e che, in Nietzsche trova la sua più larga e cosciente formulazione con il nichilismo.
La crisi dei fondamenti scientifici che, sostanzialmente, apre il Novecento apre altresì, materialmente, il problema della verità in ambito filosofico riproponendo criticamente il problema della corrispondenza tra teoria e fatti: il rapporto tra scienza e verità.
Popper legge la scienza come la dimensione che esclude la verità assoluta; la scienza è costruzione precaria eretta su palafitte. Le asserzionibase di una teoria scientifica per Popper sono nient’altro che decisioni dei ricercatori in un determinato periodo storico. Esplicitamente Popper legge la scienza non come alétheia ma come dóxa.
Il falsificazionismo di Popper, ma soprattutto il postpositivismo di Khun e Feyerabend arrivano ad una vera e propria concezione relativistica che fa pendant con il nichilismo nietzschiano ovvero con quella espressione della borghesia, ormai decadente, che riduce qualsiasi certezza a semplice ipotesi di lavoro.
Khun, ad es., con più vigore irrazionalista legge l’intera vicenda scientifica come un movimento mosso da semplici conversioni da parte della comunità scientifica.
Feyerabend, poi, porta alle estreme conseguenze una impostazione irrazionalista e sfocia risolutamente in una posizione relativistica in cui ‘tutto va bene’: siamo alla notte in cui tutte le vacche sono nere! Feyerabend è, forse, l’esempio classico che dimostra come la filosofia della scienza si nutra di nichilismo. La sua conoscenza anarchica sembra essere la versione, in ambito epistemologico, della filosofia nichilista di Nietzsche letto assieme allo Stirner de L’Unico e la sua proprietà.
Insomma, tutta la riflessione da Popper al postpositivismo rileva come, nell’ambito della filosofia della scienza, vengano ripresi molti argomenti e suggestioni nichilistiche e irrazionali: esistono interpretazioni e non fatti; la scienza è volontà di potenza; non c’è alcuna verità, ecc.
L’esito del dibattito, soprattutto in ambito postpositivistico, ci porta alla chiara esplicitazione di una visione irrazionale della scienza dove tutto e provvisorio e, soprattutto, dove tutto è ammesso e non c’è modo di marcare, definire metodi e risultati più veritieri di altri. Insomma, siamo al relativismo puro e semplice.
In effetti, come abbiamo visto, l’ultimo Popper aveva curvato la sua riflessione filosofica verso il realismo, ovvero quell’atteggiamento filosofico per cui esiste una realtà fuori di noi e le nostre teorie colgono effettivamente la realtà. Le teorie per l’ultimo Popper sono descrittive e non semplici convenzioni o strumenti pragmatici.
Popper fa valere, sostanzialmente, la posizione realista o materialista su due argomenti:
a) è l’unica posizione che può “rammentarci che le nostre idee possono essere errate” proprio perché “cozzano” contro la realtà. Dunque, proprio quando una teoria è errata io posso dedurre che è respinta da una realtà esterna alla mia formulazione;
b) pur se non dimostrabile nei suoi fondamenti teorici non esiste una teoria migliore con cui sostituirla.
Dunque, convenzionalismo, strumentalismo, ecc. vengono sconfessati con la riproposizione della ‘vecchia’ adaequatio rei et intellectus che fu già di Aristotele, Tommaso, ecc.
Tralasciando Popper ci compete dire che a favore del realismo c’è ben altro!
Innanzitutto, in sede di filosofia della scienza propriamente, il progresso scientifico, tanto criticato dai postpositivisti a noi sembra indubitabile per tre ordini di ragioni:
1. la storia ci consegna un continuo accrescimento e successo del patrimonio tecnicosperimentale;
2. la storia confuta singole teorie, ma dall’altro, ci offre teorie sempre più ampie capaci di includere le precedenti. Apparenti antinomie vengono riassorbite in teorie più ampie e includenti. Dunque, abbiamo un accrescimento del sapere teorico della scienza;
3. la storia ci insegna un continuo consolidamento reciproco che ogni ramo della scienza offre agli altri.
Abbiamo teorie sempre più estese, ampie, includenti, capaci di assorbire le precedenti e ciò conferma nella verifica i principi. Le tre geometrie (euclidea, iperbolica, ellittica), che sembravano portare sicuramente ad antinomie, sono state riprese nella più ampia geometria proiettiva. Assistiamo continuamente alla convergenza di molte discipline su alcuni risultati particolari. Ad es. la teoria della evoluzione viene confermata autonomamente dalla zoologia, paleontologia, genetica, geologia, ecc. Nella fisica delle particelle constatiamo una convergenza dei vari metodi di rilevamento utilizzati (emulsioni fotografiche, camera a bolle, acceleratori, ecc..).
Infine non possiamo sottostimare i successi nelle applicazioni tecnologiche delle scoperte scientifiche.
Questo aumento del patrimonio tecnicosperimentale e teorico non è cosa da poco rispetto alla presa di posizione realista. Esso conferma, non tanto che singole teorie non sono rivedibili, ma testimonia una presa graduale e sicura sulla realtà prima inusitata. Pur prendendo in considerazioni quadri concettuali rivedibili, correggibili e integrabili, la direzione di marcia sembra essere chiara. Risulta evidente che il procedere scientifico non è il risultato di una operazione del ricercatore, solipsistico, onanistico, irriducibile al soggetto, quanto, piuttosto, di un rapporto storicodialettico tra soggetto e oggetto leggibile, – a nostro avviso alla luce di quanto Marx diceva in quella stenografia intellettuale che erano le Tesi su Feuerbach, sicuro capolavoro di materialismo non metafisico. Basterebbe rileggere il richiamo antimetafisico, appunto, della tesi n° 1:
Il difetto principale d'ogni materialismo fino ad oggi (compreso quello di Feuerbach) è che l'oggetto [Gegenstand], la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell'obietto [Objekt] o dell'intuizione; ma non come attività sensibile umana, prassi; non soggettivamente.
Rileggere il quadro generale entro cui va posto il problema della verità (tesi n° 2):
La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l'uomo deve provare la verità cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o nonrealtà del pensiero iso¬lato dalla prassi è una questione meramente scolastica.
BIBLIOGRAFIA
Opere:
Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, 1981
Popper, La logica della scoperta scientifica, Einaudi, 2010
Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli 2002
Okasha, Il primo libro di filosofia della scienza, Einaudi, 2006
ANTOLOGIA
G. W. Friedrich Hegel
LEZIONI SULLA STORIA DELLA FILOSOFIA
Concezioni volgari della storia della filosofia
Occorre anzitutto menzionare e correggere le idee volgari che sogliono correre sulla storia della filosofia. Intorno a queste vedute molto diffuse, che sono senza dubbio note, miei Signori, anche a voi (giacché in realtà esse rappresentano le riflessioni immediate, che possono correre alla mente al primo semplice pensare ad una storia della filosofia), voglio dire brevemente soltanto ciò ch'è strettamente necessario; in seguito l'esame delle differenze esistenti tra le varie filosofie ci porrà in grado di approfondire il problema.
La storia della filosofia come filastrocca d'opinioni
A prima vista sembra che la storia debba raccontare gli avvenimenti casuali relativi ad età, a popoli, a individui; casuali, in parte secondo l'ordine cronologico, in parte secondo il contenuto. Della casualità relativa alla successione cronologica si parlerà in seguito; ora intendiamo occuparci anzitutto della casualità relativa al contenuto, vale a dire del concetto delle azioni casuali. Sennonché il contenuto della filosofia non è costituito da azioni esteriori o da eventi dolorosi o lieti, sebbene da pensieri. Orbene, i pensieri casuali non sono altro che opinioni; e dire opinioni filosofiche vuoi dire opinioni intorno al contenuto preciso e all'oggetto specifico della filosofia, vale a dire intorno a Dio, alla natura, allo spirito.
C'imbattiamo quindi subito nella veduta assai comune intorno alla storia della filosofia, secondo cui essa non dovrebbe far altro che ritessere la narrazione delle opinioni filosofiche quali esse si sono presentate e sono, state esposte nel corso dei tempi. Quando si parla con urbanità, a questo materiale si dà il nome di opinioni; quelli invece che credono di poter dare un giudizio più profondo, chiamano questa storia addirittura galleria delle pazzie, o almeno dei traviamenti dell'uomo che si inabissa nel pensiero e nei puri concetti. Tale veduta la si può udir manifestare non soltanto da coloro che confessano la loro ignoranza in fatto di filosofia (ed essi la confessano, perché secondo l'opinione comune l'ignoranza non può far loro ostacolo a sentenziare su ciò che sia filosofia, anzi ognuno è sicuro di poter giudicare del valore e dell'essenza della filosofia senza capirne un'acca), ma anche da persone che hanno scritto e scrivono storie della filosofia. Una storia, concepita in tal modo come una filastrocca di opinioni diverse, diventa curiosità oziosa, o, se si vuole, interesse di semplice erudizione. Infatti l'erudizione consiste principalmente nel sapere una quantità di cose inutili, che non hanno in sé alcun contenuto e alcun interesse all’infuori di quello costituito appunto dal semplice fatto d'averne conoscenza.
Tuttavia si crede ugualmente di trarre profitto dalla conoscenza delle varie opinioni e dei vari pensieri degli altri: si crede ch'essa metta in moto la facoltà del pensare, che susciti anche qualche buona idea, vale a dire porga l'occasione di formulare opinioni nuove; la Scienza consisterebbe così nel continuare a filare opinioni su opinioni.
Se la storia della filosofia fosse soltanto una galleria d'opinioni sia pure relative a Dio e all'essenza delle cose naturali e spirituali – essa sarebbe una scienza superfluissima e noiosissima, per quante utilità si potessero mai addurre che si ricaverebbero da siffatto movimento di pensieri e d'erudizione. Che vi può esser di più inutile che l'imparare una serie di semplici opinioni? Che cosa di più indifferente? Basta dare un'occhiata alle opere che espongono la storia della filosofia come semplice serie di opinioni, per veder subito quanto siano aride e senza, interesse.
Un'opinione è una rappresentazione soggettiva, un pensiero casuale, un'immaginazione, che io mi formo in questa o quella maniera, e altri può avere in modo diverso: l'opinione è un pensiero mio, non già un pensiero in sé universale, che sia in sé e per sé. Ma la filosofia non contiene opinioni, giacché non si danno opinioni filosofiche. Chi parla di opinioni filosofiche, anche se ha scritto storie della filosofia, rivela subito la mancanza dei primi fondamenti. La filosofia è scienza oggettiva della verità, scienza della necessità della verità, conoscenza concettuale, e non già opinare e filza di opinioni.
L'ulteriore significato proprio di cotesto modo di vedere è che abbiamo conoscenza soltanto di opinioni: e si insiste sul fatto che si tratta solo di opinioni. Ora ciò che si contrappone all'opinione, è la verità; e di fronte alla verità, l'opinione deve cedere. Sennonché è appunto la parola verità quella da cui distoglie lo sguardo chi nella storia della filosofia cerca soltanto, o crede si possano trovare soltanto opinioni. In questo caso la filosofia deve combattere con un duplice avversario. Da un lato, è noto, la pietà religiosa ha proclamato non esser la ragione o il pensiero in grado di conoscere il vero, la ragione condurre soltanto all'abisso del dubbio, doversi rinunziare al pensare autonomo e, per giungere alla verità, costituirsi prigionieri della cieca fede nell'autorità. Parleremo in seguito del rapporto che la religione ha con la filosofia e con la storia di essa. D'altra parte è altrettanto noto che la cosiddetta ragione si è fatta valere, ha respinto la fede nell'autorità, e ha voluto rendere razionale il Cristianesimo, sicché in sostanza soltanto il mio intuito, la mia convinzione personale mi obbligherebbero a riconoscere qualche cosa. Ma è meraviglioso come questa tesi sul diritto della ragione sia stata poi capovolta e in modo da risultarne che la ragione stessa non possa riconoscere nulla di vero. Questa cosiddetta ragione da un lato combatté la fede religiosa in nome e con la forza del pensiero razionale, e contemporaneamente si volse contro la ragione e diventò nemica della vera ragione. Contro quest'ultima essa afferma l'ispirazione interna, il sentimento; e così pone come norma del valore l'elemento soggettivo, vale a dire la propria convinzione, come ciascuno se la forma in se stesso e nella propria soggettività. Senonchè siffatta convinzione non è altro per l'appunto che l'opinione, la quale così è diventata ultima ratio dell'uomo.
Volendo prender le mosse dai modi di vedere che si presentano più spontanei e immediati, non possiamo far a meno, nella storia della filosofia, di ricordare in primo luogo quello testé accennato. Esso è infatti un risultato, che ha compenetrato la cultura generale, e costituisce per dir così la tesi pregiudiziale, il vero contrassegno dell'età nostra, il principio in cui ci s'intende e ci si riconosce reciprocamente, la premessa che si considera pacifica, e che si mette a fondamento d'ogni attività scientifica. Così, per esempio, in teologia non si ritiene come dottrina del Cristianesimo la professione di fede della Chiesa, sebbene ciascuno si foggia più o meno una speciale dottrina cristiana secondo la propria convinzione. Oppure vediamo spesso la teologia indirizzata in senso storico, e assegnato alla scienza teologica il compito di imparare a conoscere le varie opinioni. Uno dei primi frutti di tale informazione dovrebbe esser l'ossequio verso tutte le opinioni, da considerarsi come cosa che ciascuno deve regolare da sé. In tal modo si rinunzia allo scopo di conoscere la verità. È vero che la propria convinzione costituisce il fondamento ultimo e assolutamente essenziale, che stimola alla conoscenza la ragione e la sua filosofia, dal punto di vista soggettivo; ma vi è differenza fra la convinzione che s'appoggia su sentimenti, presentimenti, intuizioni ecc., vale a dire su moventi soggettivi, in genere sulla peculiarità del soggetto, e quella che si basa sul pensiero, che la trae dall'approfondimento del concetto e della natura delle cose. La prima forma di convinzione non è altro che opinione.
Questa antitesi tra opinione e verità, oggi così acuta e manifesta, la ritroviamo già nella cultura dell'età socraticoplatonica, vale a dire in un'età di corruzione della vita greca, sotto forma della contrapposizione platonica di opinione (dóxa) a scienza (epistéme). È lo stesso contrasto che scorgiamo nel declinare della vita pubblica e politica di Roma sotto Augusto e successori, quando l'epicureismo e l'indifferentismo si fecero strada contro la filosofia. Proprio in questo senso Pilato, allorché Cristo disse “io sono venuto al mondo per annunziare la verità”, gli replicò “che cosa è verità?”. È una risposta eloquente, che significa su per giù questo: “Il concetto di verità è una cosa morta, con cui noi l'abbiamo fatta finita; noi siamo andati avanti, e sappiamo che non si può dire di conoscer la verità; abbiamo superato questa ingenuità”. Chi parla così, è realmente al di sopra e al di fuori della verità. Se nella storia della filosofia si prendono le mosse da questo modo di vedere, tutta l'importanza di questa disciplina si riduce a far conoscere soltanto le opinioni particolari, di cui ciascuno ha la sua, diversa da quella degli altri. Queste peculiarità individuali sono dunque per me qualche cosa d'estraneo, nelle quali la mia ragione pensante non è libera, non è presente, rappresentano unicamente per me una materia esteriore, morta, storica, una massa in se stessa priva di contenuto; e appagarsi così di cose vane è vanità soggettiva.
Per l'uomo libero da preconcetti la verità resterà sempre una grande parola, che gli farà sempre battere il cuore. Quanto all'affermazione, secondo cui la verità non potrebbe conoscersi, essa si presenta esplicitamente nella storia della filosofia, e la esamineremo più dappresso a suo tempo. Qui osserveremo soltanto che se si dà valore a siffatto presupposto, come fa per esempio il Tennemann, non si capisce più a che approdi l'occuparsi di filosofia, giacché in tal caso ogni opinione sarebbe nel falso, quando, crede di possedere la verità. Provvisoriamente io mi richiamo all'antica convinzione secondo cui nel sapere risiede bensì la verità, ma la si può conoscere soltanto in quanto si mediti, e non già in quanto si cammini e si stia fermi; la verità non si riconosce già nella percezione e nell'intuizione immediata, sia esteriore e sensibile, sia intellettuale (giacché ogni intuizione come tale è sensibile), sebbene soltanto mediante il travaglio del pensiero.
Dimostrazione dell'inanità della conoscenza filosofica tratta dalla storia stessa della filosofia
Con la predetta concezione della storia della filosofia si collega un'altra conseguenza, che si può considerare a piacere come un bene o come un male. Infatti davanti a tante e così svariate opinioni, a tanti e così svariati sistemi filosofici, si perde la bussola e non si sa più a quale ci si debba attenere. Si constata che a proposito degli oggetti più importanti, verso i quali l'uomo si sente attratto, e che la filosofia dovrebbe far conoscere, i più grandi genii hanno errato, posto che sono stati confutati da altri. “E se questo è capitato a genii così grandi, come posso ego homuncio pretendere di decidere?”. Si ritiene che siffatta conseguenza tratta dalla varietà dei sistemi filosofici, sia bensì un male per ciò che riguarda l'oggetto stesso, ma anche un bene soggettivamente parlando. Infatti questa diversità di sistemi è il solito pretesto che tutti coloro, i quali con aria di competenti vogliono dare ad intendere d'interessarsi di filosofia, accampano per potere, pur affermando la loro buona volontà, anzi magari la necessità d'affaticarsi intorno, a questa scienza, in realtà lavarsene le mani. Senonchè questa diversità dei sistemi filosofici non serve soltanto, come si è detto, di pretesto; essa viene anzi fatta passare come argomento poderoso e verace contro la serietà delle investigazioni filosofiche, come giustificazione del nessun interesse per la filosofia, come istanza irrefutabile contro la vanità del tentativo di voler raggiungere la conoscenza filosofica della verità. E se anche si ammette che la filosofia sia una scienza reale, e che tra le filosofie ve ne debba pur essere una vera, sorge la domanda: ma quale è? e come riconoscerla? Ognuna assicura d'esser la vera; ognuna offre i suoi particolari segni e criteri da cui riconoscere la verità; e quindi il pensiero cauto e giudizioso deve avere ritegno a pronunziarsi.
Questo per alcuni è il più importante risultato che si possa ricavare dalla storia della filosofia. In questo senso Cicerone (De natura Deorum I, 8 sgg.) ha compilato una storia molto zoppicante del pensiero filosofico su Dio. Egli la mette bensì in bocca ad un Epicureo, ma non sa dire nient'altro di meglio su quest'argomento: dunque questo è il suo modo di vedere. L'Epicureo dice che non si è riusciti a formulare alcun concetto preciso; e immediatamente dal quadro generale e superficiale della storia della filosofia trae la prova che gli sforzi di quest'ultima sono vani: infatti il processo di questa storia appare come un continuo sorgere dei più svariati pensieri filosofici, che si contrappongono, si contraddicono e si confutano I'un l'altro. Questo fatto, d'altronde innegabile, sembra autorizzarci, anzi obbligarci ad applicare anche alle filosofie le parole di Cristo: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti e seguimi”. Sicché la storia della filosofia nel suo complesso sarebbe un campo di battaglia coperto soltanto dall'ossame dei cadaveri, un regno non soltanto d'individui defunti, corporalmente trapassati, ma anche di sistemi confutati, idealmente defunti, ciascuno dei quali ha ucciso e sepolto l'altro. E’ vero tuttavia che in questo senso, anziché “seguimi” dovrebbe dirsi piuttosto “segui te stesso”; vale a dire, attieniti alla tua propria convinzione, fermati alla tua opinione. Perché mai infatti seguire gli altri?
Accade certamente che una nuova filosofia al suo apparire sostenga che le altre non hanno alcun valore; anzi ogni filosofia pretende non solo di confutare tutte le precedenti, ma anche di colmare le loro lacune e d'aver trovato finalmente la giusta soluzione. Senonchè l'esperienza del passato dimostra che a siffatte filosofie possono applicarsi altre parole dei Vangelo, vale a dire quelle dette dall'apostolo Pietro ad Anania: “Ecco all'uscio i piedi di coloro che ti porteranno via”. Vedi, la filosofia che confuterà ed eliminerà la tua, non tarderà a sopravvenire, come non ha mancato di sopraggiungere alle altre.
Schiarimenti sulla diversità delle filosofie
Senza dubbio è un fatto abbastanza provato che vi sono state e vi sono diverse filosofie; ma l'istinto della ragione ha l'invincibile sentimento, o la fede, che la verità è una sola. “Vi deve essere dunque una sola filosofia vera, e poiché le filosofie sono così diverse, tutte le altre – si conclude – debbono essere erronee; senonchè ognuna di esse assicura, prova, dimostra esser essa la vera”. Questo è il ragionamento usuale, ed è un giudizio apparentemente esatto del pensiero così detto sobrio, del buon senso. Orbene, quanto a questa sobrietà del pensiero, sappiamo dall'esperienza quotidiana che la sobrietà è accompagnata o immediatamente seguita dalla fame: invece quel tale pensiero sobrio ha il talento e l'arte di condurre, non alla fame e alla brama, sebbene ad essere e a rimaner sazio in se stesso. In tal modo questo pensiero si smaschera, rivelandosi soltanto morto intelletto; giacché soltanto ciò ch'è morto può a un tempo essere e rimanere digiuno e sazio. Invece la vitalità spirituale, al pari della vitalità fisica, non resta soddisfatta della sobrietà, ma sente lo stimolo di procedere attraverso la fame e la sete verso la verità, verso la conoscenza della verità, anela al soddisfacimento di questo stimolo, e non si lascia pascere né satollare da riflessioni analoghe a quella accennata.
Alla riflessione suddetta si può subito obiettare che, per quanto diverse siano le filosofie, tuttavia esse hanno questo di comune, d'essere appunto filosofie. E quindi chi ha studiato e conosciuto una filosofia qualsiasi, sebbene questa sia soltanto una filosofia, possiede la filosofia. E quel pretesto, quel ragionamento che s'aggrappa alla pura diversità, e per disgusto od esitazione di fronte al particolare, in cui è contenuto realmente l'universale, rifiuta di capire o riconoscere questa universalità, è stato paragonato da me altrove ad un ammalato, cui il medico abbia consigliato di mangiar frutta, e che vedendosi presentate ciliege o prugne o uva, per pedanteria dell'intelletto non ne assaggia, non essendo esse “frutta”, ma ciliege, prugne o uva.
È necessario farsi un concetto più profondo di che cosa sia veramente questa famosa diversità dei sistemi filosofici. Quando si riconosca filosoficamente che cosa è la verità e la filosofia, siffatta diversità come tale appare di significato ben diverso da quello implicito nell'opposizione astratta di verità ed errore. I chiarimenti che darò a questo riguardo ci schiuderanno il significato dell'intera storia della filosofia. Mi propongo infatti di dimostrare come la varietà delle molte filosofie non soltanto non rechi alcun pregiudizio alla filosofia medesima, alla possibilità della filosofia, ma anzi sia e sia stata assolutamente necessaria perché possa esistere la scienza della filosofia; essa le è essenziale.
Certamente in quest'investigazione noi presupponiamo che la filosofia abbia lo scopo, pensando la verità, d’intenderla concettualmente, e non già di riconoscere che non v'è niente da conoscere, o almeno che non si può riconoscere la verità vera, sebbene soltanto una verità temporanea, finita (cioè una verità, che nel tempo stesso è anche una non verità); presupponiamo, inoltre, che nella storia della filosofia abbiamo che fare con la filosofia. I fatti che ricorrono nella storia della filosofia non sono avventure, allo stesso modo che la storia universale non è un romanzo; essi non sono una collezione d'eventi accidentali, non sono peregrinazioni di cavalieri erranti, che vadano attorno per proprio conto, affaticandosi senza scopo, e scomparendo poi senza lasciare alcuna traccia della loro azione. Né è vero che in questo campo uno si sia ad arbitrio immaginato una cosa, un altro un'altra; ché anzi nel movimento dello spirito pensante vi è continuità essenziale, e si procede razionalmente. Con questa fede nello spirito del mondo dobbiamo accostarci alla storia e particolarmente alla storia della filosofia.
G. W. Friedrich Hegel
SCIENZA DELLA LOGICA
DETERMINATEZZA
L'essere è l'Immediato indeterminato. Esso è scevro della determinatezza rispetto all'essenza, com'è ancora scevro da ogni altra determinatezza che possa conseguire dentro se stesso. Questo essere irriflesso è l'essere com'è immediatamente soltanto in lui stesso.
Essendo indeterminato, è un essere privo di qualità; ma in sé il carattere dell'indeterminatezza non gli com¬pete che per contrapposto al determinato, ossia al quali¬tativo. Ora all'esser in generale viene a contrapporsi l'essere determinato come tale, ma con questo è la sua indeterminatezza stessa, quella che costituisce la sua qualità. Si mostrerà quindi che il primo essere è un essere in sé determinato, e che per ciò in secondo luogo, passa nell'esser determinato, è esser determinato; ma che questo, come essere finito, si toglie, e nell'infinito riferirsi dell'essere a se stesso, passa, in terzo luogo, nell'esser per sé.
A. ESSERE
Essere, puro essere, – senza nessun'altra determina¬zione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è simile soltanto a se stesso, ed anche non dissimile di fronte ad altro; non ha alcuna diversità né dentro di sé, né all'esterno. Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso in lui, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro, l'essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Esso è la pura indeterminatezza e il puro vuoto. – Nell'essere non v'è nulla da intuire, se qui si può parlar d'intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pen¬sare, ovvero l'essere non è, anche qui, che questo vuoto pensare. L'essere, l'indeterminato Immediato, nel fatto è nulla, né più né meno che nulla.
B. NULLA
Nulla, il puro nulla. È semplice somiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di conte¬nuto; indistinzione in se stesso. – Per quanto si può qui parlare di un intuire o di un pensare, si considera come differente, che s'intuisca o si pensi qualcosa oppur nulla. Intuire o pensar nulla, ha dunque un significato. I due si distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire e pensare, quel medesimo vuoto intuire e pen¬sare ch'era il puro essere. Il nulla è così la stessa determinazione o meglio assenza di determinazione, ep¬però in generale lo stesso, che il puro essere.
C. DIVENIRE
Unità di essere e nulla
Il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso. Il vero non è né l'essere né il nulla, ma che l'essere, – non passa, – ma è passato, nel nulla, e il nulla nell'essere. In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi ch'essi non sono lo stesso, ch'essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche inseparati e inseparabili, e che immedia¬tamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell'essere e del nulla è pertanto questo movi¬mento consistente nell'immediato sparire dell'uno di essi nell'altro: il divenire; movimento in cui l'essere e il nulla sono differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risoluta.
Nota
Il nulla si suole contrapporre al qualcosa. Ma qual¬cosa è già un ente determinato, che si distingue da un altro qualcosa, e così anche il nulla contrapposto al qualcosa è il nulla di un certo qualcosa, un nulla deter¬minato. Qui però il nulla è da intendere nella sua inde¬terminata semplicità. – Quando si volesse riguardar come più esatto di contrapporre all'essere il non essere, invece che il nulla, non vi sarebbe niente da dire in contrario, quanto al risultato, poiché nel non essere è contenuto il riferimento all'essere; il non essere è tutti e due, l'essere e la sua negazione, espressi in uno, il nulla, com'è nel divenire. Ma da principio non si tratta della forma dell'opposizione, cioè in pari tempo del riferimento; si tratta soltanto della negazione astratta, immediata, del nulla preso puramente per sé, della nega¬zione irrelativa, – ciò che, volendo, si potrebbe anche esprimere per mezzo del semplice: Non.
Furono gli Eleati i primi ad enunciare il semplice pensiero del puro essere, soprattutto Parmenide, che lo enunciò come l'Assoluto e come l'unica verità, e ciò, nei frammenti di lui rimastici, col puro entusiasmo del pen¬siero, che per la prima volta si afferra nella sua assoluta astrazione: soltanto l'essere è, e il nulla non è punto. –Nei sistemi orientali, essenzialmente nel Buddismo, il principio assoluto è, com'è noto, il nulla, il vuoto. – Contro cotesta semplice ed unilaterale astrazione il pro¬fondo Eraclito mise in rilievo il più alto concetto totale del divenire, e disse: L'essere è tanto poco, quanto il nulla, o anche: Tutto scorre, cioè tutto è divenire. –Le sentenze popolari, specialmente orientali, che tutto quel che è abbia nella sua nascita stessa il germe del suo perire, e che viceversa la morte sia l'ingresso in una nuova vita, esprimono in sostanza cotesta medesima unione dell'essere col nulla. Ma queste espressioni hanno un substrato, in cui avviene il passaggio; l'essere e il nulla vengono tenuti separati uno dall'altro nel tempo, vengono immaginati come avvicendantisi in esso, non già pensati nella loro astrazione, epperciò nemmeno pen¬sati come tali che siano in sé e per sé lo stesso.
Ex nihilo nihil fit – è una delle proposizioni a cui in metafisica venne attribuita una grande importanza. Ma o in questa proposizione non v'è da veder altro che la vana tautologia che nulla è nulla, oppure, se il dive¬nire vi deve avere un significato reale, non vi è anzi in essa alcun effettivo divenire, giacché in quanto per quella proposizione da nulla viene soltanto nulla, il nulla vi rimane nulla. Il divenire importa che il nulla non resti nulla, ma passi nel suo altro, nell'essere. – Quando la metafisica posteriore, soprattutto la cristiana, rigettò la proposizione che dal nulla venisse nulla, essa affermò un passaggio dal nulla nell'essere. Per quanto, ora, questa proposizione fosse da lei presa sinteticamente o in guisa semplicemente rappresentativa, pur nondimeno anche nella più imperfetta unione è contenuto un punto in cui l'essere e il nulla coincidono, e la differenza loro spari¬sce. – La vera e propria importanza della proposizione: Dal nulla non viene nulla, il nulla è appunto nulla, sta nell'opposizione sua contro il divenire in generale e con ciò anche contro la creazione del mondo dal nulla. Coloro, che vanno fino a riscaldarsi per affermar la proposizione che il nulla è appunto nulla, non si accor¬gono che con ciò aderiscono all'astratto panteismo degli Eleati, e, sostanzialmente, anche a quello spinozistico. La veduta filosofica, per cui vale come un principio che l'essere è soltanto essere e il nulla soltanto nulla, merita il nome di sistema dell'identità. Questa identità astratta è l'essenza del panteismo.
Se questo resultato, che l'essere e il nulla sono lo stesso, riesce di per sé sorprendente o sembra un para¬dosso, non v'è da farne gran caso. Vi sarebbe piuttosto da meravigliarsi di quella meraviglia, che si mostra così nuova nella filosofia, dimenticando che in questa scienza si presentano determinazioni affatto diverse che non nella coscienza ordinaria e nel cosiddetto senso comune, il quale non è precisamente il buon senso, ma anche l'intelletto rivolto alle astrazioni e alla fede (o meglio, alla superstizione) verso di esse. Non sarebbe difficile di mostrar questa unità dell'essere col nulla in ogni esempio, in ogni realtà o pensiero. Dell'essere e del nulla è il caso di dir lo stesso che dianzi fu detto dell'immediatezza e della mediazione (la quale ultima importa il riferirsi di uno a un altro, epperò una negazione), che cioè in nessun luogo, né in cielo né in terra v'è qual¬cosa che non contenga in sé tanto l'essere quanto il nulla. Senza dubbio, in quanto qui si parla di un certo qualcosa e di un certo reale, quelle determinazioni non si trovan più nella lor completa non verità, in cui stanno come essere e come nulla, ma vi si trovano in una deter¬minazione ulteriore, e intese p. es. come positivo e negativo, diventano, quello, il posto, riflesso essere, que¬sto il posto, riflesso nulla; ma il positivo e il negativo contengono, il primo l'essere, il secondo il nulla, come loro base astratta. – Così perfino in Dio la qualità, cioè l'attività, la creazione, la potenza etc., contiene essen¬zialmente la determinazione del negativo; coteste qua¬lità consistono nella produzione di un altro. Ma una spiegazione empirica di quell'affermazione, per mezzo di esempi, sarebbe qui intieramente superflua. Poiché questa unità di essere e nulla sta ormai una volta per sempre per base qual verità prima, costituendo l'elemento di tutto quel che segue, tutte le ulteriori determinazioni logiche (senza contare il divenire stesso), l'esser determi¬nato, la qualità, e in generale tutti i concetti della filo¬sofia, sono esempi di essa unità. È invece il sedicente senso comune o buon senso, quello che, giacché rigetta l'inseparabilità dell'essere e del nulla, potrebb'essere invi¬tato a scoprire un esempio in cui si trovino separati (separato p. es. qualcosa dal suo termine o limite, oppure l'infinito, Dio – come dianzi fu detto – dall'attività). Soltanto quei vuoti « enti di ragione » stessi, l'essere e il nulla, sono questi separati, e sono appunto essi, che quel senso comune o buon senso preferisce alla verità, all'inseparabilità loro, che per ogni dove ci è innanzi.
Non si può avere in mente di ovviar da ogni parte alle confusioni, in cui s'imbatte la coscienza ordinaria a proposito di cotesta proposizione logica. Sono infatti inesauribili. Se ne posson solo menzionare alcune. Una delle ragioni di tal confusione, fra le altre, è che la coscienza porta seco, nella considerazione di cotest'astratta proposizione logica, le rappresentazioni (li un qualcosa concreto, dimenticando che non si parla di un tal qual¬cosa, ma unicamente delle pure astrazioni dell'essere e del nulla, e che queste sole bisogna fissare.
Essere e non essere sono lo stesso; dunque è lo stesso che io sia o non sia, che questa casa sia e non sia, che questi cento talleri siano, o non siano, nel mio patrimonio. Questa conclusione o applicazione di quella proposizione ne cambia completamente il senso. La pro¬posizione contiene le pure astrazioni dell'essere e del nulla; l'applicazione invece ne fa un determinato essere e un determinato nulla. Ma, come si è detto, qui non si parla di un essere determinato. Un essere determinato, finito, è un essere che si riferisce ad altro; è un conte¬nuto che sta in un rapporto di necessità con un altro contenuto, col mondo intiero. Riguardo alla reciproca dipendenza dell'insieme la metafisica poté giungere alla affermazione (sostanzialmente tautologica) che se venisse distrutto un granello di polvere, rovinerebbe l'intiero universo. Se nelle istanze, che vengono fatte contro la proposizione in questione, qualcosa non si mostra indif¬ferente, quanto al suo essere o non essere, ciò non è già a cagione dell'essere o non essere, ma a cagione del contenuto di cotesto qualcosa, per cui viene a connet¬tersi con un altro qualcosa. Quando si presuppone un contenuto determinato, un qualche determinato esistere, questo esistere, essendo determinato, sta in una molte¬plice relazione verso un altro contenuto. Per quell'esi¬stere non è allora indifferente che un certo altro conte¬nuto, con cui sta in relazione, sia o non sia, perocché solo per via di tal relazione esso è essenzialmente quello che è. Lo stesso accade nel rappresentarsi (in quanto prendiamo il non essere nel senso più determinato del rappresentarsi come opposto della realtà). Nel contesto delle rappresentazioni, l'essere o l'assenza di un conte¬nuto, che viene immaginato come tale che stia in una determinata relazione verso altro, non è indifferente.
Questa considerazione contiene quello stesso, che è un momento capitale nella critica kantiana della prova ontologica dell'esistenza di Dio, critica a cui però qui non si guarda se non per ciò che si riferisce alla diffe¬renza, che vi si presenta, fra l'essere e il nulla in gene¬rale, e l'essere o il non essere determinati. E noto che in quella cosiddetta prova si presupponeva il concetto di un'essenza cui convenissero tutte le realtà, epperò anche l'esistenza, che veniva parimenti ammessa come una delle realtà. La critica kantiana si attaccava princi¬palmente a questo, che l'esistenza o l'essere (che qui si prendono per equivalenti) non sia affatto una proprietà o un predicato reale, non sia cioè un concetto di qual¬cosa, che possa aggiungersi al concetto di una cosa. Con questo Kant vuol dire che l'essere non è una determinazione di contenuto. Dunque il reale, continua Kant, non contiene più che il possibile; cento talleri reali non contengono nulla più che cento possibili; vale a dire che quelli non hanno nessuna determinazione di contenuto in più di questi. Per un simile contenuto considerato isolatamente è infatti indifferente di essere o non essere. In esso non sta alcuna differenza dell'essere o del non essere; questa differenza non tocca punto, in generale, quel contenuto. I cento talleri non diventano meno, quando non siano, e non diventano più, quando siano. La diffe¬renza non può venire che da un'altra parte. «All'incontro, rammenta Kant, nel mio patrimonio v'è più con cento talleri reali, che col loro semplice concetto, o colla loro possibilità. Perocché, trattandosi della realtà, l'og¬getto non è soltanto contenuto analiticamente nel mio concetto, ma si aggiunge sinteticamente al mio concetto (che è una determinazione del mio stato), senza che per questo essere fuor del mio concetto, questi stessi cento talleri pensati si trovino minimamente aumentati.»
Si presuppongono qui due sorta di stati (per non scostarci dalle espressioni kantiane, che non sono senza una certa imbrogliata goffaggine); l'uno, quello che Kant chiama il concetto, per cui è da intendere la rappresen¬tazione, e l'altro, lo stato patrimoniale. Per l'uno come per l'altro, per il patrimonio come per la rappresenta¬zione, cento talleri sono una determinazione di conte¬nuto, ossia, come si esprime Kant, « vi si aggiungono sinteticamente ». Io come possessore di cento talleri, o come non possessore di essi, oppure anche io in quanto mi rappresento cento talleri, o in quanto non me li rappresento, sono senza dubbio un contenuto diverso. Prendendo la cosa più generalmente: le astrazioni dell'essere e del nulla cessano tutte e due di essere astra¬zioni, in quanto acquistano un contenuto determinato; l'essere è allora realtà, il determinato essere di cento talleri, e il nulla è negazione, il determinato non essere di cotesti talleri. Questa determinazione di contenuto stessa, i cento talleri, presa astrattamente per sé, è invariatamente nell'uno quel medesimo che è nell'altro. Ma in quanto l'essere si prende poi come uno stato patri¬moniale, i cento talleri vengono a trovarsi in relazione con uno stato, e per questo stato una determinatezza tale, qual essi sono, non è indifferente. Il loro essere o non essere non è che mutamento; essi sono stati tra¬sportati nella sfera dell'esser determinato. Quando per¬tanto contro l'unità dell'essere e del nulla si adduce che non è pur nondimeno indifferente, che questo o quello (i cento talleri) sia o non sia, è un'illusione che questa differenza, che io abbia i cento talleri o non li abbia, noi la rimandiamo sèmplicemente all'essere e non essere – una illusione, la quale, come si è mostrato, è basata sulla unilaterale astrazione che tralascia il determinato esserci, presente in tali esempi, e si attiene semplice¬mente all'essere e non essere, come viceversa cambia quell'astratto essere e nulla, che si tratta d'intendere, in un essere e nulla determinato, ossia in un esserci. Sol¬tanto l'esserci contiene la differenza reale dell'essere e del non essere, vale a dire un qualcosa e un altro. È questa differenza reale che sta dinanzi alla rappresen¬tazione, e non già l'astratto essere e il puro nulla, colla loro differenza semplicemente presunta.
Come Kant si esprime, « per mezzo dell'esistenza » entra « qualcosa nel contesto dell'intiera esperienza », « la nostra percezione acquista con ciò un oggetto di più, ma il nostro concetto dell'oggetto non è con ciò accresciuto ». Ciò vuol dire, come risulta dalle spiega¬zioni date, che per mezzo dell'esistenza, essenzialmente per ciò che qualcosa è una esistenza determinata, esso si trova connesso con altro, e fra l'altro anche con un percipiente. – Il concetto dei cento talleri, dice Kant, non viene accresciuto per il fatto che siano percepiti. Concetto significa qui i già accennati cento talleri quali oggetto di rappresentazione isolata. Ora isolati a questo modo, i cento talleri son certo un contenuto empirico, ma tagliato fuori, senza connessione e senza determi¬natezza contro altro; la forma dell'identità con sé toglie loro la relazione ad altro, e li rende indifferenti ad esser percepiti, o no. Se non che questo cosiddetto concetto dei cento talleri è un falso concetto. La forma della semplice relazione a sé non appartiene essa stessa a un tal contenuto limitato, finito, ma è una forma di cui esso è rivestito e che gli viene prestata dall'intelletto soggettivo. Cento talleri non sono nulla che si riferisca a sé, ma sono un mutevole e un transitorio.
Il pensiero o la rappresentazione, cui non sta innanzi altro che un essere determinato, l'esserci o l'esistere, è da rimandare al già menzionato cominciamento della scienza, compiuto da Parmenide, il quale chiarificò ed elevò il suo rappresentarsi (epperò anche il rappresen¬tarsi di tutti i tempi che vennero poi) fino al puro pensiero, all'essere come tale, col che creò l'elemento della scienza. Quello che è il primo nella scienza, si dovette mostrare storicamente come il primo. E come primo del sapere del pensiero dobbiamo noi riguardare l'uno o l'essere eleatici. L'acqua ed altri simili principii materiali debbono bensì esser l'universale, ma, essendo materia, non sono puri pensieri. I numeri non sono né il primo semplice pensiero, né il pensiero che resta presso di sé, ma anzi il pensiero che è affatto esterno a se stesso.
Il rinvio dall'essere particolare finito all'essere come tale nella sua universalità affatto astratta è da riguar¬dare non solo come la prima esigenza teoretica, ma anche come la prima esigenza pratica. Quando cioè si tolga, a proposito dei cento talleri, che faccia una dif¬ferenza nel mio patrimonio di averli o non averli, anzi perfino che io sia o non sia, che qualcos'altro sia o no, allora (senza contare che vi saranno patrimonii, per cui un tal possesso di cento talleri sarà indifferente) si può rammentare, che l'uomo si deve innalzare nell'animo suo a quest'astratta universalità, nella quale non solo gli sia di fatto indifferente che i cento talleri (qualunque rapporto quantitativo abbiano essi rispetto al suo patri¬monio) siano o non siano, ma gli sia anche indifferente ch'egli sia o no, sia cioè o non sia nella vita finita (poiché s'intende uno stato, un essere determinato) etc. Anche si fractus illabatur orbis, impavidum ferient ruinae, disse un Romano. Ed il cristiano ancora di più si deve trovare in questa indifferenza.
È ancora da notare il legame immediato in cui sta l'elevamento al di sopra dei cento talleri e delle cose finite in generale, colla prova ontologica e con l'addotta critica kantiana di essa. Questa critica si è resa general¬mente plausibile a cagione del suo esempio popolare. Chi non sa che cento talleri reali sono diversi da cento talleri semplicemente possibili? ch'essi costituiscono una diffe¬renza nel mio patrimonio? Poiché questa diversità si mostra così facilmente nei cento talleri, il concetto (cioè la determinatezza del contenuto come vuota possibilità) e l'essere sono diversi uno dall'altro. Dunque anche il concetto di Dio è diverso dal suo essere, e come dalla possibilità dei cento talleri io non posso produrre la loro realtà, così dal concetto di Dio non posso « scernere e cavar fuori » la sua esistenza, mentre in questo scer¬nere e cavar fuori l'esistenza di Dio dal suo concetto ha da consistere la prova ontologica. Ora se è ad ogni modo esatto che il concetto è diverso dall'essere, Dio è però ancora più diverso dai cento talleri e dalle altre cose finite. È la definizione delle cose finite, che in esse concetto ed essere siano diversi, che concetto e realtà, anima e corpo, siano separabili, e che perciò coteste cose siano transitorie e mortali. L'astratta definizione di Dio, all'incontro, sta appunto in questo, che il suo concetto e il suo essere sono inseparati e inseparabili. La vera critica delle categorie e della ragione è appunto questa, d'istruire il conoscere intorno a questa differenza, e d'impedirgli di applicare a Dio le determinazioni e i rapporti del finito.
Hegel, Scienza della logica, vol 1, lib 1, sez 1, cap 1
G. W. Friedrich Hegel
FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza: signoria e servitù
L’autocoscienza è in e per sé in quanto e perché essa è in e per sé per un'altra; ossia essa è soltanto come un qualcosa di riconosciuto. Il concetto di questa sua unità nella sua duplicazione, ossia il concetto dell’infinità realizzantesi nell'autocoscienza, è un intrec¬cio multilaterale e polisenso; e così i momenti di siffatto intreccio debbono in parte venir tenuti rigorosamente gli uni fuori degli altri, in parte, in questa distinzione, venire in pari tempo anche presi e conosciuti come non distinti, ossia debbon venir presi sempre e riconosciuti nel loro significato opposto. Il doppiosenso del distinto sta nell'essenza dell'autocoscienza, essenza per cui l'auto¬coscienza è infinitamente e immediatamente il contra¬rio della determinatezza nella quale è posta. L'estrin¬secazione del concetto di questa unità spirituale nella sua duplicazione ci presenta il movimento del rico¬noscer.
[L’autocoscienza duplicata]. – Per l’autocoscienza c’è un’altra autocoscienza; essa è uscita fuori di sé. Ciò ha un duplice significato: in primo luogo l’auto¬coscienza ha smarrito se stessa perché ritrova se stessa come una essenza diversa; in secondo luogo essa così ha superato l’altro, perché non vede anche l’altro come essenza, ma nell’altro vede se stessa.
Essa deve togliere questo suo esseraltro; ciò è il to¬gliere del primo doppiosenso, ed è perciò di nuovo un secondo doppiosenso; in primo luogo la coscienza deve procedere a togliere l’altra essenza indipendente e, me¬diante ciò, a divenir certa di se stessa come essenza; in secondo luogo provvede con ciò a toglier se stessa, perché questo altro è lei stessa.
Questo togliere in doppio senso questo esseraltro in doppio senso, è altrettanto un ritorno in doppio senso in se stessa; ché, in primo luogo, essa, mediante il to¬gliere, riottiene se stessa, perché diviene ancora eguale a se stessa mediante il togliere del suo esseraltro; ma, in secondo luogo, restituisce di nuovo a lei stessa anche l’altra autocoscienza, perché era a se stessa nell’altro; nell’altro toglie questo suo essere, e quindi rende di nuovo libero l’altro.
Ma in questa guisa tale movimento dell'autocoscienza nel rapporto con un'altra autocoscienza è stato pre¬sentato come l'operare dell'una; ma anche questo operare dell'una ha il duplice significato di essere il suo operare non meno dell'operare dell'altra; l'altra è infatti altrettanto indipendente e conchiusa in se stessa; nulla è in lei che non sia mediante lei stessa. La prima autocoscienza non ha l'oggetto di fronte a sé, com'esso sul principio è solo per l'appetito; anzi ora l'oggetto è un oggetto capace di essere per sé e indipendente; né l'autocoscienza è in grado di disporre per sé di esso, se esso stesso non opera in se stesso ciò ch'essa opera in lui. Il movimento è dunque senz'altro il movimento duplice di entrambe le autocoscienze. Ciascuna vede l'altra fare proprio ciò ch'essa stessa fa; ciascuna fa da sé ciò che esige dall'altra; e quindi fa ciò che fa, soltanto in quanto anche l'altra fa lo stesso; l'operare unilaterale sarebbe vano, giacché ciò che deve accadere può venire attuato solo per opera di entrambe.
L'operare non ha dunque un duplice senso solo in quanto esso è un operare sia rispetto a sé, sia rispetto all’Altro; ma lo è anche perché è inseparatamente l’operare tanto dell’Uno quanto dell’Altro.
In questo movimento noi vediamo ripetersi quel processo che si presentò come gioco delle forze, ma nella coscienza. Ciò che in esso era per noi, ora è pro¬prio per gli estremi stessi. Il medio è l'autocoscienza che si scompone negli estremi, e ciascun estremo è questa permutazione della sua determinatezza, ed è assoluto passaggio nell'estremo opposto. Ma come co¬scienza, ciascun estremo esce bensì fuori di sé; non di meno nel suo esser fuori di sé è in pari tempo tratte¬nuto in se stesso, è per sé, e il suo fuoridisé è per esso. E per esso di essere o di non essere immediatamente altra coscienza; ed è altrettanto per esso che quest'altra coscienza sia sol per sé, giacché essa togliesi come qual¬cosa che è per sé, ed è per sé solo nell'esserpersé del¬l'altra. Ciascun estremo rispetto all'altro è il medio, per cui ciascun estremo si media e conchiude con se stesso; e ciascuno è rispetto a sé e all'altro un'imme¬diata essenza che è per sé, la quale in pari tempo è per sé solo attraverso questa mediazione. Essi si rico¬noscono come reciprocamente riconoscentisi. È ora da considerare questo puro concetto del rico¬noscere, della duplicazione dell'autocoscienza nella sua unità; è da considerare, cioè, come il suo processo ap¬paia per l'autocoscienza. Esso presenterà da prima il lato dell'ineguaglianza di ambedue le autocoscienze; o presenterà l'insinuarsi del medio negli estremi, il quale medio, in quanto estremi, è opposto a sé: l'un estremo è solo ciò che è riconosciuto, mentre l'altro è solo ciò che riconosce.
[La contesa delle autocoscienze opposte]. – Dapprima l’autocoscienza è semplice esserpersé, è eguale a se stessa, perché esclude da sé ogni alterità; a lei sua essenza e suo assoluto oggetto è l’Io; ed essa in questa immediatezza o in questo essere del suo esserpersé è qualcosa di singolo. Ciò che per lei è un altro, lo è come oggetto inessenziale, segnato col carattere del negativo. Ma l’altro è anch’esso un’autocoscienza; un individuo sorge di fronte a un individuo. In questa posizione immediata gli individui sono l’un per l’altro a guisa di oggetti qualunque; sono formazioni indipendenti e, dacché l’oggetto essente si è qui determinato come vita, sono coscienze calate nell’essere della vita, le quali non hanno ancora compiuto l’una per l’altra il movimento dell’assoluta astrazione, consistente nel sopprimere ogni immediato, e nell’essere soltanto l’essere puramente negativo della coscienza eguale a se stessa; ossia son coscienze le quali non si sono ancora presentate reciprocamente come puro esserpersé, vale a dire come autocoscienze. Ciascuna è bensì certa di se stessa, non però dell’altra; e quindi la sua propria certezza di sé non ha ancora verità alcuna, perchè di una sua verità si potrebbe parlare qualora il suo proprio esserpersé le si fosse presentato come oggetto indipendente, o, ciò che è lo stesso, l’oggetto si fosse presentato come pura certezza di se stesso. Ma, secondo il concetto del riconoscere, ciò non è possibile se non in quanto, come l'altro oggetto per il primo, così il primo per l'altro compia in se stesso questa pura astrazione dell'esserpersé mediante l'operare proprio, e, di nuovo, mediante l'operare dell'altro.
Ma la presentazione di sé come pura astrazione del¬l’autocoscienza consiste nel mostrare sé come pura ne¬gazione della sua guisa oggettiva, o nel mostrare di non essere attaccato né a un qualche preciso esserci, né all'universale singolarità dell'esserci in generale, e nep¬pure alla vita. Tale presentazione è l'operare duplicato: l'operare dell'altro e l'operare mediante se stesso. Fin¬ché si tratta dell'operare dell'altro, ognuno mira alla morte dell'altro. Ma così è già presente anche il se¬condo operare, l'operare mediante se stesso; quell'ope¬rare dell'altro, infatti, implica il rischiare in sé la pro¬pria vita. La relazione di ambedue le autocoscienze è dunque così costituita ch'esse danno prova reciproca di se stesse attraverso la lotta per la vita e per la morte. – Esse debbono affrontare questa lotta, perché deb¬bono, nell'altro e in se stesse, elevare a verità la cer¬tezza loro di esser per sé. E soltanto mettendo in gioco la vita si conserva la libertà, si dà la prova che all'auto¬coscienza essenza non è l'essere, non il modo immediato nel quale l’autoscienza sorge, non l'esser calato di essa nell'espansione della vita: – si prova anzi che nel¬l’autocoscienza niente è per lei presente, che non sia un momento dileguante, e ch'essa è soltanto puro esser¬persé. L'individuo che non ha messo a repentaglio la, vita, può ben venir riconosciuto come persona; ma non ha raggiunto la verità di questo riconoscimento come riconoscimento di autocoscienza indipendente. Similmente ogni individuo deve aver di mira la morte del¬l'Altro, quando arrischia la propria vita, perché per lui l'Altro non vale più come lui stesso; la sua essenza gli si presenta come un Altro; esso è fuori di sé, e deve togliere il suo esserfuoridisé; l'Altro è una coscienza in verio modo impigliata che vive nell'elemento dell'es¬sere; ed esso deve intuire il suo esseraltro come puro esserpersé o come assoluta negazione.
Ma questa prova attraverso la morte toglie e la verità che ne doveva scaturire, e, insieme, anche la certezza di se stesso in generale; infatti, come la vita è la posizione naturale della coscienza, l’indipendenza senza l’assoluta negatività, così la morte è la negazione naturale della coscienza medesima, la negazione senza l’indipendenza, negazione che dunque rimane priva del richiesto significato del riconoscere. Mediante la morte si è bensì formata la certezza che ambedue, mettendo a repentaglio la loro vita, la tenevano in non cale in loro e nell’altro; ma tale certezza non si è formata per quelli che sostennero questa lotta. Essi superano la coscienza loro posta in quell’essenza estranea che è l’esserci naturale; ovvero superano se stessi e vengono superati come gli estremi che vogliono essere per sé. Ma così dal gioco dello scambio dilegua il momento essenziale: quello di scomporsi in estremi con determi¬natezze opposte. E il medio coincide con una unità morta, scomposta in morti estremi, i quali sono estremi meramente essenti, e non già opposti; e ambedue non sanno né abbandonarsi né riceversi reciprocamente e vicendevolmente mediante la coscienza; ma si conce¬dono a vicenda una libertà fatta soltanto d'indiffe¬renza, quasi fossero delle cose. L'opera loro è la nega¬zione astratta; non la negazione della coscienza che supera in modo da conservare e tenere il superato, e con ciò sopravvivere al suo venirsuperato.
In questa esperienza si fa [chiaro] all'autoscienza che a lei la vita è così essenziale, come lo è l'autocoscienza pura. Nell'autocoscienza immediata l'Io semplice è l'og¬getto assoluto, che peraltro per noi o in sé è l'assoluta mediazione, e ha per momento essenziale l'indipendenza sussistente. Resultato della prima esperienza è la ri¬soluzione di quell'unità semplice; mediante quell'espe¬rienza son poste un'autocoscienza pura e una coscienza la quale non è pura per se stessa, ma per un altro: vale a dire che è come coscienza nell'elemento dell'essere o nella figura della cosalità. Entrambi i momenti sono essenziali; poiché da prima essi sono ineguali ed opposti, e la loro riflessione nell'unità non è ancora risul¬tata, essi sono come due opposte figure della coscienza: l'una è la coscienza indipendente alla quale è essenza l'esserpersé; l'altra è la coscienza dipendente alla quale è essenza la vita o l'essere per un altro; l'uno è il signore, l'altro il servo.
[Il signore e il servo. La signoria]. – Il signore è la coscienza che è per sé; ma non più soltanto il con¬cetto della coscienza per sé, anzi coscienza che è per sé, la quale è mediata con sé da un'altra coscienza, cioè da una coscienza tale, alla cui essenza appartiene di essere sintetizzata con un essere indipendente o con la cosalità in genere. Il signore si rapporta a questi due momenti: a una cosa come tale, all'oggetto, cioè, del¬l'appetito; e alla coscienza cui l'essenziale è la cosa¬lità; e mentre egli a) come concetto dell'autocoscienza è immediato rapporto dell'esserpersé, pur essendo in pari tempo b) come mediazione o come un esserpersé che è per sé soltanto mediante un altro, si rapporta a) immediatamente ad ambedue, e b) mediatamente a cia¬scheduno mediante l'altro. Il signore si rapporta al servo in guisa mediata attraverso l'indipendente essere, ché proprio a questo è legato il servo; questa è la sua ca¬tena, dalla quale egli non poteva astrarre nella lotta; e perciò si mostrò dipendente, avendo egli la sua indi¬pendenza nella cosalità. Ma il signore è la potenza che sovrasta a questo essere; giacché egli nella lotta mo¬stra infatti che questo essere gli valeva soltanto come un negativo; siccome il signore è la potenza che domina l'essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sul¬l'altro individuo, così, in questa disposizione sillogi¬stica, il signore ha sotto di sé questo altro individuo. Parimente, il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo; anche il servo, in quanto autocoscienza in genere, si riferisce negativamente alla cosa e la toglie; ma per lui la cosa è in pari tempo in¬dipendente; epperò, col suo negarla, non potrà mai distruggerla completamente; ossia il servo col suo la¬voro non fa che trasformarla. Invece, per tale mediazione, il rapporto immediato diviene al signore la pura negazione della cosa stessa: ossia il godimento; ciò che non riuscì all'appetito, riesce a quest'atto del godere: esaurire la cosa e acquetarsi nel godimento. Non poté riuscire all'appetito per l'indipendenza della cosa; ma il signore che ha introdotto il servo tra la cosa e se stesso, si conchiude così soltanto con la dipendenza della cosa, e puramente la gode; peraltro il lato dell'indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora.
In questi due momenti per il signore si viene at¬tuando il suo esserriconosciuto da un'altra coscienza; questa infatti si pone in essi momenti come qualcosa di inessenziale; si pone una volta nell'elaborazione della cosa, e l'altra volta nella dipendenza da un determi¬nato esserci; in entrambi i momenti quella coscienza non può padroneggiare l'essere e arrivare alla nega¬zione assoluta. Qui è dunque presente il momento del riconoscere per cui l'altra coscienza, togliendosi come esserpersé, fa ciò stesso che la prima fa verso di lei; ed è similmente presente l'altro momento, che l'ope¬rare della seconda coscienza è l'operare proprio della prima; perché ciò che fa il servo è propriamente il fare del padrone; a quest'ultimo è soltanto l'esserpersé, è soltanto l'essenza; egli è la pura potenza negativa cui la cosa non è niente; ed è dunque il puro, essen¬ziale operare in questa relazione; il servo peraltro non è un operare puro, sì bene un operare inessenziale. Ma al vero e proprio riconoscere manca il momento per quale ciò che il signore fa verso l’altro individuo lo fa anche verso se stesso, e pel quale ciò che il servo fa verso di sé lo fa verso l’altro. Col che si è prodotto un riconoscere unilaterale e ineguale.
La coscienza inessenziale è quindi per il signore l’oggetto costituente la verità della certezza di se stesso. E’ chiaro però che tale oggetto non corrisponde al suo concetto; è anzi chiaro che proprio là dove il signore ha trovato il suo compimento, gli è divenuta tutt’altra cosa che una coscienza indipendente; indipendente; non una tale co¬scienza è per lui, ma piuttosto una coscienza dipendente; egli non è dunque certo dell'esserpersé come verità, anzi la sua verità è piuttosto la coscienza inessenziale e l'inessenziale operare di essa medesima.
La verità della coscienza indipendente è, di conseguenza, la coscienza servile. Questa da prima appare bensì fuori di sé e non come la verità dell'autocoscienza. Ma come la signoria mostrava che la propria essenza è l'inverso di ciò che la signoria stessa vuol essere, così la servitù nel proprio compimento diventerà piuttosto il contrario di ciò ch'essa è immediatamente; essa andrà in se stessa come coscienza riconcentrata in sé, e si volgerà nell'indipendenza vera.
[La paura]. – Noi abbiamo veduto soltanto ciò che la servitù è nel comportamento della signoria. Ma poiché la servitù è autocoscienza, devesi allora conside¬rare ciò ch'essa è in sé e per sé. Da prima per la servitù l'essenza è il signore; e quindi la verità le è la coscienza indipendente che è per sé, verità tuttavia che per essa servitù non è ancora in lei medesima. Solo, essa in effetto ha in lei stessa questa verità della pura negati¬vità e dell'esserpersé, avendo in sé sperimentato una tale essenza. Vale a dire, tale coscienza non è stata in ansia per questa o quella cosa e neppure durante questo o quell'istante, bensì per l'intiera sua essenza; essa ha infatti sentito paura della morte, signora assoluta. E’ stata, così, intimamente dissolta, ha tremato nel profondo di sé, e ciò che in essa v’era di fisso ha vacillato. Ma tale puro e universale movimento, tale assoluto fluidificarsi di ogni momento sussistente, è l’essenza semplice dell’autocoscienza, è l’assoluta negatività, il puro esserpersé che, dunque, è in [an] quella coscienza. Tale momento del puro esserpersé è anche per essa, che che signore tale momento è l’oggetto di questa coscienza. La quale inoltre non è l’oggetto di questa coscienza. La quale inoltre non è soltanto questa universale risoluzione in generale, ché, nel servire, essa la compie affettivamente; quivi essa toglie in tutti i singoli momenti la sua adesione all’esserci naturale e, col lavoro, lo trasvaluta ed elimina.
[Il formare o coltivare]. – Ma il sentimento della potenza assoluta in generale e, in particolare, quello del servizio è soltanto la risoluzione in sé; e sebbene la paura del signore sia l'inizio della sapienza, pure la coscienza è quivi per lei stessa, ma non è l'esserpersé; ma, mediante il lavoro, essa giunge a se stessa. Nel mo¬mento corrispondente all'appetito nella coscienza del signore, sembrava bensì che alla coscienza servile toc¬casse il lato del rapporto inessenziale verso la cosa, poiché quivi la cosa mantiene la sua indipendenza. L'appetito si è riservata la pura negazione dell'oggetto, e quindi l'intatto sentimento di se stesso. Ma tale appa¬gamento è esso stesso soltanto un dileguare, perché gli manca il lato oggettivo o il sussistere. Il lavoro,invece, è appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto; ovvero: il lavoro forma. Il rapporto negativo verso l'oggetto diventa forma dell'oggetto stesso, diventa qualcosa che permane; e ciò perché proprio a chi la¬vora l'oggetto ha indipendenza. Tale medio negativo o l'operare formativo costituiscono in pari tempo la singolarità o il puro esserpersé della coscienza che ora, nel lavoro, esce fuori di sé nell'elemento del permanere; così, quindi, la coscienza che lavora giunge all'intuizione dell'essere indipendente come di se stessa.
Tuttavia il formare non ha soltanto questo significato positivo, che cioè in esso la coscienza servile come puro esserpersé diventi a sé l'essente; ma ha anche il significato di contro al suo primo momento, la paura. Infatti, nel formare la cosa, la negatività propria di quella coscienza, il suo esserpersé, le diventa un og¬getto, sol perché essa toglie l'essente forma opposta. Ma tale negativo oggettivo è appunto l'essenza estranea, dinanzi alla quale la coscienza servile ha tremato. Ora peraltro essa distrugge questo negativo che le è estraneo; pone sé, come un tale negativo, nell'elemento del permanere e diviene così per se stessa un qualcosa che è per sé. Alla coscienza servile l'esserpersé che sta nel signore è un esserpersé diverso, ossia è solo per lei; nella paura l'esserpersé è in lei stessa; nel formare l'esserpersé diviene il suo proprio per lei, ed essa giunge alla consapevolezza di essere essa stessa in sé e per sé. Per il fatto di venire esteriorizzata, la forma alla coscienza servile non si fa un Altro da lei; ché proprio la forma è il suo puro esserpersé che quivi alla coscienza servile si fa verità. Così, proprio nel lavoro, dove sem¬brava ch'essa fosse un senso estraneo, la coscienza, me¬diante questo ritrovamento di se stessa attraverso se stessa, diviene senso proprio. – Per tale riflessione son necessari entrambi questi momenti: sia la paura e il servizio in generale, sia il formare; e necessari tutti e due in guisa universale. Senza la disciplina del ser¬vizio e dell'obbedienza la paura resta al lato formale e non si riversa sulla consaputa effettualità dell'esi¬stenza. Senza il formare la paura resta interiore e muta, e la coscienza non diviene coscienza per lei stessa. Se la coscienza forma senza quella prima paura assoluta, essa è soltanto un vano senso proprio; infatti la sua forma o negatività non è la negatività in s é; e quindi il suo for¬mare non può fornirle la consapevolezza di sé come essenza. Se la coscienza non si è temprata alla paura assoluta, ma soltanto alla sua particolare ansietà, allora l'essenza negativa le è restata solo qualcosa di esteriore, e la sua sostanza non è intimamente penetrata di tale essenza negativa. Siccome non ogni elemento ond’è riempita la sua coscienza naturale ha cominciato a vacillare, quella coscienza appartiene, in sé, ancora all'elemento dell'essere determinato: il senso proprio è pervicacia, libertà ancora irretita entro la servitù. Quanto meno a siffatto senso proprio la pura forma può diven¬tare l'essenza, tanto meno questa stessa pura forma, considerata come un espandersi oltre il singolo, può essere universale formare o coltivare, concetto assoluto; è invece soltanto un'abilità che ha potere sopra un singolo alcunché, ma non sopra l'universale potenza né sopra l'intera essenza oggettiva.
Ludwig Feuerbach
TESI PROVVISORIE PER UNA RIFORMA DELLA FILOSOFIA
Il segreto della teologia è antropologia, ma la teologia è il segreto della filosofia speculativa, e s’intende la teologia speculativa, vale a dire quella che si distingue dalla teologia comune per il fatto che colloca nell’al di qua, rendendolo presente e determinato e attuale, quell’essere divino che appunto la teologia comune ha per paura e per incomprensione relegato, lontano, nell’al di là. […]
La filosofia hegeliana è il superamento del contrasto tra pensiero ed essere, quale fu espresso in particolare da Kant; ma, si badi, è il superamento del contrasto nell’interno del contrasto stesso, cioè nell’interno d’uno dei due elementi, ossia del pensiero. In Hegel il pensiero è l’essere, o meglio, il pensiero è il soggetto, l’essere il predicato. […] chi non rinuncia alla filosofia di Hegel, non rinunzia neppure alla teologia. La dottrina hegeliana, secondo cui la natura, o la realtà, è posta dall’idea, non è altro che l’espressione in termini razionali della dottrina teologica, secondo cui la natura è creata da Dio, o l’essere materiale è creato da un essere immateriale, cioè astratto. Alla fine della Logica l’idea assoluta giunge ad una nebulosa “risoluzione”, quasi per documentare con le proprie mani che ha origine dal cielo teologico. La filosofia di Hegel è l’ultimo rifugio, l’ultimo sostegno razionale alla teologia. Come una volta i teologi cattolici diventarono de facto aristotelici per poter combattere il protestantesimo, così ora i teologi protestanti devono diventare de iure hegeliani per poter combattere l’ateismo.
Il vero rapporto tra pensiero ed essere non può essere che questo: l’essere è il soggetto, il pensiero è il predicato. Il pensiero dunque deriva dall’essere, ma non l’essere dal pensiero. L’essere è da se stesso e per opera di se stesso, l’essere viene dato soltanto per opera dell’essere, l’essere ha il suo fondamento in se stesso, perché soltanto l’essere è senso, ragione, necessità, verità, in breve è tutto in tutto. L’essere è, perché il nonessere cioè il nulla, è assurdo.
Tesi provvisorie per una riforma della filosofia, in Principi della filosofia dell’avvenire, Einaudi, 1979, pp. 49; 623.
PRINCIPI DELLA FILOSOFIA DELL’AVVENIRE
La nuova filosofia è la risoluzione completa, assoluta, coerente della teologia nella antropologia, perché è la risoluzione della teologia non soltanto nella ragione, come aveva fatto la vecchia filosofia, ma anche nel cuore, in breve nell’essere reale o totale dell’uomo. Ma anche sotto questo rapporto il risultato necessario della vecchia filosofia, perché ciò che viene risolto una volta nell’intelletto, deve risolversi alla fine anche nella vita, nel cuore, nel sangue dell’uomo; ed è anche nello stesso tempo l’inveramento della vecchia filosofia, proprio in quanto essa è una verità nuova ed autonoma: solo la verità diventata carne e sangue è verità. La vecchia filosofia ricadeva necessariamente nella teologia: ciò che è superato soltanto nell’intelletto, cioè in abstratio, trova ancora un’opposizione nel cuore. La nuova filosofia, invece, non può più ritornare indietro: ciò che è morto nel corpo e nell’anima non può più ricomparire neppure come fantasma.
L’uomo non si distingue affatto dalle bestie soltanto per il pensiero. La sua differenza dalle bestie è data piuttosto dalla sue essenza considerata nella sua totalità. Certamente chi non pensa, non è un uomo; ma non perché il pensiero sia la causa dell’essere umano, ma soltanto perché è una conseguenza e una proprietà necessaria. […] la nuova filosofia fa dell’uomo l’oggetto unico, universale e supremo della filosofia, includendovi la natura considerata come fondamento dell’uomo. La nuova filosofia fa dell’antropologia, con inclusione della fisiologia, la scienza universale. […]
La filosofia dell’identità assoluta ha completamente spostato il punto di vista della verità. Il punto di vista naturale per l’uomo, il punto di vista della differenza tra l’io e il tu, tra il soggetto e l’oggetto, è il punto di vista assoluto, e di conseguenza anche il punto di vista della filosofia. […] La verità non esiste nel pensiero, non esiste nel sapere considerato in se stesso. La verità non è altro che la totalità della vita e dell’essere umano. L’uomo singolo, considerato in se stesso, non racchiude l’essenza dell’uomo in sé, né in quanto essere morale, né in quanto essere pensante. L’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunione, nell’unità dell’uomo con l’uomo: ed è tale unità che si appoggia sulla realtà della differenza tra l’io e il tu. La solitudine è finitezza e limitatezza; la comunione è la libertà e infinitudine. L’uomo considerato per se stesso è uomo nel senso abituale della parole; l’uomo con l’uomo, ossia l’unità dell’io e del tu, è Dio. […] La vera dialettica non è monologo del pensatore solitario con se stesso, ma un dialogo tra l’io e il tu. […]
La vecchia filosofia ha una doppia verità: la verità considerata per se stessa, che non si cura dell’uomo, cioè la filosofia, e la verità per l’uomo, cioè la ragione. La nuova filosofia, invece in quanto filosofia dell’uomo, è essenzialmente anche una filosofia per l’uomo. Senza pregiudizio della dignità e della autonomia della teoria, anzi in profondo accordo con essa, la nuova filosofia ha essenzialmente una tendenza pratica nel più alto senso della parola: essa subentra al posto della religione, implica in se stessa l’essenza della religione, è essa stessa veramente religione.
Principi della filosofia dell’avvenire, op. cit. pp. 13641
Friedrich Engels
LUDOVICO FEUERBACH
E IL PUNTO DI APPRODO DELLA FILSOSOFIA CLASSICA TEDESCA
Prefezione 1888
Su Feuerbach, che pure forma sotto molti aspetti un anello intermedio tra la filosofia hegeliana e la nostra concezione, non siamo mai più ritornati.
In queste circostanze m’è parso che si rendesse sempre più necessaria una esposizione breve, sistematica, dei nostri rapporti con la filosofia hegeliana, della nostra origine e del nostro distacco da essa. E allo stesso modo, un riconoscimento pieno ed intero dell’influenza esercitata sopra di noi, nel periodo del nostro Sturm und Drang, da Feuerbach più che da tutti gli altri filosofi successivi a Hegel, m’è apparso come un debito d’onore non ancora assolto.
Invece ho ritrovato in un vecchio quaderno di Marx le undici tesi su Feuerbach che riproduco in appendice3. Sono appunti per un lavoro ulteriore, buttati giù in fretta, non destinati in nessun modo alla pubblicazione, ma d’un valore inestimabile come il primo documento in cui è deposto il germe geniale della nuova concezione del mondo.
Capitolo I
la tesi famosa di Hegel: «Tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale». Questa era manifestamente, infatti, l’approvazione di tutto ciò che esiste, la consacrazione filosofica del dispotismo, dello Stato poliziesco, della giustizia di gabinetto, della censura.
E così nel corso della evoluzione tutto ciò che prima era reale diventa irreale, perde la propria necessità, il proprio diritto all’esistenza,
La tesi della razionalità di tutto il reale si risolve quindi secondo tutte le regole del ragionamento
hegeliano nell’altra: tutto ciò che esiste è degno di perire.
la verità risiedeva ormai nel processo della conoscenza stessa, nella lunga evoluzione storica della scienza, che si eleva dai gradi inferiori della conoscenza a gradi sempre più alti, senza però giungere mai, attraverso la scoperta di una cosiddetta verità assoluta, al punto in cui non può più avanzare
Ogni tappa è necessaria, e quindi giustificata per il tempo e per le circostanze a cui deve la propria origine, ma diventa caduca e ingiustificata rispetto alle nuove condizioni, più elevate, che si sviluppano a poco a poco nel suo proprio seno;
Il carattere conservatore di questa concezione è relativo, il suo carattere rivoluzionario è assoluto:il solo assoluto ch’essa ammetta.
Ma con ciò si dichiara verità assoluta tutto il contenuto dogmatico del sistema hegeliano, in contraddizione col suo metodo dialettico, che dissolve ogni elemento dogmatico; in questo modo il lato rivoluzionario viene soffocato da una ipertrofia del lato conservatore.
la filosofia intera, nel senso che finora si è dato a questa parola è finita. Si lascia correre la «verità assoluta», che per questa via e da ogni singolo isolatamente non può essere raggiunta, e si dà la caccia, invece, alle verità relative accessibili per la via delle scienze positive e della sintesi dei loro risultati a mezzo del pensiero dialettico. Con Hegel ha fine, in modo generale, la filosofia; da una parte perché egli nel suo sistema ne riassume tutta la evoluzione nella maniera più grandiosa, d’altra parte perché egli, sia pure inconsapevolmente, ci mostra la via che da questo labirinto dei sistemi ci porta alla vera conoscenza positiva del mondo.
Il complesso della dottrina di Hegel lasciava, come abbia mo visto, uno spazio considerevole per le più differenti concezioni pratiche di partito; e pratiche, nella Germania teoretica di quel tempo, erano soprattutto due cose: la religione e la politica. Coloro che davano importanza soprattutto al sistema di Hegel, potevano in entrambi questi campi essere conservatori; coloro per cui l’essenziale era il metodo dialettico, potevano appartenere, tanto in religione
che in politica, all’opposizione estrema.
Allora apparve l’Essenza del cristianesimo di Feuerbach. D’un colpo essa ridusse in polvere la contraddizione, rimettendo sul trono senza preamboli il materialismo. La natura esiste indipendentemente da ogni filosofia; essa è la base sulla quale siamo cresciuti noi uomini, che siamo pure prodotti della natura; oltre alla natura e agli uomini, non esiste nulla, e gli esseri più elevati che ha creato la nostra fantasia religiosa sono soltanto il riflesso fantastico del nostro proprio essere. L’incanto era rotto; il «sistema» era spezzato e gettato in un canto; la contraddizione era rimossa, in quanto esistente soltanto nell’immaginazione. Bisogna aver provato direttamente l’azione liberatrice di questo libro, per farsi un’idea di essa. L’entusiasmo fu generale: in un momento diventammo tutti feuerbachiani. Con quale entusiasmo Marx salutasse la nuova concezione e quanto ne fosse influenzato, malgrado tutte le riserve
critiche, lo si può vedere leggendo La sacra famiglia.
Capitolo II
Il grande problema fondamentale di tutta la filosofia, e specialmente della filosofia moderna, è quello del rapporto del pensiero coll’essere
I filosofi si sono divisi in due grandi campi secondo il modo come rispondevano a tale quesito. I filosofi che affermavano la priorità dello spirito rispetto alla natura, e quindi ammettevano in ultima istanza una creazione del mondo di un genere qualsiasi, questa creazione è spesso nei filosofi, per esempio in Hegel, ancora più complicata e assurda che nel cristianesimo , formavano il campo dell’idealismo. Quelli che affermavano la priorità della natura appartenevano alle diverse scuole del materialismo.
È in grado il nostro pensiero di conoscere il mondo reale; possiamo noi nelle nostre rappresentazioni e nei nostri concetti del mondo reale avere una immagine fedele della realtà? Questa questione si chiama, nel linguaggio filosofico, questione dell’identità dell’essere e del pensiero, e l’immensa maggioranza dei filosofi risponde ad essa in modo affermativo. Per Hegel, per esempio, questa risposta affermativa si comprende da sé, perché ciò che noi conosciamo del mondo reale è precisamente il suo contenuto ideale, ciò che fa del mondo una realizzazione progressiva dell’idea assoluta, la quale idea assoluta è esistita in qualche parte dall’eternità, prima del mondo e indipendentemente da esso. È senz’altro evidente che il pensiero può conoscere un contenuto il quale è già, preventivamente, un contenuto ideale. È altrettanto evidente che ciò che si deve provare è già contenuto qui, tacitamente, nelle premesse.
Tra i moderni, appartengono a questa schiera Hume e Kant, che hanno avuto una parte molto importante nello svolgimento della filosofia. L’essenziale per la confutazione di questa concezione è già stato detto da Hegel, nella misura in cui si poteva farlo da un punto di vista idealistico. Ciò che Feuerbach ha aggiunto da un punto di vista materialistico è più ingegnoso che profondo. La confutazione più decisiva di questa ubbìa filosofica, come del resto di tutte le altre, è data dalla pratica, particolarmente dall’esperimento e dall’industria. Se possiamo dimostrare che la nostra comprensione di un dato fenomeno naturale è giusta, creandolo noi stessi, producendolo dalle sue condizioni e, quel che più conta, facendolo servire ai nostri fini, l’inafferrabile «cosa in sé» di Kant è finita. Le sostanze chimiche che si formano negli organismi animali e vegetali restarono «cose in sé» fino a che la chimica organica non si mise a prepararle l’una dopo l’altra; quando ciò avvenne, la «cosa in sé» si trasformò
in una cosa per noi
In questo lungo periodo, che va da Descartes a Hegel e da Hobbes a Feuerbach, i filosofi non furono però spinti unicamente, come essi credevano, dalla forza del pensiero puro. Al contrario. Ciò che in realtà li spingeva era soprattutto il potente e sempre più rapido e impetuoso progresso delle scienze naturali e dell’industria. Nei materialisti ciò appariva già alla superficie, ma anche i sistemi idealistici si riempivano sempre più di contenuto materialistico e cercavano di rimuovere il contrasto tra lo spirito e la materia in modo panteistico, cosicché il sistema di Hegel alla fine rappresenta soltanto, pel suo metodo e pel suo contenuto, un materialismo posto idealisticamente con la testa all’ingiú.
La evoluzione di Feuerbach è quella di un hegeliano, a dire il vero non del tutto ortodosso, verso il materialismo; evoluzione che porta, a un punto determinato, a una rottura totale col sistema idealistico del suo predecessore. Alla fine gli si impone con forza irresistibile l’idea che l’esistenza premondana dell’«idea assoluta» secondo Hegel, la «preesistenza delle categorie logiche » prima della apparizione del mondo, non è altro che un residuo fantastico della fede in un creatore ultraterreno; l’idea che il mondo materiale, percepibile dai sensi, e a cui noi stessi apparteniamo, è il solo mondo reale, e che la coscienza e il pensiero, per quanto appaiano soprasensibili, sono il prodotto di un organo materiale, corporeo: il cervello. La materia non è un prodotto dello spirito, ma lo spirito stesso non è altro che il più alto prodotto della materia. Questo, naturalmente, è materialismo puro. Arrivato a questo punto,
Feuerbach s’arresta.
Peggio ancora, egli lo confonde con la forma piatta, volgare, in cui il materialismo del secolo XVIII continua a esistere nella testa dei naturalisti e dei medici, e in cui venne predicato tra il 1850 e il 1860 da Bucbner, Vogt e Moleschott.
La seconda ristrettezza specifica di questo materialismo consisteva nella sua incapacità di concepire il mondo come un processo, come una sostanza soggetta a una evoluzione storica.
Certamente, Feuerbach era ancora vivo al tempo delle tre scoperte decisive: quella della cellula, quella della trasformazione dell’energia e quella della teoria dell’evoluzione che porta il nome di Darwin. Ma come poteva il filosofo, che viveva isolato nella campagna, seguire la scienza in modo da apprezzare pienamente le scoperte che i naturalisti stessi allora, in parte contestavano ancora, in parte non sapevano convenientemente sfruttare?
Capitolo III
La sola religione che Feuerbach indaga seriamente è il cristianesimo, la religione mondiale dell’Occidente, che è fondata sul monoteismo. Egli dimostra che il dio cristiano non è che il riflesso fantastico, l’immagine riflessa dell’uomo. Ma questo stesso dio è il prodotto di un lungo processo di astrazione, è la quintessenza concentrata di una moltitudine di precedenti dèi di tribù e nazionali. E conforme a ciò anche l’uomo, di cui quel dio è l’immagine, non è un uomo reale, ma è a sua volta la quintessenza di molti uomini reali, è l’uomo astratto, quindi è esso pure una immagine ideale.
Nella forma egli è realistico, egli parte dall’uomo; ma non dice assolutamente nulla del mondo in cui quest’uomo vive, e perciò l’uomo rimane sempre lo stesso uomo astratto che era il protagonista della filosofia della religione.
La storia è per lui, in generale, un terreno in cui egli sta a disagio e si sente un estraneo.
In una parola, succede alla dottrina morale di Feuerbach lo stesso che a tutte quelle che l’hanno preceduta. Essa è adatta a tutti i tempi, a tutti i popoli, a tutte le circostanze, e appunto per questo non è applicabile in nessun tempo e in nessun luogo, ed è, rispetto al mondo reale, altrettanto impotente quanto l’imperativo categorico di Kant.
Ma come fu possibile che il potente impulso dato da Feuerbach rimanesse per lui stesso così sterile? Pel semplice motivo che Feuerbach non è in grado di trovare la strada che porta dal regno delle astrazioni, da lui stesso odiato a morte, alla natura vivente. Egli si aggrappa con tutte le forze alla natura e all’uomo, ma la natura e l’uomo rimangono per lui soltanto delle parole. Né della natura reale, né dell’uomo reale egli non ci sa dire nulla di determinato. Ma dall’uomo astratto di Feuerbach si arriva agli uomini viventi e reali soltanto quando si considerano gli uomini operanti nella storia. Feuerbach si rifiutava di farlo, e perciò l’anno 1848, che egli non comprese, segnò per lui la rottura definitiva col mondo reale, il ritiro nella solitudine.
Capitolo IV
Egli rimase a mezza strada anche come filosofo: dalla metà in giù materialista, dalla metà in su idealista. Non si liberò di Hegel criticandolo, ma lo gettò in disparte come inservibile, mentre egli stesso, di fronte alla ricchezza enciclopedica del sistema di Hegel, non realizzava niente di positivo fuorché un’ampollosa religione dell’amore e una morale magra, impotente. Dalla dissoluzione della scuola hegeliana uscì però anche un’altra corrente, la sola che ha veramente dato dei frutti, e questa corrente si lega essenzialmente al nome di MarxLa rottura colla filosofia hegeliana si produsse anche qui attraverso il ritorno alla concezione materialistica. Ciò vuol dire che ci si decise a concepire il mondo reale, natura e storia, nel modo come esso si presenta a chiunque vi si accosti senza ubbie idealistiche preconcette; ci si decise a sacrificare senza pietà ogni ubbia idealistica che non si potesse conciliare con i fatti concepiti nel loro proprio nesso e non in un nesso fantastico. E il materialismo non vuol dire niente altro che questo. Soltanto che per la prima volta la concezione materialistica del mondo veniva presa qui veramente sul serio, veniva applicata in modo conseguente, almeno nelle sue grandi linee, a tutti i campi del sapere che si dovevano prendere in considerazione. Non ci si accontentò di mettere Hegel semplicemente in disparte; al contrario ci si ricollegò a quel suo lato rivoluzionario che abbiamo indicato sopra, al metodo dialettico. Ma nella forma che Hegel gli aveva dato, questo metodo era inservibile. Per Hegel la dialettica è l’autoevoluzione del concetto. Il concetto assoluto non esiste soltanto, non si sa dove, sin dall’eternità, esso è anche la vera e propria anima vivente di tutto il mondo esistente. Esso si sviluppa su se stesso attraverso tutti i gradi preliminari che vengono trattati nel modo più ampio nella Logica e che sono tutti racchiusi in lui; infine, esso si «estrinseca» trasformandosi in natura, dove, senza aver coscienza di se stesso, travestito da necessità naturale, compie una nuova evoluzione e giunge infine nuovamente ad aver coscienza di se stesso nell’uomo
Noi concepimmo di nuovo i concetti del nostro cervello in modo materialistico, come riflessi delle cose reali, invece di concepire le cose reali come riflessi di questo o quel grado del concetto assoluto. La dialettica si riduceva in questo modo alla scienza delle leggi generali del movimento, tanto del mondo esterno, quanto del pensiero umano: a due serie di leggi, identiche nella sostanza, differenti però nell’espressione, in quanto il pensiero umano le può applicare in modo consapevole, mentre nella natura e sinora per la maggior parte anche nella storia umana esse giungono a farsi valere in modo incosciente, nella forma di necessità esteriore, in mezzo a una serie infinita di apparenti casualità. Ma in questo modo la dialettica del concetto stesso non era più altro che il riflesso cosciente del movimento dialettico del mondo reale, e così la dialettica hegeliana veniva raddrizzata, o, per dirla più esattamente, mentre prima si reggeva sulla testa, veniva rimessa a reggersi sui piedi.
Con ciò il lato rivoluzionario della filosofia hegeliana veniva ripreso e in pari tempo liberato dalle pastoie idealistiche, che avevano impedito a Hegel di applicarlo in modo conseguente. La grande idea fondamentale, che il mondo non deve essere concepito come un complesso di cose compiute, ma come un complesso di processi, in cui le cose in apparenza stabili, non meno dei loro riflessi intellettuali nella nostra testa, i concetti, attraversano un ininterrotto processo di origine e di decadenza, attraverso al quale, malgrado tutte le apparenti casualità e malgrado ogni regresso momentaneo, si realizza, alla fine, un progresso continuo
La vecchia metafisica, che considerava le cose come compiute in se stesse, sorse da una scienza naturale che indagava le cose vive e le morte come cose compiute in se stesse. Ma quando questa indagine fu andata tanto lontano che fu possibile il progresso decisivo, il passaggio all’indagine sistematica delle modificazioni che queste cose subiscono nella natura stessa, allora suonò anche nel campo filosofico l’ultima ora della vecchia metafisica.
La storia della evoluzione della società si rivela però in un punto come essenzialmente differente da quella della natura. Nella natura, sino a che non prendiamo in considerazione la reazione degli uomini sopra di essa, agiscono gli uni sugli altri dei fattori assolutamente ciechi e incoscienti e la legge generale si realizza nella loro azione reciproca. Nulla di ciò che accade, né degli innumerevoli fatti apparentemente accidentali che appaiono alla superficie, né dei risultati definitivi, che in mezzo a questi fatti accidentali affermano la conformità ad una legge, si pro duce come fine consapevole, voluto. Invece nella storia della società gli elementi attivi sono esclusivamente degli uomini, dotati di coscienza, di capacità di riflessione e di passioni, e che perseguono scopi determinati. Nulla accade, in questo campo, senza intenzione cosciente, senza uno scopo voluto. Ma questa differenza, pur essendo così importante per l’indagine storica, specialmente di epoche e di avvenimenti determinati, non può cambiare nulla al fatto che il corso della storia è retto da determinate leggi interiori. Perché anche qui, malgrado gli scopi coscientemente voluti dai singoli, regna alla superficie, in apparenza e all’ingrosso, il caso. Solo di rado ciò che si vuole riesce. Nella maggior parte dei casi i molti fini voluti si incrociano e si contraddicono, oppure sono essi stessi anticipatamente irrealizzabili, oppure i mezzi per la loro realizzazione sono insufficienti. Gli scontri tra le innumerevoli volontà e attività singole creano sul terreno storico una situazione che è assolutamente analoga a quella che regna nella natura incosciente. Gli scopi delle azioni sono voluti, ma i risultati che succedono effettivamente alle azioni non sono voluti oppure, se anche sembrano a tutta prima corrispondere allo scopo voluto, in conclusione hanno delle conseguenze del tutto diverse da quelle volute. Gli avvenimenti storici sembrano dunque, nel loro complesso, dominati essi pure dal caso. Ma laddove alla superficie regna il caso, ivi il caso stesso è retto sempre da intime leggi nascoste, e non si tratta che di scoprire queste leggi. In qualsiasi modo si svolga la storia degli uomini, sono gli uomini che la fanno,
D’altra parte si domanda ancora quali forze motrici si celano a loro volta dietro questi motivi determinanti, quali sono le cause storiche che nei cervelli degli uomini che agiscono si trasformano in questi motivi.
Dopo l’affermarsi della grande industria, cioè per lo meno a partire dai trattati di pace del 1815, non era più un segreto per nessuno in Inghilterra che tutta la lotta politica in questo paese si aggirava attorno alle pretese di predominio di due classi, l’aristocrazia fondiaria (landed aristocracy) e la borghesia (middle class).
E dal 1830 la classe operaia, il proletariato, è stato riconosciuto come terzo pretendente al potere in questi due paesi.
L’origine e lo sviluppo di due grandi classi si basava qui in modo chiaro e tangibile su cause puramente economiche.
Ma questa concezione mette fine alla filosofia nel campo della storia, così come la concezione dialettica della natura rende altrettanto inutile quanto impossibile ogni filosofia della natura. Da ogni parte ormai non si tratta più di escogitare dei nessi nel pensiero, ma di scoprirli nei fatti. Alla filosofia, cacciata dalla natura e dalla storia, rimane soltanto il regno del pensiero puro, nella misura in cui esso continua a sussistere: la dottrina delle leggi del processo del pensiero, la logica e la dialettica.
Il nuovo indirizzo, che ha ravvisato nella storia della evoluzione del lavoro la chiave per comprendere tutta la storia della società, si è rivolto sin dal primo momento alla classe operaia e ha trovato in essa l’accoglienza che non cercava né attendeva dalla scienza ufficiale. Il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca.
MarxEngels
IL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA (1848)
Uno spettro s’aggira per l'Europa lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro que¬sto spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi.
Quale partito d'opposizione non è stato tacciato di comunismo dai suoi avversari governativi; qual partito d'opposizione non ha rilanciato l'infamante ac¬cusa di comunismo tanto sugli uomini più progrediti dell'opposizione stessa, quanto sui propri avversari reazionari?
Da questo fatto scaturiscono due specie di conclu¬sioni. Il comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee.
E’ ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso.
A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle nazionalità più diverse e hanno redatto il seguente manifesto che viene pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese.
Capitolo I: Borghesi e proletari
La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.
Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi del¬la gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.
Nelle epoche anteriori della storia. troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, ca¬valieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi del¬la gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi.
La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle anti¬che, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta.
La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si distin¬gue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sem¬pre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato.
Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia.
La scoperta dell'America, la circumnavigazione dell’Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le co¬lonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all'elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione.
L'esercizio dell'industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che au¬mentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro fra le diver¬se corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa.
Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno sali¬va sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la pro¬duzione industriale. All'industria manifatturiera su¬bentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale subentrarono i milionari dell'industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni.
La grande industria ha creato quel mercato mon¬diale, che era stato preparato dalla scoperta dell'America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comu¬nicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull'espansione dell'industria, e, nella stes¬sa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo.
Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il prodotto d'un lungo processo di sviluppo, d'una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico.
Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era accompagnato da un corrispondente progresso po¬litico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feu¬dali, insieme di associazioni armate ed autonome nel comune, talvolta sotto forma di repubblica munici¬pale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all'epoca dell'industria manifat¬turiera, nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fonda¬mento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo nello stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un co¬mitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese.
La borghesia ha avuto nella storia una parte som¬mamente rivoluzionaria.
Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti». Ha affogato nell'acqua gelida del cal¬colo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scam¬bio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illu¬sioni religiose e politiche.
La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi.
La borghesia ha strappato il commovente velo sen¬timentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro.
La borghesia ha svelato come la brutale manifesta¬zione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimo¬strato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migra¬zioni dei popoli e le crociate.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzio¬namento della produzione, l'ininterrotto scuotimen¬to di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movi¬mento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disin¬cantato la propria posizione e i propri reciproci rap¬porti.
Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dap¬pertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso ven¬gono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questio¬ne di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie pri¬me del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi biso¬gni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdi¬pendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, cosi per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.
Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale essa spia¬na tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Co¬stringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di pro¬duzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la co¬siddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una pa¬rola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.
La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l'Oriente dall'Oc¬cidente.
La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centraliz¬zato i mezzi di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, le¬gate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leg¬gi, governi e dazi differenti, vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale.
Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa mol¬to maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il sog¬giogamento delle forze naturali, le macchine, l'appli¬cazione della chimica all'industria e all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d'interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali for¬ze produttive?
Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti entro la società feu¬dale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non cor¬risposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dove¬vano essere spezzate e furono spezzate.
Ad esse subentrò la libera concorrenza con la con¬facente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi.
Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese mo¬derna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'in¬dustria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti mo¬derni della produzione, cioè contro i rapporti di pro¬prietà che costituiscono le condizioni di esistenza del¬la borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussi¬stenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti bor¬ghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo po¬tenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disor¬dine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'e¬sistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distru¬zione coatta di una massa di forze produttive; dall'al¬tro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfrut¬tamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per preve¬nire le crisi stesse.
A questo momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa.
Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uo¬mini che impugneranno quelle armi: gli operai mo¬derni, i proletari.
Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintan¬toché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.
Con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha per¬duto ogni carattere indipendente e con ciò ogni at¬trattiva per l'operaio. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede una operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima ad imparare. Quindi le spese che causa l'operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della sua specie. Ma il prezzo di una merce, quindi anche quello del lavoro, è uguale ai suoi costi di produzione. Quindi il salario decresce nella stessa propor¬zione in cui aumenta il tedio del lavoro. Anzi, nella stessa proporzione dell'aumento dell'uso delle macchine e della divisione del lavoro, aumenta anche la massa del lavoro, sia attraverso l'aumento delle ore di lavoro, sia attraverso l'aumento del lavoro che si esige in una data unità di tempo, attraverso l'accresciuta celerità delle macchine e così via.
L'industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell'industria, sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi, dello stato dei borghesi ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in per¬sona. Questo dispotismo è tanto più meschino, odio¬so ed esasperante, quanto più apertamente esso pro¬clama come proprio fine ultimo il guadagno.
Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di forza, cioè quanto più si sviluppa l'industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini, viene soppiantato da quello delle donne [e dei fanciulli]. Per la classe operaia non han più valore socia¬le le differenze di sesso e di età. Ormai ci sono sol¬tanto strumenti di lavoro che costano più o meno a seconda dell'età e del sesso.
Quando lo sfruttamento dell'operaio da parte del padrone di fabbrica è terminato in quanto all'operaio, viene pagato il suo salario in contanti, si gettano su di lui le altre parti della borghesia, il padron di casa, il bottegaio, il prestatore su pegno e cosi via.
Quelli che fino a questo momento erano i piccoli ordini medi, cioè i piccoli industriali, i piccoli commercianti e coloro che vivevano di piccole rendite, gli artigiani e i contadini, tutte queste classi precipitano nel proletariato, in parte per il fatto che il loro piccolo capitale non è sufficiente per l'esercizio della grande industria, e soccombe nella concorrenza con i capitalisti più forti, in parte per il fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di produzio¬ne. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.
Il proletariato passa attraverso diversi gradi di svi¬luppo. La sua lotta contro la borghesia comincia con la sua esistenza.
Da principio singoli operai, poi gli operai di una fabbrica, poi gli operai di una branca di lavoro in un dato luogo lottano contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente.
Essi non dirigono i loro attacchi soltanto contro i rapporti borghesi di produzione, ma contro gli stessi strumenti di produzione; distruggono le merci stra¬niere che fan loro concorrenza, fracassano le macchione, danno fuoco alle fabbriche, cercano di riconquistarsi la tramontata posizione del lavoratore medievale.
In questo stadio gli operai costituiscono una massa disseminata per tutto il paese e dispersa a causa della concorrenza. La solidarietà di maggiori masse operaie non è ancora il risultato della loro propria unione, ma della unione della borghesia, la quale, per il rag¬giungimento dei propri fini politici, deve mettere in movimento tutto il proletariato, e per il momento può ancora farlo. Dunque, in questo stadio i proletari combattono non i propri nemici, ma i nemici dei pro¬pri nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i pro¬prietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Così tutto il movimento della storia è con¬centrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria rag¬giunta in questo modo è una vittoria della borghesia.
Ma il proletariato, con lo sviluppo dell'industria, non solo si moltiplica; viene addensato in masse più grandi, la sua forza cresce, ed esso la sente di più. Gli interessi, le condizioni di esistenza all'interno del proletariato si vanno sempre più agguagliando man mano che le macchine cancellano le differenze del la¬voro e fanno discendere quasi dappertutto il salario a un livello ugualmente basso. La crescente concor¬renza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l'incessante e sempre più rapido sviluppo del perfezionamento delle macchine rende sempre più incerto il complesso della loro esistenza; le collisioni fra il singolo operaio e il singolo bor¬ghese assumono sempre più il carattere di collisioni di due classi. Gli operai cominciano col formare coa¬lizioni contro i borghesi, e si riuniscono per difendere il loro salario. Fondano perfino associazioni perma¬nenti per approvvigionarsi in vista di quegli even¬tuali sollevamenti. Qua e là la lotta prorompe in sommosse.
Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transito¬riamente. Il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo immediato ma il fatto che l'unione degli operai si estende sempre più. Essa è favorita dall'aumento dei mezzi di comunicazione, prodotti dalla grande industria, che mettono in collegamento gli operai delle differenti località. E basta questo col¬legamento per centralizzare in una lotta nazionale, in una lotta di classe, le molte lotte locali che hanno dappertutto uguale carattere. Ma ogni lotta di classi è lotta politica. E quella unione per la quale i citta¬dini del medioevo con le loro strade vicinali ebbero bisogno di secoli, i proletari moderni con le ferrovie la attuano in pochi anni.
Questa organizzazione dei proletari in classe e quin¬di in partito politico torna ad essere spezzata ogni momento dalla concorrenza fra gli operai stessi. Ma risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente. Essa impone il riconoscimento in forma di legge di singoli interessi degli operai, approfittando delle scissioni all'interno della borghesia. Così fu per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra.
In genere, i conflitti insiti nella vecchia società promuovono in molte maniere il processo evolutivo del proletariato. La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l'aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell'industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al proletariato, a valersi del suo aiuto, e a trascinarlo così entro il movimento politico. Essa stessa dunque reca al proletariato i propri elementi di educazione, cioè armi contro se stessa.
Inoltre, come abbiamo veduto, il progresso dell'industria precipita nel proletariato intere sezioni della classe dominante, o per lo meno ne minaccia le condizioni di esistenza. Anch'esse arrecano al proletariato una massa di elementi d'educazione.
Infine, in tempi nei quali la lotta delle classi si avvicina al momento decisivo, il processo di disgregazione all'interno della classe dominante, di tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si distacca da essa e si unisce alla classe rivoluzionaria, alla classe che tiene in mano l'avvenire. Quindi, come prima una parte della nobiltà era passata alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato; e specialmente una parte degli ideologi borghesi, che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme.
Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più specifico.
Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi. Quindi non sono rivoluzionari ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di far girare all'indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro imminente passaggio al proletariato, non di¬fendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, e abbandonano il proprio punto di vista, per mettersi da quello del proletariato.
Il sottoproletariato, questa putrefazione passiva degli infimi strati della società, che in seguito a una rivoluzione proletaria viene scagliato qua e là nel movimento, sarà più disposto, date tutte le sue condizioni di vita, a lasciarsi comprare per mene reazio¬narie.
Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già annullate nelle condizioni di esistenza del proleta¬riato. Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con la moglie e figli non ha più nulla di comune con il rapporto familiare borghese; il lavoro industriale mo¬derno, il soggiogamento moderno al capitale, identico in Inghilterra e in Francia, in America e in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Leggi, morale, religione sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.
Tutte le classi che si sono finora conquistato il potere hanno cercato di garantire la posizione di vita già acquisita, assoggettando l'intera società alle condizioni della loro acquisizione. I proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio sistema di appropriazione avuto sino a questo momento, e per ciò stesso l'intero si¬stema di appropriazione che c'è stato finora. I prole¬tari non hanno da salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state fin qui.
Tutti i movimenti precedenti sono stati movimenti di minoranze, o avvenuti nell'interesse di minoranze. Il movimento proletario è il movimento indipendente della immensa maggioranza nell'interesse della immensa maggioranza. Il proletariato, lo strato più bas¬so della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria l'intera soprastrut¬tura degli strati che formano la società ufficiale.
La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. E’ naturale che il pro¬letariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia.
Delineando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno latente all'interno della società attuale, fino al momento nel quale quella guerra erompe in aperta rivoluzione e nel quale il proletariato fonda il suo dominio attraverso il violento abbattimento della borghesia.
Ogni società si è basata finora, come abbiam visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le deb¬bono essere assicurate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Il servo della gleba, lavorando nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del comune, come il cittadino minuto, lavorando sotto il giogo dell’assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l'operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l'industria progredisce, scende sempre più al di¬sotto delle condizioni della sua propria classe. L'operaio diventa povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe domi¬nante della società e di imporre alla società le condi¬zioni di vita della propria classe come legge regola¬trice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l'esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La so¬cietà non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società.
La condizione più importante per l'esistenza e per il dominio della classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la mol¬tiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusiva¬mente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all'isola¬mento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall'associazio¬ne. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tra¬monto e la vittoria del proletariato sono del pari ine¬vitabili.
Capitolo II: Proletari e comunisti
In che rapporto sono i comunisti con i proletari in genere?
I comunisti non sono un partito particolare di fron¬te agli altri partiti operai.
I comunisti non hanno interessi distinti dagli inte¬ressi di tutto il proletariato.
I comunisti non pongono principi speciali sui quali vogliano modellare il movimento proletario.
I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni, indipen¬denti dalla nazionalità, dell'intero proletariato, nelle varie lotte nazionali dei proletari; e dall'altra per il fatto che sostengono costantemente l'interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di svi¬luppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia.
Quindi in pratica i comunisti sono la parte progres¬siva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato, di comprendere le condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento proletario.
Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato.
Le proposizioni teoriche dei comunisti non pog¬giano affatto su idee, su principi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo.
Esse sono semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto di una esistente lotta di classi, cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. L’abolizione di rapporti di proprietà esistiti fino a un dato momento non è qualcosa di distintivo peculiare del comunismo.
Tutti i rapporti di proprietà sono stati soggetti a continui cambiamenti storici, a una continua alterazione storica.
Per esempio, la rivoluzione francese abolì la pro¬prietà feudale in favore di quella borghese.
Quel che contraddistingue il comunismo non è l'abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese.
Ma la proprietà privata borghese moderna è l'ul¬tima e più perfetta espressione della produzione dell’appropriazione dei prodotti che poggia su anta¬gonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri.
In questo senso i comunisti possono riassumere la loro teoria nella frase: abolizione della proprietà privata.
Ci si è rinfacciato, a noi comunisti, che vogliamo abolire la proprietà acquistata personalmente, frutto del lavoro diretto e personale; la proprietà che co¬stituirebbe il fondamento di ogni libertà, attività e autonomia personale.
Proprietà frutto del proprio lavoro, acquistata, gua¬dagnata con le proprie forze! Parlate della proprietà del minuto cittadino, del piccolo contadino che ha preceduto la proprietà borghese? Non c'è bisogno che l'aboliamo noi, l'ha abolita e la va abolendo di giorno in giorno lo sviluppo dell'industria.
O parlate della moderna proprietà privata borghese?
Ma il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea proprietà a questo proletario? Affatto. Il lavoro del proletariato crea il capitale, cioè quella proprietà che sfrutta il lavoro salariato, che può moltiplicarsi solo a condizione di generare nuovo lavoro salariato, per sfruttarlo di nuovo. La proprietà nella sua forma attuale si muove entro l’antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di que¬sto antagonismo. Essere capitalista significa occupare nella produzione non soltanto una pura posizione personale ma una posizione sociale.
Il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo mediante una attività comune di molti membri, anzi in ultima istanza solo mediante l'attività comune di tutti i membri della società.
Dunque, il capitale non è una potenza personale; è una potenza sociale.
Dunque, se il capitale viene trasformato in pro¬prietà collettiva, appartenente a tutti i membri della società, non c’è trasformazione di proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. La proprietà perde il suo ca¬rattere di classe.
Veniamo al lavoro salariato.
Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario del lavoro, cioè è la somma dei mezzi di sussistenza che sono necessari per mantenere in vita l’operaio in quanto operaio. Dunque, quello che l'operaio salariato s’appropria mediante la sua attività è sufficiente soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. ¬Noi non vogliamo affatto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro per la riprodu¬zione della esistenza immediata, appropriazione che non lascia alcun residuo di profitto netto tale da poter conferire potere sul lavoro altrui. Vogliamo eliminare soltanto il carattere miserabile di questa appropria¬zione, nella quale l'operaio vive solo allo scopo di accrescere il capitale, e vive solo quel tanto che esige l'interesse della classe dominante.
Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per moltiplicare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per ampliare, per arricchire, per far progredire il ritmo d'esistenza degli operai.
Dunque, nella società borghese il passato domina sul presente, nella società comunista il presente domina sul passato. Nella società borghese il capitale è indipendente e personale, mentre l'individuo operan¬te è dipendente e impersonale.
E la borghesia chiama abolizione della personalità e della libertà l'abolizione di questo rapporto! E a ragione: infatti, si tratta dell'abolizione della perso¬nalità, della indipendenza e della libertà del borghese.
Entro gli attuali rapporti di produzione borghesi per libertà s'intende il libero commercio, la libera compravendita.
Ma scomparso il traffico, scompare anche il libero traffico. Le frasi sul libero traffico, come tutte le altre bravate sulla libertà della nostra borghesia, hanno senso, in genere, soltanto rispetto al traffico vinco¬lato, rispetto al cittadino asservito del medioevo; ma non hanno senso rispetto alla abolizione comunista del traffico, dei rapporti borghesi di produzione e della stessa borghesia.
Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprie¬tà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri: la proprietà privata esiste proprio per il fatto che per i nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler abolire una proprietà che presuppone come condizione necessaria la privazione della proprietà dell’enorme maggioranza della società.
In una parola, voi ci rimproverate di volere abolire la vostra proprietà. Certo, questo vogliamo.
Appena il lavoro non può più essere trasformato in capitale, in denaro, in rendita fondiaria, insomma in una potenza sociale monopolizzabile, cioè, appena la proprietà personale non può più convertirsi in proprietà borghese, voi dichiarate che è abolita la persona.
Dunque confessate che per persona non intendete nient’altro che il borghese, il proprietario borghese. Certo questa persona deve essere abolita.
Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi prodotti della società, toglie soltanto il potere di assoggettarsi il lavoro altrui mediante tale appropriazione.
Si è obiettato che con l’abolizione della proprietà privata cesserebbe ogni attività e prenderebbe piede una pigrizia generale.
Da questo punto di vista, già da molto tempo la società borghese dovrebbe essere andata in rovina per pigrizia, poiché in essa coloro che lavorano, non guadagnano, e quelli che guadagnano, non lavorano. Tutto lo scrupolo sbocca nella tautologia che appena non c’è più capitale non c’è più lavoro salariato.
Tutte le obiezioni che vengono mosse al sistema ¬comunista di appropriazione e di produzione dei prodotti materiali, sono state anche estese alla appropriazione e alla produzione dei prodotti intellettuali: come il cessare della proprietà di classe è per il bor¬ghese il cessare della produzione stessa, cosi il cessare della cultura di classe è per lui identico alla fine della cultura in genere.
Quella cultura la cui perdita egli rimpiange, è per la enorme maggioranza la preparazione a diventar macchine.
Ma non discutete con noi misurando l’abolizione della proprietà borghese sul modello delle vostre idee borghesi di libertà, cultura, diritto e così via. Le vostre idee stesse sono prodotti dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, come il vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe elevata a leg¬ge, volontà il cui contenuto è dato nelle condizioni, materiali di esistenza della vostra classe.
Voi condividete con tutte le classi dominanti tra¬montate quell’idea interessata mediante la quale trasformate in eterne leggi della natura e della ragione, da rapporti storici quali sono, transeunti nel corso della produzione, i vostri rapporti di produzione e di proprietà. Non vi è più permesso di comprendere per la proprietà borghese quel che comprendete per la proprietà antica e per la proprietà feudale.
Abolizione della famiglia! Anche i più estremisti si riscaldano parlando di questa ignominiosa intenzione dei comunisti.
Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo complemento nella coatta mancanza di famiglia del proletario e nella pro¬stituzione pubblica.
La famiglia del borghese cade naturalmente col cadere di questo suo complemento ed entrambi scompaiono con la scomparsa del capitale.
Ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei genitori? Confessiamo questo delitto. Ma voi dite che sostituendo l'educazione sociale a quella familiare noi aboliamo i rapporti più cari.
E anche la vostra educazione, non è determinata dalla società? Non è determinata dai rapporti sociali entro i quali voi educate, dalla interferenza più o meno diretta o indiretta della società mediante la scuola e così via? I comunisti non inventano l’influenza della società sull'educazione, si limitano a cambiare il carattere di tale influenza, e strappano l'educazione all’influenza della classe dominante.
La fraseologia borghese sulla famiglia e sull’educazione, sull’affettuoso rapporto fra genitori e figli diventa tanto più nauseante, quanto più, per effetto della grande industria, si lacerano per il proletariato tutti i vincoli familiari, e i figli sono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro.
Tutta la borghesia ci grida contro in coro: ma voi comunisti volete introdurre la comunanza delle donne.
Il borghese vede nella moglie un semplice strumento di produzione. Sente dire che gli strumenti di produzione debbono essere sfruttati in comune e non può naturalmente farsi venire in mente se non che la sorte della comunanza colpirà anche le donne.
Non sospetta neppure che si tratta proprio di abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione.
Del resto non c'è nulla di più ridicolo del moralis¬simo orrore che i nostri borghesi provano per la pre¬tesa comunanza ufficiale delle donne fra i comunisti. I comunisti non hanno bisogno d'introdurre la comunanza delle donne; essa è esistita quasi sempre.
I nostri borghesi, non paghi d'avere a disposizio¬ne le mogli e le figlie dei loro proletari, per non par¬lare neppure della prostituzione ufficiale, trovano uno dei loro divertimenti principali nel sedursi reciprocamente le loro mogli.
In realtà, il matrimonio borghese è la comunanza delle mogli. Tutt’al più ai comunisti si potrebbe rimproverare di voler introdurre una comunanza delle donne ufficiale e franca al posto di una comunanza delle donne ipocritamente dissimulata. Del resto è ovvio che, con l'abolizione dei rapporti attuali di produzione, scompare anche quella comunanza delle donne che ne deriva, cioè la prostituzione ufficiale e non ufficiale.
Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch'essi vor¬rebbero abolire la patria, la nazionalità .
Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletariato deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch'esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia.
Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei po¬poli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d'esistenza.
Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più. Una delle prime condizioni della sua emancipazione è l'azione unita, per lo meno dei paesi civili.
Lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra viene abolito nella stessa misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro.
Con l'antagonismo delle classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità delle nazioni.
Non meritano d'essere discusse in particolare le accuse che si fanno al comunismo da punti di vista religiosi, filosofici e ideologici in genere.
C'è bisogno di profonda comprensione per capire che anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma, anche la coscienza degli uomini cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale?
Cos'altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale? Le idee dominanti di un'epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante.
Si parla di idee che rivoluzionano un'intera società; con queste parole si esprime semplicemente il fatto che entro la vecchia società si sono formati gli elementi di una nuova, e che la dissoluzione delle vecchie idee procede di pari passo con la dissoluzione dei vecchi rapporti d'esistenza.
Quando il mondo antico fu al tramonto, le antiche religioni furono vinte dalla religione cristiana. Quando nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alle idee dell'illuminismo, la società feudale dovette combattere la sua ultima lotta con la borghesia allora rivoluzionaria. Le idee della libertà di coscienza e della libertà di religione furono soltanto l'espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della co¬scienza.
Ma, si dirà, certo che nel corso dello svolgimento storico le idee religiose, morali, filosofiche, politiche, giuridiche si sono modificate. Però in questi cambia¬menti la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto si sono sempre conservati.
Inoltre vi sono verità eterne, come la libertà, la giustizia e cosi via, che sono comuni a tutti gli stati i della società. Ma il comunismo abolisce le verità eter¬ne, abolisce la religione, la morale, invece di trasfor¬marle; quindi il comunismo si mette in contraddi¬zione con tutti gli svolgimenti storici avuti sinora.
A che cosa si riduce quest’accusa? La storia di tut¬ta quanta la società che c'è stata fino ad oggi s’è mossa in contrasti di classe che hanno avuto un aspetto dif¬ferente a seconda delle differenti epoche.
Lo sfruttamento d'una parte della società per ope¬ra dell'altra parte è dato di fatto comune a tutti i secoli passati, qualunque sia la forma ch'esso abbia assunto. Quindi, non c'è da meravigliarsi che la coscienza sociale di tutti i secoli si muova, nonostante ogni molteplicità e differenza, in certe forme comuni: forme di coscienza, che si dissolvono completamente soltanto con la completa scomparsa dell'antagonismo delle classi.
La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di proprietà; nessuna meraviglia che nel corso del suo sviluppo si rompa con le idee tradizionali nella maniera più radicale.
Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia con¬tro il comunismo.
Abbiamo già visto sopra che il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s’eleva a classe dominante, cioè nella conquista della democrazia.
Il proletariato adoprerà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive.
Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione e cioè per mezzo di misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell'economia: ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell'intero sistema di produzione.
Queste misure saranno naturalmente differenti a seconda dei differenti paesi.
Tuttavia, nei paesi più progrediti potranno esse¬re applicati quasi generalmente i provvedimenti seguenti:
1. Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello stato.
2. Imposta fortemente progressiva.
3. Abolizione del diritto di successione.
4. Confisca della proprietà di tutti gli emigranti e ribelli.
5. Accentramento del credito in mano delle stato mediante una banca nazionale con capitale dello stato e monopolio esclusivo.
6. Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo stato.
7. Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, de¬gli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo.
8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzio¬ne di eserciti industriali, specialmente per l'agricol¬tura.
9. Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e della industria, misure atte ad eliminare gradualmen¬te l'antagonismo fra città e campagna.
10. Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fan¬ciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell'i¬struzione con la produzione materiale e cosi via.
Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell'evoluzione, e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati, il pub¬blico potere perderà il suo carattere politico. In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne un’altra. Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe do¬minante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d'esistenza delle classi in genere, e cosi anche il suo proprio dominio in quanto classe.
Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.
[ … si salta il Capitolo III: Letteratura socialista e comunista …]
Capitolo IV: Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione
Da quanto s'è detto nel secondo capitolo appare ovvio quale sia il rapporto dei comunisti coi partiti operai già costituiti, cioè il loro rapporto coi cartisti in Inghilterra e coi riformatori agrari nell'America del Nord.
I comunisti lottano per raggiungere i fini e gli in¬teressi immediati della classe operaia, ma nel movimento presente rappresentano in pari tempo l'avve¬nire del movimento. In Francia i comunisti si alleano al partito socialistademocratico contro la borghesia conservatrice e radicale, senza per questo rinunciare al diritto d'un contegno critico verso le frasi e le illu¬sioni provenienti dalla tradizione rivoluzionaria.
In Isvizzera essi appoggiano i radicali, senza disco¬noscere che questo partito è costituito da elementi contraddittori, in parte da socialisti democratici in senso francese, in parte da borghesi radicali.
Fra i Polacchi, i comunisti appoggiano il partito che fa d'una rivoluzione agraria la condizione della liberazione nazionale. Lo stesso partito che promosse l'insurrezione di Cracovia del 1846.
In Germania il partito comunista combatte insie¬me alla borghesia contro la monarchia assoluta, con¬tro la proprietà fondiaria feudale e il piccolo borghesume, appena la borghesia prende una posizione rivoluzionaria.
Però il partito comunista non cessa nemmeno un istante di preparare e sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più chiara è possibile dell'antago¬nismo ostile fra borghesia e proletariato, affinché i lavoratori tedeschi possano subito rivolgere, come al¬trettante armi contro la borghesia, le condizioni sociali e politiche che la borghesia deve creare con il suo dominio, affinché subito dopo la caduta delle clas¬si reazionarie in Germania, cominci la lotta contro la borghesia stessa.
I comunisti rivolgono la loro attenzione soprattutto alla Germania, perché la Germania è alla vigi¬lia d'una rivoluzione borghese, e perché essa compie questo rivolgimento in condizioni di civiltà generale europea più progredite, e con un proletariato molto più evoluto che non l’Inghilterra nel decimosettimo e la Francia nel decimottavo secolo; perché dunque la rivoluzione borghese tedesca può essere soltanto l'im¬mediato preludio d'una rivoluzione proletaria.
In una parola: i comunisti appoggiano dappertutto ogni movimento rivoluzionario diretto contro le situazioni sociali e politiche attuali.
Entro tutti questi movimenti essi mettono in ri¬lievo, come problema fondamentale del movimento, il problema della proprietà, qualsiasi forma, più o meno sviluppata, esso possa avere assunto.
Infine, i comunisti lavorano dappertutto al collega¬mento e all'intesa dei partiti democratici di tutti i paesi.
I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l'ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pen¬siero d’una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare.
PROLETARI DI TUTTI I PAESI, UNITEVI!
Karl Marx
TESI SU FEUERBACH
1
Il difetto principale d'ogni materialismo fino ad oggi (compreso quello di Feuerbach) è che l'oggetto [Gegenstand], la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell'obietto [Objekt] o dell'intuizione; ma non come attività sensibile umana, prassi; non soggettivamente. Di conse¬guenza il lato attivo fu sviluppato astrattamente, in opposizione al ma¬terialismo, dall'idealismo, che naturalmente non conosce l'attività reale, sensibile in quanto tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili, realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Egli, perciò, nell'«Es¬senza del cristianesimo», considera come veramente umano soltanto l'atteggiamento teoretico, mentre la prassi è concepita e fissata solo nel suo modo di apparire sordidamente giudaico. Egli non comprende, perciò, il significato dell'attività « rivoluzionaria », « praticocritica ».
2
La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l'uomo deve provare la verità cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o nonrealtà del pensiero iso¬lato dalla prassi è una questione meramente scolastica.
3
La dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e dell'educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli uomini e che l'educatore stesso deve essere educato. Essa è costretta quindi a separare la società in due parti, delle quali l'una è sollevata al di sopra della società.
La coincidenza del variare delle circostanze dell'attività umana, o autotrasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria.
4
Feuerbach prende le mosse dal fatto dell'autoestraniazione reli¬giosa, della duplicazione del mondo in un mondo religioso e in uno mondano. Il suo lavoro consiste nel risolvere il mondo religioso nel suo fondamento mondano. Ma il fatto che il fondamento mondano si distacchi da se stesso e si costruisca nelle nuvole come un regno fisso ed indipendente, è da spiegarsi soltanto con l'autodissociazione e con l'autocontraddittorietà di questo fondamento mondano. Questo fonda¬mento deve essere perciò in se stesso tanto compreso nella sua contrad¬dizione, quanto rivoluzionato praticamente. Pertanto, dopo che, per esempio, la famiglia terrena è stata scoperta come il segreto della sacra famiglia, è proprio la prima a dover essere dissolta teoricamente e praticamente.
5
Feuerbach, non soddisfatto del pensiero astratto, vuole l'intui¬zione; ma egli non concepisce la sensibilità come attività pratica umanasensibile.
6
Feuerbach risolve l'essenza religiosa nell'essenza umana. Ma l'es¬senza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà essa è l'insieme dei rapporti sociali.
Feuerbach, che non penetra nella critica di questa essenza reale, è perciò costretto:
1. ad astrarre dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso per sé, ed a presupporre un individuo umano astratto isolato.
2. L'essenza può dunque esser concepita soltanto come « genere », cioè come universalità interna, muta, che leghi molti individui natu¬ralmente.
7
Feuerbach non vede dunque che il « sentimento religioso » è esso stesso un prodotto sociale e che l'individuo astratto, che egli analizza, appartiene ad una forma sociale determinata.
8
Tutta la vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razio¬nale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi.
9
Il punto più alto cui giunge il materialismo intuitivo, cioè il mate¬rialismo che non intende la sensibilità come attività pratica, è l'intui¬zione degli individui singoli e della società borghese.
10
Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese, il punto di vista del materialismo nuovo è la società umana o l'uma¬nità sociale.
11
I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo.
Karl Marx, Tesi su Feuerbach, Riuniti
Arthur Schopenhauer
IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE
«Il mondo è mia rappresentazione»: questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l'uomo soltanto sia capace d'accoglierla nella riflessa, astratta coscienza: e s'egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofica. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch'egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una ter¬ra: che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso. Se mai una verità può venire enunciata a priori è appunto questa: es¬sendo l'espressione di quella forma d'ogni possibile e immagi¬nabile esperienza, la quale è più universale che tutte le altre forme, più che tempo, spazio e causalità; poi che tutte queste presuppongono appunto quella. [ ... ] Nessuna verità è adunque più certa, più indipendente da ogni altra, nessuna ha minor bisogno d'essere provata, di questa: che tutto ciò che esiste per conoscenza, adunque questo mondo intero, è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce: in una parola, rappresentazione. [ ... ] Tutto quanto è compreso e può esser compreso nel mondo, deve inevitabilmente aver per condizione il soggetto, ed esiste solo per il soggetto. Il mondo è rappresentazione. [ ... ]
Che nondimeno questa considerazione, malgrado la sua verità, sia unilaterale, e quindi ottenuta mediante un'astrazione arbitraria, è fatto palese a ciascuno dall'intima riluttanza ch’ei prova a concepire il mondo soltanto come sua pura rappresen¬tazione; al quale concetto d'altra parte non può mai e poi mai sottrarsi. Ma l'unilateralità di questa considerazione verrà integrata [ ... ] con un'altra verità, la quale [ ... ] deve apparire molto grave e per ognuno, se non proprio paurosa, almeno meritevole di riflessione: ossia questa, che egli appunto può dire e deve di¬re: «il mondo è la mia volontà». [ ... ]
Quello che tutto conosce, e da nessuno è conosciuto, è soggetto. Esso è dunque che porta in sé il mondo; è l'universale, ognora presupposta condizione d'ogni fenomeno di ogni ogget¬to: perché ciò che esiste, non esiste se non per il soggetto. Que¬sto soggetto ciascuno trova in sé stesso; ma tuttavia solo in quanto conosce, non in quanto è egli medesimo oggetto di conoscenza. Oggetto è già invece il suo corpo: ed anch'esso per¬ciò, secondo questo modo di vedere, chiamiamo rappresenta¬zione. Invero il corpo è oggetto fra oggetti, e sottoposto alle leg¬gi degli oggetti, sebbene sia oggetto immediato. [ ... ]
Il mondo come rappresentazione, adunque e noi non consideriamo qui se non sotto questo aspetto ha due metà es¬senziali, necessarie e inseparabili. L'una è l'oggetto, di cui sono forma spazio e tempo, mediante i quali si ha la pluralità. Ma l’altra metà, il soggetto, non sta nello spazio e nel tempo: per¬ché essa è intera e indivisa in ogni essere rappresentante; perciò anche un solo di questi esseri, con l'oggetto, integra il mondo come rappresentazione, si appieno quanto i milioni d'esseri esi¬stenti. Ma, se anche solo quell’unico svanisse, cesserebbe d'esi¬stere pure il mondo come rappresentazione. Queste metà sono perciò inseparabili, anche per il pensiero; perché ciascuna di esse consegue solo mediante e per l'altra significazione ed esi¬stenza, ciascuna esiste con l'altra e con lei dilegua. Esse si limi¬tano a vicenda direttamente: dove l'oggetto comincia, finisce il soggetto. [ ... ]
In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti come mia rappresentazione oppure il passaggio da esso, in quanto pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che ancora può essere oltre di ciò non si potrebbe as¬solutamente mai raggiungere, se l'indagatore medesimo non fosse nient'altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d'angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo le proprie ra¬dici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è condizione dell'esistenza del mondo intero in quanto rappre¬sentazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni [ ... ] sono per l’intelletto il punto di partenza dell’intuizione di quel mondo. Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi movimenti, le sue azioni non sono da lui, sotto questo rispetto, conosciute altrimenti che le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e gli sarebbero egualmente estranee ed incomprensibili, se il loro senso non gli fosse per avventura svelato in qualche modo affatto diverso. In caso contrario, vedrebbe la propria condotta regolarsi con la costanza d'una legge naturale sui motivi che le si offrono, pro¬prio come le modificazioni degli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi. [ ... ]
Ma le cose non stanno così: al soggetto conoscente, che ap¬pare come individuo, è data la parola dell'enigma; e questa pa¬rola è volontà. Questa, e questa sola, gli dà la chiave per spie¬gare il suo proprio fenomeno, gli manifesta il senso, gli mostra l’intimo congegno del suo essere, del suo agire, dei suoi movi¬menti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell'intuizione dell'intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente e che in tutt'altro modo, ossia come quell'alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può voler davvero senz'accorgersi insieme ch'esso appare come movimento del corpo. L'atto volitivo e l'azione del corpo non sono due stati conosciuti oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loro nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dati in due modi affatto diversi, nell'uno direttamente, e nell'altro mediante l'intuizione per l'intelletto. L'azione del corpo non è altro, che l'atto del volere oggettivato, ossia penetrato nell'intuizione. [ ... ]
Attraverso tutte queste considerazioni, chi può aver giunto anche in abstracto quindi con chiarezza e certezza la conoscenza che ciascuno ha direttamente in concreto come sentimento: che cioè l'essenza in sé del nostro proprio fenomeno (il quale come rappresentazione ci si offre sia nelle nostre azioni, sia nel permanente loro substrato: il nostro corpo) è la nostra volontà; e che questa costituisce l'elemento immediato della nostra coscienza. [ ... ] chi, io dico, è arrivato con me a desta persuasione, troverà che questa è per lui come la per conoscere l'intima essenza della natura intera; applicandola anche a quei fenomeni che non gli son dati, come i suoi propri, in conoscenza immediata oltre che mediata, ma quest'ultima, quindi solo unilateralmente, come semplice presentazione. Non soltanto in quei fenomeni che sono affatto simili al suo proprio negli uomini e negli animali egli dovrà riconoscere, come più intima essenza, quella medesima volontà; ma la riflessione prolungata lo condurrà a conoscer che la forza che ferve e vegeta nella pianta, e quella per forma il cristallo, e quella che volge la bussola al polo, e quella che scocca nel contatto di due metalli eterogenei, e quella rivela nelle affinità elettive della materia, come ripulsione ed attrazione, separazione e combinazione; e da ultimo perfino la gravità, che in ogni materia sì potentemente agisce e attrae la pietra alla terra, come la terra verso il sole tutte queste in apparenza diverse conoscerà nell'intima essenza come unica forza, come quella forza a lui più profondamente e meglio nota d'ogni altra cosa, che là, dove più chiaramente si produce, prende nome di volontà. Solo quest'impiego della riflessione non ci fa più arrestare al fenomeno, bensì ci conduce fino alla cosa in sé. Fenomeno è rappresentazione, e non più: ogni rap¬presentazione, di qualsivoglia specie, ogni oggetto è fenomeno. Cosa in sé invece è solamente la volontà: ella, come tale, non è punto rappresentazione, bensì qualcosa toto genere differente da questa: ogni rappresentazione, ogni oggetto, è fenomeno, estrinsecazione visibile, obiettità di lei. Ella è l'intimo essere, il nocciolo di ogni singolo, ed egualmente del Tutto: ella si mani¬festa in ogni cieca forza naturale; ella anche si manifesta nella meditata condotta dell'uomo. La gran differenza, che separa la forza cieca dalla meditata condotta, tocca il grado della mani¬festazione, non l'essenza della volontà che si manifesta. [ ... ]
La volontà come cosa in sé [ ... ] sta fuor del dominio del principio di ragione in tutte le sue forme, ed è quindi assoluta¬mente senza ragione, sebbene ogni sua manifestazione sia in tutto sottomessa al principio di ragione; sta fuori inoltre di ogni pluralità, sebbene le sue manifestazioni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli. Ella è una, ma non com'è uno un og¬getto, la cui unità può esser conosciuta solo in contrasto con la possibile pluralità; e nemmeno com'è uno un concetto, che è sorto dalla pluralità mediante astrazione: bensì è una in quanto sta fuori del tempo e dello spazio, fuori del principium indivi¬duationis, ossia della possibile pluralità. [ ... ]
Un ultimo passo ci rimane da fare: l'estensione del nostro si¬stema anche a quelle forze, che agiscono nella natura secondo leggi generali ed immutabili, conformemente alle quali si pro¬ducono i movimenti di tutti quei corpi che, affatto privi di or¬gani, non sono sensibili allo stimolo e non possono conoscere motivi. La chiave per l'intendimento delle cose nella loro so¬stanza in sé chiave che sola poteva darci l'immediata cogni¬zione della nostra propria essenza dobbiamo ora applicarla anche a questi fenomeni del mondo inorganico, che sono i più remoti da noi stessi. Ora, se noi li osserviamo con occhio indagatore; se vediamo il veemente, incessante impeto, con cui le acque precipitano verso il profondo; la costanza, con cui il ma¬gnete torna sempre a volgersi al polo; lo slancio, con cui il ferro corre alla calamita; la vivacità, con cui i poli elettrici tendono a congiungersi, vivacità che viene aumentata dagli ostacoli, pro¬prio come accade ai desideri umani; se vediamo il cristallo formarsi quasi istantaneamente, con tanta regolarità di conformazione, la quale evidentemente è solo una risoluta e precisa tendenza verso differenti direzioni, irrigidita e fissata d'un tratto; se osserviamo la scelta, con cui i corpi sottratti ai vincoli della solidità, e fatti liberi dallo stato liquido, si cercano, si sfuggono, si congiungono, si separano; se infine sentiamo direttamente che un peso, la cui tendenza verso terra sia trattenuta dal nostro corpo, grava e preme incessantemente su di questo seguendo la propria unica tendenza; non ci costerà un grande sforzo di fantasia il riconoscere, anche a sì gran distanza. la nostra medesima essenza: quella stessa, che in noi opera seco suoi fini alla luce della conoscenza, mentre qui, nei più deboli de' suoi fenomeni, opera in modo cieco, sordo, unilaterale ed invariabile. Ella è sempre una e sempre la stessa in così diverse manifestazioni, e perciò [ ... ] in queste ed in quelle deve prendere il nome di volontà: il quale contrassegna ciò che è essenza di ciascuna cosa nel mondo, ed unica sostanza di ogni meno. [ ... ]
In primo luogo desidero, che si richiami qui la considerazione con cui abbiamo chiuso il secondo libro, indottivi dalla manda colà formulata, intorno alla meta e allo scopo della volontà. Invece di trovar risposta, ci risultò evidente che la volontà, in tutti i gradi del suo fenomeno, dai più bassi a i più manca affatto d'un fine ultimo e d'uno scopo; continuamente aspira, perché aspirare è la sua unica essenza, a cui non termine alcun fine raggiunto; non è quindi capace d'alcun pagamento finale, e solo per una costrizione può esser trattenuta, ma in sé si estende nell'infinito. [ ... ]
Da tempo conoscemmo quest'aspirazione, costituente r di ogni cosa, come identica e tutt'una con ciò che in noi, do¬sa si manifesta con la maggior chiarezza, alla luce della più piena coscienza, si chiama volontà. La sua compressione m te un ostacolo, che si mette fra lei e una sua mira, chiamiamo ¬quindi dolore; viceversa il suo conseguir la mira chiamiamo pagamento, benessere, felicità. Cotali denominazioni possiamo pur riferire ai fenomeni del mondo privo di conoscenza, più boli di grado, ma nell'essenza identici. Questi vedremo presi da perenne soffrire, senza durabile felicità. Perché aspirare proviene da mancanza, da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore, finché non sia appagato; ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il principio di una nuova aspirazione. L'aspirazione vediamo ovunque in più forme com¬pressa, diuturnamente pugnando; quindi sempre come dolore. Non ha termine l'aspirare, non ha dunque misura e termine il soffrire. Ma quel che così sol con più acuta attenzione ed a fati¬ca scopriamo nella natura priva di conoscenza, limpido ci ap¬pare nella conoscente, nella vita animale; il cui perenne soffrire è facile a dimostrarsi. E, senza indugiare in codesto grado inter¬medio, ci volgeremo là, dove, dalla più luminosa conoscenza ri¬schiarato, tutto nel modo più chiaro si disvela: nella vita dell’uomo. Imperocché come il fenomeno della volontà diventa più compiuto, così diventa anche più e più palese il dolore. Nella pianta non è ancora sensibilità, e quindi punto dolore: un grado certamente tenue di sofferenza è insito negli animali infimi, infusori e radiolari; perfino negl'insetti è la capacità di sentire e di soffrire ancor limitata: solo col perfetto sistema ner¬voso dei vertebra ti la si presenta in alto grado, e sempre più al¬. quanto più l'intelligenza si sviluppa. Nella stessa misura dunque, onde la conoscenza perviene alla chiarezza, e la co¬scienza si eleva, cresce anche il tormento, che raggiunge perciò suo massimo grado nell'uomo; e anche qui tanto più, quanto più l'uomo distintamente conosce ed è più, intelligente. Quegli, in cui vive il genio, soffre più di tutti. [ ... ]
Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere per suo rimo essere un continuo aspirare, senza meta e senza posa; più evidente ci apparisce quest'aspirazione considerando l’animale e l'uomo. Volere e aspirare è tutta l'essenza loro, affatto simile a inestinguibile sete. Ma la base d'ogni volere è bi¬o, mancanza, ossia dolore, a cui l'uomo è vincolato dall'o¬e, per natura. Venendogli invece a mancare oggetti del desiderio, quando questo è tolto via da un troppo facile appaga¬to, tremendo vuoto e noia l'opprimono: cioè la sua natura suo essere medesimo gli diventano intollerabile peso. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi. [ ... ] Ciò ch'è universalmente ammesso come positivo, che noi amiamo l'ente, e la cui negazione è espressa dal concetto del a nel suo significato più universale, è appunto il mondo della rappresentazione, che io ho indicato come oggettità, specchio ¬della volontà. E questa volontà e questo mondo sono poi anche noi stessi, e al mondo appartiene la rappresentazione in genere, come una delle sue facce: forma di tale rappresentazio¬ne sono spazio e tempo, quindi ogni cosa, che sotto questo riguardo esista, dev'esser posta in qualche luogo e in qualche tempo. Negazione, soppressione, rivolgimento della volontà è anche soppressione e dileguamento del mondo, ch'è specchio di quella. Se non vediamo più la volontà in codesto specchio, in¬vano ci domanderemo dove si sia rivolta; e lamentiamo allora ch'ella non abbia più né dove né quando, e sia svanita ne nulla.
Un punto di vista invertito, qualora fosse possibile per noi. scambierebbe i segni, mostrando come il nulla ciò che per noi è l'ente, e quel nulla come l'ente. Ma, finché noi medesimi siamo la volontà di vivere, il nulla può esser conosciuto da noi solo ne¬gativamente, perché l'antico principio d'Empedocle, potere il simile esser conosciuto soltanto dal simile, ci toglie qui ogni possibilità di conoscenza. [ ... ]
Quando si volesse tuttavia insistere nel pretendere in qual¬che modo una cognizione positiva di ciò, che la filosofia può esprimere solo negativamente, come negazione della volontà. non potremmo far altro che richiamarci allo stato di cui fecero esperienza tutti coloro, i quali pervennero alla completa negazione della volontà; stato al quale si san dati i nomi di estasi, ra¬pimento, illuminazione, unione con Dio, e cosÌ via. Ma tale sta¬to non può chiamarsi cognizione vera e propria, perché non ha più la forma del soggetto e dell'oggetto, e inoltre è accessibile solo all'esperienza diretta, né può essere comunicato altrui. [ ... ]
Davanti a noi non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura. è anch'essa nient'altro che la volontà di vivere. Volontà di vive¬re siamo noi stessi, volontà di vivere è il nostro mondo. L'aver noi tanto orrore del nulla, non è se non un'altra manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e niente siamo se non questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che superarono il mondo; coloro, in cui la volon¬tà, giunta alla piena conoscenza di sé, se medesima ritrovò in tutte le cose e quindi liberamente si rinnegò; coloro, che atten¬dono di vedere svanire ancor solamente l'ultima traccia della volontà col corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo dell'incessante, agitato impulso; in luogo del perenne passar dal deside¬rio al timore e dalla gioia al dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond'è formato il sogno di vita d'ogni uomo ancor volente: ci appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell'assoluta quiete dell'animo pari alla cal¬ma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e leti¬zia, il cui semplice riflesso nel volto, come l'hanno rappresenta¬to Raffaello e Correggio, è un completo e certo Vangelo. La co¬noscenza sola è rimasta, la volontà è svanita. E noi guardiamo con profonda e dolorosa nostalgia a quello stato, vicino al quale apparisce in piena luce, per contrasto, la miseria e la perdizio¬ne del nostro. Eppur quella vista è la sola, che ci possa durevol¬mente consolare, quando noi da un lato abbiam riconosciuto essere insanabile dolore ed infinito affanno inerenti al fenome¬no della volontà, al mondo; e dall'altro vediamo con la soppres¬sione della volontà dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla rimanere innanzi a noi. In tal guisa dunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero d'incontrar nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro biografie e, col suggello dell'interna verità, dall'arte ci son posti sotto gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di sen¬so, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è inve¬ro, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stes¬sa è rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è il nulla.
Da: Laterza, 1986, pp. 2932, 1524, 1656, 16970, 1756, 40812, 5336.
Arthur Schopenhauer
O SI PENSA O SI CREDE
Il mito della metempsicosi è, fra tutti i miti che siano stati creati, il più ricco di contenuto, il più significativo, il più vicino alla verità filosofica, tanto che io lo ritengo il non plus ultra della rappresentazione mitica. Per questo anche Pitagora e Platone lo ammirarono e lo adottarono; e il popolo presso il quale esso domina universalmente come fede popolare e ha un influsso decisivo sulla vita è da considerarsi, proprio per questo, il più maturo, così come è anche il più antico.
Nessuno che sia veramente filosofo è religioso: cammina senza dande, pericolosamente ma libero.
Noi siamo soltanto concime per futuri meloni.
Se un dio ha fatto questo mondo, io non vorrei essere quel dio, perché il dolore del mondo mi strazierebbe il cuore.
Ogni religione positiva non è che una stampella per la patologica debolezza di spirito della maggior parte degli uomini.
Chiese e templi in tutti i paesi, in tutte le epoche, con sfarzo e grandezza, testimoniano il bisogno metafisico dell’uomo.
La religione cattolica è una guida per elemosinare il Cielo: guadagnarselo sarebbe troppo scomodo. I preti sono i sensali di quell’accattonaggio.
Non esiste alcuna religione naturale: le religioni, tutte, sono prodotti artificiali.
Ogni animale rapace è una tomba vivente di migliaia e migliaia di altri esseri viventi. Per lui nutrirsi e uccidere è una cosa sola. La sua conservazione consiste nel martoriare altri esseri, perché ce meilleur des mondes possibile esiste a condizione che l’uno divori l’altro.
L’inizio della teologia è la paura: se dunque gli uomini fossero felici, non sorgerebbe mai una teologia. Ma l’inizio della filosofia è completamente diverso: una pura riflessione senza uno scopo, alla quale una testa geniale perverrebbe anche in un mondo senza sofferenze e senza la morte.
Ci si immagini un demone creatore: si avrebbe il diritto di gridargli, indicando la sua creazione: «Come hai osato rompere la sacra pace del nulla per creare una simile massa di dolori e di miserie?».
Fate che egli [l’uomo] sia senza bisogni, mettiamo un essere puramente teoretico: non gli occorre alcun dio, e non ne fabbrica alcuno. Il cuore, cioè la volontà, ha bisogno di sperare nell’assistenza di qualcosa di onnipotente e quindi di soprannaturale, e di invocarla: si ipostatizza un dio perché è necessario pregare, non viceversa [cioè perché vi si creda a priori].
Già solo il presentarsi come verità rivelata è il marchio dell’inganno, e costituisce, per uno che pensi, una sollecitazione all’ostilità.
Una cretinata tutta particolare dei filosofastri di oggi è che essi danno per certo che gli animali non hanno un Io, mentre Loro, evidentemente, ne avrebbero uno.
La parola «dio» mi ripugna tanto perché, in ogni caso, pone all’esterno quello che è all’interno. In base a ciò si potrebbe dire che la differenza tra teismo e ateismo sia spaziale. Ma le cose stanno piuttosto così: «dio» è essenzialmente un oggetto e non il soggetto: non appena si pone un dio, quindi, io non sono niente. Se si sostiene l’identità del soggettivo e dell’oggettivo, si può anche sostenere l’identità del teismo e dell’ateismo.
Vorrei che, prima di prorompere nella lode dell’infinitamente Buono, si guardassero un po’ intorno e vedessero che aspetto ha e coma va questo mondo. Dopo di che chiederei loro se un tale mondo sia più simile all’opera dell’infinita Saggezza, dell’infinita Bontà e dell’infinita Potenza, oppure a quella della volontà di vivere.
Solo quando il mondo sarà diventato abbastanza onesto da non impartire lezioni di religione ai ragazzi prima del quindicesimo anno di età ci si potrà aspettare qualche cosa da lui.
Mediante il precoce indottrinamento, in Europa si è arrivati al punto che la credenza in un dio personale è letteralmente diventata, in quasi tutti, un’idea fissa.
Panteismo? Un dio che, incorporato, non raffigurasse niente di meglio che questo mondo inquieto, sanguinante e mortale, le cui creature esistono solo a condizione che l’una divori l’altra, sarebbe un bel tipo davvero.
Le religioni si sono impadronite della disposizione metafisica dell’uomo, in parte delimitandola e paralizzandola tempestivamente con i loro dogmi, in parte mettendo un assoluto divieto su tutte le sue liberi e naturali espressioni. Così, all’uomo la libera ricerca sulle questioni più importanti e interessanti, anzi sulla sua stessa esistenza, viene in parte proibita direttamente, in parte ostacolata indirettamente, in parte resa soggettivamente impossibile mediante quella paralisi; e dunque la più elevata delle sue disposizioni giace in catene.
Il teismo si deve riconoscere in una di queste tre accezioni:
1. Dio ha fatto il mondo dal nulla: questo fa a pugni con l’assoluta certezza che dal nulla non si crea nulla.
2. Egli ha creato il mondo da se stesso: allora o c’è rimasto dentro anche lui stesso, panteismo, o la parte di se stesso, che è diventata mondo, si è staccata da lui, emanazione.
3. Egli ha formato la materia che ha trovata: allora questa è eterna come lui ed egli è soltanto un demiurgo.
Verrà il tempo in cui l’idea di un dio creatore sarà considerata, nella metafisica, come ora si considera quella degli epicicli nell’astronomia.
Chi crede non è filosofo.
I filosofi da strapazzo non conoscono neppure il problema della filosofia. Pensano che esso sia Dio. Da lui partono, come se fosse un dato certo, con lui hanno sempre a che fare: se egli sia nel mondo o fuori del mondo, se abbia una coscienza propria o se si debba servire di quella degli uomini, e simili buffonate a non finire. Asini, il mondo, il mondo è il problema della filosofia, il mondo e nient’altro!
Un essere personale avrebbe fatto il mondo: ciò si può certo credere, come ha insegnato l’esperienza, ma non pensare.
Quando uno comincia a parlare di Dio, io non lo so di che cosa parli.
Per 1800 anni la religione ha messo la museruola alla filosofia. Il compito dei professori di filosofia consiste nello spacciare per filosofia la mitologia ebraica.
Animali – esseri coscienti che dividono con noi questa esistenza misteriosa.
Il bisogno metafisico dell’uomo [...] viene subito dopo il bisogno fisico.
Esistono in tutti i popoli i monopolizzatori e gli appaltatori del bisogno metafisico: i preti. [...] [La prima infanzia] è il momento in cui qualsiasi dogma ben impresso, per quanto insensato possa essere, si fisserà per sempre. Se i preti dovessero aspettare la maturità di giudizio, i loro privilegi non potrebbero esistere.
Una seconda classe, sebbene non numerosa, di persone che traggono il loro sostentamento dal bisogno metafisico degli uomini è formata da quelli che vivono della filosofia: presso i greci si chiamavano sofisti, ora si chiamano professori di filosofia.
Le religioni sono necessarie al popolo e sono per lui un beneficio inestimabile. Ma se esse vogliono opporsi al progresso dell’umanità nella conoscenza della verità, allora, pur con tutta la delicatezza possibile, devono essere messe da parte. E pretendere che perfino un grande spirito – uno Shakespeare, un Goethe – si convinca e accetti implicite, bona fide et sensu proprio i dogmi di qualche religione è come pretendere che un gigante calzi le scarpe di un nano.
Se prendessi come misura della verità i risultati della mia filosofia, dovrei accordare al buddhismo la superiorità su tutte le altre religioni.
La filosofia è essenzialmente sapienza del mondo: il suo problema è il mondo: solo con il mondo essa ha da fare, lasciando in pace gli dèi; ma in compenso si aspetta che gli dèi lasciano in pace lei.
La filosofia, diversamente dalla religione, è una scienza, e, come tale, non ha nessun articolo di fede; in essa, quindi, non si deve assumere come esistente se non ciò che è o chiaramente accertato come dato empirico o dimostrato per via di deduzioni incontrovertibili; e si pensava di esservi giunti da molto tempo, quando Kant tolse al mondo quella illusione, e fornì, anzi, prove così evidenti dell’impossibilità di tali dimostrazioni che, da allora, non ci fu, in Germania, alcun filosofo che si provasse a ricorrervi.
A guardare le cose in modo del tutto realistico e obiettivo, è chiaro come il sole che il mondo si conserva da sé; gli esseri organici esistono e si propagandano grazie alla loro propria, specifica, forza vitale interiore: i corpi organici hanno in sé forze che la fisica e la chimica si limitano a descrivere, e il corso dei pianeti è determinato da forze intrinseche grazie alla loro inerzia e alla gravitazione. Il mondo, dunque, non ha bisogno di altri che di se stesso [...]. Ora, dire che, un tempo, questo mondo, con tutte le forze che contiene, non esisteva, ma fu tirato fuori dal nulla a opera di una forza estranea che si trovava al suo esterno – dire ciò significa formulare un’ipotesi del tutto gratuita, non dimostrabile in alcun modo; tanto più che le forze del mondo sono legate alla materia; né è pensabile che la materia sia qualcosa che può nascere o morire.
Quella concezione del mondo sfocia nello spinozismo. E’ del tutto naturale che gli uomini, nella loro angoscia, abbiano sempre immaginato, per poterli invocare, degli esseri che avrebbero dominato le forze della natura e il loro operare; ma i greci e i romani si contentavano di entità che dominavano, ciascuna, in un suo ambito particolare, né veniva loro in mente di affermare che una di quelle avesse fatto il mondo e le forze della natura.
Dopo aver inferto, con la sua critica della medesima, un colpo mortale alla teologia speculativa, Kant dovette cercare di mitigarne gli effetti sul pubblico stendendo, su quella critica, un lenitivo di funzione analgesica; un comportamento molto simile a quello di Hume, che, nell’ultimo dei suoi Dialogues on natural religion, così pregevoli e così impietosi, ci rivela che è stato tutto uno scherzo, un semplice exercitium logicum. Così Kant, come surrogato delle prove dell’esistenza di Dio, ci ha dato il suo postulato della ragion pratica e la teologia morale che ne deriva, la quale, senza alcuna pretesa di validità soggettiva per la conoscenza o per la ragione teoretica, avrebbe dovuto essere pienamente valida per quanto riguardava l’agire, o per la ragion pratica; con ciò veniva fondata una fede senza conoscenza – tanto perché la gente avesse ancora in mano qualcosa di concreto. Il discorso di Kant, inteso come si deve, non vuol dire altro che questo: l’ipotesi di un dio giusto che remuneri l’uomo dopo la morte è uno schema regolativo utile e soddisfacente a cui può informarsi la definizione di ciò che sentiamo come significato serio, etico, del nostro agire, e , anche, quello stesso agire. Si tratta, in certo qual modo, di un’allegoria della verità: sicché, sotto questo aspetto, che è, poi, il solo che conti, quell’ipotesi potrebbe prendere il posto della verità – se non fosse necessario giustificarla anche teoreticamente, od oggettivamente. Uno schema analogo, di eguale orientamento, ma dotato di una assai maggiore, intrinseca verità e assai più plausibile (e quindi, in sé, più valido) è il dogma del brahmanesimo, quello della metempsicosi e della sua funzione riparatrice: noi dovremo, un giorno, rinascere sotto l’aspetto di ognuno degli esseri a cui abbiamo fatto del male, per subire la medesima offesa. La teologia morale kantiana sarà, dunque, da intendersi al modo di cui si è detto, e ciò, anche, con riguardo al fatto che a Kant non era consentito di ricorrere, su tali argomenti, a un linguaggio esplicito e aperto come quello del presente discorso, mentre, nel dar vita a una creatura mostruosa quale una dottrina teologica valida soltanto praticamente, egli contava sul granus salis delle persone più intelligenti. In questa nostra epoca, che si è lasciata alle spalle la filosofia kantiana, gli scrittori di teologia e di filosofia hanno cercato, per lo più, di far passare la teologia morale di Kant per un vero e proprio teismo dogmatico: per una nuova dimostrazione dell’esistenza di Dio. Si tratta, invece, di una cosa completamente diversa: quella teologia è valida esclusivamente nell’ambito della morale, guarda soltanto alla morale, e non si spinge oltre neppure di un millimetro.
Non si mantennero a un lungo tranquilli neppure i professori di filosofia; benché si sentissero messi in grave difficoltà dalla critica kantiana della teologia speculativa. Da tempo immemorabile, infatti, essi avevano considerato loro specifica missione quella di discorrere dell’esistenza e delle qualità di Dio e di fare, del medesimo, l’oggetto principale del loro filosofare: perciò, se la Scrittura dice che Dio nutre i corvi sul campo, io debbo aggiungere: e i professori di filosofia sulle loro cattedre. Questi, infatti, hanno ancor oggi la faccia tosta di affermare che il vero argomento della filosofia è l’Assoluto (che, come si sa, è il termine di moda per dire «il buon Dio») e il suo rapporto col mondo, e sono tutti indaffarati – come sempre – a precisare quel concetto, a ricamarci sopra, a fantasticarci attorno. E poi, i governi, che elargiscono denaro per un’attività filosofica di quel genere, vorrebbero, in cambio, veder venir fuori dalle aule universitarie dei buoni cristiani e degli assidui frequentatori delle chiese. Che cosa avranno provato quei signori della filosofia lucrativa quando dovettero constatare che, dimostrando che tutte le dimostrazioni della teologia speculativa sono insostenibili, e che è assolutamente inaccessibile ogni conoscenza riguardante il loro tema prediletto, Kant aveva rotto tutte le uova del loro paniere?
Insomma: a dispetto della Critica della Ragione e delle sue dimostrazioni, ai professori di filosofia non sono mai venute a mancare notizie autentiche sull’esistenza di Dio e sui suoi rapporti col mondo, mentre, secondo loro, l’attività filosofica deve consistere esclusivamente nel fornire dettagliate informazioni in proposito.
Non è evidente di per sé neppure una natura naturans (quella natura naturans in cui il loro dio minaccia, spesso, di trasformarsi): Leucippo, Democrito, Epicuro e Lucrezio, infatti, costruirono il mondo senza di essa; e quegli uomini, con tutti i loro errori, valevano molto di più di una legione di banderuole la cui filosofia venale gira a seconda del vento.
Una caratteristica assolutamente essenziale del teismo è l’antropomorfismo; e questo non consiste soltanto nella figura umana attribuita alla divinità, e neppure soltanto nel suo partecipare dei sentimenti e delle passioni umane, ma è proprio del fenomeno fondamentale in sé: una volontà fornita di un intelletto che le fa da guida.
Comunque, si potrebbe dire, con Kant, che il teismo è, in certo qual modo, un postulato di natura pratica; ciò, però, in un senso affatto diverso da quello da lui inteso. Il teismo, infatti, non è, in realtà, un prodotto della coscienza; è un prodotto della volontà. Se avesse un’origine teoretica, come potrebbero, tutte le dimostrazioni su cui si basa, essere così insostenibili? Ecco, invece, in che modo esso nasce dalla volontà. La costante, affannosa inquietudine che ora opprime angosciosamente il cuore (la volontà) dell’uomo, ora accende in lui emozioni e passioni, e lo mantiene in uno stato perenne di timore e speranza – mentre le circostanze che lo fanno sperare e temere non sono in suo potere, e, anzi, non gli è dato di conoscere che un breve tratto della concatenazione dei relativi nessi casuali – quell’inquietudine, quel perenne temere e sperare, lo induce a creare l’ipostasi di entità personali da cui fa dipendere tutto. Di tali entità personali si può supporre che, al pari di altre persone, saranno sensibili a preghiere e lusinghe, servizi e doni; che, cioè, si dimostreranno più arrendevoli della rigida necessità, delle spietate, insensibili forze delle forze della nature, e delle oscure potenze che reggono il corso del mondo. Ora, se in un primo tempo, com’è naturale e come, con grande senso pratico, avevano voluto gli antichi, quelle divinità – in corrispondenza con la diversità delle circostanze – sono numerose, in seguito, per l’esigenza di conferire a quella nozione coerenza, ordine e unità, esse vengono assoggettate, tutte, alla sovranità di una, o, addirittura, ridotte a una soltanto: a un dio che, come una volta mi fece osservare Goethe, non è per niente utilizzabile per un’opera teatrale: che cosa si può fare con un personaggio solo? A ogni modo, ciò che qui importa è l’impulso che spinge l’uomo, spaventato e inquieto, a prosternarsi e a supplicare per avere soccorso nelle sue assidue, miserevoli pene, e, anche, in ciò che riguarda la sua felicità eterna. L’uomo preferisce affidarsi all’altrui grazia piuttosto che ai propri meriti; quello è uno dei pilastri che sorreggono il teismo. Perché il cuore (la volontà) abbia il sollievo della preghiera e il conforto della speranza l’intelletto dell’uomo deve inventargli un dio: non avviene l’inverso: non prega, l’uomo, perché il suo intelletto abbia dedotto, attraverso un corretto ragionamento logico, l’esistenza di un dio. Fate che egli sia senza pene, senza desideri, senza bisogni, un essere fatto soltanto di intelletto, privo di volontà: quell’essere non ha bisogno di alcun dio, e non ne crea alcuno. Nella sua gravosa angoscia, il cuore – cioè la volontà – sente il bisogno di invocare il soccorso di un’entità onnipotente, e, quindi, soprannaturale; e appunto perché si deve pregare si ipostatizza una divinità. Perciò, se il lato teoretico della teologia è, di popolo in popolo, molto diverso per quanto concerne il numero e la natura delle divinità, queste hanno, tutte, una cosa in comune: se gli uomini li servono e li pregano, possono aiutarli e lo fanno: perché è questo ciò che conta; e questo è, allo stesso tempo, il marchio, il segno distintivo da cui si riconosce l’origine di ogni teologia; si comprende, cioè, che ogni teologia nasce dalla volontà, dal cuore, e non già, come si vuol far credere, dalla testa, ossia dalla conoscenza.
Strettamente connesso con la vera origine [...] di ogni forma di teismo, e derivante, come quello, dalla natura dell’uomo, è il suo sentirsi stimolato a offrire sacrifici ai suoi dei, o per comprare il loro favore, o, se glielo hanno già dimostrato, perché continuino a farlo, o perché lo liberino da un male. Tale è il senso di ogni sacrificio; da ciò ha origine e su ciò si regge l’esistenza di tutti gli dèi, tanto che si può veramente dire che gli dèi vissero dei sacrifici. Se l’uomo si crea degli dèi è perché in lui è naturale – anche se è un prodotto della sua miseria e della sua limitatezza intellettuale – il desiderio di invocare e di comprare l’assistenza di entità soprannaturali, e, con esso, il bisogno di soddisfarlo.
Per attenuare quanto poteva esservi di scandaloso nella sua critica di tutta la teologia speculativa, Kant vi aggiunse [...] un’affermazione: anche se l’esistenza di Dio avesse dovuto restare indimostrata, era altrettanto impossibile dimostrare la sua inesistenza. Con ciò, molti si tranquillizzarono, senza accorgersi che Kant, con finta ingenuità, aveva ignorato che affermanti incumbit probatio, e, inoltre, che il numero delle cose di cui non è possibile dimostrare l’inesistenza è infinito.
Si deve ammettere che il teismo fornisce un appoggio alla morale; ma si tratta di un appoggio della specie più grossolana, tale anzi da annullare, in sostanza, la vera, pura moralità dell’agire: qualunque azione disinteressata, una volta che viene retribuita con una cambiale a lunghissima scadenza, ma sicura, che si ottiene in pagamento, si muta istantaneamente in un’azione egoistica; e quello che, in principio, era il dio creatore, diventa, alla fine, il dio della vendetta e della rimunerazione.
Il teismo è, poi, in contrasto con la morale anche a parte ante; e ciò perché abolisce la libertà e l’imputabilità. In relazione, infatti, con un essere che esiste ed è quello che è in quanto è opera di un altro, non si può pensare né a colpe né a meriti. [...] Se esso agisce male, ciò accade perché è malvagio; e, quindi, la colpa non è sua, ma di colui che lo ha fatto. [...] Sant’Agostino, Hume e Kant si sono perfettamente resi conto della validità di questa argomentazione maliziosamente e codardamente ignorata dagli altri [...]. Appunto per eludere quella tremenda, esiziale difficoltà, è stata inventata la libertà del volere, il liberum arbitrium indifferentiae, una finzione assolutamente mostruosa, e perciò costantemente contestata, e respinta ormai da molto tempo da tutte le menti pensanti, ma mai, forse, confutata sistematicamente e a fondo.
Dire che l’uomo è stato creato libero è affermare una cosa impossibile: affermare, cioè, che il creatore gli ha dato un’existentia senza essentia; gli ha dato, quindi, l’esistenza soltanto in abstracto, lasciando a lui di decidere «che cosa» voglia essere.
La libertà morale e la responsabilità, ossia l’imputabilità, presuppongono, inevitabilmente, l’aseità. Le azioni scaturiranno sempre, necessariamente, per effetto dei motivi e in relazione a essi, dal carattere di un essere, vale a dire dalla natura che gli è peculiare, ed è quindi immutabile. Perciò, per essere responsabile, quell’essere deve esistere come entità primigenia e in virtù di un autonomo potere assoluto: deve, cioè, per quanto concerne la sua existentia e la sua essentia, essersi fatto da sé, essere autore di se stesso – se vuole essere il vero autore delle proprie azione. Ovvero: [...] la libertà non può trovar posto nell’operari, e, quindi, deve trovarsi nell’esse; perché che esista è sicuro.
Non ha alcuna ragione di temere la morte uno che vede in sé l’essere primogenio ed eterno, l’origine di tutto ciò che é, e sa che nulla esiste al di fuori di lui.
Contro il panteismo io muovo una sola, importante obiezione: non dice nulla. Chiamare dio il mondo non vuol dire spiegarlo; significa soltanto arricchire la lingua di un inutile sinonimo della parola «mondo». Dire «il mondo è dio» è come dire «il mondo è il mondo».
Dovrebbe, veramente, essere un dio sconsiderato quello che, per divertirsi, non sapesse trovare niente di meglio che trasformarsi in un mondo come questo, un mondo così affamato, per sopportare in esso dolori, miseria e morte che non conoscono limiti né hanno un fine, sotto le specie di milioni innumerevoli di esseri viventi, ma viventi nell’angoscia e nei tormenti, che restano in vita, tutti quanti, per qualche tempo, soltanto divorandosi l’un l’altro – per esempio, sotto la specie di sei milioni di schiavi negri, che ricevono, in media, ogni giorno, sessanta milioni di frustate sul corpo nudo; o di tre milioni di tessitori europei che vegetano stentatamente nella fame e nell’affanno di umide stanze o in squallide fabbriche, e così via. Che bel passatempo, per un dio che, in quanto tale, dovrebbe essere abituato a ben altro!
Io vorrei contrapporre alla formulazione kantiana del principio morale la norma seguente: quando si entra in contatto con una persona non ci si metta a giudicarla, con criteri oggettivi, secondo il suo valore e la sua dignità: non si prendano, cioè, in considerazione né la malvagità della sua volontà né la limitatezza del suo intelletto e la stoltezza delle sue idee; perché quella malvagità potrebbe ingenerare antipatia nei suoi riguardi, e la stoltezza del disprezzo; ma si guardi soltanto alle sue sofferenze, alla sua miseria, alla sua angoscia, ai suoi dolori. Allora ci si sentirà, sempre, simili a lui, si proverà simpatia per lui, e, in luogo di avversione o di disprezzo, si proverà per lui quella compassione che, sola, è quella ἀγάπη [amore] a cui ci esorta il Vangelo. E non è certo con un’indagine sulla sua presunta «dignità» che si può evitare che nasca, nei suoi confronti, avversione o disprezzo: l’unica posizione da assumere a quel fine è, al contrario, quella della compassione.
Data la maggiore profondità delle loro concezioni etiche e metafisiche, i buddhisti non prendono le mosse da virtù cardinali, ma da vizi cardinali.
Così ci tocca sentire che il suicidio è la più grande viltà, che è possibile soltanto in caso di pazzia, e altre insulsaggini del genere, o anche la frase, del tutto insensata, «uno non ha il diritto di suicidarsi»; mentre è evidente che su nulla al mondo uno ha diritti più incontestabili di quelli che riguardano la sua persona e la sua vita.
Non pensiamo che si debba desiderare tanto la vita da voler vivere comunque, qualunque esistenza si conduca. Chiunque tu sia, dovrai morire ugualmente, che tu sia vissuto bene o viziosamente e in modo nefando. Perciò ognuno, come rimedio per la sua anima, pensi soprattutto a questo: fra tutti i beni che la natura ha elargiti all’uomo nessuno è migliore di una morte che giunga quando è bene che giunga; e ciò che la morte ha di meglio è il fatto che ognuno se la può procurare da sé.
La religione è la metafisica del popolo; bisogna assolutamente lasciargliela, e, quindi, mostrare, esteriormente, rispetto per essa, perché screditarla vorrebbe dire portargliela via.
Ora, le varie religioni non sono altro che semplificazioni schematiche diverse, nelle quali il popolo coglie e si prospetta una verità che, in sé, gli è inattingibile, mentre, con quelle, si fa tutt’uno con essa, indissolubilmente. Perciò, mio caro, non avertene a male, ma schernire le religioni è, a un tempo, una meschinità e un’ingiustizia.
Ma non è, forse, altrettanto meschino e ingiusto pretendere che non vi debba essere alcun’altra metafisica all’infuori di quella, confezionata su misura per adattarsi ai bisogni e alle facoltà intellettuali della massa?
All’incirca, come una gamba di legno sostituisce una gamba naturale: ne prende il posto, adempie alla meno peggio le sue funzioni pretendendo di essere considerata una gamba vera, è costruita ora più ora meno abilmente, e così via. C’è, però, una differenza: di solito, prima della gamba di legno, ce n’era una vera, mentre la religione ha preso, dappertutto, il sopravvento sulla filosofia.
Ma per chi non ha una gamba naturale, una gamba di legno ha un grande valore. Devi tener presente che il bisogno metafisico dell’uomo vuole, assolutamente, essere soddisfatto: l’orizzonte dei suoi pensieri dev’essere chiuso, non può restare sconfinato.
Comunque, ammesso che la religione sia uno strumento eccellente per addomesticare e ammaestrare questa razza di bipedi dissennata, ottusa e malvagia, agli occhi di chi è amico della verità ogni fraus, per quanto pia possa essere, è riprovevole. La menzogna e l’inganno sarebbero strumenti davvero singolari per affermare le virtù. La bandiera a cui ho giurato fedeltà è la verità; le rimarrò fedele in tutto, e, senza curarmi del risultato, combatterò per la luce e per la verità.
Le religioni sono come le lucciole: per brillare hanno bisogno dell’oscurità. Ciò che occorre a tutte le religioni è un certo grado di diffusa ignoranza; quello che è il solo elemento in cui possano vivere. Non appena, invece, è consentito all’astronomia, alle scienze naturali, alla storia, alla geografia, all’etnologia, di diffondere ovunque la loro luce, e può finalmente prendere la parola anche la filosofia, ogni religione fondata sui miracoli e sulla rivelazione è destinata a tramontare; e allora è la filosofia a prendere il suo posto. Verso la fine del quindicesimo secolo, con l’arrivo di alcuni dotti greci, spuntò, in Europa, il giorno della conoscenza e della scienza; quel sole continuò a salire, sempre più in alto, nel 1500 e nel 1600, due secoli così fecondi, e dissipò le nebbie del Medioevo. Parallelamente si ebbe, a poco a poco, il declino della Chiesa e della religione, tanto che, nel 18° secolo, alcuni filosofi inglesi e francesi potevano già insorgere, contro l’una e l’altra, direttamente, finché, sotto Federico il Grande, venne Kant, che sottrasse alla fede religiosa il sostegno della filosofia di cui aveva goduto fino ad allora, e, affrontando la questione con scrupolosità e pacatezza tutta tedesca, emancipò l’ancilla theologiae; con ciò essa assunse un aspetto meno frivolo, e tanto più serio. Di conseguenza, vediamo, nel 19° secolo, un cristianesimo molto indebolito, abbandonato quasi del tutto dai credenti più seri, un cristianesimo che lotta, ormai, per la sua stessa esistenza, mentre i sovrani, premurosi, cercano di mantenerlo in piedi con sostanze stimolanti, così come fa il medico che sostiene col muschio il moribondo.
Può anche darsi che sia addirittura imminente il momento, tanto profetizzato, in cui la religione si dipartirà dalle popolazioni dell’Europa, come la nutrice da un bambino troppo cresciuto per restare affidato alle sue cure e ormai pronto a ricevere gli insegnamenti di un precettore. E’, infatti, fuori di dubbio che pure e semplici dottrine religiose basate sull’autorità, sui miracoli e sulla rivelazione non sono adatte che all’infanzia dell’umanità.
Veramente è, questo, il lato peggiore di tutte le religioni: i seguaci di ciascuna ritengono che tutto sia loro permesso contro i seguaci di tutte le altre, coi quali, perciò, si comportano in modo estremamente malvagio e spietato. Così fanno i maomettani coi cristiani e con gli indù, e così fanno i cristiani con gli indù, coi maomettani, con le popolazioni americane, coi negri, gli ebrei, gli eretici e così via. Ma forse, quando dico «tutte», vado troppo lontano; e, in omaggio alla verità, debbo aggiungere che veramente, a quanto sappiamo, il fanatismo e gli orrori nati da motivi religiosi non appartengono che ai seguaci delle religioni monoteistiche, sono tipici, cioè, dell’ebraismo e delle sue due ramificazioni, il cristianesimo e l’Islam. [...] In pratica, l’intolleranza è un fenomeno proprio soltanto del monoteismo: un dio unico è, per sua natura, un dio geloso, e non ne lascia vivere altri. Al contrario, gli dei delle religioni politeistiche sono, per loro natura, tolleranti, vivono e lasciano vivere, e, soprattutto, sono benevoli verso i loro colleghi, gli dei della medesima religione; e poi la loro tolleranza si estende anche agli dei stranieri, che, quindi, vengono accolti ospitalmente, e talvolta, in seguito, ottengono il diritto di cittadinanza, ciò che è dimostrato soprattutto dall’esempio dei romani, che accoglievano di buon grado e onoravano divinità frigie, egizie e altre ancora.
Nella sua qualità di scienza, la filosofia non ha assolutamente nulla a che vedere con ciò che si deve credere né con ciò che è lecito credere; il suo oggetto è soltanto ciò che si può sapere.
A ogni modo, si tratta di due cose fondamentalmente diverse [fede e filosofia], che, per il bene di entrambe, debbono restare rigorosamente separate, così che vadano ciascuna per la sua strada ignorandosi reciprocamente.
C’è un altro difetto fondamentale del cristianesimo del quale si deve far parola; [...] ha distaccato l’uomo dal mondo degli animali, a cui egli, in sostanza, appartiene e, dando importanza a lui soltanto, li tiene addirittura in conto di cose. [...] Ora, il difetto fondamentale di cui ho detto è una conseguenza della creazione dal nulla, dopo la quale il creatore (capp. 1 e 9 della Genesi), consegna all’uomo tutti gli animali, proprio come se fossero cose, e senza nemmeno raccomandargli di trattarli bene, come fa, per lo più, uno che vende cani nel separarsi dal cane che ha allevato; e glieli consegna perché imperi su di loro, cioè ne faccia quello che vuole, dopo di che, nel secondo capitolo, gli conferisce, per di più, il titolo di primo professore di zoologia, in quanto lo incarica di dar loro i nomi che dovranno portare di lì in avanti; il che, poi, non è che un simbolo della loro totale indipendenza dall’uomo, vale a dire della loro condizione di essere privi di diritti. Santa Ganga! Madre della nostra specie! Racconti di quel tipo mi fanno l’effetto del bitume e del foetor judaicus. Tutto dipende dalla visione ebraica, nella quale l’animale è un manufatto costruito a uso e consumo dell’uomo.
«Il giusto ha pietà del suo bestiame.» «Ha pietà»! Che razza di espressione! Si ha pietà di un peccatore, di un malfattore; non di un innocente, fedele animale, che spesso dà da vivere al proprio padrone e non ottiene, in cambio, altro che un po’ di cibo. «Ha pietà!» Non pietà, ma giustizia, è ciò che è dovuto agli animali; ma per lo più tale giudizio manca in Europa, perché il vostro continente è impregnato di foetor judaicus a un punto tale che la semplice, ovvia verità «l’animale è, in sostanza, la stessa cosa che l’uomo» è considerata uno scandaloso paradosso.
Non ci sono dubbi: è ormai tempo che, in Europa, si ponga fine, almeno per quanto riguarda gli animali, alla concezione ebraica della natura, e che si riconosca, si rispetti e si tuteli l’essenza eterna che vive, come in noi, così anche in tutti gli animali. Sappiatelo e tenetelo presente! Si tratta di una cosa seria, e non si può cambiare, nemmeno se coprite di sinagoghe tutta quanta l’Europa. Bisogna essere privi di ogni sensibilità e completamente cloroformizzati dal foetor judaicus per non riconoscere che gli animali sono, nella loro essenza e in ciò che più conta, assolutamente uguali a noi, e che la differenza sta unicamente nell’accidente, nell’intelletto, non nella sostanza, che è la volontà.
E’ vero, purtroppo, che l’uomo, spintosi a nord è perciò divenuto bianco, ha bisogno della carne degli animali (anche se, in Inghilterra, vi sono dei vegetarians); ma, a quegli animali, si deve dare una morte del tutto indolore usando il cloroformio e raggiungendo rapidamente l’organo vitale; e ciò non già, come si legge nell’Antico Testamento, per «compassione», ma per un maledetto obbligo nei confronti dell’essenza eterna che vive, come in noi, così in ogni animale.
Quelli che si immaginano che le scienze possano progredire e diffondersi sempre di più senza che ciò impedisca alla religione di continuare a sopravvivere e a prosperare sono vittime di grande errore. La fisica e la metafisica sono nemiche naturali della religione, e quindi questa è, a sua volta, nemica loro e fa, da sempre, tutto ciò che può per soffocarle, allo stesso modo che quelle si studiano di scalzare le sue fondamenta.
Le conoscenze che, in ogni campo, aumentano di giorno in giorno e si estendono sempre più in tutte le direzioni, allargano l’orizzonte di ogni individuo nell’ambito dei suoi particolari interessi, e lo allargano a tal punto che, fatalmente, esso finirà per raggiungere un’ampiezza tale che al suo contatto i miti che costituiscono l’ossatura del cristianesimo rinsecchiranno, e non offriranno più appiglio alla fede. La religione è come il vestito di un bambino quando il bambino è cresciuto: non gli va più bene, e non c’è niente da fare: il vestito si squarcia. Fede e conoscenza rinchiuse nella medesima testa non vanno d’accordo; ci stanno come un lupo e una pecora chiusi nella medesima gabbia: e la conoscenza è il lupo che minaccia di divorare la vicina. Vediamo come, quando si sente in pericolo di morte, la religione si aggrappi alla morale, quella morale di cui vorrebbe farsi credere madre; ma non le è madre per nulla.
Se la civiltà ha raggiunto il suo culmine fra i popoli cristiani, ciò non dipende da un’influenza positiva del cristianesimo, ma dal fatto che il cristianesimo è morto e ha, ormai, ben poca influenza: e infatti, finché ne ebbe molta, e cioè nel Medioevo, la civiltà era molto arretrata. Per contro l’islamismo, il brahmanesimo e il buddhismo esercitano ancora, sulla vita, un’influenza decisiva: ma in Cina assai di meno e per questo la sua civiltà è abbastanza vicina a quella europea. Ogni religione è agonistica rispetto alla civiltà.
«Se si studia il buddhismo nelle sue fonti», disse Schopenhauer, «ci si rischiara la mente: qui non ci sono le stupide chiacchiere sul mondo creato dal nulla e su un tizio personale che lo avrebbe fatto. Al diavolo tutta questa robaccia.»
«Teologia e filosofia» disse, «sono come i due piatti della bilancia. Quanto più si abbassa l’uno, tanto più si alza l’altra. Quanto più nel nostro tempo cresce la miscredenza, tanto più diventa grande il bisogno di filosofia, di metafisica; e allora devono venire da me.»
A. Schopenhauer, O si pensa o si crede, Rizzoli, 2011
Friedrich Nietzsche
LA GAIA SCIENZA
125. L’uomo folle. Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenire è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazione vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”.
341. Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strusciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”. Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina?”. Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: “Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?” graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?
Friedrich Nietzsche
COSI’ PARLO’ ZARATHUSTRA.
Introduzione
1.
Allorchè Zarathustra ebbe raggiunto il trentesimo anno, abbandonò il paese nativo ed il nativo lago e andò sulle montagne. Ivi godè del suo spirito e della sua solitudine e non se ne stancò per dieci anni. Ma alla fine il suo cuore si cangiò – e un mattino, levatosi con l'aurora si mise di fronte al sole e gli disse:
O grande astro! Che sarebbe della tua beatitudine, se tu non avessi coloro ai quali risplendi?
Da dieci anni vieni quassù nella mia caverna; ti saresti tediato della tua luce e di questo cammino, se non fosse per me, per l'aquila mia e pel mio serpente.
Ma noi ti attendevamo ogni mattina, prendevamo il tuo superfluo, benedicendoti in cambio. Guarda, mi è venuta in disgusto la mia sapienza; come l'ape che ha raccolto troppo miele, ho bisogno di mani che si tendano a me.
Vorrei donare e distribuire fin che i savi tra gli uomini fossero ridivenuti lieti della loro follia e i poveri della loro ricchezza.
Perciò debbo discendere nel profondo: come tu fai la sera quando scomparisci dietro il mare e dispensi la luce tua anche al mondo degli inferi, tu astro fulgentissimo!
Al pari di te, io debbo tramontare, come dicono gli uomini, tra i quali voglio discendere.
Benedicimi dunque, occhio tranquillo, che puoi contemplare senza invidia anche una felicità troppo grande!
Benedici il calice che sta per traboccare, affinchè l'acqua ne esca dorata e porti da per tutto il riflesso della tua gioia!
Vedi! Questo calice vuol essere vuotato un'altra volta e Zarathustra vuol ridivenire uomo. Così cominciò la discesa di Zarathustra.
2.
Zarathustra discese solo, dalla montagna, e non si incontrò con alcuno. Ma quando giunse nei boschi subito gli si levò dinanzi un vecchio che aveva abbandonato la sua sacra capanna per cercare radici nella selva. E così parlò il vecchio a Zarathustra:
«Non mi è straniero questo viaggiatore; molti anni or sono egli passò di qui. Si chiamava Zarathustra; ma ora è mutato.
Portavi allora la tua cenere al monte; – vuoi tu oggi portare il fuoco nelle valli? Non temi il castigo degli incendiari?
Sì, io riconosco Zarathustra. L'occhio suo è puro e sulle labbra non nasconde segno di disgusto. Non s'avanza egli simile a un danzatore?
Zarathustra si è trasformato; è ridivenuto un bambino; Zarathustra è un ridesto; che vuoi tu ora fra i dormienti?
Tu vivevi nella solitudine come in un mare, e il mare ti cullava. Ahimè, vuoi tu approdare? Ahimè, vuoi novellamente trascinare da te stesso il tuo corpo?».
Zarathustra rispose: «Io amo gli uomini».
«Perchè – disse il santo – mi rifugiai nella selva e nel deserto? Non forse perchè amai troppo gli uomini?
Ora amo Dio e non amo gli uomini. L'uomo è per me una cosa troppa imperfetta. L'amore per gli uomini mi ucciderebbe».
Zarathustra rispose: «Non parlai d'amore! Io reco agli uomini un dono».
«Non dare loro nulla – disse il santo. – Togli loro piuttosto qualche cosa o aiutali a portarla – codesto gioverà loro più di tutto: purchè giovi anche a te! E se vuoi donar loro qualcosa, non dare più di una elemosina e lascia che essi te la chiedino!»
«No, rispose Zarathustra, io non dispenso elemosine. Non sono abbastanza povero per far ciò».
Il santo rise di Zarathustra e parlò così: «Allora, vedi un po' se essi accettano i tuoi tesori! Essi diffidano dei solitari e non credono che noi veniamo per donare. I nostri passi risuonano troppo solitari traverso le loro strade. E come quando di notte, dai loro letti, odono camminare un uomo, molto prima del levar del sole, si chiedono: dove va codesto ladro?
Non andare tra gli uomini e rimani nella selva! Va piuttosto tra gli animali! Perchè non vuoi tu essere come me – un orso tra gli orsi, un uccello tra gli uccelli?»
«E che cosa fa il santo nella selva?» domandò Zarathustra.
Rispose il santo: «Io compongo canzoni e le canto; e quando le compongo, rido, piango e mormoro: così lodo Iddio.
Col cantare, col piangere, col ridere e col mormorare, io lodo Iddio che è il mio nume. Ma che cosa ci porti tu in dono?».
Quando Zarathustra ebbe udito queste parole, salutò il santo e disse: «Che cosa avrei io da darvi? Ma lasciatemi partir presto, perchè non vi tolga nulla!». E così si separarono, l'un dall'altro, il vecchio e l'uomo, ridendo come ridono due fanciulli.
Ma quando Zarathustra fu solo, parlò così al suo cuore: «Sarebbe dunque possibile! Questo vecchio santo non ha ancora sentito dire, nella sua foresta, che Dio è morto!».
3.
Quando Zarathustra giunse alla vicina città che è presso le foreste, trovò gran popolo raccolto sul mercato: poichè era corsa voce che vi si sarebbe veduto un funambolo. E Zarathustra così parlò al popolo:
«Io insegno a voi il Superuomo. L'uomo è cosa che deve essere superata. Che avete fatto voi per superarlo? Tutti gli esseri crearono finora qualche cosa oltre sé stessi: e voi volete essere il riflusso di questa grande marea, e tornare piuttosto al bruto anzichè superare l'uomo?
Che cosa è la scimmia per l'uomo? Una derisione o una dolorosa vergogna. E questo appunto dev'essere l'uomo per il Superuomo: una derisione o una dolorosa vergogna.
Voi avete tracciata la via dal verme all'uomo, ma molto c'è ancora in voi del verme. Una volta eravate scimmie, e ancor adesso l'uomo è più scimmia di tutte le scimmie. Ma anche il più saggio, fra di voi, non è che una cosa sconnessa, un essere ibrido tra pianta e fantasma.
E nondimeno vi consiglio io forse di divenir piante o fantasmi?
Ecco, io vi insegno il superuomo!
Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: il superuomo sia il senso della terra!
Vi scongiuro, fratelli miei, restate fedeli alla terra, e non credete a coloro che vi parlano di speranze soprannaturali.
Sono avvelenatori, lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi, avvelenatori di sè medesimi; la terra ne è stanca: se ne vadano dunque!
L'oltraggio a Dio era una volta il maggior delitto: ma Dio è morto e morirono con lui anche questi bestemmiatori.
Oltraggiar la terra è quanto vi sia di più terribile, e stimare le viscere dell'imperscrutabile più che il senso della terra è una colpa spaventosa. Una volta l'anima guardava con disprezzo il corpo: e quel disprezzo era una volta il più alto ideale – lo voleva magro, odioso, affamato. Pensava, in tal modo, di sfuggire a lui e alla terra.
Oh, quest'anima era anch'essa magra, odiosa, affamata: e la crudeltà sua gioia suprema.
Ma voi pure, fratelli miei, ditemi: che cosa vi rivela il vostro corpo intorno all'anima vostra? Essa non è forse miseria e sozzura, e compassionevole contentezza di sé medesima?
In verità l'uomo è fangosa corrente. Bisogna addirittura essere un mare per poter ricevere in sè un torbido fiume senza divenire impuro.
Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è questo mare, e in esso può inabissarsi il vostro grande disprezzo.
Che di più sublime potete voi sperimentare? Ecco l'ora del maggior disprezzo, l'ora nella quale vi verrà a noia non solo la vostra felicità, ma anche la vostra ragione e la vostra virtù.
L'ora in cui dite: «Che importa la mia felicità? Essa è povertà e sozzura e miserabile contentezza. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare la vostra stessa vita!».
L'ora in cui dite: «Che importa della mia ragione? Brama essa la scienza come il leone il nutrimento? Essa è povertà e sozzura e una miserabile contentezza!».
L'ora in cui dite: «Che importa della mia virtù? Non mi ha ancor reso furibondo. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è miseria e sozzura e miserabile contentezza!».
L'ora in cui dite: «Che importa della mia giustizia? Non vedo che io sia fiamma e carbone. Ma il giusto è fiamma e carbone!».
L'ora in cui dite: «Che importa della mia pietà? La pietà non è forse la croce su cui inchiodano colui che ama gli uomini? Ma la mia pietà non è crocifissione».
Avete già parlato così? Avete già gridato così? Ah se vi avessi già udito gridare così!
Non il vostro peccato – la vostra moderazione grida contro il cielo, la vostra avarizia nello stesso peccato! Dov'è il fulmine che vi lambisca con la lingua?
Dov'è la follia con la quale potete esaltarvi?
Ecco, io v'insegno il superuomo: egli è questo fulmine, egli è questa follia!».
Allorchè Zarathustra ebbe parlato così, uno del popolo gridò: «Abbiamo ora udito abbastanza del funambolo; fate che adesso lo vediamo!». E tutto il popolo rise di Zarathustra. Ma il funambolo che credette la parola rivolta a lui, si accinse all'opera sua.
4.
Ma Zarathustra guardava il popolo e si meravigliava. Poi disse:
«L'uomo è una corda tesa tra l’animale e il superuomo – una corda sopra l'abisso.
Pericoloso l'andare alla parte opposta, pericoloso il restare a mezza via, pericoloso il guardare indietro, pericoloso il tremare e l'arrestarsi.
Ciò ch'è grande nell'uomo è l'essere un ponte e non una meta: ciò che si può amare nell'uomo è l'essere una transizione e una distruzione.
Amo quelli che sanno vivere soltanto per sparire, poichè son coloro appunto che vanno oltre.
Io amo i grandi spregiatori perchè sono i grandi adoratori, frecce del desiderio verso l'opposta riva.
Amo coloro che non cercano, oltre le stelle, una ragione per offrirsi in sacrificio o perire; amo coloro che si sacrificano alla terra, perchè la terra appartenga un giorno al superuomo.
Amo colui che vive per conoscere, e che vuol conoscere affinchè, un giorno, viva il superuomo. E in tal modo egli vuol la propria distruzione.
Amo colui che lavora e inventa, per edificare una casa al superuomo e preparare a lui la terra, gli animali e le piante: giacchè vuole così la sua distruzione.
Amo colui che non ritiene per sè una sola goccia del suo spirito, ma che vuol essere interamente lo spirito della sua virtù: così egli varca, quale spirito, il ponte.
Amo colui che della sua virtù fa la propria inclinazione e il proprio destino: così vuole per amore della propria virtù vivere ancora o non più vivere.
Amo colui che della sua virtù fa la propria inclinazione e il proprio destino: così vuole per amore della propria virtù vivere ancora o non più vivere.
Amo colui che non vuole avere troppe virtù. Una virtù vale più di due, perchè essa è un nodo più saldo al quale s'aggrappa il destino.
Amo colui l'anima del quale si prodiga,che non vuole ringraziamento e non restituisce: giacchè egli dona sempre e non vuol conservare nulla di sè.
Amo colui che si vergogna se il dado cade in suo favore e si domanda: sono io dunque un pazzo giocatore? poichè egli vuole perire.
Amo colui che getta parole d'oro dinanzi alle sue azioni e mantiene sempre di più di quanto ha promesso poichè egli vuole la propria distruzione.
Amo colui che giustifica i venturi e redime i passati: poichè egli vuole perire in causa dei presenti.
Amo colui che castiga il suo Dio perchè lo ama: giacchè egli deve perire per la collera del suo Dio.
Amo colui la cui anima è profonda anche nella ferita, e che può perire per un piccolo avvenimento: così egli passa volentieri sul ponte.
Amo colui l'anima del quale è traboccante, così ch'egli dimentica sè stesso e tutte le cose che sono in lui: così tutte le cose cooperano alla sua distruzione.
Amo colui che è libero spirito e libero cuore: così la sua testa non è che un viscere del suo cuore, ma il cuore lo spinge alla rovina.
Amo tutti coloro che sono come gocce pesanti, cadenti una per una dalla fosca nube sospesa su gli uomini: esse annunziano che viene il fulmine, e periscono quali messaggeri.
Guardate, io sono un nunzio del fulmine e una pesante goccia della nube: ma questo fulmine si chiama superuomo».
5.
Quando Zarathustra ebbe pronunciate queste parole, guardò di nuovo gli uomini e tacque. «Eccoli – disse al suo cuore – essi ridono: essi non mi comprendono, io non sono bocca per queste orecchie. Bisogna dunque prima spezzar loro le orecchie affinchè essi imparino a intender con gli occhi?
Bisogna fardello strepito come cembali e predicatori della penitenza? Oppure essi non credono che a colui che balbetta?
Essi hanno qualcosa della quale vanno superbi. Come chiamano però, ciò che li fa superbi? La chiamano cultura: essa li distingue dai pastori di capre.
Perciò odono malvolentieri per loro la parola «disprezzo».
Voglio dunque parlare al loro orgoglio. Voglio dunque parlar loro di ciò che è più spregevole: cioè dell'ultimo uomo». E così parlò Zarathustra al popolo:
«È tempo che l'uomo fissi a sè medesimo uno scopo. È tempo che l'uomo pianti il seme della sua più alta speranza.
Il suo terreno è ancora abbastanza ricco per questo. Ma questo terreno diverrà un giorno povero e sterile e nessun altro albero potrà crescervi.
Ahimè! Viene il tempo nel quale l'uomo non getterà più al di sopra degli uomini il dardo del suo desiderio, e la corda del suo arco più non saprà vibrare!
Vi dico: bisogna ancora portare in sè un caos, per poter generare una stella danzante. Vi dico: avete ancora del caos in voi. Ahimè! Viene il tempo in cui l'uomo non potrà più generare alcuna stella. Ahimè! giunge il tempo del più spregevole tra gli uomini che non sa più disprezzare sé stesso.
Guardate! Io vi mostro l'ultimo uomo.
«Che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è nostalgia? Che cosa è astro?» – così chiede l'ultimo uomo ammiccando.
La terra sarà divenuta allora piccina e su di lei saltellerà l'ultimo uomo che impicciolisce ogni cosa.
La sua razza è indistruttibile come quella della pulce; l'ultimo uomo vive più a lungo di tutti.
«Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini e ammiccano.
Essi hanno abbandonate le regioni dove duro era vivere: giacchè si ha bisogno di calore. Si ama ancora il vicino e ci si stropiccia a lui: giacchè si ha bisogno di calore.
Ammalarsi e diffidare equivale per essi a peccato: avanziamo guardinghi. Folle chi incespica ancora nei sassi o negli uomini!
Un po' di veleno di qui e di là: ciò produce sogni gradevoli. E molto veleno infine, per una gradevole morte.
Si lavora ancora poichè il lavoro è uno svago. Ma si ha cura che lo svago non ecciti troppo.
Non si diviene più poveri e ricchi: entrambe queste cose sono troppo opprimenti. Chi vuole ancora regnare? Chi ancora obbedire? Entrambe queste cose sono troppo opprimenti.
Nessun pastore e un solo gregge. Ognuno vuol la stessa cosa, ognuno è simile: chi sente altrimenti, va volentieri al manicomio.
«Una volta tutto il mondo era pazzo» dicevano i più astuti ammiccando.
Si è prudenti e si sa tutto ciò che accade: così non si hanno limiti nel deridere. Ci si bisticcia ancora, ma subito ci si riconcilia – altrimenti ci si rovina lo stomaco.
Abbiamo i nostri svaghi per il giorno e i nostri svaghi per la notte: ma pregiamo la salute.
«Noi abbiamo inventato la felicità» dicono, ammiccando gli ultimi uomini».
E qui Zarathustra terminò il primo discorso che si chiama anche «l'introduzione»: giacchè in quel punto l'interruppe il clamore e la gioia della folla. «Dacci questo ultimo uomo, o Zarathustra – essi gridavano – rendici simili a quest'ultimo uomo». E tutto il popolo giubilava e faceva schioccare la lingua. Ma Zarathustra divenne triste e disse al suo cuore:
«Essi non mi comprendono: io non sono bocca per queste orecchie.
Troppo a lungo, certo, vissi nella montagna, troppo ascoltai i ruscelli e gli alberi: ora parlo a loro come a pastori di capre.
L'anima mia è serena e luminosa quale montagna al mattino. Ma essi pensano che io sia freddo e un buffone dalle burle atroci.
Ed ecco che mi guardano e ridono: e mentre ridono essi mi odiano ancora. Vi è del ghiaccio nel loro riso».
6.
Ma allora accadde qualcosa, che fece ammutolire ogni bocca, irrigidire ogni sguardo. Nel frattempo il saltimbanco aveva infatti cominciato il suo lavoro: era uscito da una porticina e camminava su la corda tesa fra le due torri, così che rimaneva sospeso sopra il mercato e la folla. Quando fu appunto a metà del suo cammino, la piccola porta si aperse ancora una volta, e saltò fuori un garzone screziato, somigliante a un pagliaccio, che seguì con passi rapidi il primo. «Avanti, zoppo, gridò la sua terribile voce, avanti poltrone, paltoniere, faccia smunta! Bada ch'io non ti carezzi con le mie calcagna! Che fai tu qui fra le torri? Bisognerebbe appunto chiuderti nella torre; tu sbarri la via a uno migliore di te». E ad ogni parola gli si avvicinava sempre più: ma quando egli fu soltanto a un passo da lui, allora avvenne questa cosa terribile che fece ammutolire ogni bocca ed irrigidì ogni sguardo – egli gettò un grido indemoniato e saltò oltre colui che gli impediva il cammino. Ma questi, allorchè vide vincer così il proprio rivale, perdette la testa e la fune; gettò via la pertica e più svelto di questa, come un turbine di braccia e di gambe, precipitò nell'abisso. Il mercato e il popolo somigliavano al mare quando si solleva la tempesta: tutti fuggivano l'un dall'altro e l'uno sopra l'altro, e principalmente in quel punto ove doveva precipitare il corpo.
Zarathustra però non si mosse, e proprio accanto a lui cadde il corpo straziato, sfracellato, ma non morto ancora. Dopo un poco quell'infranto rinvenne e vide Zarathustra inginocchiato presso di lui. «Che fai tu qui?, disse infine; sapevo da gran tempo che il diavolo m'avrebbe giocato di sgambetto. Ora mi trascina all'inferno: vuoi tu impedirglielo?».
«Sul mio onore, o amico, rispose Zarathustra, non esiste affatto quanto tu dici: non vi è nessun diavolo e nessun inferno. L'anima tua morirà prima ancora del tuo corpo. Non temere più nulla».
L'uomo guardò su, diffidente. «Se tu dici la verità, diss'egli poi, allora io non perdo nulla perdendo la vita. Io non sono molto più di una bestia alla quale insegnarono a ballare a furia di busse e di scarso alimento».
«Non è punto così, disse Zarathustra; tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere; in ciò nulla vi è di spregevole. Ora tu perisci pel tuo mestiere: voglio quindi seppellirti con le mie mani».
Quando Zarathustra ebbe detto questo, il moribondo non rispose più, ma scosse la mano, come se cercasse la mano di Zarathustra per ringraziarlo.
7.
Giunse frattanto la sera ed il mercato si avvolse di tenebre: allora il popolo si disperse, poi che anche la curiosità e lo spavento si stancano. Ma Zarathustra sedette presso il morto, sulla terra, e s'immerse nei pensieri: così dimenticava il tempo. E giunse alla fine la notte, e soffiò un vento freddo sul solitario. Allora Zarathustra si alzò e disse al suo cuore:
«Davvero una bella pesca ha fatto oggi Zarathustra! Non trovo alcun uomo, bensì un cadavere.
Inquietante è l'esistenza umana e, di più, sempre priva di senso: un buffone può divenirle fatale.
Io voglio insegnare agli uomini il senso della loro vita: chi è il superuomo, il lampo di quella oscura nube che è l'uomo.
Ma sono ancor lungi da essi e il senso mio non parla ai loro sensi. Per gli uomini io sono ancora un punto centrale tra pazzo e cadavere.
Buia è la notte, buie sono le vie di Zarathustra. Vieni, rigido e freddo compagno. Ti conduco al luogo ove ti seppellirò con le mie mani».
8.
Allorchè Zarathustra ebbe detto questo al suo cuore, si caricò il cadavere sulle spalle e si pose in cammino. E non aveva ancora fatto cento passi, quando un uomo gli si avvicinò e gli sussurrò nell'orecchio – e vedi! Colui che parlava era il buffone della torre.
«Vattene via da questa città, o Zarathustra, diss'egli; qui troppi ti odiano. I buoni e i giusti ti odiano e ti chiamano loro nemico e spregiatore; ti odiano i credenti della vera fede e ti chiamano il pericolo della folla. Fu tua fortuna che si ridesse di te: e veramente tu parlavi a guisa di un buffone. Fu tua fortuna che tu ti accompagnassi al cane morto; abbassandoti così ti sei salvato per oggi. Ma vattene via da questa città; altrimenti domani io salterò sopra di te, un vivente sopra un cadavere». E quando ebbe detto ciò, disparve, l'uomo; ma Zarathustra continuò il cammino attraverso le vie tenebrose. Alle porte della città s'incontrò coi becchini: essi alzarono le fiaccole per vederlo in viso, riconobbero Zarathustra e si burlarono molto di lui. «Zarathustra porta con sè il cane morto: bravo, Zarathustra divenne becchino! Giacchè le nostre mani sono troppo pulite per questa vivanda. Vuol forse Zarathustra rubare la preda al diavolo? Ebbene! Buon appetito pel desinare! Purchè il diavolo non sia miglior ladro di Zarathustra! – Egli ruba entrambi, entrambi divora!». Ed essi ridevano fra di loro e bisbigliavano.
Zarathustra non disse parola e proseguì la sua via. Come ebbe camminato due ore lungo boschi e paludi, l'aver troppo a lungo udito l'urlo dei lupi destò anche in lui la fame. Si fermò quindi a una casa isolata, dove ardeva una luce. «La fame mi assale come un brigante, disse Zarathustra.
La fame mi assale tra i boschi e le paludi, nella notte profonda.
Meravigliosi capricci ha la mia fame. Sovente essa non mi viene che dopo il pasto, ed oggi non mi è venuta in tutto il giorno: dove s'è dunque indugiata?».
E Zarathustra picchiò alla porta della casa. Apparve un vecchio che portava il lume e chiese: «Chi viene a me e al mio cattivo sonno?»
«Un vivente ed un morto, disse Zarathustra. Datemi da mangiare e da bere, me ne dimenticai durante il giorno. Chi dà da mangiare agli affamati ristora la propria anima: così parla la sapienza».
Il vecchio si allontanò, ma tornò tosto indietro ed offerse a Zarathustra pane e vino. «È una cattiva contrada per gli affamati, diss'egli; per questo abito qui. Bestie e uomini vengono a me, solitario. Ma invita anche il tuo compagno a mangiare e a bere, egli è più stanco di te». Zarathustra rispose: «Morto è il mio compagno, e ve lo deciderei difficilmente». «Questo non mi riguarda, disse il vecchio arcigno; chi bussa alla mia porta deve prendere anche ciò che gli offro. Mangiate e state bene!».
Zarathustra camminò poi nuovamente per due ore, affidandosi alla via ed al chiaror delle stelle: giacchè egli era solito andar di notte, e amava guardare in faccia tutto ciò che dorme. Ma quando cominciò a spuntare il giorno, Zarathustra si trovò in un profondo bosco e non vide più alcun sentiero. Allora depose il morto nella cavità di un albero, all'altezza della sua testa – poichè voleva proteggerlo dai lupi – e si sdraiò per terra sul musco. E subito s'addormentò, stanco il corpo, ma con l'anima imperturbata.
9.
A lungo dormì Zarathustra, e non l'aurora soltanto, ma anche il mattino gli passò sul volto. Gli si apersero gli occhi alla fine: meravigliato guardò Zarathustra nella foresta e nel silenzio, meravigliato guardò entro di sè. Poi s'alzò svelto, come il marinaio che vede improvvisamente la terra, e mandò un grido di giubilo poichè egli vedeva una nuova verità.
E così parlò quindi al suo cuore:
«Una luce è sorta in me: ho bisogno di compagni e di compagni viventi – non compagni morti e cadaveri, che porto con me dove voglio.
Ho bisogno di compagni viventi, i quali mi seguano, perchè vogliono seguire sè stessi – e là dove io voglio.
Una luce è sorta in me: Zarathustra non parli al popolo ma ai compagni! Zarathustra non deve essere il pastore e il cane di una mandria!
A distogliere molti dalla mandria – a questo io venni. Il popolo e la mandria devono irritarsi con me: il pastore mi chiamerà ladro.
Io dico pastori, ma essi si dicono i buoni e i giusti. Io dico pastori: ma essi si dicono i credenti della vera fede.
Guarda i buoni e i giusti! Chi odiano essi di più? Colui che spezza le loro tavole dei valori, il distruttore, il corruttore: – ma questi è colui che crea.
Compagni cerca colui che crea e non cadaveri e neppur mandrie e credenti. Creatori come lui cerca il creatore, i quali scrivano nuovi valori su nuove tavole.
Compagni cerca il creatore, e mietitori che mietano con lui: giacchè in lui tutto è maturo per la messe. Ma a lui mancano le cento frasi: sì che egli strappa irato le spighe.
Compagni cerca il creatore, e tali che sappiano affilare le proprie falci. Saranno chiamati distruttori e spregiatori del bene e del male. Ma essi sono i mietitori e i festeggiatori.
Zarathustra cerca compagni che con lui creino, mietano e facciano festa: che cos'ha egli di comune con le mandrie, i pastori e i cadaveri?
E tu, mio primo compagno, riposa in pace! Ti seppellii bene nella cavità dell'albero, e bene ti nascosi ai lupi.
Ma io mi separo da te. Il tempo passa. Fra aurora e aurora mi giunse una nuova verità.
Non pastore debbo essere, non becchino. Non voglio parlare nuovamente al popolo: per l'ultima volta parlai a un morto.
Voglio accompagnarmi a chi crea, a chi miete, a chi festeggia: voglio mostrar loro l'arcobaleno e tutte le scale del superuomo.
Canterò la mia canzone ai solitari e a quelli che sono due nella solitudine; a chi ha ancora orecchie per l'inaudito, a questi voglio opprimere il cuore con la mia felicità.
Io tendo alla mia mèta, seguo la mia strada; salterò oltre gli esitanti e i lenti. Sia così mio il cammino la loro distruzione!».
10.
Zarathustra aveva detto questo al suo cuore, quando il sole era a mezzogiorno: allora egli guardò in alto interrogando – poichè udiva sopra di sè l'acuto grido di un uccello. Ed ecco! Un'aquila volava a larghi cerchi per l'aria, e da essa pendeva un serpente, non come una preda ma come un amico: giacchè essa lo teneva avvolto intorno al collo.
«Ecco i miei animali!» disse Zarathustra, e si rallegrò di cuore.
«Il più superbo animale sotto il sole, e l'animale più astuto – sono andati ad esplorare.
Essi vogliono accertarsi se Zarathustra viva ancora. In verità vivo io ancora?
Trovai maggiori pericoli fra gli uomini che fra gli animali; per vie pericolose va Zarathustra. Possano guidarmi i miei animali!».
Allorchè Zarathustra ebbe detto ciò, ricordò le parole del santo nel bosco, e sospirando disse al suo cuore:
«Potessi essere più accorto! Potessi essere accorto, nel profondo, come il mio serpente!
Ma io chiedo l'impossibile; pregherò il mio orgoglio di accompagnarsi sempre alla mia saggezza! E se mi abbandonasse un giorno la mia saggezza – ah, purtroppo essa ama volarsene via! – possa allora il mio orgoglio volarsene insieme con la mia follia!».
Così cominciò la discesa di Zarathustra.
Traduzione di Domenico Ciampoli, Edizioni Monanni, Milano, 1927. da Liberliber.it
Martin Heidegger
ESSERE E TEMPO
§ 50 Schizzo della struttura ontologicaesistenziale della morte
La morte sovrasta l'esserci. La morte non è affatto una semplice presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un'imminenza che sovrasta.
Ma all'esserci, come esserenelmondo, sovrastano molte cose. Il carattere d'imminenza sovrastante non è esclusivo della morte. Un'interpretazione del genere potrebbe far credere che la morte sia un evento che s'incontra nel mondo, minaccioso nella sua imminenza. Un temporale può sovrastare come imminente; la riparazione d'una casa, l'arrivo d'un amico, possono essere imminenti; tutte cose, queste, che sono semplicipresenze o utilizzabili o compresenze. Il sovrastare della morte non ha un essere di questo genere. […]
La morte è una possibilità di essere che l'esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l'esserci sovrasta se stesso nel suo poteressere più proprio. In questa possibilità ne va per l'esserci puramente e semplicemente del suo esserenelmondo. La morte è per l'esserci la possibilità di nonpoterpiùesserci. Poiché in questa possibilità l'esserci sovrasta se stesso, esso viene completamente rimandato al proprio poteressere più proprio. In questo sovrastare dell'esserci a se stesso, dileguano tutti i rapporti con gli altri esserci. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l'estrema. Nella sua qualità di poteressere, l'esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell'esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. Come tale è un'imminenza sovrastante specifica. [...]
Questa possibilità più propria, incondizionata e insuperabile, l'esserci non se la crea accessoriamente e occasionalmente nel corso del suo essere. Se l'esserci esiste, è anche già gettato in questa possibilità. [...]. L'essergettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell'angoscia. Un'angoscia davanti alla morte è angoscia davanti al poteressere più proprio, incondizionato e insuperabile. [...] L'angoscia non dev'essere confusa con la paura davanti al decesso. Essa non è affatto una tonalità emotiva di 'depressione', contingente, casuale, alla mercé dell'individuo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell'esserci, essa costituisce l'apertura dell'esserci al suo esistere come essergettato per la propria fine. Si fa così chiaro il concetto esistenziale dei morire come essergettato nel poteressere più proprio, incondizionato e insuperabile, e si approfondisce la differenza rispetto al semplice scomparire, al puro cessare di vivere e all'esperienza vissuta dei decesso. […]
§ 51 L’essereperlamorte e la quotidianità dell’Esserci
Un'interpretazione pubblica dell'esserci dice: "Si muore"; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma dei Si anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io. Infatti il Si è il nessuno. [...] Il morire, che è mio in modo assolutamente insostituibile, è confuso con un fatto di comune accadimento che capita al Si. Questo tipico discorso parla della morte come di un "caso" che ha luogo continuamente. Esso fa passare la morte come qualcosa che è sempre già "accaduto", coprendone il carattere di possibilità e quindi le caratteristiche di incondizionatezza e di insuperabilità. Con quest'equivoco l'esserci si pone nella condizione di perdersi nel Si proprio rispetto al poteressere che più di ogni altro costituisce il suo seStesso più proprio. Il Si fonda e approfondisce la tentazione di coprire a se stesso l'essereperlamorte più proprio.
Questo movimento di diversione dalla morte coprendola domina a tal punto la quotidianità che, nell'essereassieme, "i parenti più prossimi" vanno sovente ripetendo al "morente" che egli sfuggirà certamente alla morte e potrà far ritorno alla tranquilla quotidianità del mondo di cui si prendeva cura. Questo "aver cura" vuol così "consolare il morente". Ci si preoccupa di riportarlo nell'esserci, aiutandolo a nascondersi la possibilità del suo essere più propria, incondizionata e insuperabile. Il Si si prende cura di una costante tranquillizzazione nei confronti della morte. In realtà ciò non vale solo per il "morente" ma altrettanto per i consolanti. [...] Il Si non ha il coraggio dell'angoscia davanti alla morte. [...] Nell'angoscia davanti alla morte, l'esserci è condotto davanti a se stesso in quanto rimesso alla sua possibilità insuperabile. Il Si si prende cura di trasformare quest'angoscia in paura di fronte a un evento che sopravverrà. Un'angoscia, banalizzata equivocamente in paura, è presentata come una debolezza che un esserci sicuro di sé non deve conoscere. […]
Un essereperlamorte è l'anticipazione di un poteressere di quell'ente il cui modo dì essere è l'anticiparsi stesso. Nella scoperta anticipante di questo poteressere, l'esserci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità estrema. Ma progettarsi sul poter essere più proprio significa poter comprendere se stesso entro l'essere dell'ente così svelato: l'anticipazione dischiude all'esistenza, come sua estrema possibilità, la rinuncia a se stessa, dissolvendo in tal modo ogni solidificazione su posizioni esistenziali raggiunte.
Martin Heidegger, Essere e tempo, UTET
Martin Heidegger
LA QUESTIONE DELLA TECNICA
Tutti conoscono le due risposte che si danno alla nostra domanda. La prima dice: la tecnica è un mezzo in vista dei fini. L'altra dice: la tecnica è un'attività dell'uomo. Queste due definizioni della tecnica sono connesse. Proporsi degli scopi e apprestare e usare i mezzi in vista di essi, infatti, è un'attività dell'uomo. All'essenza della tecnica appartiene l'apprestare e usare mezzi, apparecchi e macchine, e vi appartengono anche questi apparati e strumenti stessi, come pure i bisogni e i fini a cui essi servono. La totalità di questi dispositivi è la tecnica. Essa stessa è un dispositivo, o in latino, un instrumentum.
La rappresentazione comune della tecnica, per cui essa è un mezzo e un'attività dell'uomo, può perciò denominarsi la definizione strumentale e antropologica della tecnica.
Chi vorrà negare che sia esatta? Essa si conforma chiaramente a ciò che si ha davanti gli occhi quando si parla di tecnica. La definizione strumentale di tecnica è così straordinariamente esatta che vale anche per la tecnica moderna, la quale peraltro viene generalmente considerata, e con una certa ragione, qualcosa di completamente diverso dalla tecnica artigianale del passato. Anche una centrale elettrica, con le sue turbine ed i suoi generatori, è un mezzo apprestato dall'uomo per uno scopo posto dall'uomo. […]
Ma nell'ipotesi che la tecnica non sia un puro mezzo che ne sarà della volontà di dominarla? […] Fino a che non ci dedicheremo a questi problemi, la causalità, e con essa la strumentalità, e insieme con questa la definizione corrente della tecnica, resteranno qualcosa di oscuro e nonfondato.
[Le cause. ] L'argento è ciò di cui il calice è fatto. In quanto materia di esso, è corresponsabile del calice. Questo deve all'argento ciò in cui consiste. Ma l'oggetto sacrificale non rimane debitore solo dell'argento. In quanto calice, ciò che è debitore dell'argento appare nell'aspetto di calice e non di fibbia o di anello. L'oggetto sacrificale è quindi anche debitore dell'aspetto di calice. L'argento, in cui l'aspetto di calice è fatto entrare, e l'aspetto in cui l'argento appare, sono entrambi corresponsabili dell'oggetto sacrificale.
Responsabile di esso rimane però, anzitutto un terzo. Questo è ciò che preliminarmente racchiude il calice nel dominio della consacrazione dell'offerta. Da questo esso è circoscritto come oggetto sacrificale. Ciò che circoscrive definisce la cosa. Ma con tale fine la cosa non cessa, anzi a partire da essa comincia ad essere ciò che sarà dopo la produzione. Ciò che definisce e compie, in questo senso, si chiama in greco telos, termine che troppo spesso si traduce con "fine" o "scopo" travisandone il senso. Il telos risponde di ciò che, come materia e come aspetto, è corresponsabile dell'oggetto sacrificale.
C'è infine un quarto corresponsabile della presenza e dell'esser disponibile dell'oggetto sacrificale compiuto: è l'orafo, ma non in quanto egli operando, causi il calice compiuto come effetto di un fare, cioè non in quanto causa efficiens.
La dottrina di Aristotele non conosce né la causa che si indica con un tal nome, né usa un termine greco corrispondente.
L'orafo considera e raccoglie i tre modi menzionati dell'esserresponsabile. Riflettere, considerare, in greco si dice legein, lògos. Questo si fonda sull'hypokeìmenon, il far apparire. L'orafo è corresponsabile come ciò da cui la produzione e il sussistere del calice sacrificale ricevono la loro prima emergenza e la conservano. I tre modi dell'esserresponsabile menzionati prima devono alla considerazione dell'orafo il fatto ed il modo del loro apparire ed entrare in gioco nella produzione del calice sacrificale.
Nell'oggetto sacrificale presente e disponibile si dispiegano quindi quattro modi dell'esser responsabile. Sono distinti fra loro e tuttavia connessi. Che cos'è che li tiene preliminarmante uniti? A che livello si costituisce la connessione dei quattro modi dell'essere responsabile? Donde proviene l'unità delle quattro cause? Che cosa significa, insomma, pensato in modo greco, questo esser responsabile?
Noi moderni siamo troppo facilmente inclini a intendere l'esser responsabile in senso morale, come una mancanza, oppure a interpretarlo come un operare. In entrambi i casi ci precludiamo la via a capire il senso originario di ciò che più tardi è stato chiamato causalità. Finché questa via non è aperta, neppure potremo scorgere che cosa sia propriamente la strumentalità che si fonda sulla causalità.
Per difenderci da tali fraintendimenti dell'esserresponsabile, cerchiamo di chiarire i suoi quattro modi a partire da ciò di cui essi rispondono. Nel nostro esempio, essi rispondono dell'esser dinanzi a noi e disponibile del calice d'argento come oggetto sacrificale. L'esser dinnanzi a noi e l'esser disponibile caratterizzano la presenza di una cosapresente. I quattro modi dell'esserresponsabile portano qualcosa all'apparire. Fanno sì che questo qualcosa si avanzi nella presenza. Essi lo liberano per questo suo avanzare, cioè per il suo compiuto avvento. L'esser responsabile ha il carattere fondamentale di questo lasciaravanzare nell'avvento. Nel senso di questo lasciar avanzare l'esserresponsabile è il far avvenire. Sulla base del senso che i greci annettevano all'esserresponsabile, alla aitia, noi diamo ora all'espressione faravvenire un significato più ampio, in modo che esso indichi l'essenza della causalità nel senso greco. Il significato comune e ristretto del termine "cagionare" esprime invece solo qualcosa come una spinta od un impulso iniziale, e indica una specie secondaria di causa nell'insieme di causalità.
In che ambito si dispiega la connessione dei quattro modi del faravvenire? Essi fanno avvenire nella presenza ciò che non è ancora presente. Essi sono dunque tutti egualmente dominati da un portare, quello che porta ciò che è presente all'apparire. Che cosa sia questo portare, ce lo dice Platone in un passo del Simposio: "Ogni faravvenire di ciò che qualunque cosa sia dalla non presenza passa e si avanza nella presenza è produzione.
[Disvelatezza.] Produzione si da solo in quanto un nascosto viene nella disvelatezza […] Ma dove siamo andati a perderci? Il nostro problema è quello della tecnica, e ora siamo arrivati all' aletheia, al disvelamento. Che ha da fare l'essenza della tecnica con il disvelamento? Rispondiamo: tutto […] Se poniamo con ordine il problema di che cosa sia veramente la tecnica concepita come mezzo, arriviamo passo a passo al disvelamento. In esso si fonda la possibilità di ogni azione producente.
La tecnica, dunque, non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento Se facciamo attenzione a questo fatto, ci si apre davanti un ambito completamente diverso per l’essenza della tecnica. E’ l’ambito del disvelamento, cioè la verità. […]
Che cos'è la tecnica moderna? Anch'essa è disvelamento. Solo quando fermiamo il nostro sguardo su questo tratto fondamentale ci si manifesta quel che vi è di nuovo nella tecnica moderna.
Il disvelamento che governa la tecnica moderna, tuttavia, non si dispiega in un produrre nel senso della poiesis. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una provocazione la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata. Ma questo non vale anche per l’antico mulino a vento? No. Le sue ali girano sì spinte dal vento, e rimangono dipendenti da suo soffio. Ma il mulino a vento non ci mette a disposizione le energie delle sue correnti aree perché le accumuliamo. […]
All’opposto, una determinata regione viene provocata a fornire all’attività estrattiva carbone e minerali. La terra si disvela ora come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali. In modo diverso appare il terreno che un contadino coltivava, quando coltivare voleva ancora dire accudire e curare. […] L’agricoltura è diventata industria meccanizzata dell’alimentazione.
La centrale idroelettrica non è costruita nel Reno come l’antico ponte di legno che da secoli unisce una riva all’altra. Qui è il fiume, invece, che è incorporato nella costruzione della centrale. Esso è ciò che ora, come fiume, è, cioè produttore di forza idrica, in base all’essere della centrale. […]
Il disvelamento che governa la tecnica moderna ha il carattere dello Stellen, del ‘richiedere’ nel senso della provocazione. […La provocazione è un ] promuove in quanto apre e mette fuori. Questo promuovere, tuttavia, rimane fin da principio orientato a promuovere, cioè a spingere avanti, qualcosa d'altro verso la massima utilizzazione ed il minimo costo. Il carbone estratto nel bacino carbonifero non è richiesto solo affinché sia in generale e da qualche parte disponibile. Esso è immagazzinato, cioè "messo a posto" in vista dell'impiego del calore solare in esso accumulato. Quest'ultimo viene provocato a riscaldare, e il riscaldamento prodotto è impiegato per fornire vapore la cui pressione muove il meccanismo mediante il quale una fabbrica resta in attività. […]
[Il fondo.] La parola "fondo" prende qui il significato di un terminechiave. Esso caratterizza nientemeno che il modo in cui è presente tutto ciò che ha rapporto al disvelamento provocante. Ciò che sta nel senso del "fondo", non ci sta più di fronte come oggetto.
Eppure un aereo da trasporto che sta sulla sua pista di decollo è ben un oggetto. Sicuro. Possiamo rappresentarci la macchina in questi termini. Ma in tal caso essa si nasconde nel che cosa e nel come del suo essere. Si disvela, sulla sua pista, solo in quanto "fondo", nella misura in cui è impiegata per assicurare la possibilità del trasporto. In vista di ciò bisogna che essa, in tutta la sua struttura, in ognuna delle sue parti costitutive, sia pronta all'impiego, cioè pronta a partire. (Qui sarebbe il luogo di discutere la definizione hegeliana della macchina come strumento indipendente.) Confrontata con lo strumento del lavoro artigianale, questa caratterizzazione è giusta. Solo che, appunto, la macchina viene in tal modo pensata in base all'essenza della tecnica, alla quale invece appartiene. Vista dal punto di vista del "fondo", la macchina è il puro e semplice contrario dell'indipendenza; essa ha infatti la sua posizione solo in base all'impiego dell'impiegabile.
Il fatto che, in questo nostro sforzo di mostrare la tecnica moderna come disvelamento provocante, si facciano avanti termini come "richiedere", "impiegare", "fondo", e si accumulino in un modo scarno, uniforme e perciò anche noioso tutto questo ha la sua ragion d'essere in ciò che qui viene in questione.
Chi compie il richiedere provocante mediante il quale ciò che si chiama il reale viene disvelato come "fondo"? Evidentemente l'uomo. In che misura egli è capace di un tale disvelamento? L'uomo può bensì rappresentarsi questa o quella cosa in un modo o in un altro, e così pure in vari modi foggiarla e operare con essa. Ma nella disvelatezza entro la quale di volta in volta il reale si mostra o si sottrae, l'uomo non ha alcun potere. Il fatto che a partire da Platone il reale si mostri alla luce di idee non è qualcosa che sia stato prodotto da Platone. Il pensatore ha solo risposto a ciò che gli ha parlato.
Solo nella misura in cui l'uomo è già, da parte sua, provocato a mettere allo scoperto le energie della natura, questo disvelamento impiegante può verificarsi. Se però l'uomo è in tal modo provocato e impiegato, non farà parte anche lui, in modo ancora più originario che la natura, del "fondo"? Il parlare comune di "materiale umano", di "contingente di malati" di una clinica, lo fa pensare. La guardia forestale che nel bosco misura il legname degli alberi abbattuti e che apparentemente segue nello stesso modo di suo nonno gli stessi sentieri è oggi impiegata dall'industria del legname, che lo sappia o no. […]
[L’uomo] non diventa mai puro ‘fondo.’ […]
Nell'imposizione accade la disvelatezza conformemente alla quale il lavoro della tecnica moderna disvela il reale come "fondo". Essa non è dunque soltanto un'attività dell'uomo, né un puro e semplice mezzo all'interno di tale attività. La concezione puramente strumentale, puramente antropologica, della tecnica, diventa caduca nel suo principio; né si può completarla mediante la semplice aggiunta di una spiegazione religiosa o metafisica.
Resta vero, comunque che l'uomo dell'età della tecnica è provocato al disvelamento in un modo particolarmente rilevante. Tale disvelamento concerne anzitutto la natura come principale deposito di riserve di energia. […]
Il destino del disvelamento è in sé stesso non un pericolo qualunque, ma il pericolo. […] L'uomo cammina sull’orlo estremo del precipizio, cioè là dove egli stesso può essere preso solo più come un 'fondo'. E tuttavia proprio quando è sotto questa minaccia l'uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l'apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell'uomo. Questa apparenza fa maturare un'ultima ingannevole illusione. E' l'illusione per la quale sembra che l'uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso. […]
Ma dove c’è il pericolo, cresce
Anche ciò che salva (Hölderlin)
[…] Così contrariamente a ogni nostra aspettativa ciò che costituisce l'essere della tecnica alberga in sé il possibile sorgere di ciò che salva.
Per questo, ciò che importa è che noi meditiamo su questo sorgere e lo custodiamo rimemorandolo. In che modo? Anzitutto, bisogna che cogliamo nella tecnica ciò che ne costituisce l'essere, invece di restare affascinati semplicemente dalle cose tecniche. Fino a che pensiamo la tecnica come strumento, restiamo anche legati alla volontà di dominarla. E in tal caso, passiamo semplicemente accanto all'essenza della tecnica.
Se però ci domandiamo come ciò che è strumentale dispiega il suo essere in quanto specie particolare della causalità, allora potremo cogliere questo essere come il destino di un disvelamento.
Se infine consideriamo che ciò che costituisce l'essere dell'essenza accade in ciò che concede, il quale adopera e salvaguarda l'uomo per farlo partecipare al disvelamento, vediamo che:
L'essenza della tecnica è in alto grado ambigua. Tale ambiguità richiama all'arcano di ogni disvelamento, cioè della verità.
Da un lato, l'imposizione provoca a impegnarsi nel furioso movimento dell'impiegare, che impedisce ogni visione dell'evento del disvelare e in tal modo minaccia nel suo fondamento stesso il rapporto con l'essenza della verità.
D'altro lato, l'imposizione accade da parte sua in quel concedere il quale fa sì che l'uomo finora senza rendersene conto, ma forse in modo più consapevole in futuro duri nel suo essere l'adoperatosalavaguardato per la custodia dell'essenza della verità. Così appare l'aurora di ciò che salva. […]
[L’arte.] Poiché l'essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvenga in un ambito che da un lato è affine all'essenza della tecnica e, dall'altro, né è tuttavia fondamentalmente distinto.
Tale ambito è l'arte. S'intende solo quando la meditazione dell'artista, dal canto suo, non si chiude davanti alla costellazione della verità riguardo alla quale noi poniamo l nostra domanda.
M. Heidegger La questione della tecnica in Saggi e discorsi Mursia
Umberto Galimberti
PSICHE E TECNE. L’UOMO NELL’ETA’ DELLA TECNICA
Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l'uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca. M. HEIDEGGER, Gelassenheit (1959), tr. it. L'abbandono, 1983, p. 36.
1. L'uomo e la tecnica. Siamo tutti persuasi di abitare l'età della tecnica di cui godiamo i benefici in termini di beni e spazi di libertà. Siamo più liberi degli uomini primitivi perché abbiamo più campi di gioco in cui inserirci. Ogni rimpianto, ogni disaffezione dal nostro tempo ha del patetico. Ma nell'assuefazione con cui utilizziamo strumenti e servizi che accorciano lo spazio, velocizzano il tempo, leniscono il dolore, vanificano le norme su cui sono state scalpellate tutte le morali, rischiamo di non chiederci se il nostro modo di essere uomini non è troppo antico per abitare l'età della tecnica che non noi, ma l'astrazione della nostra mente ha creato, obbligandoci, con un'obbligazione più forte di quella sancita da tutte le morali che nella storia sono state scritte, a entrare e a prendervi parte.
In questo inserimento rapido e ineluttabile portiamo ancora in noi i tratti dell'uomo pretecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. L'età della tecnica ha abolito questo scenario "umanistico", e le domande di senso che sorgono restano inevase, non perché la tecnica non è ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientra nel suo programma trovar risposte a simili domande.
La tecnica infatti non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità, la tecnica funziona, e siccome il suo funzionamento diventa planetario, questo intervento si propone di rivedere i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia, di cui si nutriva l'età pretecnologica e che ora, nell'età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici.
2. La tecnica è il nostro mondo. Sono questi alcuni temi che nascono dal pensare la configurazione che l'uomo va assumendo nell'età della tecnica. Le riflessioni qui svolte sono solo un avvio. Resta ancora molto da pensare. Ma prima di tutto resta da pensare se le categorie che abbiamo ereditato dall'età pretecnologica e che tuttora impieghiamo per descrivere l'uomo sono ancora idonee per questo evento assolutamente nuovo in cui l'umanità, come storicamente l'abbiamo conosciuta, fa esperienza del suo oltrepassamento.
Per orientarci occorre innanzitutto farla finita con le false innocenze, con la favola della tecnica neutrale che offre solo i mezzi che poi gli uomini decidono di impiegare nel bene o nel male. La tecnica non è neutra, perché crea un mondo con determinate caratteristiche che non possiamo evitare di abitare e, abitando, contrarre abitudini che ci trasformano ineluttabilmente. Non siamo infatti esseri immacolati ed estranei, gente che talvolta si serve della tecnica e talvolta ne prescinde. Per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi.
Per questo abitiamo la tecnica irrimediabilmente e senza scelta. Questo è il nostro destino di occidentali avanzati, e coloro che, pur abitandolo, pensano ancora di rintracciare un'essenza dell'uomo al di là del condizionamento tecnico, come capita di sentire, sono semplicemente degli inconsapevoli che vivono la mitologia dell'uomo libero per tutte le scelte, che non esiste se non nei deliri di onnipotenza di quanti continuano a vedere l'uomo al di là delle condizioni reali e concrete della sua esistenza.
3. La tecnica è l'essenza dell'uomo. Con il termine "tecnica" intendiamo sia l'universo dei mezzi (le tecnologie) che nel loro insieme compongono l'apparato tecnico, sia la razionalità che presiede il loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza. Con questi caratteri la tecnica è nata non come espressione dello "spirito" umano, ma come "rimedio" alla sua insufficienza biologica.
Infatti, a differenza dell'animale che vive nel mondo stabilizzato dall'istinto, l'uomo, per la carenza della sua dotazione istintuale, può vivere solo grazie alla sua azione, che da subito approda a quelle procedure tecniche che ritagliano, nell'enigma del mondo, un mondo per l'uomo. L'anticipazione, l'ideazione, la progettazione, la libertà di movimento e d'azione, in una parola, la storia come successione di autocreazioni hanno nella carenza biologica la loro radice e nell'agire tecnico la loro espressione.
In questo senso è possibile dire che la tecnica è l'essenza dell'uomo, non solo perché, a motivo della sua insufficiente dotazione istintuale, l'uomo, senza la tecnica, non sarebbe sopravvissuto, ma anche perché, sfruttando quella plasticità di adattamento che gli deriva dalla genericità e non rigidità dei suoi istinti, ha potuto, attraverso le procedure tecniche di selezione e stabilizzazione, raggiungere "culturalmente" quella selettività e stabilità che l'animale possiede "per natura". Questa tesi, che A. Gehlen ha ampiamente documentato nel nostro tempo, era stata anticipata da Platone, Tommaso d'Aquino, Kant, Herder, Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, dunque da grandi esponenti del pensiero occidentale, indipendentemente dalla direzione del loro orientamento filosofico.
4. La tecnica e la rifondazione radicale della psicologia. Se si accolgono queste premesse, la psicologia deve fare con se stessa dei conti radicali e incominciare a pensare le varie figure, oggetto del suo sapere, a partire dalla tecnica, che è poi quel patto originario tra uomo e mondo che è rimasto "impensato" sia dalla psicologia a indirizzo scientificonaturalistico che tenta di "spiegare" l'uomo a partire dall'esperimento animale, sia dalla psicologia a indirizzo fenomenologicoermeneutico che, in tutte le sue varianti: psicodinamiche, comportamentiste, cognitiviste, sistemiche, sociologiche, tenta di "comprendere" l'uomo a partire dai condizionamenti tipici della cultura occidentale che parla di "corpo", "anima" o "coscienza".
Senza un'adeguata riflessione sulla tecnica, pensata come essenza dell'uomo, la psicologia scientificonaturalistica non può che approdare all'etologia, mentre la psicologia fenomenologicoermeneutica non può che arrestarsi all'ingenuità del soggettivismo, in quanto all'una sfugge che l'uomo è abissalmente distante dall'animale perché privo di quel connotato animale che è l'istinto, all'altra che l'"anima" o "coscienza" sono il residuato dell'azione e del suo prolungamento tecnico, quindi ciò che resta dopo che l'azione ha già consentito all'uomo di essere al mondo e, in esso, di ritagliare il suo mondo.
A questo punto occorre fondare una psicologia dell'azione per evitare sia uno sguardo riduttivo sull'uomo, come accade alla psicologia scientificonaturalistica che pensa l'uomo a partire dall'animale, sia uno sguardo reattivo sull'uomo, come accade alla psicologia fenomenologicoermeneutica che non accosta l'uomo a partire dalla sua esperienza immediata della realtà attraverso l'azione, ma dalla sua esperienza seconda, e quindi reattiva, che è la riflessione sull'azione.
Si scoprirà allora che, a partire dalla carenza istintuale compensata dalla plasticità dell'azione, sarà possibile spiegare la motricità, la percezione, la memoria, l'immaginazione, la coscienza, il linguaggio, il pensiero, nella loro genesi e nel loro sviluppo, seguendo un percorso assolutamente lineare che, per giustificare il suo tracciato, non ha bisogno di ricorrere a quel dualismo anima e corpo che ogni psicologia dichiara di voler superare senza sapere come.
Non c'è scienza infatti che, nata da un falso presupposto, possa rimuoverlo senza negare se stessa. E questo è proprio il caso della psicologia che, anche se non lo sa, è la più "platonica" delle scienze, perché ancora non si è emancipata dal dualismo antropologico che, inaugurato da Platone e rigorizzato da Cartesio, impedisce alla psicologia di approdare al suo oggetto, se prima questa scienza non si disloca dal presupposto dualistico da cui è nata. Si tratta di una dislocazione che può avvenire solo attraverso una rifondazione radicale della psicologia che deve assumere come suo punto di partenza non il "soggetto psicologico" e tanto meno l' "oggetto psichico", ma l'azione.
5. La genesi "strumentale" della tecnica. Se condividiamo la tesi che la tecnica è l'essenza dell'uomo, allora il primo criterio di leggibilità che va modificato nell'età della tecnica è quello tradizionale che prevede l'uomo come soggetto e la tecnica come strumento a sua disposizione. Questo poteva essere vero per il mondo antico, dove la tecnica si esercitava entro le mura della città, che era un'enclave all'interno della natura, la cui legge incontrastata regolava per intero la vita dell'uomo. Per questo Prometeo, l'inventore delle tecniche, poteva dire: "la tecnica è di gran lunga più debole della necessità".
Ma oggi è la città ad essersi estesa ai confini della terra, e la natura è ridotta a sua enclave, a ritaglio recintato entro le mura della città. Allora la tecnica, da strumento nelle mani dell'uomo per dominare la natura, diventa l'ambiente dell'uomo, ciò che lo circonda e lo costituisce secondo le regole di quella razionalità che, misurandosi sui criteri della funzionalità e dell'efficienza, non esita a subordinare alle esigenze dell'apparato tecnico le stesse esigenze dell'uomo.
La tecnica infatti è iscritta per intero nella costellazione del dominio, da cui è nata e al cui interno ha potuto svilupparsi solo attraverso rigorose procedure di controllo che, per esser davvero tale, non può evitare di essere planetario. Questa rapida sequenza era già chiaramente intravista e annunciata dalla scienza moderna al suo primo sorgere quando, senza indugio e con chiara preveggenza, F. Bacone toglie ogni equivoco e proclama: "scientia est potentia".
6. La trasformazione della tecnica da "mezzo" in "fine". Ma all'epoca di Bacone i mezzi tecnici erano ancora insufficienti e l'uomo poteva ancora rivendicare la sua soggettività e il suo dominio sulla strumentazione tecnica. Oggi invece il "mezzo" tecnico si è così ingigantito in termini di potenza ed estensione da determinare quel capovolgimento della quantità in qualità che Hegel descrive nella Logica e che, applicato al nostro tema, fa la differenza tra la tecnica antica e lo stato attuale della tecnica.
Infatti, finché la strumentazione tecnica disponibile era appena sufficiente per raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione degli umani bisogni, la tecnica era un semplice mezzo il cui significato era interamente assorbito dal fine, ma quando la tecnica aumenta quantitativamente al punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine a condizionare la rappresentazione, la ricerca, l'acquisizione dei mezzi tecnici, ma sarà la cresciuta disponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che per loro tramite può essere raggiunto. Così la tecnica da mezzo diventa fine, non perché la tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si propongono non si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione tecnica.
Già Marx aveva descritto questa trasformazione dei mezzi in fini a proposito del denaro che, se come mezzo, serve a produrre beni e a soddisfare bisogni, quando beni e bisogni sono mediati per intero dal denaro, allora il conseguimento del denaro diventa il fine, per raggiungere il quale, se necessario, si sacrifica anche la produzione dei beni e la soddisfazione dei bisogni. In altra prospettiva e sullo sfondo di un altro scenario, E. Severino osserva che se il mezzo tecnico è la condizione necessaria per realizzare qualsiasi fine che non può esser raggiunto prescindendo dal mezzo tecnico, il conseguimento del mezzo diventa il vero fine che tutto subordina a sé. Ciò comporta il crollo di numerosi impianti categoriali con cui l'uomo aveva finora definito se stesso e la sua collocazione nel mondo.
7. La tecnica e la revisione degli scenari storici. Se la tecnica diventa quell'orizzonte ultimo a partire dal quale si dischiudono tutti i campi d'esperienza, se non è più l'esperienza che, reiterata, mette capo alla procedura tecnica, ma è la tecnica a porsi come condizione che decide il modo di fare esperienza, allora assistiamo a quel capovolgimento per cui soggetto della storia non è più l'uomo, ma la tecnica che, emancipatasi dalla condizione di mero "strumento", dispone della natura come suo fondo e dell'uomo come suo funzionario. Ciò comporta una radicale revisione dei tradizionali modi di intendere la ragione, la verità, l'ideologia, la politica, l'etica, la natura, la religione e la stessa storia.
LA RAGIONE non è più l'ordine immutabile del cosmo in cui prima la mitologia, poi la filosofia e infine la scienza si erano riflesse creando le rispettive cosmologie, ma diventa procedura strumentale che garantisce il calcolo più economico tra i mezzi a disposizione e gli obbiettivi che si intendono raggiungere.
LA VERITÀ' non è più conformità all'ordine del cosmo o di Dio perché, se non si dà più orizzonte capace di garantire il quadro eterno dell'ordine immutabile, se l'ordine del mondo non dimora più nel suo essere, ma dipende dal "fare tecnico", l'efficacia diventa esplicitamente l'unico criterio di verità.
LE IDEOLOGIE, la cui forza riposava sull'immutabilità del loro corpo dottrinale, nell'età della tecnica non reggono alla dura riduzione di tutte le idee a semplici ipotesi di lavoro. La tecnica infatti, a differenza dell'ideologia che muore nel momento in cui il suo nucleo teorico non "fa più mondo" e tantomeno lo "spiega", pensa le proprie ipotesi come "per principio" superabili, e perciò non si estingue quando un suo nucleo teorico si rivela inefficace perché, non avendo legato la sua verità a quel nucleo, può mutare e correggersi senza smentirsi. I suoi errori non la fanno crollare, ma si convertono immediatamente in occasioni di autocorrezione.
LA POLITICA, che Platone aveva definito "tecnica regia" perché assegnava a tutte le tecniche le rispettive finalità, oggi può decidere solo in subordine all'apparato economico, a sua volta subordinato alle disponibilità garantite dall'apparato tecnico. In questo modo la politica si trova in quella situazione di adattamento passivo, condizionata com'è dallo sviluppo tecnico che essa non può controllare e tantomeno indirizzare, ma solo garantire. Riducendosi sempre di più a pura amministrazione tecnica, la politica mantiene un ruolo attivo e quindi decisionale solo là dove la tecnica non è ancora egemone, o dove nella sua egemonia presenta ancora delle lacune o delle insufficienze in ordine al vincolo della sua razionalità strumentale.
L'ETICA, come forma dell'agire in vista di fini, celebra la sua impotenza nel mondo della tecnica regolato dal fare come pura produzione di risultati, dove gli effetti si addizionano in modo tale che gli esiti finali non sono più riconducibili alle intenzioni degli agenti iniziali. Ciò significa che non è più l'etica a scegliere i fini e a incaricare la tecnica a reperire i mezzi, ma è la tecnica che, assumendo come fini i risultati delle sue procedure, condiziona l'etica obbligandola a prender posizione su una realtà, non più naturale ma artificiale, che la tecnica non cessa di costruire e render possibile, qualunque sia la posizione assunta dall'etica. Infatti, una volta che l'"agire" è subordinato al "fare", come si può impedire a chi può fare di non fare ciò che può? Non con la morale dell'intenzione inaugurata dal cristianesimo e riproposta nei termini della "pura ragione" da Kant, perché questa, fondandosi sul principio soggettivo dell'autodeterminazione e non su quello della responsabilità oggettiva, non prende in considerazione le conseguenze oggettive delle azioni e, proprio perché si limita a salvaguardare la "buona intenzione", non può essere all'altezza del fare tecnico. Ma all'altezza non è neppure l'etica della responsabilità che Max Weber ha introdotto e H. Jonas riproposto perché, se l'etica della responsabilità si limita ad esigere, come scrive Weber, che "si risponda delle conseguenze prevedibili delle proprie azioni", ebbene è proprio della tecnica dischiudere lo scenario dell'imprevedibilità, imputabile, non come quella antica a un difetto di conoscenza, ma a un eccesso del nostro potere di fare enormemente maggiore del nostro potere di prevedere.
LA NATURA. Il rapporto uomonatura è stato regolato per noi occidentali da due visioni del mondo: quella greca che concepisce la natura come dimora di uomini e dèi e quella giudaicocristiana, poi ripresa dalla scienza moderna, che la concepisce come campo di dominio dell'uomo. Per differenti che siano, queste due concezioni convengono nell'escludere che la natura rientri nella sfera di competenza dell'etica, il cui ambito è stato finora limitato alla regolazione dei rapporti fra gli uomini, senza alcuna estensione agli enti di natura. Ma oggi, che la natura mostra tutta la sua vulnerabilità per effetto della tecnica, si apre uno scenario di fronte al quale le etiche tradizioni si fanno mute, perché non hanno strumenti per accogliere la natura nell'ambito della responsabilità umana.
LA RELIGIONE ha come suo presupposto quella dimensione del tempo dove alla fine (éschaton) si realizza ciò che all'inizio era stato annunciato. Solo in questa dimensione "escatologica", che iscrive il tempo in un disegno, tutto ciò che accade nel tempo acquista il suo senso. Ma la tecnica, sostituendo alla dimensione escatologica del tempo quella progettuale contenuta, come scrive S. Natoli, tra il recente passato in cui reperire i mezzi disponibili e l'immediato futuro in cui questi mezzi trovano il loro impiego, sottrae alla religione, per effetto di questa contrazione del tempo, la possibilità di leggere nel tempo un disegno, un senso, un fine ultimo a cui poter far riferimento per pronunciare parole di salvezza e verità.
LA STORIA si costituisce nell'atto della sua narrazione che ordina l'accadere degli eventi in una trama di senso. Il reperimento di un senso traduce il tempo in storia, così come il suo smarrimento dissolve la storia nel fluire insignificante del tempo. Il carattere afinalistico della tecnica, che non si muove in vista di fini ma solo di risultati che scaturiscono dalle sue procedure, abolisce qualsiasi orizzonte di senso, determinando così la fine della storia come tempo fornito di senso. Rispetto alla memoria storica, la memoria della tecnica, essendo solo procedurale, traduce il passato nell'insignificanza del "superato" e accorda al futuro il semplice significato di "perfezionamento" delle procedure. L'uomo, a questo punto, nella sua totale dipendenza dall'apparato tecnico, diventa astorico, perché non dispone di altra memoria se non quella mediata dalla tecnica, che consiste nella rapida cancellazione del presente e del passato per un futuro pensato solo in vista del proprio autopotenziamento.
8. La tecnica e la soppressione di tutti i fini nell'universo dei mezzi. Tra le categorie che siamo soliti impiegare per orientarci nel mondo, l'unica che ci pone all'altezza dello scenario dischiuso dalla tecnica è la categoria di assoluto. "Assoluto" significa sciolto da ogni legame (solutus ab), quindi da ogni orizzonte di fini, da ogni produzione di senso, da ogni limite e condizionamento. Questa prerogativa, che l'uomo ha attribuito prima alla natura e poi a Dio, ora si trova a riferirla non a se stesso, come lasciavano presagire la promessa prometeica e la promessa biblica quando alludevano al progressivo dominio dell'uomo sulla natura, ma al mondo delle sue macchine, rispetto alla cui potenza, per giunta iscritta nell'automatismo del loro potenziamento, l'uomo, come scrive G. Anders, risulta decisamente inferiore e inconsapevole della sua inferiorità.
Per effetto di questa inconsapevolezza, chi aziona l'apparato tecnico o chi vi è semplicemente inserito, senza poter più distinguere se è attivo o è a sua volta azionato, più non si pongono la domanda se lo scopo per cui l'apparato tecnico è messo in azione sia giustificabile o abbia semplicemente un senso, perché questo significherebbe dubitare della tecnica, senza di cui nessun senso e nessuno scopo sarebbero raggiungibili, e allora la "responsabilità" viene affidata al "responso" tecnico, dove è sotteso l'imperativo che si "deve" fare tutto ciò che si "può" fare.
Ma quando il positivo è per intero iscritto nell'esercizio della potenza tecnica e il negativo è circoscritto all'errore tecnico, al guasto tecnicamente riparabile, la tecnica guadagna quel livello di autoreferenzialità che, sottraendola ad ogni condizionamento, la pone come assoluto. Un assoluto che si presenta come un universo di mezzi, il quale, siccome non ha in vista veri fini ma solo effetti, traduce i presunti fini in ulteriori mezzi per l'incremento infinito della sua funzionalità e della sua efficienza. In questa "cattiva infinità", come la chiamerebbe Hegel, qualcosa ha valore solo se è "buono per qualcos'altro", per cui proprio gli obbiettivi finali, gli scopi, che nell'età pretecnologica regolavano le azioni degli uomini e ad esse conferivano "senso", nell'età della tecnica appaiono assolutamente "insensati".
A questo proposito non ci si deve far ingannare dal bisogno di senso, dalla sua ricerca affannosa, dalla sua domanda incessante a cui cercano di dar risposta le religioni con le loro promozioni di fede e le pratiche terapeutiche con le loro promozioni di salute, perché tutto ciò rivela solo che la figura del "senso" non si è salvata dall'universo dei mezzi. Se infatti il reperimento di senso favorisce l'esistenza, se, come scrive Nietzsche, rappresenta per la condizione umana un vantaggio biologico, là dove il senso non si trova occorre inventarlo, e allora anche il "senso" si giustifica perché, come mezzo per vivere, è in grado di assurgere a sua volta al rango di "mezzo" .
9. Dall'alienazione tecnologica all'identificazione tecnologica. Che ne è dell'uomo in un universo di mezzi che non ha in vista altro se non il perfezionamento e il potenziamento della propria strumentazione? Là dove il mondo della vita è per intero generato e reso possibile dall'apparato tecnico, l'uomo diventa un funzionario di detto apparato e la sua identità viene per intero risolta nella sua funzionalità, per cui è possibile dire che nell'età della tecnica l'uomo è pressodisé solo in quanto è funzionale a quell'altrodasé che è la tecnica.
La tecnica infatti non è l'uomo. Nata come condizione dell'esistenza umana e quindi come espressione della sua essenza, oggi, per le dimensioni raggiunte e per l'autonomia guadagnata, la tecnica esprime l'astrazione e la combinazione delle ideazioni e delle azioni umane ad un livello di artificialità tale che nessun uomo e nessun gruppo umano, per quanto specializzato, e forse proprio per effetto della sua specializzazione, è in grado di controllare nella sua totalità. In un simile contesto, essere ridotto a funzionario della tecnica significa allora per l'uomo essere "altrove" rispetto alla dimora che ha storicamente conosciuto, significa essere lontano da sé.
Marx ha chiamato questa condizione "alienazione" e, coerentemente alle condizioni del suo tempo, ha circoscritto l'alienazione al modo di produzione capitalistico. Ma sia il capitalismo (causa dell'alienazione) sia il comunismo (che Marx progettava come rimedio all'alienazione) sono ancora figure iscritte nell'umanismo, ossia ancora in quell'orizzonte di senso, tipico dell'età pretecnologica, dove l'uomo è previsto come soggetto e la tecnica come strumento. Ma, nell'età della tecnica, che prende avvio quando l'universo dei mezzi non ha in vista alcuna finalità (neppure il profitto), il rapporto si capovolge, nel senso che l'uomo non è più un soggetto che la produzione capitalistica aliena e reifica, ma è un prodotto dell'alienazione tecnologica che instaura sé come soggetto e l'uomo come suo predicato.
Ne consegue che la strumentazione teorica messa a disposizione da Marx, che pure fu tra i primi a prevedere gli scenari dell'età della tecnica da lui chiamata "civiltà delle macchine", non è più del tutto idonea per leggere il tempo della tecnica, non perché storicamente il capitalismo si è rivelato vincente sul comunismo, ma perché Marx si muove ancora in un orizzonte umanistico, con riferimento all'uomo pretecnologico, dove, come vuole la lezione di Hegel, il servo ha nel signore il suo antagonista, e il signore nel servo, mentre, nell'età della tecnica, non ci sono più né servi né signori, ma solo le esigenze di quella rigida razionalità a cui devono subordinarsi sia i servi sia i signori.
A questo punto anche il concetto marxiano di "alienazione" appare insufficiente, perché di alienazione si può parlare solo quando, in uno scenario umanistico, c'è un'antropologia che vuol recuperarsi dalla sua estraneazione nella produzione, in un contesto caratterizzato dal conflitto di due volontà, di due soggetti che ancora si considerano titolari delle loro azioni, non quando c'è un unico soggetto, l'apparato tecnico, rispetto al quale i singoli soggetti sono semplicemente suoi predicati.
Esistendo esclusivamente come predicato dell'apparato tecnico che pone se stesso come assoluto, l'uomo non è più in grado di percepirsi come "alienato", perché l'alienazione prevede, almeno in prospettiva, uno scenario alternativo che l'assoluto tecnico non concede, e perciò, come in altro contesto scrive R. Madera, l'uomo traduce la sua alienazione nell'apparato in identificazione con l'apparato. Per effetto di questa identificazione, il soggetto individuale non reperisce in sé altra identità al di fuori di quella conferitagli dall'apparato e, quando si compie l'identificazione degli individui con la funzione assegnata dall'apparato, la funzionalità, divenuta autonoma, riassorbe in sé ogni senso residuo di identità .
10. La tecnica e la revisione delle categorie umanistiche. Siccome, come funzionario dell'apparato tecnico, l'uomo non è più leggibile con gli impianti categoriali elaborati e maturati nell'età pretecnologica, occorre una radicale revisione delle categorie umanistiche a partire dalla nozione di individuo, identità, libertà, comunicazione, fino al concetto di anima, la cui arretratezza psichica ancora non consente all'uomo d'oggi un'adeguata comprensione dell'età della tecnica.
L'INDIVIDUO. Questa nozione tipicamente occidentale, che ha avuto nella nozione platonica di "anima", rivisitata dal cristianesimo, il suo atto di nascita, ha nell'età della tecnica il suo prevedibile atto di morte. Certo non muore quell'entità indivisibile (dal latino: individuum) che a livello naturale fa parte della specie e a livello culturale di una società di cui ripete, per le sue caratteristiche, il tipo generale, ma muore quel soggetto che, a partire dalla consapevolezza della propria individualità, si pensa autonomo, indipendente, libero fino ai confini della libertà altrui e, per effetto di questo riconoscimento, uguale agli altri. In altri termini non muore l'individuo empirico, l'atomo sociale, ma il sistema di valori che, a partire da questa singolarità, hanno deciso la nostra storia.
L'IDENTITÀ. Questa nozione che, come quella di individuo, nasce all'interno dell'antropologia occidentale perché, prima dell'Occidente e a fianco dell'Occidente, l'individuo non riconosce la sua identità ma solo l'appartenenza al gruppo con cui si identifica, dipende, come ci ricorda Hegel, dal riconoscimento. Solo che, mentre nell'età pretecnologica era possibile riconoscere l'identità di un individuo dalle sue azioni, perché queste erano lette come manifestazioni della sua anima, intesa come soggetto decisionale, oggi le azioni dell'individuo non sono più leggibili come espressioni della sua identità, ma come possibilità calcolate dall'apparato tecnico, che non solo le prevede, ma addirittura le prescrive nella forma della loro esecuzione. Eseguendole, il soggetto non rivela la sua identità, ma quella dell'apparato, all'interno del quale l'identità personale si risolve in pura e semplice funzionalità.
LA LIBERTÀ. Se con questa parola intendiamo l'esercizio della libera scelta a partire dalle condizioni esistenti, dobbiamo dire che la società tecnologicamente avanzata offre uno spazio di libertà decisamente superiore a quello concesso nelle società poco differenziate, dove la qualità personale e non oggettiva dei legami, nonché l'omogeneità sociale riducono il margine di libertà a quello elementare dell'obbidienza o della disobbidienza. La tecnica, avendo come suo imperativo la promozione di tutto ciò che si può promuovere, crea un sistema aperto che di continuo genera un ventaglio sempre più allargato di opzioni, che diventano via via praticabili in base ai livelli di competenza che i singoli individui sono in grado di acquisire. Ma la libertà come competenza, avendo come spazio espressivo quello impersonale dei rapporti professionali, crea quella scissione radicale tra "pubblico" e "privato" che, anche se da molti è acclamata come cardine della libertà, comporta quella conduzione schizofrenica della vita individuale (schizofrenia funzionale), che si manifesta ogni volta che la funzione, che all'individuo spetta come membro impersonale dell'organizzazione tecnica, entra in collisione con quello che l'individuo aspira ad essere come soggetto globale. Si determina infatti per la prima volta nella storia la possibilità per l'individuo di entrare in rapporto con gli altri individui, e quindi di "fare società", senza che ciò comporti un qualsiasi legame di natura personale. E allora, privati di una comune esperienza d'azione, che è sempre più prerogativa esclusiva della tecnica, gli individui reagiscono al senso di impotenza che sperimentano ripiegandosi su se stessi e, nell'impossibilità di riconoscersi comunitariamente, finiscono con il considerare la società stessa in termini puramente strumentali.
LA CULTURA DI MASSA. La disarticolazione tra "pubblico" e "privato", tra "sociale" e "individuale" operata dalla razionalità tecnica, modifica anche il concetto tradizionale di "massa", introducendo quella variante che è la sua atomizzazione e disarticolazione in singolarità individuali che, foggiate da prodotti di massa, consumi di massa, informazioni di massa, rendono obsoleto il concetto di massa come concentrazione di molti, e attuale quello di massificazione come qualità di milioni di singoli, ciascuno dei quali produce, consuma, riceve le stesse cose di tutti, ma in modo solistico. Viene così consegnata a ciascuno la propria massificazione, ma con l'illusione della privatezza e l'apparente riconoscimento della propria individualità, in modo che nessuno sia più in grado di percepire un "esterno" rispetto a un "interno", perché ciò che ciascuno incontra in pubblico è esattamente ciò di cui è stato rifornito in privato. Nascano da qui quei processi di deindividuazione e deprivatizzazione che sono alla base delle condotte di massa tipiche delle società omologate e conformiste.
I MEZZI DI COMUNICAZIONE. All'omologazione sociale contribuiscono in modo esponenziale i mezzi di comunicazione che la tecnica ha potenziato modificando il nostro modo di fare esperienza: non più in contatto con il mondo, ma con la rappresentazione mediale del mondo che rende vicino il lontano, presente l'assente, disponibile quello che altrimenti sarebbe indisponibile. Esonerandoci dall'esperienza diretta e mettendoci in rapporto non con gli eventi, ma con il loro allestimento, i mezzi di comunicazione non hanno alcun bisogno di falsificare o di oscurare la realtà, perché proprio ciò che informa codifica, e l'effetto di codice diventa non solo criterio interpretativo della realtà, ma anche modello induttore dei nostri giudizi, che a loro volta generano comportamenti nel mondo reale conformi a quanto appreso del modello induttore. In questa comunicazione tautologica, dove chi ascolta sente le stesse cose che egli stesso potrebbe tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque, in questo monologo collettivo l'esperienza della comunicazione crolla, perché è abolita la differenza specifica tra le esperienze personali del mondo che sono alla base di ogni bisogno comunicativo. Con il loro rincorrersi, infatti, le mille voci e le mille immagini che riempiono l'etere aboliscono progressivamente le differenze che ancora esistono fra gli uomini e, perfezionando la loro omologazione, rendono superfluo se non impossibile parlare "in prima persona". A questo punto i mezzi di comunicazione non appaiono più come semplici "mezzi" a disposizione dell'uomo perché, se intervengono sulla modalità di fare esperienza, modificano l'uomo indipendentemente dall'uso che questi ne fa e dagli scopi che si propone quando li impiega.
LA PSICHE. Quando nell'epoca pretecnologica il mondo non era disponibile nella sua totalità, ogni anima costruiva se stessa come risonanza del mondo di cui faceva esperienza. Questa risonanza era per ogni uomo la sua interiorità. Oggi, esonerata dall'esperienza personale del mondo, l'anima di ciascuno diventa coestensiva al mondo. In questo modo viene soppressa: la differenza tra interiorità ed esteriorità, perché il contenuto della vita psichica di ciascuno finisce con il coincidere con la comune rappresentazione del mondo, o per lo meno con ciò che i mezzi di comunicazione le destinano come "mondo"; la differenza tra profondità e superficie perché, con buona pace della psicologia del profondo, la profondità finisce con l'essere null'altro che il riflesso individuale delle regole del gioco a tutti comune dispiegato in superficie; la differenza tra attività e passività perché, se la tendenza della società tecnologica è quella di funzionare ad un regime di massima razionalità, quindi leibnizianamente come un sistema armonico prestabilito, non si dà alcuna "attività" che non sia per ciò stesso "adattamento" alle procedure tecniche che, sole, la rendono possibile. In questo modo l'anima viene progressivamente depsicologizzata e resa incapace di comprendere che cosa veramente significa vivere nell'età della tecnica, dove ciò che si chiede è un potenziamento delle facoltà intellettuali su quelle emotive, per poter essere all'altezza della cultura oggettivata nelle cose che la tecnica esige a scapito e a spese di quella soggettiva degli individui .
11. L'età della tecnica e l'inadeguatezza della comprensione umana. La depsicologizzazione dell'anima trattiene le discussioni sull'età della tecnica a quel livello inessenziale che è l'esaltazione incondizionata o la demonizzazione acritica. Questo libro vorrebbe promuovere quel passo ulteriore che è l'apertura dell'orizzonte della comprensione, persuasi come siamo che oggi orizzonte della comprensione non è più la natura nella sua stabilità e inviolabilità, e neppure la storia che abbiamo vissuto e narrato come progressivo dominio dell'uomo sulla natura, ma la tecnica che dischiude uno spazio interpretativo che si è definitivamente congedato sia dall'orizzonte della natura che da quello della storia.
Questo è il passaggio epocale in cui ci troviamo, dove l'epocalità è data dal fatto che la storia che abbiamo vissuto ha conosciuto la tecnica come quel fare manipolativo che, non essendo in grado di incidere sui grandi cicli della natura e della specie, era circoscritto in un orizzonte che rimaneva stabile e inviolabile. Oggi anche questo orizzonte rientra nelle possibilità della manipolazione tecnica, il cui potere di sperimentazione è senza limite perché, a differenza di quanto accadeva agli albori dell'età moderna, dove la sperimentazione scientifica avveniva in "laboratorio", quindi in un mondo artificiale distinto da quello naturale, oggi il laboratorio è divenuto coestensivo al mondo, ed è difficile continuare a chiamare "sperimentazione" ciò che modifica in modo irreversibile la nostra realtà geografica e quindi storica.
Quando le condizioni poste "per ipotesi" lasciano effetti irreversibili, non è più possibile continuare a iscrivere la tecnica nel giudizio ipoteticocongetturale che ha come sue caratteristiche la problematicità, la revisionabilità, la provvisorietà, la perfettibilità, la falsificabilità, ma occorre iscriverla nel giudizio storicoepocale che, tra i giudizi, è il più severo, perché ciò che accade una volta è accaduto per sempre in modo irrevocabile.
A questo punto la domanda: se l'uomo non esiste a prescindere da ciò che fa, che cosa diventa l'uomo nell'orizzonte della sperimentazione illimitata e della manipolazione infinita dischiusa dalla tecnica? Per rispondere è necessario superare la persuasione ingenua secondo cui la natura umana è un che di stabile che resta incontaminata e intatta qualunque cosa l'uomo faccia. Se infatti l'uomo, come vuole l'espressione di Nietzsche, è quell' "animale non ancora stabilizzato" che fin dalle origini non può vivere se non operando tecnicamente, la sua natura si modifica in base alle modalità di questo "fare", che perciò diventa l'orizzonte della sua autocomprensione. Non dunque l'uomo che può usare la tecnica come qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura, ma l'uomo la cui natura si modifica in base alle modalità con cui si declina tecnicamente. Oggi la tecnica dispone l'uomo di fronte a un mondo che si presenta come illimitata manipolabilità, e perciò la natura umana non può essere pensata come la stessa che si relazionava a un mondo, che è poi il mondo che la storia ci ha finora descritto, ai suoi limiti inviolabile e fondamentalmente immodificabile.
Eppure ancor oggi l'umanità non è all'altezza dell'evento tecnico da essa stessa prodotto e, forse per la prima volta nella storia, la sua sensazione, la sua percezione, la sua immaginazione, il suo sentimento si rivelano inadeguati a quanto sta accadendo. Infatti la capacità di produzione che è illimitata ha superato la capacità di immaginazione che è limitata e comunque tale da non consentirci più di comprendere, e al limite di considerare "nostri", gli effetti che l'irreversibile sviluppo tecnico è in grado di produrre.
Quanto più si complica l'apparato tecnico, quanto più fitto si fa l'intreccio dei sottoapparati, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto più si riduce la nostra capacità di percezione in ordine ai processi, ai risultati, agli esiti, per non dire degli scopi di cui siamo parti e condizioni. E siccome di fronte a ciò che non si riesce né a percepire né a immaginare il nostro sentimento diventa incapace di reagire, al "nichilismo attivo" della tecnica iscritto nel suo "fare senza scopo" si affianca il "nichilismo passivo", denunciato da Nietzsche, che ci lascia "freddi", perché il nostro sentimento di reazione si arresta alla soglia di una certa grandezza. E così da "analfabeti emotivi" assistiamo all'irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità (strumentale) dell'organizzazione tecnica che cresce su se stessa al di fuori di qualsiasi orizzonte di senso. L'esperimento nazista, non per la sua crudeltà, ma proprio per l'irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità di un'organizzazione, per la quale "sterminare" aveva il semplice significato di "lavorare", può essere assunto come quell'evento che segna l'atto di nascita dell'età della tecnica. Non si trattò allora, come oggi potrebbe apparire, di un evento erratico o atipico per la nostra epoca e per il nostro modo di sentire, ma di un evento paradigmatico, in grado ancora oggi di segnalare che se non saremo in grado di portarci all'altezza dell'operare tecnico generalizzato a dimensione globale e senza lacune, ciascuno di noi resterà irretito in quella irresponsabilità individuale che consentirà al totalitarismo della tecnica di procedere indisturbato, senza neppure più il bisogno di appoggiarsi a tramontate ideologie. A differenza, infatti, del nichilismo descritto dalla filosofia che si interroga sul senso dell'essere e del non essere, il nichilismo della tecnica non mette in gioco solo il senso dell'essere e quindi dell'uomo, ma l'essere stesso dell'uomo e del mondo nella sua totalità. E se il nichilismo descritto dalla filosofia era anticipatore, profetico, ma impotente, perché non era in grado di determinare il nichilismo che prefigurava, il nichilismo sotteso al carattere afinalistico della tecnica non solo ha in suo potere la nientificazione, ma, stante la qualità degli imperativi tecnici e la morale degli strumenti che ne deriva, è nella possibilità di esercitare questo potere. Il fatto che la filosofia, e con lei la letteratura e l'arte, ancora si trattengono sul problema del senso dell'essere e quindi dell'uomo, senza sporgere sul problema della possibilità che hanno l'uomo e il mondo di continuare ad essere, contribuisce a quel "nichilismo passivo" che Nietzsche denunciava come nichilismo della rassegnazione. Nata sotto il segno dell'anticipazione, di cui Prometeo, "Colui che pensa in anticipo", ne è il simbolo, la tecnica finisce in questo modo col sottrarre all'uomo ogni possibilità anticipatrice, e con essa quella responsabilità e padronanza che deriva dalla capacità di prevedere. In questa incapacità, divenuta ormai inadeguatezza psichica, si nasconde per l'uomo il massimo pericolo, così come nell'ampliamento della sua capacità di comprensione la sua flebile speranza. Questo ampliamento psichico, alla cui promozione questo libro affida il suo senso, se da un lato non è sufficiente a dominare la tecnica, evita almeno all'uomo che la tecnica accada a sua insaputa e, da condizione essenziale all'esistenza umana, si traduca in causa dell'insignificanza del suo stesso esistere.
U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, 1999
Sigmund Freud
ANALISI DELLA FOBIA DI UN BAMBINO DI CINQUE ANNI. IL PICCOLO HANS
Quel pomeriggio padre e figlio erano venuti a consultarmi nel mio studio. Conoscevo già il bricconcello, tutto sicuro di sé ma tanto simpatico che mi faceva sempre piacere vederlo. Non so se si ricordasse di me, ad ogni modo si comportò in modo impeccabile, come un ragionevolissimo membro del consorzio umano. La visita fu breve. Il padre cominciò col dire che, nonostante tutte le spiegazioni, la paura dei cavalli non era diminuita. Dovemmo anche convenire che tra i cavalli, di cui aveva paura, e i moti palesi di tenerezza verso la madre, non c’erano molte relazioni. Ciò che sapevamo non era certo in grado di spiegare i particolari che appresi soltanto allora: che lo infastidiva soprattutto ciò che i cavalli hanno davanti agli occhi e il nero intorno alla loro bocca. Ma mentre guardavo i due seduti davanti a me e ascoltavo la descrizione dei cavalli che incutevano paura, mi venne improvvisamente in mente un altro pezzo della soluzione, tale, come capii, da sfuggire proprio al padre. Chiesi a Hans in tono scherzoso se i suoi cavalli portassero gli occhiali, e il piccino disse di no; poi se il suo papà portasse gli occhiali, e anche questa volta egli negò, nonostante fosse evidente il contrario; gli chiesi ancora se con il nero intorno alla “bocca” non intendesse dire i baffi, e infine gli rivelai che egli aveva paura del suo papà, e proprio perché lui, Hans, voleva tanto bene alla mamma. Credeva che perciò il babbo fosse arrabbiato con lui, ma non era vero, il babbo gli voleva bene lo stesso e lui gli poteva confessare tutto senza paura. Già tanto tempo prima che lui venisse al mondo, io già sapevo che sarebbe nato un piccolo Hans che avrebbe voluto così bene alla sua mamma da aver paura, per questo, del babbo, e tutto questo l’avevo raccontato al suo papà. – Come puoi credere che io sia arrabbiato con te? – m’interruppe il padre, – t’ho mai sgridato o picchiato? – Oh sì – lo corresse Hans, – mi hai picchiato. – Non è vero; ma quando? – Questa mattina – rispose il bambino, e il padre si ricordò che al mattino Hans gli si era gettato all’improvviso con la testa contro la pancia e che, quasi automaticamente, egli aveva risposto con uno scappellotto. Fatto singolare, il padre non aveva messo in riferimento questo particolare col contesto della nevrosi; ora però si rese conto ch’esso costituiva un’espressione della disposizione ostile del piccino verso di lui e fors’anche del bisogno di ricevere una punizione per questo.
Ritornando a casa Hans chiese al padre: – Com’è che il professore sapeva già tutto prima? Forse parla col buon Dio? – Sarei straordinariamente fiero di questo riconoscimento per bocca di un bambino, se non l’avessi provocato io stesso con la mia scherzosa vanteria. Dopo quella visita ricevetti quasi ogni giorno ragguagli sulle variazioni dello stato del piccolo paziente. Non ci si poteva aspettare che, grazie alla mia spiegazione, egli si liberasse di colpo delle sue angosce; si vide però che ora gli era offerta la possibilità di portare avanti le sue produzioni inconsce e dipanare la sua fobia. Da quel momento in poi Hans attuò un programma che potei preannunciare al genitore.
“Il 2 aprile si nota il primo reale miglioramento. Finora non era mai stato possibile convincerlo a trattenersi per un po’ di tempo fuori del portone, e quando si avvicinava un cavallo rientrava a precipizio in casa, spaventatissimo; oggi invece è rimasto davanti al portone un’ora, anche quando passava qualche carrozza, il che avviene piuttosto spesso davanti a casa nostra. Qualche volta, vedendo da lontano una carrozza, faceva per correr dentro, ma poi tornava indietro subito, come se ci avesse ripensato. Ad ogni modo, l’angoscia sembra ridotta a un residuo e i progressi avvenuti dopo la spiegazione sono innegabili.
“La sera dice: – Adesso che arriviamo fino davanti al portone, possiamo anche andare al Parco municipale.
“La mattina del 3 aprile viene a letto da me, mentre negli ultimi giorni non era mai venuto e anzi sembrava fiero di questa sua riservatezza. Gli chiedo: – Perché oggi sei venuto?
“Hans: – Quando non ho più paura non vengo più.
“Io: – Allora tu vieni da me perché hai paura?
“Hans: – Quando non sto con te, ho paura; quando non sto a letto con te, ho paura, ecco. Quando non avrò più paura, non vengo più.
“Io: – Allora tu mi vuoi bene, e la mattina presto a letto hai paura, e perciò vieni da me?
“Hans: – Sí. Perché mi hai detto che io voglio bene alla mamma e che è per questo che ho paura, mentre invece io voglio bene a te?”
Il piccolo è qui straordinariamente esplicito. Egli fa capire che in lui l’amore per il padre è in conflitto con l’ostilità verso il padre, rivale nei confronti della madre, al quale egli fa il rimprovero di non avergli fatto rilevare questo giuoco di forze opposte che doveva trovar sfogo nell’angoscia. Il padre non comprende ancora completamente suo figlio perché, durante questo colloquio, non fa che convincersi della sua ostilità verso di lui, quell’ostilità ch’io gli avevo fatto rilevare nell’ultima visita. Ciò che segue serve in realtà a dimostrare più i progressi del padre che quelli del figlio; tuttavia lo riferirò senza cambiare nulla.
“Purtroppo non comprendo subito il senso di questa obiezione. Poiché Hans ama la mamma, vuole evidentemente che io non ci sia più, in modo da mettersi al posto del padre. Questo desiderio ostile represso si tramuta in angoscia per la sorte del padre, sicché egli viene la mattina da me per vedere se ci sono ancora. Questa spiegazione non mi viene purtroppo in mente lì per lì, e gli dico:
“– Quando tu sei solo, è che hai paura per me e allora mi vieni a trovare.
“Hans: – Quando tu sei via, io ho paura che non torni più a casa.
“Io: – Forse ti ho minacciato qualche volta di non tornare più?
“Hans: – Tu no, ma mamma sí. La mamma mi ha detto che non ritornava più a casa – (probabilmente aveva fatto i capricci e la mamma l’aveva minacciato di andarsene).
“Io: – Questo l’ha detto perché tu eri cattivo.
“Hans: – Sí.
“Io: – Tu perciò hai paura che io me ne vada via perché sei stato cattivo, e allora vieni da me.
“Appena fatta colazione mi alzo da tavola e Hans dice: – Papà, perché trotti subito via? – Noto che ha detto ‘trotti’ invece di ‘corri’ e gli rispondo: – Ah, ecco! tu hai paura che il cavallo trotti via – Hans ride.”
Sappiamo che questa parte dell’angoscia di Hans ha due componenti: paura del padre e paura per il padre. La prima proviene dall’ostilità verso il padre, la seconda dal conflitto tra tenerezza, che qui è esagerata per reazione, e ostilità.
Il padre continua: “Questo è senza dubbio l’inizio di una fase importante. Il fatto che il piccolo si azzardi al massimo a uscire dal portone, senza allontanarsi dalla casa, che a metà strada, al primo accesso d’angoscia, ritorni sui suoi passi, è dunque motivato dalla paura di non trovare più a casa i genitori perché sono andati via. Egli è inchiodato alla casa dal suo amore per la madre, e teme ch’io me ne vada a causa dei desideri ostili (allora, sarebbe lui il padre) che nutre nei miei riguardi.
“La scorsa estate ero solito partire spesso da Gmunden alla volta di Vienna, per motivi di lavoro, e allora era lui il padre. Ricorderò a questo proposito che la paura dei cavalli è legata all’episodio di Gmunden quando un cavallo doveva portare i bagagli di Lizzi alla stazione [p. 499]. Il desiderio rimosso di vedermi andare in carrozza alla stazione, per restare solo con la mamma (il desiderio che ‘il cavallo s’avvii’), si era poi tramutato nell’angoscia di vedere i cavalli avviarsi; e in effetto nulla lo agita di più che il vedere un carro avviarsi dal cortile del Dazio centrale, sito dirimpetto al nostro appartamento, e i cavalli mettersi in moto.
“Tutta questa parte nuova (malanimo nei confronti del padre) è potuta venire in luce soltanto dopo che il bambino ha appreso che io non ero adirato con lui per il fatto ch’egli vuole tanto bene alla mamma.
“Nel pomeriggio esco nuovamente con lui fuori del portone; va di nuovo davanti alla casa e vi resta anche quando passano le carrozze, ha paura soltanto di certe carrozze e corre dentro al portone. – Non tutti i cavalli bianchi mordono – mi spiega; ciò significa che, in virtù dell’analisi, alcuni cavalli bianchi sono già stati riconosciuti come il ‘babbo’ e quindi non mordono più, però ce ne sono altri che mordono ancora.
“Ecco ciò che si vede dal portone della nostra casa (fig. 2): dirimpetto c’è il deposito dell’ufficio delle imposte di consumo, con una piattaforma di carico davanti a cui passano continuamente i carri che vengono a caricare casse di merci e simili. Il cortile è recinto da una cancellata che corre lungo la strada. Proprio di fronte al nostro appartamento vi è il cancello d’ingresso al cortile. Ho osservato da alcuni giorni che Hans s’impaurisce in modo particolare quando i XXXXXX
civile inevitabilmente incontra nello sforzo di superare le sue componenti pulsionali innate, dall’altra fece accorrere il padre in suo aiuto. Forse Hans ha ora il vantaggio rispetto agli altri bambini di non recare più in sé quel germe di complessi rimossi che ha sempre importanza per la vita futura, causando una più o meno grande deformazione del carattere, se non addirittura la disposizione a una successiva nevrosi. Questo è il parere cui sono incline, ma non so quanti altri condivideranno tale giudizio e non so neppure se l’esperienza mi darà ragione.
Domandiamoci ora: qual danno ha procurato a Hans il portare alla luce in lui complessi solitamente rimossi dai figli e temuti dai genitori? Forse che perciò egli ha seriamente tentato di tradurre in atto le sue pretese verso la madre, o forse che alle cattive intenzioni contro il padre sono subentrati i fatti? Certo, è quello che avranno temuto i molti che, misconoscendo la natura della psicoanalisi, credono che render coscienti le cattive pulsioni significhi renderle più forti. Queste sagge persone agiscono con coerenza quando ci supplicano per l’amor del cielo di non occuparci delle brutture che si nascondono dietro le nevrosi. Ma, così facendo, essi dimenticano di esser medici e vengono fatalmente a rassomigliare al Sanguinello shakespeariano in Molto rumore per nulla, che consiglia alla ronda di tenersi lontana da ogni contatto con i ladri che incontrasse per via. “Con gente di quella specie, meno che ci vi immischiate o avete a che fare, meglio è per la vostra onestà.”
Al contrario, le uniche conseguenze dell’analisi sono che Hans guarisce, che non ha più paura dei cavalli e che assume una specie di tono cameratesco con il padre, come questi ci riferisce divertito. Ma quel che il padre perde in rispetto lo riacquista in fiducia: “Credevo che tu sapessi tutto, perché hai saputo la cosa del cavallo.” L’analisi non annulla l’effetto della rimozione; le pulsioni precedentemente represse restano represse; ma essa ottiene lo stesso effetto per altra via, sostituendo al processo della rimozione, che è automatico ed eccessivo, il graduale dominio temperato e adeguato conseguito con l’aiuto delle massime istanze psichiche, in una parola: sostituendo alla rimozione la condanna. Ciò sembra darci la prova, da tempo cercata, del fatto che la coscienza – l’essere coscienti – ha una funzione biologica, e che il suo avvento implica un importante vantaggio. [Nota aggiunta nel 1923: La parola “coscienza” è qui usata in un senso in cui l’ho poi evitata, ossia nel senso del nostro normale concepir pensieri ammissibili alla coscienza. Noi sappiamo che tali processi di pensiero possono anche svolgersi preconsciamente, e faremo bene a considerare il loro “essere coscienti” da un punto di vista puramente fenomenico. Ciò non vuol dire, naturalmente, che anche il divenir cosciente in tal senso fenomenico non adempia una funzione biologica].
Se la cosa fosse dipesa soltanto da me avrei osato dare al bambino anche una spiegazione che i genitori ritennero di ricusargli. Avrei confermato i suoi presentimenti istintivi rivelandogli l’esistenza della vagina e del coito, e in tal modo avrei ulteriormente ridotto i suoi residui insoluti e messo fine al suo torrente di domande. Sono convinto che non ne avrebbero sofferto né il suo amore per la mamma né la sua natura di bimbo e che avrebbe compreso egli stesso che, per occuparsi di queste importanti, anzi imponenti questioni, avrebbe dovuto attendere in pace che si fosse adempiuto il suo desiderio di diventare grande. Ma l’esperimento pedagogico non fu condotto così a fondo.
Che non sia possibile tracciare un netto confine tra “nervosi” e “normali”, sia bambini che adulti; che la “malattia” sia soltanto un concetto meramente pratico di sommazione; che la predisposizione e i casi della vita debbano combinarsi per varcar la soglia di questa sommazione; che pertanto numerosi individui passino continuamente dalla categoria dei sani a quella dei malati di nervi, mentre un numero assai minore compie il tragitto inverso, sono tutte cose che sono state dette tante volte e hanno trovato tanta eco, che non son io certo il solo a sostenerle. Ora, è perlomeno molto verosimile che l’educazione del bambino possa esercitare un profondo influsso a favore o a sfavore di quella predisposizione alla malattia che abbiamo menzionato come fattore della sommazione. Ma a che, deve mirare l’educazione? dove deve intervenire? È ancora difficile rispondere con sicurezza. Finora, essa si è posta per compito soltanto il dominio, o meglio la repressione delle pulsioni. I risultati sono stati tutt’altro che soddisfacenti e dove si è avuto qualche successo, questo ha riguardato soltanto un esiguo numero di privilegiati sfuggiti alla pretesa della repressione pulsionale. D’altra parte nessuno si è domandato per quali vie e in virtù di quali sacrifici si raggiunga la repressione delle pulsioni imbarazzanti. Se per contro noi sostituiamo a questo compito un altro, quello di rendere l’individuo atto alla civiltà e utile membro del consorzio umano, senza chiedergli di sacrificare la propria attività più di quanto non sia strettamente necessario, ecco che allora i chiarimenti datici dalla psicoanalisi sull’origine dei complessi patogeni e sul nucleo di ciascheduna nevrosi meriteranno giustamente di essere considerati dall’educatore una guida di inestimabile valore per la condotta da tenere nei confronti del bambino. Quali conclusioni pratiche se ne possano trarre, fino a che punto l’esperienza possa giustificare l’applicazione di tali conclusioni nel nostro sistema sociale, lascio ad altri di decidere e di giudicare.
Non posso prender congedo dalla fobia del nostro piccolo paziente senza esprimere un’idea che conferisce per me un valore particolare all’analisi che permise la guarigione. Quest’analisi non m’ha rivelato, in senso stretto, nulla di nuovo, nulla che non avessi già appreso (spesso in modo meno chiaro e meno immediato) durante la cura di altri pazienti in età matura. Ma, poiché le nevrosi di questi altri malati potevano sempre esser ricondotte a quegli stessi complessi infantili che abbiamo scoperto dietro la fobia di Hans, sono tentato di annettere a questa nevrosi infantile l’importanza di un modello e di un tipo, opinando che la molteplicità dei fenomeni nevrotici di rimozione e l’abbondanza del materiale patogeno non impediscano la loro derivazione da pochissimi processi riguardanti gli stessi complessi rappresentativi.
poscritto del 1922
Qualche mese fa – primavera del 1922 – mi si presentò un giovanotto dichiarando di essere il “piccolo Hans”, sulla cui fobia infantile avevo pubblicato un rapporto nel 1909. Fui molto lieto di rivederlo, poiché circa due anni dopo la conclusione dell’analisi l’avevo perso di vista e per oltre un decennio non avevo saputo più nulla di lui. La pubblicazione di quella prima analisi di un bambino aveva suscitato molto rumore e ancor maggiore indignazione; tutte le sventure erano state profetate al povero ragazzo, violato nella sua innocenza e vittima di una psicoanalisi in sì tenera età.
Ma nessuna di queste profezie si era verificata. Hans adesso era un prestante giovane di diciannove anni. Mi disse che stava perfettamente bene e che non soffriva di disturbi o inibizioni di alcun genere. Non soltanto aveva attraversato indenne la pubertà, ma aveva sopportato senza conseguenze una delle più dure prove della sua vita emotiva: i genitori avevano divorziato passando ambedue a nuove nozze. Perciò egli viveva solo, pur mantenendo buone relazioni con tutt’e due i genitori: gli rincresceva soltanto che, scioltasi la famiglia fosse rimasto separato dalla giovane sorella che gli era molto cara.
Particolarmente notevole mi apparve una delle cose che mi disse il piccolo Hans, e di cui non tenterò neppure di dare una spiegazione. Dichiarò che, quando aveva letto il suo caso clinico, tutto gli era parso estraneo, non si riconosceva, non si ricordava di nulla, solo leggendo del viaggio a Gmunden gli era balenata l’idea, quasi un barlume di ricordo, di poter essere stato lui. L’analisi dunque, lungi dall’aver preservato gli avvenimenti dall’amnesia, vi era essa stessa soggiaciuta. Succede talvolta in modo simile nel sonno a chi ha familiarità con la psicoanalisi: costui è destato da un sogno, decide di analizzarlo senza indugio, si riaddormenta soddisfatto del risultato, e il giorno dopo sogno e analisi sono dimenticati.
(S. Freud, Opere, Boringhieri, Torino, 1989, vol. V, pagg. 508511, 587589)
Auguste Comte
CORSO DI FILOSOFIA POSITIVA
[I caratteri della filosofia positiva]
Vediamo, da ciò che precede, che il carattere fondamentale della filosofia positiva è da considerare tutti i fenomeni come sottostanti a leggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al minor numero possibile sono il fine di tutti i nostri sforzi, considerando come assolutamente inaccessibile e privo di senso per noi la ricerca di ciò che viene chiamato la causa, sia prima, che finale. […] Così, per citare l’esempio più ammirevole, noi diciamo che i fenomeni generali dell’universo sono spiegati, per quanto è possibile, dalla legge newtoniana della gravitazione, perché, da un lato, questa bella teoria ci mostra tutta l’immensa varietà dei fatti astronomici come fossero un solo e medesimo fatto, considerato sotto diversi punti di vista, ci mostra la tendenza costante di tutte le molecole, le une verso le altre, in ragione diretta delle loro masse ed in ragione inversa dei quadrati delle loro distanze; mentre, d’altra parte, questo fatto generale è presentato come la semplice estensione di un fenomeno che ci è estremamente familiare e che, per ciò soltanto, noi consideriamo perfettamente conosciuto: la pesantezza dei corpi e la superficie della terra. Il determinare che cosa siano in se stesse attrazione e pesantezza, quali ne siano le cause, sono questi i problemi, a cui guardiamo come insolubili, che non appartengono al dominio della filosofia positiva e che noi abbandoniamo con ragione all’immaginazione dei teologi o alle sottigliezze dei metafisici. La prova manifesta della impossibilità di raggiungere soluzioni di questo genere è che tutte le volte che si è cercato di dire a questo riguardo qualcosa di veramente razionale i maggiori spiriti non hanno potuto far altro che definire questi due principi l’uno per mezzo dell’altro dicendo, per quanto riguarda l’attrazione, che essa altro non è che un peso universale e poi, per il peso, che esso consiste semplicemente nell’attrazione terrestre. Spiegazioni di questo genere, che fanno sorridere quando si pretende di conoscere la natura intima delle cose ed il modo in cui vengono generati i fenomeni, sono tuttavia tutto ciò che noi possiamo ottenere di più soddisfacente, in quanto ci mostrano come identici due ordini di fenomeni che sono stati così a lungo considerati come non aventi alcun rapporto tra loro. Nessuno spirito sano cerca oggi di andare più a fondo.
[Il compito della filosofia positiva]
Ma, pur riconoscendo i prodigiosi risultati di questa divisione e pur vedendo in essa la base fondamentale dell’organizzazione del mondo del sapere, è impossibile, d’altra parte, non imbattersi negli inconvenienti che essa genera allo stato attuale, per l’eccessiva limitazione dei campi di indagine. Una maniera valida per arrestare l’influenza deleteria, da cui l’avvenire sembra minacciato in seguito ad una esagerata specializzazione della ricerca individuale, non sarà certamente quella di ritornare all’antica confusione dei lavori, la quale farebbe soltanto regredire lo spirito umano e che al giorno d’oggi sarebbe impossibile. Essa consiste al contrario nella perfezione della divisione del lavoro. Basta, in effetti, fare dello studio delle generalità scientifiche una grande specialità in più. Che una nuova classe di sapienti, preparati da una educazione adeguata, non legati alla cultura specialistica della filosofia naturale, si occupi unicamente, considerando le diverse scienze positive allo stato attuale, a determinare esattamente lo spirito di ciascuna di esse, a scoprirne le relazioni ed i nessi, a ricondurre, se è possibile, tutti i principi propri in un minor numero di principi comuni, conformandosi continuamente ai fondamenti del metodo positivo.
[La legge dei tre stadi]
Per spiegare convenientemente la vera natura ed il carattere proprio della filosofia positiva è necessario gettare uno sguardo d’insieme sulla marcia progressiva dello spirito umano, perché qualsiasi dottrina può essere meglio conosciuta quando se ne conosce la storia.
Studiando così lo sviluppo dell’intelligenza umana nelle sue diverse sfere di attività, dalle prime manifestazioni fino ai nostri giorni, credo di aver scoperto una grande legge fondamentale, alla quale esso è soggetto con ferrea necessità e che può essere definita in modo preciso sia con prove razionali ricavate dalla conoscenza della nostra organizzazione, sia con la verifica storica risultante da un attento esame del passato.
Questa legge consiste nel fatto che ogni nostra concezione fondamentale, ciascun settore delle nostre conoscenze, passa successivamente attraverso tre stadi diversi: lo stadio teologico o fittizio; lo stadio metafisico o astratto; lo stadio scientifico o positivo. In altre parole lo spirito umano, per sua natura, adopera successivamente, in tutte le sue ricerche, tre metodi di filosofare, il cui carattere è essenzialmente differente e persino opposto: all’inizio il metodo teologico, quindi quello metafisico, infine il metodo positivo. Da lì hanno origine tre tipi di filosofia, o di concezioni generali sull’insieme dei fenomeni, che si escludono reciprocamente; il primo è il punto di partenza necessario dell’intelligenza umana, il terzo la sua sistemazione definitiva e fissa, il secondo vale soltanto come momento di passaggio.
Nello stadio teologico lo spirito umano indirizza essenzialmente le sue ricerche verso la natura intima delle cose, le cause prime e le cause ultime di tutti gli effetti che lo colpiscono, in una parola, verso le conoscenze assolute e si rappresenta i fenomeni come prodotti dall’azione diretta e continua di agenti sovrannaturali più o meno numerosi, il cui arbitrario intervento dà ragione di tutte le contraddizioni apparenti dell’universo. Nello stato metafisico, che non è in fondo se non una semplice modificazione generale del precedente, gli agenti sovrannaturali sono sostituiti da forze astratte, vere entità inerenti ai diversi esseri del mondo e concepite come capaci di produrre esse stesse tutti i fenomeni osservati, la cui spiegazione consiste dunque nell’assegnare a ciascuno l’entità corrispondente. Infine nello stato positivo lo spirito umano riconoscendo l’impossibilità di raggiungere delle nozioni assolute rinuncia a cercare l’origine ed il destino dell’universo ed a conoscere le cause intime dei fenomeni, per dedicarsi unicamente a scoprire, con l’uso opportunamente combinato del ragionamento e dell’osservazione, le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni invariabili di successione e di somiglianza. La spiegazione dei fatti, ridotta dunque nei suoi termini reali, non è altro ormai che il legame posto tra i diversi fenomeni particolari ed alcuni fatti generali; di qui derivano i progressi della scienza che tende sempre più a diminuire il numero delle leggi [...]
Ordunque, se la filosofia positiva è il vero e proprio stato definitivo dell’intelligenza umana, quello stato verso cui essa è stata sempre più intensamente protesa, nondimeno essa ha dovuto necessariamente impiegare all’inizio e durante una lunga successione di secoli sia come metodo, sia come dottrina provvisoria, la filosofia teologica; filosofia il cui carattere è d’essere spontanea, e perciò la sola possibile all’origine, la sola anche che possa offrire al nostro spirito nascente un interesse sufficiente. È ora molto facile accorgersi che per passare da questa filosofia provvisoria alla filosofia definitiva, lo spirito umano ha dovuto naturalmente adottare, come filosofia transitoria, i metodi e le dottrine metafisiche. Quest’ultima considerazione è indispensabile per completare il breve ragguaglio generale sulla grande legge che ho prospettato.
F. Tonon, Auguste Comte e il problema storicopolitico nel pensiero contemporaneo,
G. D’Anna, MessinaFirenze, 1975, pagg. 129136
Karl Raimund Popper
LOGICA DELLA RICERCA E SOCIETA’ APERTA. SULL’INDUZIONE
Desidero perciò dire che io non credo che esista nulla di simile al metodo induttivo, o a un procedimento induttivo, [...].
Non faccio mai questioni di parole, e naturalmente non ho nessuna seria obiezione contro chi voglia chiamare col nome “induzione” il metodo di discussione critica. Ma in questo caso è necessario rendersi conto che si tratta di qualcosa di molto diverso da tutto ciò che in passato è stato chiamato “induzione”. Infatti, si è sempre pensato che l'induzione debba fondare una teoria, o una generalizzazione, mentre il metodo della discussione critica non fonda un bel niente. Il suo verdetto è sempre e invariabilmente “non provato”. La miglior cosa che possa fare – e raramente la fa – è quella di venir fuori con il verdetto che una certa teoria sembra la migliore disponibile, cioè la migliore che finora sia stata sottoposta alla discussione, quella che sembra risolvere una gran parte del problema che era destinata a risolvere, e che è sopravvissuta ai controlli più severi che siamo stati finora in grado di escogitare. Ma naturalmente ciò non fonda la verità della teoria; cioè non stabilisce che la teoria corrisponde ai fatti, o è una descrizione adeguata della realtà; tuttavia possiamo dire che un verdetto positivo di questo genere equivale al dire che, alla luce della discussione critica, la teoria appare come la migliore approssimazione alla verità che si sia finora raggiunta.
In realtà, l'idea di “migliore approssimazione alla verità” è, allo stesso tempo, il principale modello della nostra discussione critica e lo scopo che speriamo di raggiungere, come risultato della discussione. Tra i nostri altri modelli ci sono il potere esplicativo dl una teoria e la sua semplicità.
Nel passato il termine “induzione” è stato usato soprattutto in due sensi. La prima è l'induzione ripetitiva (o induzione per enumerazione), che consiste di osservazioni spesso ripetute, osservazioni che dovrebbero fondare qualche generalizzazione della teoria. La mancanza di validità di questo genere di ragionamento è ovvia: nessun numero di osservazioni di cigni bianchi riesce a stabilire che tutti i cigni sono bianchi (o che la probabilità di trovare un cigno che non sia bianco è piccola). Allo stesso modo, per quanti spettri di atomi d'idrogeno osserviamo non potremo mai stabilire che tutti gli atomi d'idrogeno emettono spettri dello stesso genere. Tuttavia considerazioni di ordine teorico possono suggerirci quest'ultima generalizzazione, e considerazioni teoriche ulteriori possono suggerirci di modificarla introducendo spostamenti Doppler e spostamenti verso il rosso propri della gravitazione einsteiniana.
Dunque l'induzione per enumerazione è fuori causa: non può fondare nulla.
Il secondo senso principale in cui il termine “induzione” è stato usato in passato è l'induzione eliminatoria: l'induzione fondata sul metodo dell'eliminazione o confutazione delle teorie false. A prima vista questo tipo di induzione può sembrare molto simile al metodo della discussione critica che io sostengo, ma in realtà è molto diverso. Infatti Bacone e Mill, e gli altri diffusori di questo metodo dell'induzione per eliminazione credevano che, eliminando tutte le teorie false, si possa far valere la teoria vera. In altre parole, non si rendevano conto che il numero delle teorie rivali è sempre infinito, anche se, di regola, in ogni momento particolare possiamo prendere in considerazione soltanto un numero finito di teorie. Dico “di regola”, perché qualche volta ci troviamo di fronte a un numero infinito di tali teorie: ad esempio, qualcuno suggerì di modificare la legge newtoniana dell'attrazione secondo l'inverso dei quadrati, sostituendo al quadrato una potenza che differisca solo di poco al numero 2. Questa proposta equivale al suggerimento che si dovrebbe considerare un numero infinito di correzioni, di poco differenti tra loro, della legge di Newton.
Il fatto che per ogni problema esiste sempre un'infinità di soluzioni logicamente possibili, è uno dei fatti decisivi di tutta la scienza; è una delle cose che fanno della scienza un'avventura così eccitante. Esso infatti rende inefficaci tutti i metodi basati sulla mera routine. Significa che, nella scienza, dobbiamo usare l'immaginazione e idee ardite, anche se l'una e le altre devono sempre essere temperate dalla critica e dai controlli piú severi.
Tra l'altro, mette anche in evidenza l'errore di coloro i quali pensano che lo scopo della scienza sia, puramente e semplicemente, quello di stabilire correlazioni tra gli eventi osservati, o le osservazioni (o, peggio ancora, fra i “dati sensibili”). In scienza, tendiamo a molto di più. Tendiamo a scoprire nuovi mondi dietro il mondo dell'esperienza ordinaria, mondi come, ad esempio, un mondo microscopico o submicroscopico; come, ad esempio, un mondo noneuclideo, un mondo popolato di forze invisibili: forze gravitazionali, chimiche, elettriche e nucleari, alcune delle quali, forse, sono riducibili ad altre, mentre altre non lo sono. Proprio la scoperta di questi nuovi mondi, di queste possibilità che nessuno si era mai sognato, accresce di tanto il potere liberatore della scienza. I coefficienti di correlazione sono interessanti, non perché mettono le nostre osservazioni in relazione fra loro ma perché, e solo quando, ci aiutano a imparare qualcosa di più intorno a questi mondi.
K. R. Popper, Logica della ricerca e società aperta, Antologia a cura di D. Antiseri,
La Scuola, Brescia, 1989, pagg. 3335
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