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INTRODUZIONE
La storia della filosofia moderna comincia con Cartesio e il movimento del RAZIONALISMO.
Con Cartesio il problema si sposta sulla conoscenza: si parla del dubbio metodico.
Ci si chiede qual è la validità della conoscenza.
Posso dubitare su tutto, tranne che sulla mia esistenza.
Cartesio conclude che l’uomo è un essere pensante RAZIONALISMO (1600)
Descartes
Spinoza
Leibnitz
Io sono ragione: res cogitans.
Il mondo è estensione: res extensa (è la seconda certezza).
Sono certo di queste due cose perché Dio garantisce, di tutte le altre cose non posso essere sicuro.
Spinoza dice che esiste un’unica essenza, sostanza: Dio (una sorta di monismo).
Opposta al razionalismo è la corrente dell’EMPIRISMO (1600): tutte le conoscenze vengono dall’esperienza, a posteriori. Nella mia mente ho una tabula rasa.
Hobbes
Locke
Hume
Razionalismo ed Empirismo sono due tronconi di pensiero sul problema della conoscenza.
Razionalismo: Platone
Empirismo: Aristotele e Tommaso
Kant dice che la conoscenza avviene attraverso giudizi sintetici a priori: in tal modo si ha vera conoscenza. Non possiamo andare oltre l’esperienza.
Kant arriva a negare la metafisica: non possiamo affermare l’esistenza dell’anima e di Dio.
Kant dà inizio all’IDEALISMO post-kantiano (1800): l’intelletto umano può andare oltre, può conoscere tutto, non c’è niente che è al di fuori (questo è stato dimenticato da Kant).
Fichte
Schelling
Hegel
L’idealismo afferma che tutto ciò che è razionale è reale (reale in quanto razionale): la ragione crea la realtà.
Successivamente si ha reazione all’idealismo metafisico: bisogna tornare alla realtà. Il problema non è più la conoscenza, ma la realtà.
• Primi opponenti all’idealismo: Fries (+ 1843), Herbart (+ 1841), Beneke (+ 1854), Bolzano (+1848)
• Reazione destra hegeliana
• Reazione sinistra hegeliana: Strauss, Bauer, Stirner, Ruge
• Grandi contestatori della sinistra hegeliana: Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche
Il più grande contestatore è Karl MARX (con Engels) e il MARXISMO.
Il marxismo è un grande movimento su cui si è scritto molto: non basta conoscere, dobbiamo cambiare. Per il marxismo, quindi, non basta la teoria, ma la prassi.
Tutti i movimenti contestatori all’idealismo sono in Germania.
In contemporanea nel mondo britannico c’è una continuazione dell’empirismo con vari movimenti.
Utilitarismo: Bentham, J. Mill, John Stuart Mill
Positivismo: Darwin, Huxely, Comte.
In Inghilterra c’è pure un certo movimento idealista con Sorley che, però, non ha seguito.
In America troviamo sia una continuazione dell’idealismo con Royce sia la corrente del pragmatismo con Peice e James.
In Italia troviamo Antonio Rosmini (il Kant italiano), Vincenzo Gioberti, Benedetto Croce, Giovanni Gentile.
In Francia troviamo Comte per il positivismo e il movimento della filosofia dell’esistenza.
In Spagna e Portogallo troviamo Unamuno e Ortes.
In Germania nasce la filosofia della vita (Weber), la filosofia dell’essenza (fenomenologia di Husserl), la filosofia dell’esistenza (Heidegger, Jaspers, Marcel, Sartre, Camus), il circolo di Vienna (Wittgenstein), la scuola di Francoforte (Marcuse, Hauerwas).
Dove nasce la storia della filosofia contemporanea?
A questa domanda ci sono tante possibili risposte.
1) Qualcuno dice che Kant ha piantato l’ultimo chiodo della bara della metafisica: le verità della metafisica sono solo postulati. Con Kant, quindi, finisce la metafisica come scienza e inizia la filosofia contemporanea.
2) Un’altra opinione è che la filosofia contemporanea comincia dopo l’idealismo trascendentale, dopo Hegel. La metafisica è una creazione, uno sviluppo dell’IO Assoluto (filosofo o Dio). Per l’idealismo è la ragione che crea la realtà: quello che è razionale è reale.
Per l’idealismo l’unica realtà è la ragione concepita come io individuo oppure come io Assoluto. Non c’è niente al di fuori della conoscenza.
L’Assoluto realizza se stesso tramite la storia umana.
L’unica realtà è l’io Assoluto, Dio, per Hegel, che pone il non assoluto, tutto il creato.
Se io non sono conscio dell’Assoluto questo non esiste per me: in un certo senso l’Assoluto diventa una mia creazione.
La metafisica è sviluppo logico dell’io Assoluto, concepito sia come individuo (filosofo che pensa) sia come Dio.
La metafisica è chiusa nell’individuo. Questa metafisica può essere ridotta a teologia: tutto è a servizio dell’io Assoluto. Tutto viene riassunto nell’Assoluto.
La filosofia contemporanea reagisce all’idealismo trascendentale perché dalla ragione passa alla realtà.
3) Una terza opinione dà una valenza cronologica alla filosofia contemporanea.
Alcuni affermano che la filosofia contemporanea inizia col XX secolo.
Altri dicono che parte dalla prima guerra mondiale.
Altri ancora affermano che parte della seconda guerra mondiale.
Noi non accettiamo le opinioni cronologiche perché il pensiero fugge spazio e tempo (per esempio sia Schopenhauer che Nietzsche hanno avuto influsso postumo alla filosofia e da vivi sono stati considerati poco).
4) Un’altra opinione è che la filosofia contemporanea è quella odierna. Ma i filosofi sono figli della storia, influenzati dalla storia previa a loro. Il pensiero odierno può essere capito solo considerando la storia precedente.
Dal punto di vista pratico e didattico noi seguiamo la seconda opinione: per noi la filosofia contemporanea comincia con il dopo-Hegel.
Alcune caratteristiche generali della filosofia contemporanea
Nell’800 la filosofia era una disciplina d’insegnamento nelle università.
Nel Medioevo si parla di Scolastica non solo per il linguaggio, ma per il contenuto: la filosofia fu prevalentemente ecclesiastica.
Nella filosofia moderna i protagonisti, invece, non furono più docenti universitari: la filosofia non è più nelle mani di ecclesiastici.
Dopo Kant la filosofia torna ecclesiastica.
Nel XX secolo la filosofia diventa scienza sulle nostre piazze: tutti possono fare filosofia, ecclesiastici e laici, credenti e non credenti. Il linguaggio usato, però, è un linguaggio politico difficile da comprendere.
La filosofia contemporanea ha alcune caratteristiche peculiari:
• non c’è centralità del mondo universitario ed ecclesiastico, la filosofia non è monopolio di università e Chiesa, ma è patrimonio di tutti;
• i temi trattati non sono più quelli tradizionali, ma concreti, quotidiani, immediati; la filosofia è entrata nel quotidiano;
• sotto il nome di filosofia si celano ricerche disparate (analisi del linguaggio, logica formale, psicologia, istanze teologiche);
• la filosofia non è più sistematica, non esiste più un’unità di sapere, tutto è frammentato (il mondo è pieno di specialisti!);
• la filosofia non offre una dottrina completa (uomo, mondo, Dio), ma evidenzia problemi particolari, soprattutto riguardanti l’uomo; c’è quindi la necessità di un’interdisciplinarietà (la filosofia collabora con altre discipline).
Non si può terminare l’introduzione senza un accenno al ruolo dei media che generano una direzione del pensiero, ma sono monopolio di ‘chi ha soldi’. I ricchi indirizzano il pensiero. I media possono controllare il nostro pensiero e possono creare delle verità e delle non-verità.
REAZIONI ALL’IDEALISMO TRASCENDENTALE
Il primo oppositore è Jacob F. Fries che ebbe il coraggio di andare contro i grandi filosofi idealisti. La sua proposta è quella di ritornare a Kant: la filosofia non deve fare un sistema metafisico, ma una critica della conoscenza umana. Altre reazioni le abbiamo da parte di:
• Rudolf Otto, autore de “Il sacro”, grande libro sull’esperienza religiosa (è l’opera classica al riguardo);
• Johann Friedrich Herbart secondo cui bisogna tornare a Kant, anche se lui si spinge oltre Kant come chiarificazione dei concetti che abbiamo; Herbart è un anticipatore della filosofia del linguaggio;
• Bernhard Bolzano, anti-idealista e anti-kantiano che vede la filosofia come mestiere: analizzare i concetti con una logica il più rigorosa possibile.
Vita e opere
Arthur Schopenhauer nasce a Danzica nel 1788 da un ricco commerciante e da una scrittrice di romanzi. Quando Danzica cessa di essere “città libera” e viene inglobata nella Prussia trasferisce la famiglia ad Amburgo. Dopo la morte del padre, suicida nel 1805, gli succede per breve tempo nell’attività commerciale, ma poi decide di dedicarsi agli studi. La madre, intanto, trasferitasi a Weimar, apre un salotto letterario, frequentato anche da Goethe, con cui il giovane Arthur avrà qualche incontro. Nel 1809 comincia l’università di Gottinga (inizia con medicina, poi passa a filosofia), dove Jacobi lo introduce alla lettura di Platone e di Kant, che costituiscono le due fonti filosofiche più influenti sulla sua formazione, almeno per quanto riguarda il pensiero occidentale. Rilevantissima fu, infatti, l’ influenza esercitata su Schopenhauer dalla lettura delle Upanishad, i testi sacri della sapienza indiana.
Durante un nuovo soggiorno a Weimar, scrive “La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente” (1813)
Dal 1814 al 1818 vive a Dresda dove compone “Il mondo come volontà e rappresentazione”. Frattanto, ottenuta la libera docenza, si trasferisce a Berlino, dove tiene lezioni all’università nelle stesse ore di quelle di Hegel, per fargli concorrenza: il risultato é che si trova senza allievi. Nel frattempo arrivano le prime, poco favorevoli, recensioni del Mondo , mentre le copie dell’opera, rimaste invendute, vanno al macero.
Nel 1831 Schopenhauer si trasferisce a Francoforte per sfuggire all’epidemia di colera che travaglia Berlino (e che costerà la vita ad Hegel) e legge moltissima letteratura europea per legittimare le sue idee. Un decennio dopo la morte di Hegel, quando l’hegelismo accusa i primi scossoni, Schopenhauer comincia a ottenere qualche consenso e a guadagnare qualche discepolo.
1836: “La volontà della natura”
1839: l’articolo “Sulla libertà della volontà umana”
1841: due articoli “I due problemi fondamentali dell’etica”
1844: seconda edizione de “Il mondo come volontà e rappresentazione” con l’aggiunta di 50 capitoli e una prefazione contro gli idealisti.
Ma la grande fama gli arriverà soltanto nel 1851 con i Parerga e paralipomena, in due volumi, che raccolgono vari saggi, tra cui i famosi Aforismi sulla saggezza della vita e La filosofia delle università, aspra requisitoria contro gli ambienti filosofici accademici della Germania. Ora Schopenhauer riesce a vendere bene anche il Mondo e ne ottiene una terza edizione (1859). Nel 1860 Schopenhauer muore di polmonite.
Schopenhauer aveva un carattere arrogante, criticava duramente e in pubblico i suoi colleghi idealisti.
La sua filosofia insiste sull’esistenza del male nel mondo ma anche sulla possibilità di qualche risposta o via d’uscita. Grazie a questo divenne famosissimo negli ultimi anni della sua vita.
Fu un egoista, dotato di “humor”, misogeno, molto sensibile verso le sofferenze.
LA QUADRUPLICE RADICE DEL PRINCIPIO DI RAGION SUFFICIENTE
La sua tesi di dottorato “La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente” è influenzata da Kant (“sorprendente”) e Platone (“divino”).
Il mondo della nostra esperienza è il mondo dei fenomeni e solo quello possiamo conoscere. Tutto il mondo è rappresentazione del soggetto conoscente. Non si può conoscere la realtà come realmente è. Si conoscono solo le rappresentazioni che noi ne facciamo. Nessuna rappresentazione è isolata, ma sempre collegata con altre rappresentazioni.
La conoscenza dei collegamenti tra le rappresentazioni dà origine alla scienza
Il principio generale che governa la conoscenza è il principio di ragion sufficiente.
Poiché ci sono 4 tipi di rappresentazioni (classi di oggetti) e 4 tipi di relazioni; di conseguenza ci saranno 4 ragioni sufficienti che regolano le 4 rappresentazioni.
1) Rappresentazioni intuitive o empiriche degli oggetti del mondo.
Sono relazionate tra loro con tempo e spazio: scienze naturali fisiche, chimiche, etc.
Spazio e tempo sono a priori (come per Kant), forme a priori della sensibilità.
La nostra conoscenza di queste rappresentazioni è guidata dal principio di ragion sufficiente del divenire.
Le cose materiali sono estese (non ne dubita neanche Cartesio). L’estensione richiede spazio.
Le sensazioni non ci danno una conoscenza chiara della realtà materiale.
La materia, in quanto è estesa, è una realtà materiale. Ogni essere materiale è in atto e in potenza.
Lo spazio è legato alla materia, all’estensione.
Il tempo è legato al movimento: senza movimento non c’è tempo. Anche il movimento appartiene al mondo materiale.
2) Concetti astratti
La relazione fra concetti astratti è data dal giudizio. Il giudizio è guidato dal principio di ragion sufficiente per conoscere.
3) A priori: spazio e tempo
Sono forme della sensibilità. La legge secondo quale spazio e tempo si determinano fra loro è il principio di ragion sufficiente dell’essere.
4) Soggetto come volontà
Il soggetto è considerato come oggetto per il soggetto conoscente. L’oggetto è l’ego, l’io.
Il principio che guida la conoscenza è il principio di ragion sufficiente per agire.
Il principio della ragion sufficiente - di ascendenza leibniziano-wolfiana - consiste nello spiegare il perchè delle cose, più esattamente, “perchè una cosa sia piuttosto che non sia”: a tale scopo occorre instaurare un rapporto necessario tra la cosa da spiegare e quella che la spiega. A seconda delle forme assunte da questo rapporto il princìpio di ragion sufficiente può presentarsi in quattro configurazioni (“radici”) diverse, mostrando di discendere da una “quadruplice radice”: 1) la prima “radice” spiega la dimensione del divenire dei corpi naturali ( principium rationis sufficientis fiendi ) attraverso la connessione tra la causa e l’ effetto fisici (necessità fisica); in altri termini, la prima manifestazione del principio di ragion sufficiente è la causalità, per cui, dato un evento, so con certezza che esso deve avere una causa e per questo è detto “del divenire”. 2) La seconda spiega il conoscere razionale dell’ uomo ( principium rationis sufficientis cognoscendi ) per mezzo della relazione tra antecedente e conseguente (necessità logica): se nella 1° radice si trattava della causalità fisica, ora la causalità in gioco è quella logica. Nel ragionamento concepiamo, cioè, il rapporto tra premessa e conseguenza come nel mondo fisico concepiamo quello tra causa ed effetto. 3) La terza giustifica l’ essere ( principium rationissufficientis essendi ) come definito dai rapporti dello spazio e del tempo, determinando così la concatenazione degli enti aritmetici e geometrici (necessità matematica). Con la terza radice, Schopenhauer interpreta kantianamente lo stesso principio di causa/effetto nella sfera matematica, poichè l’essere è ciò che si definisce nello spazio e nel tempo, i quali, a loro volta, sono i fondamenti della geometria. Tra l’espressione algebrica a sinistra dell’uguale e quella a destra (oppure tra il triangolo e i teoremi che da esso derivano), vige un rapporto analogo a quello causa/effetto del mondo fisico. 4) La quarta, infine, sta alla base dell’agire ( principium rationis sufficientis agendi ), in quanto stabilisce la connessione causale tra l’azione che si compie e i motivi per cui è compiuta (necessità morale). Il rapporto che si instaura tra il motivo di un’azione e la sua conseguenza è analogo a quello che intercorre tra la causa e l’effetto nel mondo fisico, sicché non esistono azioni umane prive di motivi. Il principio di ragion sufficiente riconduce pertanto ogni forma di connessione tra le rappresentazioni a espressioni di causalità (in senso fisico, o logico, o matematico, o morale) e, insieme, mostra la convergenza tra la causalità, da un lato, e lo spazio e il tempo, dall’ altro.
Alcune conclusioni:
il mondo è fenomeno;
il principio di ragion sufficiente si applica solo al fenomeno;
si regolano solo fenomeni, non la totalità del mondo; come Kant non possiamo affermare l’esistenza di Dio, perché tramite i sensi non ne abbiamo esperienza.
IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE
È l’opera principale di Schopenhauer in cui afferma “il mondo è una mia rappresentazione”.
Tutto il mondo visibile è oggetto per un soggetto (Berkeley: esse est percipi).
Per Schopenhauer la verità più lampante è che il mondo è ciò che è percepito da me, il mondo è la mia rappresentazione.
intuitive
RAPPRESENTAZIONI
astratte
Solo gli uomini hanno concetti astratti, mentre le rappresentazioni intuitive (quelle dei 5 sensi) sono comuni all’uomo e all’animale (che, anzi, in alcuni casi le hanno anche più sviluppate).
Il mondo come fenomeno è qualcosa di comune all’uomo e all’animale che ha anche le forme a priori di spazio e tempo.
La ragione è solo dell’uomo, ma perché noi formuliamo concetti astratti? La loro funzione è primariamente pratica, non teoretica. I concetti sono utili alla vita pratica e servono anche per comunicare.
Per Schopenhauer la ragione è la serva della volontà: questo è un cambio radicale di posizione rispetto all’idealismo. La volontà diventa il principio sotto la quale la conoscenza agisce.
La funzione primaria della ragione è biologica, pratica.
La natura viene vista come strumento per soddisfare i bisogni biologici dell’organismo umano: nutrizione e propagazione della specie.
La ragione è sotto la volontà: l’uomo è capace di andare oltre la realtà fenomenica?
La risposta è che l’intelletto è capace di arrivare all’oggettività, anche se deve sottostare alla volontà.
La ragione, con un surplus di energia, può andare oltre la volontà.
L’intelletto è capace di contemplazione.
È possibile la metafisica?
Qualche volta l’intelletto è capace di oltrepassare la volontà e, quindi, è possibile la metafisica; l’uomo può così giungere alla cosa in sé, al fondamento noumenico che sta alla base di ogni manifestazione fenomenica della realtà, precedentemente e indipendentemente da ogni rappresentazione secondo le forme a priori della conoscenza.
Il mondo come manifestazione della volontà (di vivere)
Il mondo come rappresentazione non è la cosa in sé, è fenomeno, «è un oggetto per il soggetto». Ma Schopenhauer non parla, al pari di Kant, del fenomeno come di una rappresentazione che non può cogliere il noumeno, cioè la cosa in sé.
La realtà è unica ed il mondo è manifestazione di quest’unica realtà. Tutte le cose che esistono sono manifestazioni di quest’unica realtà.
La conoscenza vera è esperienziale, pratica.
Le manifestazioni non sono realtà, ma maya, illusioni, velo che copre il volto delle cose. Posso dire che queste manifestazioni sono maya solo quando conosco la realtà.
L’essenza del nostro essere è volontà: l’immersione nel profondo di noi stessi ci fa scoprire che noi siamo volontà e tale immersione squarcia il velo di maya e ci fa ritrovare come parti di quell’unica volontà, di quel “cieco ed irresistibile impeto” che pervade tutto l’universo.
La volontà si presenta soprattutto come volontà di vivere: qualsiasi cosa si forza a vivere, a sopravvivere.
La volontà di vivere si presenta anche nel mondo materiale, della gravitazione, del campo magnetico.
La volontà di vivere è la manifestazione principale della volontà.
La volontà è la realtà ultima ed è un impulso cieco, un divenire eternamente, uno sforzo senza fine, un anelarsi senza limite, uno sforzarsi continuamente senza arrivare mai.
Il pessimismo metafisico
La concezione della cosa in sé come volontà porta Schopenhauer ad un radicale pessimismo.
Dal momento che la volontà è irrazionale, ciò che noi consideriamo nel mondo ordine e armonia è soltanto illusione.
La soddisfazione è solo una cessazione temporanea del desiderio. Ogni felicità è temporanea, negativa. La felicità diventa noia. La noia ci porta a cercare la compagnia di un altro.
Così l’esistenza è una penosa altalena tra due mali, la privazione e la noia.
Tutto il mondo è un campo di battaglia, di conflitto continuo a causa della volontà che è cieca e non sotto la ragione.
L’uomo è causa dei mali dell’uomo: ogni uomo è un lupo per gli altri.
L’uomo mi riduce a un oggetto (come lo sguardo sartriano).
L’ordine della società civile e politica non è che il fragile rivestimento di un’accozzaglia di pulsioni ed egoismi, che non tardano a manifestarsi con effetti prorompenti appena venga meno la forza coercitiva che li trattiene. Si giustifica la necessità dello stato politico per frenare l’egoismo assoluto. L’uomo non è una manifestazione divina e neanche lo stato politico. Il ruolo del filosofo è far prendere consapevolezza delle cose.
C’è possibilità di uscire dalla rete della volontà?
La risposta è la contemplazione estetica e la via dell’ascetismo.
La contemplazione estetica è una fuga temporanea dalla schiavitù della volontà.
La via dell’ascetismo è una via più duratura.
La contemplazione estetica dà origine al genio e all’arte. Il genio è colui che è capace di contemplare.
Ci sono diversi gradi di arti:
architettura (è alla base della scala delle arti);
orticultura;
dipinti storici e sculture;
poesia;
tragedia (è l’arte suprema della poesia);
musica (è l’arte suprema).
Nell’esperienza artistica il soggetto riesce a svincolare l’oggetto dalle condizioni spaziali, temporali e causali che lo individualizzano e riesce a contemplarlo come una specie universale, come un’essenza, come l’immediata oggettività della volontà. L’artista appare, così, quale soggetto assoluto di una conoscenza pura, precedente al processo di fenomenizzazione.
L’ascetismo è rinunciare alla volontà di vivere: è la via più duratura. A questo scopo è infatti finalizzata l’ ascesi , intesa come sistematica mortificazione dei bisogni della vita sensibile in modo da ridurre il più possibile non solo il nostro consapevole consenso alla volontà, ma la stessa oggettivazione della volontà noumenica nel mondo fenomenico.
Una più duratura liberazione dai mali della volontà può derivare dalla morale , la quale rappresenta la naturale continuazione dell’attività artistica. La virtù , infatti, nasce sempre da una forma di conoscenza. Attraverso la virtù, però, la conoscenza va al di là delle manifestazioni fenomeniche della volontà, che costituiscono l’esperienza ordinaria, e attinge la vera natura della volontà stessa, rendendo l’uomo consapevole delle dolorose conseguenze cui essa conduce. La conoscenza cessa così di acconsentire all’impulso vitale fondamentale e di fungere da ‘motivo’ (inteso come ‘ciò che muove’) dell’azione umana, ma diventa piuttosto un quietivo della volontà : essa si traduce in un atteggiamento di negazione del volere, in modo da sortire immediatamente anche un effetto sulla vita pratica dell’uomo. Per far questo, bisogna estendere dal piano conoscitivo a quello pratico quella sospensione del ‘principio di individuazione’ che è già stata realizzata dalla contemplazione artistica. In questo modo, l’uomo non considererà più se stesso come un individuo contrapposto ad altri individui, cioè come espressione di bisogni e interessi che lo portano necessariamente al conflitto con il suo vicino. Al contrario, egli opererà in modo da far convergere in un’unica realtà il proprio io e quello degli altri, eliminando ogni conflittualità tra gli individui.
Per far questo bisogna praticare la virtù. Non è giustificato il suicidio perché questo significa arrendersi alla volontà.
L’egoismo è la causa del male. Il mondo possiede un significato morale e in esso c’è una certa giustizia che prevale. Il mondo è la corte della giustizia sul mondo: tutte le cose che hanno vita muoiono.
Una virtù proposta è quella della giustizia: è la virtù base.
Gli altri sono come me: questa è la giustizia.
Dalla simpatia nasce l’amore disinteressato. L’amore è agape (o charitas): non bisogna rimanere al livello dell’eros. Il vero amore è simpatia.
Il buddhismo è la religione della compassione. La compassione supera l’egoismo. Il termine compassione è un termine migliore per esprimere l’amore.
L’ascetismo è autorinuncia alla volontà.
Schopenhauer loda la castità, la povertà e la mortificazione personale. Alla fine della vita virtuosa c’è la morte che è estinzione totale.
Di fronte a noi c’è solo il niente, non c’è immortalità personale. C’è un senso di immortalità nell’essere assorbito in un’unica volontà, ma noi non conosciamo tutti gli attributi di questa volontà.
Alcune note finali:
• Questa filosofia è una reazione all’idealismo metafisico.
• La volontà di Schopenhauer sostituisce l’ego di Fichte.
• La distinzione tra fenomeno e noumeno è kantiana.
• È un’”idealismo” in cui si esalta la volontà anziché la ragione. Per Schopenhauer la realtà è irrazionale: tutto è manifestazione della volontà.
• La metafisica di Schopenhauer è pessimistica. L’idealismo, invece, è ottimista.
• Schopenhauer ha influito nei suoi successori: Julius Frauenstädt (+ 1879), Paul Daussen (+ 1919), Edward von Hartmann (+ 1906), il musicista Richard Wagner.
Vita e opere
Nato a Röken, nei pressi di Lipsia in Germania, il 15 ottobre 1844, rimase presto orfano del padre, pastore luterano che morì nel 1849; nel 1850 la madre si trasferì a Naumburg, dove Nietzsche iniziò i suoi studi e ricevette un’educazione musicale. La sua famiglia era femminile (madre, sorella, nonna e due zie) e pietista.
Nel 1859, egli entrò nel ginnasio di Pforta, dove rimase fino al 1864. Aveva ammirazione per la cultura greca e legge Platone e Eschilo. Studia poesia e musica.
Nel 1864 si immatricolò come studente di teologia all’università di Bonn dove ha per amico Paul Daussen, orientalista. Studia filologia (il filologo del tempo fu Ritschl). Collega e amico fu Erwin Rodhe che diventerà l’autore di “Psichè” e professore della stessa università.
Alla fine del 1868 avviene il suo primo incontro con Richard Wagner; nel frattempo legge Schopenhauer e pubblica articoli sul “Rheinisches Museum” (“Gazzetta renana”) su Diogene Laerzio e Teognide. Nel 1869, grazie all’appoggio di Ritschl e del suo condiscepolo Hermann Usener, ottiene l’insegnamento di Lingua e letteratura greca presso l’università di Basilea, in Svizzera: qui a maggio tiene la sua prolusione su “Omero e la filologia classica”. A Basilea diventa collega dello storico Jacob Burckhardt, di cui seguirà le lezioni sullo studio della storia e della civiltà greca.
All’inizio del 1870, Nietzsche tiene due conferenze a Basilea su “Il dramma musicale greco” e “Socrate e la tragedia”, le quali suscitano l’ammirazione di Wagner. Esse costituiscono un’anticipazione di quello che sarà il suo primo volume, pubblicato nel gennaio del 1872, “La nascita della tragedia”: c’era l’influsso di Wagner (a cui è dedicata l’opera) e di Schopenhauer.
Nell’opera si parla del decadimento della cultura greca dopo Socrate, C’è contrasto tra cultura greca prima e dopo Socrate. Per Nietzsche la cultura contemporanea tedesca è simile alla culura greca dopo Socrate. La cultura odierna può essere salvata da grandi artisti come Wagner che rappresenta la cultura presocratica.
Wagner lodò l’opera, ma i colleghi la rifiutarono.
Nominato professore ordinario a Basilea nell’aprile 1870, a luglio, allo scoppio della guerra franco-prussiana, chiede congedo per arruolarsi come infermiere volontario, ma dopo quindici giorni si ammala di dissenteria e di difterite e viene riportato a casa.
1873-1876: pubblicò 4 articoli con un titolo comune “Meditazioni fuori tempo” in cui esprime le sue idee nuove.
Il primo articolo è un attacco a David Strauss, un hegeliano della destra che rappresenta la cultura contemporanea decadente. Il secondo articolo è un attacco all’idealizzazione della conoscenza storica, all’esagerata importanza data alla storia. Il terzo articolo è un elogio a Schopenhauer come educatore. Nel quarto articolo loda Wagner come rinascita del genio greco.
Nel 1876 rompe la relazione con Wagner e questo evento segna la fine della sua prima fase di pensiero.
Ora Socrate diventa il centro della sua concentrazione: inizia il secondo Nietzsche.
Nietzsche preferisce ora la scienza alla poesia e all’arte: ora è un filosofo razionalista.
A settembre riprende l’insegnamento a Basilea e comincia a dettare a Peter Gast gli aforismi che costituiranno “Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi”, dedicato a Voltaire e pubblicato in due parti, la prima nel 1878 e la seconda nel 1879. In quest’opera attacca Wagner e Schopenhauer e il suo spirito di rassegnazione.
Prova disgusto per il suo dovere professionale tanto che, nel maggio 1879, Nietzsche si dimette dall’università di Basilea, che gli concede una pensione, e cerca una cura per le sue malattie in giro per l’Europa.
In questi soggiorni lavora alle sue opere, che escono a ritmo serrato: nel 1881 “Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali” (comincia la campagna contro la morale cristiana e contro l’auto-rinuncia di Schopenhauer; la nuova proposta etica è l’esaltazione della volontà), nel 1882 la “Gaia scienza” (critica al Cristianesimo e afferma che Dio è morto; il Cristianesimo è ostile alla vita, per cui il messaggio che Dio è morto è un messaggio liberante; il nuovo destino è l’uomo senza Dio). Queste due opere lasciarono il pubblico indifferenzte.
1882: conosce una giovane russa che rinunciò al matrimonio e sposò poi un suo studente.
1883: la prima e la seconda parte di “Così parlò Zarathustra”, cui farà seguito una terza parte pubblicata nel 1884, mentre la quarta parte non troverà editore e dovrà essere pubblicata a sue spese nel 1885. Con quest’opera comincia la terza fase del suo pensiero, con l’idea di SUPERUOMO capace di transvalutare tutti i valori. Il superuomo è capace di stare “Al di là del bene e del male” (1886).
Nell’estate del 1886 a Sils-Maria progetta di scrivere un’opera sulla volontà di potenza e l’eterno ritorno e, nel 1887, pubblica a proprie spese la “Genealogia della morale” e una composizione musicale, l’“Inno alla vita”. Tra l’aprile e il giugno 1888 soggiorna a Torino, una città di cui é entusiasta più di ogni altra, e vi scrive “Il caso Wagner”.
Il 3 gennaio 1889, mentre si trova a Torino, ha un crollo psichico; il 5 Burckhardt riceve una lettera che gli segnala le gravi condizioni di Nietzsche e avverte Overbeck, il quale si reca a Torino e lo riporta a Basilea, dove viene ricoverato in una clinica per malattie nervose.
Dal maggio 1890 Nietzsche vive a Naumburg, in condizioni sempre più gravi, incapace di riconoscere gli amici, in preda ad eccessi d’ira e, dal 1893, paralizzato alla spina dorsale; dapprima é assistito dalla madre, che però muore nel 1897 e, in seguito, dalla sorella Elisabeth. A Weimar, Nietzsche muore il 25 agosto 1900.
Per Nietzsche le 3 fasi del suo pensiero sono maschere: ogni maschera serve a superare la precedente. Non è possibile definire con certezza quale sia il vero pensiero di Nietzsche.
Ogni fase contiene teorie o dottrine come tonici auto-amministrati per dire sì alla vita.
Bisogna accettare tutto con gioia, non con rassegnazione.
Sembra che Nietzsche produca veramente il suo pensiero nella terza fase, con il superuomo e la teoria dell’eterno ritorno. Il superuomo è un mito dell’umanità che attrae l’uomo a camminare verso questa realizzazione. Se il superuomo è il culmine del pensiero di Nietzsche, allora l’opera principale è “Così parlò Zarathustra”.
LA NASCITA DELLA TRAGEDIA
Nei suoi primi scritti c’è una crisi alla cultura contemporanea. Sono scritti sotto l’influsso di Schopenhauer (pessimismo e ateismo).
L’opera “La nascita della tragedia” postula un’unità primordiale, così come ha fatto Schopenhauer secondo cui quest’unità è la manifestazione della volontà irrazionale: secondo Nietzsche quest’unità primordiale è la vita.
La vita è una realtà terribile, crudele, cieca, irrazionale, piena di dolore e distruzione. Insomma la vita è tragica.
Per uscire da questa situazione Nietzsche propone l’arte, ma, a differenza di Schopenhauer, Nietzsche vuole sempre affermare la vita.
Anche i greci non si arrendevano e volevano trasmutare questa realtà attraverso l’arte: così facendo affermavano la vita.
C’erano due vie di arte per trasmutare la vita umana:
• atteggiamento dionisiaco;
• atteggiamento apolloniano.
Per Nietzsche Dionisio è il simbolo della vita stessa. Dionisio rompe tutte le barriere, ignora tutto e afferma la vita. Dionisio è il simbolo della forza istintiva, della salute, dell’ebbrezza creativa, della passione, dell’umanità in accordo con la natura. Dionisio vuol diventare un tutt’uno con la vita.
Apollo è il simbolo del principio di individuazione: della luce, della misura, della bellezza, della restrizione, dell’arte. Dietro l’atteggiamento apolloniano c’è la vera vita, il subconscio.
L’atteggiamento dionisiaco è abbracciare la vita in tutta la sua negatività, con gioia e trionfalmente. Quando si afferma, esso indebolisce e abbatte l’impulso apollineo, consentendo di ritrovare la verità della vita nell’eccesso, anzichè nella misura. Solo qualche volta avviene la riconciliazione tra questi due impulsi contrastanti: nel mondo greco ciò si realizzò nella tragedia, che pertanto rappresenta il culmine della civiltà greca. La tragedia nacque, secondo Nietzsche, in connessione al culto di Dioniso, il dio che soffre, di cui tutti gli eroi tragici, come Prometeo, Edipo e così via, sono soltanto maschere.
Consci di questa realtà si può ricrearla in tragedia e in musica. La tragedia dimostra in forma estetica la realtà vera ed è capace di riaffermare questa realtà.
Per Nietzsche il culmine della cultura greca presocratica è la fusione dei due atteggiamenti che deve creare una cultura vera e standard espressa nelle “Tragedie di Eschilo”. Il genio creativo sarà il prodotto più alto della cultura vera.
Ne “La nascita della tragedia” c’è una critica alla cultura contemporanea tedesca che non permette la nascita dei geni perché è una cultura decadente.
La vita deve dominare la conoscenza o la conoscenza deve dominare la vita?
Per Nietzshe la cultura è dominata dalla scienza: si produrrà così un barbarismo nuovo.
Nella cultura odierna si vede una certa compiacenza del livello raggiunto e questo è sintomo di mediocrità ostile alla vita e allo spirito di genio. Per Nietzsche questa cultura media sarà distrutta in quanto il pensiero sarà sottomesso alla soddisfazione dei bisogni primari.
La vita vera deve dominare la conoscenza. La visione di Nietzsche è sovrastorica: l’uomo è capace di autotrascendersi, di trascendere la storia. Anche il Cristianesimo ha perso la sua vitalità ed è contrario alla creatività e alla nascita dei geni.
La filosofia deve cambiare il mondo (è un anticipo di Marx). Il filosofo è giudice della vita, creatore di valori.
Alle origini della morale
Nietzsche critica anche l’etica e la morale, in particolare quella cristiana. Ne “La nascita della tragedia” non accetta valori morali universali.
“Umano troppo umano” (1878) non è un trattato sistematico, è fatto di aforismi e tratta di morale. La pubblicazione di quest’opera, dedicata a Voltaire, segna una vera e propria svolta nella filosofia di Nietzsche. Egli continua l’aspra polemica nei confronti della cultura del proprio tempo e delle esaltazioni del progresso storico, ma non scorge più nell’arte la via per uscire dalla decadenza, bensì nella scienza.
Nietzsche segue la teoria dell’evoluzione di Darwin.
La legge morale si basa sull’utilità. La scienza stessa ha la sua origine e la sua giustificazione nei bisogni della vita e i suoi risultati si sono storicamente trasformati in condizioni di vita.
Bisogna conformarsi alla legge della comunità. È lecito anche l’uso della forza verso chi non si conforma.
Nell’opera “al di là del bene e del male” si parla di due tipi di morale: quella degli aristocratici e quella degli schiavi. Nelle civiltà sviluppate questi due tipi di morale possono esistere insieme, anche nello stesso individuo.
Nella morale degli aristocratici buono è sinonimo di nobile e cattivo è sinonimo di disprezzabile. La legge viene applicata all’uomo e non all’azione. Un’azione viene considerata buona in quanto è fatta da un nobile.
La morale degli schiavi è la morale della massa che si basa sulle azioni della massa. Benevolenza, simpatia e umiltà sono lodate come virtù. I potenti, ossia gli aristocratici, sono considerati cattivi. L’uomo buono della morale degli aristocratici diventa il cattivo in questa morale.
La morale viene trattata più sistematicamente nell’opera “Genealogia della morale”.
Viene introdotto il concetto di risentimento nella morale degli schiavi. Il risentimento è la base della creatività e della nascita della morale degli schiavi.
I miti cercano di dominare le leggi morali degli schiavi. Si cercano vie indirette per affrontare i problemi.
L’aristocratico può esistere insieme a un suo pari.
Per Nietzsche solo il Cristianesimo è riuscito a portare i nobili a livello delle masse. La morale cristiana è un’espressione del risentimento. Lo stesso risentimento ha generato il socialismo e la democrazia, movimenti nati seguendo il Cristainesimo.
Nietzsche propone la morale aristocratica che presenta un movimento di vita ascendente. Accetta però la possibilità di una gradazione della morale: la massa può creare valori, ma non può imporli agli aristocratici.
Per Nietzsche la morale cristiana favorisce la mediocrità ed impedisce la nascita e lo sviluppo degli aristocratici. Solo l’aristocratico è capace di autotrascendersi a superuomo, creare valori in senso ascendente. Nietzsche non descrive questi nuovi valori perché in realtà sono valori antichi transvalutati.
Nietzsche dice che l’azione morale deve integrare il più possibile tutti gli aspetti della natura umana, per questo dice che il Cristianesimo disprezza istinto, impulso, passione e valori estetici.
Per Nietzsche la morale non deve essere fondata sulla paura, sul risentimento, sulla mortificazione, sulla limitazione della libertà.
Ateismo e sue conseguenze
Nella “Gaia scienza” Nietzsche scrive che l’evento più grande nei nostri tempi è che Dio è morto. Questo per lui è un messaggio liberante: l’oceano è così aperto davanti a noi, finalmente siamo liberi.
La decadenza di fede in Dio permette all’uomo di autosvilupparsi in quanto il concetto di Dio è ostile alla vita.
Nel “Crepuscolo degli idoli” Nietzsche dichiara che il concetto di Dio era l’ostacolo più grande all’esistenza umana. Si dichiara guerra a Dio per favorire la vita.
Nietzsche invita a fare una scelta tra teismo e ateismo.
Credere in Dio è segno di impotenza, codardia, decadenza, è dire NO alla vita.
L’uomo vuole prendere il posto di Dio e diventare, così, legislatore e creatore di valori.
MORTE DI DIO abbandono dei valori morali assoluti
abbandono delle leggi morali universali e oggettive
• Nichilismo passivo: atteggiamento di chi è pessimista, senza una direzione per la vita.
• Nichilismo attivo: distruggere tutto quello in cui non si crede più.
Nietzsche è il profeta del nichilismo attivo. Invita a creare un ambiente per l’arrivo di questa “nuova alba”.
La “Volontà di potenza” ha una prefazione in cui si dice che “questo mondo è volontà di potenza e nient’altro e tu stesso sei volontà di potenza”.
Per Schopenhauer c’è un essere metafisico che è la volontà. Per Nietzsche non c’è quest’essere: dietro i fenomeni non c’è un essere metafisico. Tutto è manifestazione all’interno del quale c’è la volontà di potenza. L’universo è un’unità in un processo di divenire, non c’è una causa metafisica. La volontà di potenza è il carattere intelligibile di questa manifestazione: è un’interpretazione, un modo di guardare. La volontà di potenza si manifesta nella conoscenza umana.
Per Nietzsche la conoscenza è uno strumento sotto la volontà di potenza. Più cresce il potere più cresce la conoscenza e viceversa.
La scienza è la trasformazione della natura in concetti per governare la natura stessa.
La conoscenza è un processo di interpretazione fatta sulla base dei nostri bisogni vitali. I concetti sono interpretazioni. La conoscenza è la lettura di un’intepretazione della realtà, e non la lettura della realtà.
La verità assoluta è un’invenzione dei filosofi.
Per Nietzsche esistono solo fenomeni: Anche la causalità è una lettura, un’interpretazione.
Ciò che è utile è vero, ciò che è nocivo è falso.
Tutte le verità sono finzioni, invenzioni, interpretazioni, prospettive.
Anche nel mondo inorganico possiamo trovare la manifestazione della volontà di potenza. La teoria atomica è solo una rappresentazione. Ogni organismo è manifestazione della volontà di potenza.
C’è anche una critica a Darwin che ha dato troppa importanza ai fattori esterni: non è l’ambiente a influire sull’organismo, ma viceversa. Nietzsche critica anche la selezione naturale.
Superuomo
Per Nietzsche è il potere a determinare i vari gradi fra gli uomini. È il quantum di potere e niente altro a determinare e a distinguere i vari gradi.
Il potere è una qualità intrinseca in ogni individuo.
Ci sono due tipi di potere:
• vita ascendente;
• vita decadente, debole.
La maggioranza fa parte della vita debole, ma, insieme, si può acquisire più potere.
La massa è necessaria alla vita ascendente. C’è bisogno di questa mediocrità, per cui è giustificata anche la presenza di democrazia e socialismo.
Nietzsche fa una critica allo stato nazionale tedesco: è un mostro freddo, un idolo creato come oggetto di adorazione. Lo stato nazionale, però, in quanto mediocre, è necessario allo sviluppo del superuomo.
La missione della massa è fondare i signori, ma la missione dell’uomo superiore NON è guidare la massa.
La massa sarà distrutta dai nuovi barbari: qualcuno interpreta questo barbarismo di Nietzsche come il nazismo, ma in realtà non è così.
La massa è necessaria, ma allo stesso tempo deve essere distrutta: pare che non ci sia una logica nel pensiero di Nietzsche.
Per Nietzsche il superuomo non è l’umanità come tale, non è una meta per tutti.
L’umanità è una realtà da superare, è il ponte attraverso cui il superuomo può nascere.
Il superuomo è un mito, una meta, una proposta per la volontà.
Il superuomo non è un’evoluzione dell’uomo né deriva dalla selezione naturale.
Il superuomo può essere realizzato solo quando alcuni aristocratici hanno il coraggio di andare in questa direzione.
Il superuomo è capace di transvalutare tutti i valori: si parla di valori vecchi che vanno transvalutati.
Nietzsche dice che non esiste ancora questo superuomo per cui non lo si può descrivere.
Il superuomo è un concetto che dà l’idea che esso è capace di sviluppare tutte le potenzialità che ha.
Il superuomo è un “cesare romano con l’anima di Cristo”: tutti i poteri in un unico individuo.
Il superuomo è un Goethe (potere intellettuale) e un Napoleone (potere fisico) insieme.
Il superuomo è un uomo di massima cultura, è tollerante, afferma sempre la vita e l’universo.
Il superuomo prende il posto di Dio.
L’eterno ritorno
Nell’opera “Ecce homo” l’idea fondamentale è quella dell’eterno ritorno, anche se questa dottrina è insegnata anche da Zarathustra.
L’eterno ritorno dell’uguale, dice Nietzsche in “Ecce homo”, è la suprema formula di origine stoica dell’affermazione, del sì alla vita, a tutto il piacere e a tutta la sofferenza che essa contiene. Solo se si é pienamente felici si può volere questa ripetizione eterna, e pertanto, soltanto con l’eterno ritorno si supera del tutto il nichilismo passivo, il no alla vita. Ciò presuppone che alla concezione lineare e progressiva del tempo, propria del cristianesimo e della mentalità moderna (tipicamente illuminista), si sostituisca un’altra concezione del tempo, in cui ogni istante non sia valutato in funzione degli altri momenti o della totalità del tempo, ma sia riconosciuto e accolto come avente in se stesso la pienezza del suo significato e, quindi, voluto come eternamente ritornante.
Nietzsche non parla di un periodo dopo la morte. Tutto si ripeterà nella storia, non una, ma tante volte.
Nella “Gaia scienza” gli appare un angelo che gli porta il messaggio dell’eterno ritorno. C’è un certo senso di imoortalità.
In “Al di là del bene e del male” l’uomo che dice sì alla vita vuole vedere innumerevoli volte un teatro: noi siamo attori sul teatro della vita.
Nietzsche si oppone al pessimismo di Schopenhauer e alla filosofia cristiana.
Anche la fisica obbedisce all’eterno ritorno.
Con l’idea dell’eterno ritorno Nietzsche riempie una lacuna nella sua filosofia. Senza introdurre un concetto di Dio, lo afferma che Essere in continuo divenire.
L’eterno ritorno sostituisce l’idea di immortalità.
C’è voglia di essere in questo mondo in questo momento.
L’uomo non arriverà mai al superuomo perché tutto si ripete. L’ideale di superuomo, però, rimane.
Introduzione
Schelling aveva distinto tra filosofia positiva e filosofia negativa.
• Filosofia positiva: tratta l’esistenza delle cose.
• Filosofia negativa: tratta l’essenza, i concetti delle cose.
La filosofia negativa lascia da parte l’esistenza delle cose: il maggior rappresentante è Hegel.
Tra gli studenti di Schelling a Berlino c’era Kierkegaard che non aveva simpatia e Schelling, ma condivideva la critica ad Hegel.
Pur non condividendo il pensiero di Hegel (è solo un tour de force e niente altro), però, Kierkegaard aveva ammirazione per lui come pensatore.
Kierkegaard critica Hegel perché l’esistenza resta fuori in quanto tutta la realtà è stata catturata in concetti dialettici.
Per Kierkegaard l’esistenza è una categoria dell’individuo libero. Esistenza vuol dire realizzare se stesso tramite scelte libere, scegliendo fra varie possibilità, impegnandosi personalmente, evidenziare il singolo e non la massa, trascendere l’universalità a favore dell’individualità (in pratica trascendere la filosofia hegeliana).
Nella visione hegeliana non c’è posto per l’individuo: l’individuo realizza se stesso in quanto è membro della massa. Kierkegaard, invece, dice che l’individuo realizza se stesso stando fuori dalla massa.
L’idealismo razionalistico di Hegel appare a Kierkegaard l’espressione filosofica più contraria alle proprie istanze intellettuali. Il perno di questa opposizione è il concetto di esistenza. L’oggetto della speculazione di Hegel non era l’esistenza, bensì l’essenza delle cose, e più precisamente la loro essenza razionale. L’esistenza veniva considerata soltanto in quanto inclusa nell’essenza stessa, cioè in quanto realtà razionale. Al di fuori di questo rapporto con l’essenza razionale, l’esistenza era per Hegel pura accidentalità e, come tale, sfuggiva all’analisi concettuale della filosofia.
L’esistenza non appartiene ai concetti universali, che sono soltanto entità logiche, ma all’individuo nella sua specifica concretezza o, come Kierkegaard preferisce dire, al singolo. Per Kierkegaard, invece, l ‘esistenza spetta in senso proprio solo all’individuo
Nell’hegelismo non c’è posto per l’individuo esistente, ma l’individuo non può essere universalizzato in nessun modo. Lo spirito hegeliano lascia l’esistenza vera dell’individuo che è ridotto alla massa.
Con Kierkegaard la filosofia diventa classificazione dei problemi dell’individuo, la filosofia diventa un appello a fare delle scelte, la filosofia diventa autobiografia, una cosa personale, la filosofia dell’attore.
I temi non sono più quelli tradizionali (uomo - mondo - Dio).
È questa la debolezza della sua filosofia: troppo soggettiva e personale.
Ma questo è anche il suo punto di forza: l’utilità, in quanto questa filosofia diventa risposta ai problemi esistenziali.
Kierkegaard ha avuto influsso sugli esistenzialisti, tanto che qualcuno lo considera già esistenzialista.
Vita e opere
Sören Kierkegaard nacque a Copenaghen il 5 maggio 1813. Il padre, un commerciante agiato, non aveva avuto figli dalla prima moglie; dalla seconda, la domestica, invece ne ebbe sette, dei quali Kierkegaard fu l’ultimo e dei quali il primo nacque 5 mesi dopo il matrimonio, testimoniando l’infedeltà del padre alla prima moglie. Kierkegaard si definisce “figlio della vecchiaia”: il padre ha 56 anni e la madre 44.
Di questi 7 figli 5 moriranno prima della morte del padre: restano solo Soren e Pietro che diverrà vescovo.
Il padre soffriva di malinconia e pensava ad una maledizione di Dio sulla sua famiglia: ha senso di rimorso del peccato commesso e non riesce a perdonarsi neanche una bestemmia detta e che, secondo lui, non potrà mai essere perdonata. È dal padre che Soren ha ereditato questo senso di malinconia, di colpa e del castigo di Dio.
Fu proprio il padre che indirizzò il giovane Kierkegaard verso l’esperienza pietistica: l’educazione ricevuto fu quindi piuttosto severa e caratterizzata da una valutazione negativa della cristianità protestantica ufficiale della Danimarca di allora.
Nel 1830 si iscrisse all’Università di Copenaghen per la teologia (come voleva il padre) ma si interessa anche di storia e filosofia, e dopo undici anni si laureò.
Rompe il suo rapporto con il padre e con la religione: il Cristianesimo è soffocante e non compatibile con la filosofia. Questa è la prima fase dell’esistenza: la vita estetica.
Nella primavera del 1836 pensa al suicidio, ma nel giugno di quello stesso anno ha una conversione morale. È la seconda fase dell’esistenza: la vita etica.
Il 19 maggio 1839 ha un’esperienza religiosa che gli procura “gioia indescrivibile”. Continua a studiare teologia. La tesi di laurea è “Sul concetto di ironia”.
Comincia la terza fase dell’esistenza: la vita religiosa.
Sempre nel 1841,per motivi religiosi rompe il fidanzamento, durato un anno, con Regina Olsen, che continuerà tuttavia a rimpiangere. Riteneva di avere una vocazione più alta del matrimonio. Sciolti i legami sentimentali, si reca a Berlino nel 1841-1842 per ascoltare Schelling, dalla cui “filosofia positiva” si attende molto. Ma l’entusiasmo iniziale si tramuta presto in una delusione. Tornato a Copenaghen, grazie alla rendita lasciatagli dal padre, può dedicarsi completamente agli studi e alla pubblicazione dei suoi libri .A Copenaghen Kierkegaard rimarrà fino alla morte, avvenuta nel 1855, a soli 42 anni.
1843: “Aut-aut” in 2 volumi: il titolo esprime bene il suo atteggiamento verso l’esistenza che è quello di fare scelte fra una o l’altra opzione; è un testo contro Hegel. L’ultima parte è “Diario di un seduttore”. L’opera propone l’ideale di vita estetica.
1843: “Timore e tremore” in cui si tratta del salto dalla vita etica a quella religiosa (dalla seconda alla terza fase).
1843: “La ripresa” ha insistenza sulla terza fase.
1844: “Il concetto dell’angoscia”
1844: “Briciole filosofiche”: l’esistenza è una possibilità
1845: “Stadi sul cammino dell’esistenza”: tratta delle tre fasi dell’esistenza.
1846: “Discorsi edificanti”
Tutte queste opere sono firmate con nomi fittizi, ma tutti sapevano che l’autore fu Kierkegaard.
1848: fa un’esperienza religiosa e scrive il “Diario”, “Discorsi cristiani” e “Punto di vista”.
1849: “Malattia mortale” tratta della disperazione (“voglio morire e non posso morire”). La soluzione è il salto nella fede, ma questo è un rischio.
1849: vuole attaccare il Cristianesimo di Danimarca che non è la Chiesa di Cristo.
Pubblica 9 fascicoli nel “Momento”.
Di quest’ultimo periodo della sua vita gli unici avvenimenti ragguardevoli sono la polemica diretta condotta contro la Chiesa ufficiale danese, accusata di tradire il vero spirito del Cristianesimo. Alcuni di questi fatti, pur non essendo in sé particolarmente rilevanti, ebbero tuttavia una enorme ripercussione sulla vita interiore di Kierkegaard, che a causa della sua estrema sensibilità li rivestì di valenze molto importanti per lo sviluppo del suo pensiero. Allo stesso modo fu logorato dalla polemica con la gerarchia ecclesiastica danese, che certo tentò di emarginarlo in tutti i modi, ma nei confronti della quale egli giunse a veri e propri episodi di intolleranza verbale. Ma il fatto forse più rilevante della biografia personale di Kierkegaard è la “spina nelle carni”, che egli accusò per tutta la vita come il suo principale tormento: inutilmente gli studiosi hanno cercato di individuare la natura di questo dolore, senza tuttavia giungere a determinare se si trattasse di un male fisico, di una lacerazione morale o della semplice “angoscia” di cui Kierkegaard fece, nei suoi scritti, la categoria fondamentale dell’esistenza.
Per Kierkegaard il cristianesimo è un umanesimo con mediocri dogmi per non offendere i sentimenti degli aristocratici. Kierkegaard vuole aggiustare le cose, ma per non offendere il vescovo Mynster, amico del padre, non attacca la Chiesa fino alla morte dello stesso Mynster avvenuta nel 1854. Il successore di Mynster è Martinsen a cui succederà il fratello di Soren, Pietro Kierkegaard.
1848-1855: “Diario” pubblicato postumo in diversi volumi.
Il suo pensiero è un’affermazione dell’individuo contro la massa, contro l’idealismo hegeliano.
L’individuo è singolo.
Ogni uomo è un singolo e rimane come un singolo.
Ogni individuo è assolutamente un’indeducibile, irripetibile, originale, unica realtà.
Ogni individuo è distinto dalle altre cose e dagli altri individui.
Propone questo pensiero con esempi, in particolare quello della massa arrabbiata che non consente all’individuo di riconoscersi unico e irripetibile: nella massa arrabbiata uno è più o meno individuo, ma non un individuo vero.
Una massa non è conscia di se stessa, è un non-verità, rende l’individuo tendente a diminuire la sua responsabilità.
Per Hegel l’individuo è solo un momento dello sviluppo dell’Assoluto: questa filosofia è non-verità come anche le istituzioni da essa derivate.
L’autorealizzazione, l’autoaffermazione è arrivare al contatto con Dio, l’assoluto Tu: solo il Cristianesimo dà questa possibilità.
L’individuo ha consapevolezza della possibilità di arrivare al contatto con Dio.
Dialettica degli stadi
Già Hegel ne aveva parlato, ma in termini diversi.
La dialettica di Kierkegaard è un processo dell’individuo esistente alla sua autorealizzazione (e non alla realizzazione dell’esistente come in Hegel).
Un passaggio da uno stadio all’altro è un atto di volontà e non di intelligenza.
Sono salti, ma non superamenti come in Hegel: questo significa che ogni stadio è indipendente.
Negli “Stadi sul cammino dell’esistenza”, Kierkegaard distingue tre condizioni o possibilità esistenziali fondamentali, alle quali egli dà il nome di “stadi”, poiché possono essere considerati come momenti successivi dello sviluppo individuale, anche se, contrariamente alle affermazioni hegeliane sulla necessità del passaggio dialettico, tra l’uno e l’altro non vi è nessuna forma di automatismo, bensì un “salto” che può essere colmato soltanto con la libera scelta del singolo. Queste determinazioni sono lo stadio estetico, lo stadio etico e lo stadio religioso. Nella prima opera pubblicata dopo la tesi di laurea, “Aut-aut”, Kierkegaard delinea la distinzione tra i primi due stadi.
1) Primo stadio: ESISTENZA ESTETICA
L’uomo estetico è governato da sensi, impulsi, emozioni.
Anche un poeta è capace di trasformare un mondo immaginario.
In questo tipo di esistenza manca una forma definitiva della vita.
L’uomo è come un ape che va di fiore in fiore senza una meta.
Questa esistenza estetica è un anelito verso un infinito senza restrizioni.
C’è un’esistenza dispersa a livello dei sensi. Lo stadio estetico è incarnato dalla figura del seduttore, che dedica la sua intera esistenza alla conquista dell’animo femminile per il puro piacere della conquista stessa. La vita estetica, infatti, è incentrata sul desiderio e sul godimento. Analogamente il seduttore vive nell’elemento dell’immediatezza: egli non compie mai una scelta definitiva, non si impegna mai in nulla, la sua filosofia è il motto graziano del “carpe diem”. La vita dell’esteta è una successione ininterrotta di istanti indipendenti gli uni dagli altri: egli passa da un’esperienza all’altra senza che quella precedente lasci una traccia di sé su quella successiva, senza che la sua esistenza abbia una storia. L’unico elemento costante nella sua vita è la ricerca del nuovo e del rifiuto della ripetizione, considerata come fatale principio di noia. Il suo unico compito è la ricerca dell’eccezionalità, nell’esasperata volontà di diversificarsi da tutti gli altri individui, così come da tutte le proprie esperienza passate.
L’uomo estetico sembra un’esplosione di libertà: posso fare quello che mi piace.
L’uomo è più di un organismo psicofisico: è sintesi di spirito e corpo.
L’icona di questa fase è don Giovanni.
2) Secondo stadio: ESISTENZA ETICA
L’individuo accetta le leggi morali e dà una forma di consistenza.
C’è un certo eroismo: l’eroe tragico è colui che è capace di auto-rinunciarsi per esprimere l’universale.
Si accetta a vivere secondo le obbligazioni del matrimonio. Il passaggio dalla disperazione finita(estetica)alla disperazione infinita(etica)è un salto che può essere compiuto solo in base alla libera scelta del singolo. Lo stadio etico trova la sua migliore rappresentazione nella figura del marito o, più in generale, nel personaggio del Consigliere di Stato Guglielmo, la cui esistenza è circoscritta dalle sfere del matrimonio, della famiglia, della professione, della fedeltà allo Stato.
L’uomo etico, a differenza dell’esteta, non teme dunque la ripetizione, anzi la ama, vedendo in essa una continua riconferma della sua decisione iniziale.
Per l’uomo etico il dovere non è un’imposizione esteriore(come sarebbe per l’esteta),bensì un concreto dovere coniugale, professionale o civile che egli spontaneamente riconosce come la propria condizione. Il dovere morale non è altro che “il compito che si è a se stessi”, ciò che ciascuno ha deciso di diventare in virtù della sua libera scelta. Anche la vita etica, tuttavia, appare limitata.
È difficile vivere una vita moralmente sana. La crisi comincia quando, nonostante lo sforzo, non si raggiunge questa vita moralmente sana.
In questa fase manca ancora la coscienza del peccato, presente nel cristiano.
L’icona di questa fase è Socrate.
3) Terzo stadio: ESISTENZA RELIGIOSA
In questo stadio esiste la coscienza del peccato e della disperazione. È la fase della fede.
Lo stadio religioso è descritto in “Timore e tremore”, opera che già nel titolo esprime la natura dell’atteggiamento che l’uomo religioso deve avere nei confronti del divino.
La dimensione religiosa comporta una sospensione dell’etica, poiché essa si impernia esclusivamente sulla volontà di Dio, che può anche divergere dalle leggi dell’etica. La figura emblematica di questa condizione è Abramo, che per obbedire a Dio non esita a sacrificare l’unico figlio Isacco. Dal punto di vista morale, egli ha soltanto un dovere, quello di essere un buon padre: l’etica, dunque, lo condanna irrimediabilmente come un assassino. La giustificazione della sua intenzione di uccidere Isacco risiede tutta nella volontà di Dio, la quale si esprime esclusivamente nel rapporto interiore tra il singolo Abramo e la divinità. Nessuno lo può capire in base alle regole dell’etica, ed egli stesso non può essere certo di non sbagliare: la fede è rischio. Isolato da tutti gli altri, egli è un’eccezione assoluta, come l’esteta, con la sola ma importante differenza che l’eccezionalità dell’esteta è tale perché non si è ancora elevata all’universalità dell’etica, mentre quella religiosa è tale perché ha già superato questa universalità. La fede consiste proprio nel paradosso per cui esiste un’interiorità incommensurabile con l’esteriorità: in virtù della fede il singolo, che per l’etica è subordinato all’universalità della legge, afferma la propria superiorità rispetto all’universale in nome del suo rapporto individuale con l’assoluto.
Abramo viene visto come il simbolo della fede: è il singolo davanti a Dio.
Ci sono 4 modi diversi per presentare Abramo come uomo di fede.
Con questo stadio gli altri non hanno posto.
Questa fede è un salto nel buio: di qui scaturisce la disperazione.
L’icona di questa fase è Abramo.
Introduzione
Hegel muore alla fine del 1831. E, poco dopo la sua morte, la grossa schiera dei suoi discepoli si divide in due tronconi in forte dissidio
• sia sulle concezioni politiche
• sia, soprattutto, sulla questione religiosa.
David Strauss chiamò, nel 1837, queste due correnti della Scuola hegeliana Destra e Sinistra, prendendo in prestito questi termini dall’uso che se ne faceva nel Parlamento francese.
Per quel che concerne la politica, la Destra hegeliana sostenne, grosso modo, che lo Stato prussiano, con le sue istituzioni e le sue realizzazioni economiche e sociali, doveva venir visto come il punto di approdo della dialettica, come la massima realizzazione della razionalità dello spirito. La Sinistra, invece, invocò la teoria della dialettica per sostenere che l’arresto ad una configurazione politica non era possibile e che la dialettica storica doveva negarla per superarla e realizzare una più alta razionalità. In sostanza: la Destra proponeva la filosofia hegeliana come una giustificazione dello Stato esistente; mentre la Sinistra, in nome della dialettica, intendeva negare lo Stato esistente.
Ma, più e prima che in politica, la controversia teorica tra Destra e Sinistra hegeliana si ebbe (almeno fino a Marx) sul problema religioso. Hegel aveva sostenuto che sia la religione sia la filosofia hanno lo stesso contenuto, ma aveva anche detto che la religione esprime questo contenuto nella forma di rappresentazione, mentre la filosofia lo esprime nella forma di concetto. «La religione, scrive Hegel, è il luogo ove un popolo si dà la definizione di ciò che egli ritiene il vero». Senonché, per Hegel, il vero contenuto della religione doveva essere ripreso dalla filosofia, trasformato in concetti, scomparire in quanto vero religioso e diventare ragione filosofica. Ebbene, proprio da qui scaturiscono le due divergenti concezioni della Destra e della Sinistra hegeliana.
Il Cristianesimo è compatibile con la filosofia hegeliana?
Questo è il problema fondamentale sul quale si scontrano e si dividono i discepoli di Hegel.
• Destra: interpretò il pensiero di Hegel come sicuramente compatibile con i dogmi del Cristianesimo e come lo sforzo più adeguato per rendere la fede cristiana accettabile al pensiero moderno e giustificarla davanti alla ragione.
• Sinistra: sostituì del tutto la filosofia alla religione, sostenne quindi l’inconciliabilità tra filosofia hegeliana e Cristianesimo, negando al Cristianesimo qualsiasi elemento di trascendenza e riducendo la religione da messaggio divino a fatto essenzialmente umano, attraverso cui si possono venire a sapere molte cose ma non su Dio quanto piuttosto sull’uomo, sulle sue aspirazioni profonde e la sua storia.
In breve, la Destra hegeliana puntava sul fatto che Hegel riconosceva alla religione storica la piena validità nell’ambito della sua forma; la Sinistra, invece, puntava sul fatto che la religione non è, per Hegel, ragione bensì rappresentazione e quindi riducibile a mito.
La Destra hegeliana è stata definita (Abbagnano) come la Scolastica dell’Hegelismo, giacché, alla stessa maniera in cui la Scolastica medioevale aveva usato la ragione aristotelica per giustificare e difendere la verità religiosa, così la Destra hegeliana usa la ragione hegeliana per giustificare e difendere gli stessi dogmi centrali del Cristianesimo, come quelli dell’incarnazione e dell’immortalità dell’anima.
Sinistra hegeliana
Strauss (1808-1874) studiò presso la Scuola teologica di Tubinga (dove hanno studiato anche Hegel e Schelling) sulla quale l’influsso hegeliano, riguardo la critica teologica e la critica biblica, era stato molto deciso.
Nel 1828, scrivendo la tesi di dottorato sul dogma della resurrezione, perde la fede religiosa, ma nonostante questo fece il vicario in una parrocchia (per opportunismo?).
La religione come rappresentazione di Hegel influenzò Strauss: i contenuti della religione sono forme puramente immaginative della verità, solo la filosofia può darci la verità, compreso il contenuto religioso.
Nel 1835 pubblica la “Vita di Gesù”, la sua opera principale, dove sostiene che il racconto evangelico non è storia, ma “mito”.
Per Strauss c’erano due tipi di esegesi:
• supernaturalisica: accettare che i vangeli parlano dell’uomo storico, e quindi i vangeli sono considerati libri storici e, di conseguenza, accettare che Gesù è morto e risorto;
• razionalistica (iniziata da Reimarus): ha eliminato dai vangeli tutto ciò che si potesse considerare storico.
Strauss rifiuta nei vangeli ogni elemento soprannaturale (miracoli, resurrezione.
Il Vangelo, insomma, non è una cronaca di fatti scientificamente vagliati, esso ci presenta invece “il Cristo della fede”: è una trasfigurazione difatti, scaturita dall’attesa del Messia da parte del popolo, sotto lo stimolo del potente fascino del Cristo. Il Vangelo non è storia, è mito; ma non è leggenda. La leggenda è anch’essa una trasfigurazione che la tradizione opera magari di un fatto storico, ma in essa non vi è significato metafisico. Nel mito, invece, sì. E il mito evangelico trova, secondo Strauss, il suo profondo significato nel principio cristiano dell’incarnazione, nell’uomo-Dio che è Gesù. L’idea dell’unità di finito (uomo) e di infinito (Dio) è un mito cristiano che deve trovare la sua adeguata espressione nella filosofia. I Cristiani hanno pensato che questa unità si realizzasse in un individuo, in Gesù, l’uomo-Dio; ma qui sta, ad avviso di Strauss, il mito: nella credenza che l’incarnazione si fosse realizzata in un individuo storico determinato. La filosofia hegeliana fa dire a Strauss che non in un individuo singolo (Gesù) è da vedere l’unione del finito e dell’infinito, ma che «l’umanità è l’unificazione delle due nature, il Dio divenuto uomo: è lo spirito infinito alienatosi nella finitezza e lo spirito finito che si ricorda della sua infinitezza; essa è figlia della madre visibile e del padre invisibile, cioè dello spirito e della natura.
Il contenuto del Vangelo e della filosofia è lo stesso: non c’è niente di soprannaturale nei Vangeli.
La sua opera principale fu “La tromba del giudizio universale”.
Segue la Sinistra hegeliana: con Hegel è venuto l’anticristo e si è rivelato.
Più è atea la filosofia più è perfetta: Hegel è il filosofo migliore.
La filosofia come tale basta a distruggere la religione: in Hegel abbiamo il perfetto distruttore della religione.
Lo spirito del mondo non è un Dio trascendente, ma è un soggetto, cioè l’uomo della storia.
Bauer, quindi, sostituisce Dio con l’uomo.
«La religione, scrive Bauer, è la passività dell’uomo che viene fissata, guardata, fatta, voluta e innalzata a sua essenza, è il dolore supremo, che egli potesse infliggere a se stesso [...] la sventura del mondo, che viene considerata, voluta e fissata come sua essenza».
La religione è il dolore supremo.
La religione è rappresentazione dell’uomo su se stesso.
La religione è alienazione.
Stirner fu allievo di Hegel all’università di Berlino.
L’opera fondamentale di Stirner è “L’unico e la sua proprietà” (1845), dove l’autore difende la tesi che, per essere atei sino in fondo, occorre appunto negare sia Dio sia l’umanità, e questo in nome dell’unica realtà e di quell’unico valore che è l’individuo. L’individuo, l’Io o l’Unico, è irripetibile, è misura di tutte le cose, non può essere schiavo né di Dio, né dell’umanità, né di ideali. All’Unico si subordina tutto. L’Unico è libertà da tutti e nulla vi è di superiore all’uomo. E l’uomo non è un’idea, un’essenza o la specie. L’uomo vale nella sua singolarità e non di pende da nessuno: «Io, dice Stirner, ho riposto la mia causa nel nulla».
La conseguenza delle idee ora esposte è l’assoluto egoismo. Conta solo l’Unico e non Dio, la società o gli ideali. Anzi, per Stirner, gli ideali religiosi, morali o politici non differiscono dalle fissazioni della follia: « il disinteresse pullula rigoglioso con l’ossessione, tanto nei possedimenti del demonio, quanto in quelli dello spirito benigno ». L’uomo non può venir soffocato e compresso dalla Chiesa, dallo Stato, dalla società, dai partiti. E nemmeno dal socialismo che lo libera, sì, dalla schiavitù della proprietà privata, ma lo fa diventare servo della società. Il centro e il fine della autentica libertà è l’io singolo, l’Unico: «Non valgo io più della libertà? Non sono forse io che rendo libero me stesso, non sono forse io il primo?». L’Unico è la sola fonte del diritto: né Dio, né la società, né la rivoluzione (che crea sempre altre gerarchie e altre schiavitù) sono legittimate, per Stirner, ad imporre regole all’individuo. L’individuo è un dato immediato, non si può universalizzarlo in una teoria. L’unico entra in un’associazione di uomini al solo scopo di diventare più forte e considera gli altri come oggetto. L’unico non fa la rivoluzione (che, appunto, impone altre ossessive servitù); la sua parola d’ordine è l’insurrezione: «La rivoluzione — scrive Stirner — ordina d’istituire, d’instaurare; l’insurrezione vuole che ci si sollevi, che ci si innalzi ». Non ci sono cause da servire al di fuori dell’io. «Fonderò sul mio io la causa di me », dichiara l’unico. E aggiunge: «Godo me stesso secondo il mio capriccio. Non tremo più per la mia vita, la prodigo ». E gli altri? «Anch’io amo gli uomini — dice Stirner — ma li amo con la coscienza dell’egoista, li amo perché il loro amore mi rende felice, perché l’amore è incarnato nella mia natura, perché così mi piace. Io non riconosco alcuna legge che mi imponga d’amare».
Gli altri non sono persone, ma oggetti: «Nessuno è per me una persona che abbia diritto al mio rispetto, ma ciascuno è, come ogni altro essere, un oggetto per il quale provo o non provo simpatia, un oggetto interessante o non interessante, un oggetto di cui mi posso o non mi posso servire ».
Il Cristianesimo rende imperativo l’amore. Ma Stirner non riconosce una legge che ci imponga di amare. Non dobbiamo sacrificare nulla nemmeno all’amore: «La plebe deve aspettarsi un aiuto soltanto dall’egoismo, essa se lo può dare e lo farà ».
L’Unico, che deve ancora sorgere, non sarà né un cittadino sottomesso allo Stato e quindi uno schiavo del lavoro, nè uno straccione socialista soggetto alle provvidenze della società e all’etica del “dovere”. Egli sarà soltanto la sua libertà, la sua potenza, la sua volontà.
Questa posizione è vicina al superuomo di Nietzsche.
Ludwig Feuerbach (1804-1872) riduce la teologia all’antropologia.
Studiò prima teologia ad Heidelberg e poi passò a Berlino per ascoltare direttamente Hegel e si interessò così alla filosofia. Da Berlino scrive al padre: «Ho imparato in quattro settimane da Hegel tutto quello che non ho imparato prima in due anni». Ma i dubbi non tarderanno sorgere.
Nel 1828 si laureò con la dissertazione “De ratione una, universale, infinita” in cui si manifesta pienamente d’accordo con Hegel. Per lui la ragione è ciò che è conscio di essere tutta la realtà: è una, universale e infinita. Quello che è razionale, pensato, è reale.
Nel 1830 egli prende posizione contro la Destra hegeliana con il saggio “Pensieri sulla morte e sull’immortalità”, dove l’immortalità è negata al singolo individuo e ammessa soltanto per l’umanità. È l’umanità ad essere immortale e non l’individuo.
In quest’opera Feuerbach divide la storia umana in tre grandi epoche:
• greco-romana: non si trova, secondo l’autore, il tema dell’immortalità dell’anima individuale. Il romano non ha posto la propria singolarità sopra la vita della collettività: tutti sono un’unica realtà. La civiltà greco-romana è considerata come unità. Feuerbach ha una lettura piuttosto superficiale della storia perché non considera alcune affermazioni di filosofi importanti, quale ad esempio Platone, che parlano dell’individualità del singolo; c’è una lettura parziale della storia;
• medievale: secondo lui anche nell’epoca medievale non c’era posto per il singolo perché tutti facevano parte della Chiesa;
• moderna: per Feuerbach solo nell’epoca moderna la fede nell’individuo si presenta pura per se stessa. Anche Dio è concepito in funzione dell’individuo, è persona e, quindi, è separato dall’individuo stesso.
La vera realtà è l’umanità. Gli individui si realizzano in quanto parte dell’umanità.
Questo scritto bloccò la carriera accademica di Feuerbach. Durante il ‘48, però, gli studenti progressisti di Heidelberg lo invitarono a tenere un corso ed egli svolse le Lezioni sull’essenza della religione, pubblicate poi nel ‘51. Al di fuori di questa parentesi pubblica, Feuerbach visse appartato in totale miseria e morì dimenticato da tutti a Rechenberg nel 1872.
Nel 1837 Feuerbach era ancora un fervente hegeliano. Ma nel ‘39 le cose erano già mutate, perché nello scritto “Per la critica della filosofia hegeliana” (che apparve nell’autunno di quell’anno sugli « Annali di Halle ») ci sono, sì, elogi ad Hegel, ma lo si critica anche: «Hegel incomincia con l’essere, cioè col concetto di essere, o con l’essere astratto; perché io non devo poter cominciare con l’essere stesso, cioè con l’essere reale?». Hegel, per Feuerbach, «ha accantonato i fondamenti e le cause naturali, le basi della filosofia genetico-critica». Ma una filosofia che accantona la natura è vana speculazione perché è un sistema staccato dalla realtà. La filosofia è la scienza della realtà che, per Feuerbach, è la natura.
L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO
Nel 1841 esce l’opera più importante di Feuerbach .”L’essenza del cristianesimo”, in cui l’autore effettua quella che egli stesso definisce la riduzione della teologia e della religione ad antropologia. L’interesse per la religione fu chiaro a Feuerbach fin dagli inizi.
Hegel aveva tolto via il Dio trascendente della tradizione; e ad esso avevi sostituito lo Spirito, cioè, diciamo, la realtà umana nella sua astrattezza, Ma quello che interessa Feuerbach non è un’Idea di umanità quanto piuttosto l’uomo reale che è innanzitutto natura, corporeità, sensibilità, bisogno. Occorre negare l’Idealismo ci solo lo smarrimento dell’uomo concreto. E, a maggior ragione, bisogna negare il teismo, giacché non è Dio che crea l’uomo ma è l’uomo che crea Dio.
Feuerbach ammette con Hegel l’unità dell’infinito col finito. Ma questa unità, a suo avviso, non si realizza in Dio o nell’Idea assoluta, ma nell’uomo, in un uomo che la filosofia non può ridurre a puro pensiero ma che deve considerare nella sua interezza “dalla testa al calcagno” nella sua naturalità e nella sua socialità. E nella storia dell’uomo concreto la religione ha avuto sempre un ruolo fondamentale. La filosofia non ha il compito di negare o ridicolizzare questo grande fatto umano che è la religione. Deve capirlo. E lo si capisce, afferma Feuerbach, allorché ci si rende conto che «la coscienza che l’uomo ha di Dio è la coscienza che l’uomo ha di sè». In altri termini, l’uomo pone le qualità, le sue aspirazioni, i suoi desideri al di fuori di sé, si estranea, si aliena e costruisce la sua Divinità. La religione, pertanto, sta nel «rapportarsi dell’uomo alla sua stessa essenza (in questo consiste la sua verità), ma alla sua essenza non come sua, ma come un’altra essenza, separata, divisa da lui, anzi opposta (in questo consiste la sua falsità)». La religione, dunque, è la proiezione dell’essenza dell’uomo: «Dio è lo specchio dell’uomo», afferma Feuerbach. L’uomo nella preghiera adora il suo stesso cuore; il miracolo è «un desiderio soprannaturale realizzato»; e dogmi fondamentali del cristianesimo sono desideri del cuore realizzati».
La religione, per Feuerbach, è un fatto umano, totalmente umano. E ciò «anche se l’uomo religioso non ha la coscienza del carattere umano del suo contenuto, non ammette che il suo contenuto sia umano». Ma, commenta Feuerbach, «come l’uomo pensa, quali sono i suoi principi, tale è il suo dio: quanto l’uomo vale, tanto e non più vale il suo Dio [...]. Tu conosci l’uomo dal suo Dio, e, reciprocamente, Dio dall’uomo; l’uno e l’altro si identificano [...]. Dio è l’intimo rivelato, l’essenza dell’uomo espressa; la religione è la solenne rivelazione dei tesori celati dall’uomo, la pubblica professione dei suoi segreti d’amore».
È questo il senso della tesi di Feuerbach, secondo cui «il nucleo segreto della teologia è l’antropologia ». L’uomo — scrive Feuerbach — sposta il suo essere fuori di sé prima di ritrovarlo in sé. E questo ritrovamento, «questa aperta confessione o ammissione che la coscienza di Dio non è altro che la coscienza della specie», Feuerbach la vede come «una svolta della storia». Finalmente, nella storia, «homo homi ni deus est».
Dunque: «tutte le qualificazioni dell’essere divino sono [...] qualificazioni dell’essere umano»; l’essere divino è unicamente «l’essere dell’uomo liberato dai limiti dell’individuo, cioè dai limiti della corporeità e della realtà, e oggettivato, ossia contemplato e adorato come un altro essere da lui distinto».
Ma perché l’uomo si estranea, perché costruisce la divinità senza riconoscervisi? Perché l’uomo, risponde Feuerbach, trova una natura insensibile alle sue sofferenze, perché ha segreti che lo soffocano e nella religione allevia il proprio cuore oppresso. « Dio — egli scrive — è l’ottativo del cuore umano divenuto tempo presente, ossia beata certezza, è la spregiudicata onnipotenza del sentimento, è la preghiera che si esaudisce, il sentimento che ascolta se stesso; è l’eco del nostro grido di dolore. [...]. La natura non ascolta i lamenti dell’uomo, è insensibile alle sue sofferenze. Perciò l’uomo fugge dalla natura, dalle cose visibili, e si rifugia nel proprio intimo per trovare qui ascolto alla propria sofferenza. Qui egli esprime i segreti che lo soffocano, qui allevia il proprio cuore oppresso. Questo conforto del cuore, questo segreto che ha potuto rivelarsi, questa sofferenza che ha potuto effondersi è Dio. Dio è una lacrima dell’amore ver sata nel più profondo segreto sulla miseria umana ».
Ecco, dunque, svelato il mistero della religione: al Dio in cielo Feuerbach sostituisce un’altra divinità, l’uomo “di carne e di sangue”. E alla morale che raccomandava l’amore di Dio, egli intende sostituire la morale che raccomanda l’amore dell’uomo in nome dell’uomo. È questo l’intento dell’umanesimo di Feuerbach: quello di trasformare gli uomini da amici di Dio in amici degli uomini, «da uomini che credono in uomini che pensano, da uomini che pregano in uomini che lavorano, da candidati dell’aldilà in studiosi dell’aldiquà, da cristiani, che per la loro stessa ammissione sono metà animali e metà angeli, in uomini nella loro interezza».
Vita e opere
Karl Marx nacque a Treviri nella Renania, all’epoca sotto il dominio prussiano, il 15 maggio 1818 da una famiglia di ebrei convertiti al protestantesimo per poter esercitare le professioni liberali: il padre Heirich era avvocato e consigliere di giustizia e nutriva simpatie per la cultura illuministica e liberale.
Karl fa il liceo a Treviri. Nell’ottobre del 1835 Marx si reca all’università di Bonn per studiare giurisprudenza, ma dopo un anno si trasferisce a Berlino.
A Berlino Marx seguirà i corsi di Karl von Savigny e di Eduard Gans. Diventò assiduo frequentatore del “Doktorclub”, un circolo di giovani intellettuali hegeliani schierati su posizioni radicali. Qui conobbe il teologo Bruno Bauer. Si laureò a Berlino in filosofia il 15 aprile 1841con la sua tesi di laurea sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro.
In un primo momento egli aveva pensato di intraprendere la carriera universitaria grazie all’appoggio di Bruno Bauer, ma la cacciata di questi dall’università di Bonn lo fa desistere da tale proposito. Marx intraprende allora la strada del giornalismo politico e dal 1842 collabora alla ‘Rheinische Zeitung’ (‘Gazzetta renana’), pubblicata a Colonia e diretta da Moses Hess, buon conoscitore delle dottrine dei socialisti francesi, oltre che della filosofia hegeliana. Sulla ‘Rheinische Zeitung’, espressione delle aspirazioni della borghesia liberale, Marx pubblica una serie di articoli in cui affronta le questioni della libertà di stampa, ma anche quelle dei contadini della Mosella e quelle del libero scambio.
Marx viene in contatto con problemi concreti: sociali, economici e politici. Era convinto che non bastava la teoria, ma la praxis, l’azione.
Marx andava contro la nozione hegeliana secondo cui il ruolo del filosofo è quello di conoscere. Per Marx non basta conoscere.
Non solo la religione, ma anche la filosofia è alienazione.
Il lavoro del filosofo coinvolge l’azione sociale, economica e politica.
La filosofia tedesca rendeva l’uomo semplicemente spettatore.
Anche la politica dello Stato prussiano è alienazione: lo Stato è il soggetto, la società civile e la famiglia sono solo predicati dello Stato.
La democrazia è un grande ideale da raggiungere.
In questi anni scrisse una Critica del diritto pubblico di Hegel. Rovescia la visione: la famiglia e la società civile devono diventare il soggetto. Lo Stato è alienante; anche la proprietà privata è un’alienazione. La conclusione è l’abolizione della monarchia a favore di una democrazia sociale perché la realtà concreta è la società civile e la famiglia. In quest’opera accenna già ad un’economia senza distinzioni di classi.
All’inizio del 1843 la censura prussiana soffoca il giornale; nel giugno dello stesso anno Marx sposa Jenny von Westphalen (incontrata nel 1836 e che gli rimarrà fedele fino alla morte) e a fine ottobre giunge a Parigi, dove, con Arnold Ruge, fonda i ‘Deutsch-franzosische Jahrbücher’ (‘Annali franco-tedeschi’).
Negli Annali egli pubblica, nel 1844:
• Introduzione alla Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico: si chiede perché la religione è autoalienazione e risponde che il motivo sta nel fatto che essa riflette la distorsione della società umana. La società, l’economia, la politica creano questo mondo illusorio di religione. La religione è l’oppio autosomministrato dall’uomo che, incapace di gestire il suo mondo, crea questo mondo illusorio;
• Sulla questione ebraica.
Marx nel 1844 intraprende un’intensa lettura degli scritti degli economisti: frutto di essa sono i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844, pubblicati per la prima volta solamente nel 1932.
A Parigi Marx incontrò Proudhon e Engels che diventerà suo collaboratore nelle opere successive. Qui inizia la loro ininterrotta amicizia e collaborazione politica e filosofica. Insieme essi decidono di prendere le distanze dai giovani hegeliani berlinesi e scrivono La Sacra Famiglia ovvero critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, pubblicata nel 1845. Marx, espulso da Parigi, si rifugia con la famiglia a Bruxelles, dove nell’estate Engels lo raggiunge per compiere insieme un breve viaggio in Inghilterra; al ritorno a Bruxelles essi scrivono L’ideologia tedesca, che rimane inedita e sarà pubblicata solo nel 1932.
Nel 1847 scrive in francese la Miseria della filosofia, contro la Filosofia della miseria di Proudhon. Marx deve lasciare la Prussia e si reca a Parigi, ma il 24 agosto 1849 deve rifugiarsi in Inghilterra. A Londra Marx con la sua famiglia vive anni di miseria e riesce a sopravvivere grazie all’aiuto economico di Engels, che nel frattempo si é stabilito a Manchester per lavorare in una filiale dell’azienda paterna.
L’opera più cospicua è Il Capitale , il cui primo libro viene pubblicato nel 1867. Intanto nel 1864 a Londra si costituisce l’Associazione internazionale degli operai, nota anche come Prima internazionale. Nel 1881 muore la moglie di Marx e, nel gennaio 1883, la sua figlia maggiore. Poco dopo, il 14 marzo 1883, a Londra, muore anche Marx.
I primi scritti
Marx giovane è considerato un filosofo.
Marx adulto è considerato un economista.
Questa distinzione non è propriamente corretta. Anche le opere economiche e politiche hanno delle valutazioni morali nel campo della filosofia. La filosofia è presente in tutte le sue opere.
Marx non fa una pura economia politica, ma fa una critica dell’economia politica.
• Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1843)
Marx rilegge la Filosofia del diritto di Hegel e commenta paragrafo per paragrafo la parte riguardante lo Stato Prussiano. Non critica, quindi, l’intera opera di Hegel, ma si ha, comunque, un forte distacco dal suo pensiero.
Per Marx le proposte hegeliane sono antinomie o tautologie e propone alcuni esempi per dimostrarlo.
Il primo esempio è il rapporto tra famiglia e società civile da una parte e lo Stato dall’altra. Hegel da un verso dice che lo Stato è una necessità esterna mentre da un altro dice che esso è fine immanente della famiglia e della società civile. Per Marx, se lo Stato è una necessità esterna va contro la famiglia e la società civile; se, invece, è il fine allora esso è un perfezionamento della famiglia e della società civile. Da una parte, quindi, la famiglia e la società civile sono presupposti dello Stato; dall’altra lo Stato si presenta come una totalità che si divide in famiglia e società civile.
Hegel dà importanza all’idea che pone sopra il reale: cerca di dedurre il reale dalle idee. Per Marx, però, l’idea presuppone già il reale.
La famiglia e la società civile sono i reali, il soggetto, gli attivi. Lo Stato è il passivo.
L’importanza è data al reale.
Dov’è la verità? È nel mezzo perché gli eccessi sono sempre errati.
Un secondo esempio è il rapporto tra potere costitutivo (costituzione) e potere legislativo. Per Hegel la Costituzione da una parte è presupposto del potere legislativo, dall’altra essa consegue il suo ulteriore sviluppo dai legislatori.
Le leggi sono la base del potere legislativo, ma questo fa le leggi.
Per Marx queste due affermazioni sono in contrasto. Come si risolve? Accettando che anche le Costituzioni sono fatte da un potere legislativo diverso da quello contenuto nelle Costituzioni stesse. Questa soluzione richiede la visione della formazione e trasformazione degli Stati.
Sono le rivoluzioni sociali a fare le Costituzioni.
La realtà storica è il fondamento dei concetti filosofici e giuridici e della democrazia sociale. Marx dà importanza a questa realtà storica.
Per Marx bisogna vedere come si formano e si trasformano gli Stati. La trasformazione non è progressiva (come diceva Hegel), ma rivoluzionaria.
Marx è convinto che non è la società politica a determinare la società civile. Quest’ultima è intesa da Marx come l’espressione degli interessi economici. Gli interessi economici sono le condizioni materiali di vita.
Marx arriva alla conclusione che non è lo Stato a determinare la società civile, ma il contrario.
La seconda idea è che gli interessi economici determinano lo stato.
Con Marx si giunge al materialismo storico.
Le critiche di Marx ad Hegel, quindi, si possono sintetizzare in due punti:
1. Hegel mette il predicato al posto del soggetto e
2. subordina la società civile allo Stato.
• La questione ebraica (1844)
Ne La questione ebraica si ritrovano gli stessi temi fondamentali della Critica, organizzati però secondo un nuovo ordine sistematico.
L’opera è scritta in polemica a Bauer secondo cui gli ebrei devono lasciare la loro religione per abbandonare l’emancipazione politica. Per Marx, però, questo non ha senso e non basta perché l’emancipazione politica non è emancipazione umana.
Non basta cambiare religione, ma bisogna liberarsi dello spirito mercantile, di guadagno.
I veri problemi sono quelli economici.
L’opera è una critica anche alla civiltà borghese che, secondo Marx, va abolita.
La società borghese è solo "una cornice esterna agli individui"; i quali non si identificano in essa, come non si identificano nello Stato in cui essa si esprime; tanto è vero che negli ordinamenti liberali vige il sistema rappresentativo con cui i cittadini non riconoscono a se stessi un'immediata identità politica, ma eleggono dei loro "rappresentanti" ai quali solo riconoscono la facoltà di esercitare le funzioni politiche. In questo periodo, evidentemente, Marx pensa alla società come a una comunità armonica e compatta, in cui l'uguaglianza si fonda sulla solidarietà; in cui quindi non c'è separazione tra "stati sociali"; in cui l'individuo si identifica col corpo sociale, che ne costituisce l'essenza.
Per giungere a questo tipo di società Marx individua fin da ora la necessità dell'abolizione della proprietà privata, fonte di tutte le contraddizioni tipiche delle società borghesi e principale ostacolo per l’attuazione di un’autentica uguaglianza.
“Manoscritti economico-filosofici” (1844)
In quest’opera Marx espone i primi risultati sui suoi studi degli economisti classici, in particolare di Adam Smith e David Ricardo.
Marx vuole studiare il rapporto tra economia politica e lo Stato, il diritto, la morale e la vita civile.
I Manoscritti hanno molte citazioni di economisti e definizioni di vari concetti.
• Salario: corrisponde sempre al minimo necessario per mantenere in vita l’operaio e la sua famiglia. Con l’introduzione di tecnologie si produce di più, ma questo non tocca l’operaio: non si diminuisce l’orario di lavoro, non si aumenta il salario, ma aumenta solo il profitto. Quindi l’operaio vive sempre in condizioni di miseria.
• Profitto: non dipende dall’attività e dall’intelligenza del capitalista, ma è tutto ciò che esso ha, mantiene e controlla.
• Capitale: non è che la proprietà privata dei prodotti del lavoro altrui.
• Rendita fondiaria: non implica nessun contributo da parte del proprietario.
La massima produzione di ricchezza coincide con il massimo impoverimento dell’operaio.
L’economia politica parte dalla proprietà privata senza spiegarla.
Marx vuole spiegare ciò che l’economia politica non spiega: da dove nasce la proprietà privata?
Nasce dall’alienazione del lavoro umano.
Il prodotto del lavoro è l’oggettivazione del lavoro.
La proprietà privata è il risultato dei prodotti del lavoro umano; essa appare come una privazione, una perdita del lavoratore.
L’operaio mette nell’oggetto del suo lavoro la sua vita.
È necessario che il lavoratore si riappropri dei prodotti del suo lavoro.
Ci sono diverse conseguenze dell’alienazione del lavoro:
1. il lavoro diventa estraneo al lavoratore: la ricchezza prodotta è per gli altri; il suo lavoro non è volontario, ma costretto, forzato; non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. Per tutto ciò, l’uomo si sente libero solo nelle sue funzioni animali (mangiare, bere, procreare, e anche abitare una casa e vestirsi), e si sente niente più che una bestia nelle sue funzioni umane, cioè nel lavoro;
2. il prodotto rende estranea anche la propria attività;
3. l’uomo, con il suo lavoro, aliena dalla sua natura stessa come uomo; il lavoro non appartiene più al suo essere, e quindi ne suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito; il lavoro diventa solo un mezzo per sopravvivere; il lavoro è solo un modo per conservare la sua vita animalesca;
4. l’uomo diventa alienato dall’altro uomo: io sono un animale in mezzo a tanti animali.
Il lavoro alienato diventa oggetto di un’altra persona, godimento del padrone, del capitalista.
L’economia politica parte dal lavoro, ma non dà nulla al lavoro perché dà tutto alla proprietà privata.
Le leggi dell’economia sono quelle della forma assunta dall’economia in un dato momento storico, non sono leggi della natura umana, per cui non sono immutabili.
Mutando le strutture economiche muteranno anche le leggi economiche. Ma c’è bisogno di un mutamento radicale, sopprimendo la proprietà privata e, di conseguenza, il salario.
Non ci sono rimedi intermedi.
Non basta un aumento del salario come proponeva Proudhon.
Così soltanto si arriverà al vero comunismo.
Con la soppressione della proprietà privata si avrà la riappropriazione dell’umanità da parte dell’operaio. Si elimina, così, l’autoalienazione.
Ogni attività dell’uomo è appropriazione della natura umana.
Le cose non sono più viste come cose da possedere, ma come oggetti di cui tutti possono fruire.
L’ultimo dei Manoscritti è una critica alla dialettica e, più in generale, alla filosofia hegeliana. Marx critica anche gli hegeliani di sinistra, in particolare Stirner e Bauer. Questi criticano Hegel, ma la loro critica rimane a livello di teoria e non giunge alla pratica. Anche la filosofia hegeliana è alienazione (lo diceva Feuerbach? Per questo Marx qui lo salva???)
“Ideologia tedesca” (1846) scritta con Engels.
Anche in quest’opera Marx critica Hegel e gli hegeliani di sinistra, compreso Feuerbach che, nell’ultimo dei Manoscritti, aveva salvato.
Il sottotitolo dell’opera è “Critica della filosofia tedesca nei suoi rappresentanti (Feuerbach, Bauer, Stirner) e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti”.
Per Marx questi sono ideologi in senso dispregiativo.
Le teorie sono espressioni delle condizioni reali nel quale l’uomo si trova.
Le idee, le teorie non cambiano il mondo. Invece, cambiando il mondo cambiano anche le idee.
Nell’opera c’è un’esposizione del materialismo storico.
Marx ed Engels partono dal presupposto che esistono individui umani viventi.
Gli uomini sono individui che non trovano pronti i loro mezzi di sussistenza, ma li producono.
Gli uomini producono la loro vita reale.
Per Marx gli uomini si possono distinguere dagli animali per la religione, per la coscienza o per ciò che si vuole, «ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza». L’essenza dell’uomo, pertanto, sta nella sua attività produttiva.
Il modo in cui l’uomo determina i suoi mezzi di sussistenza determina il suo modo di vita. L’economia è la struttura base dell’esistenza umana: le altre sono sovrastrutture.
Nell’ultima parte Marx parla della divisione del lavoro. Questa ha portato alla formazione di classi: capitalisti e lavoratori.
Per eliminare l’alienazione è necessaria una lotta politica.
“Manifesto del partito comunista” (1848)
Tema principale di quest’opera di Marx ed Engels è la lotta di classe.
« La storia di ogni società esistita fino a questo momento — scrivono Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista — è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori ed oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente, ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta ».
Oppressori ed oppressi: ecco, dunque, quanto vede Marx nel travaglio della storia umana nella sua totalità. E la nostra epoca, l’epoca della borghesia moderna, non ha affatto eliminato l’antagonismo delle classi; essa, piuttosto, lo ha semplificato, dal momento che « l’intera società si va scindendo sempre di più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato
In una nota all’edizione inglese del Manifesto del 1888, Engels spiega che per borghesia s’intende la classe dei moderni capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione e assuntori di salariati. Per proletariato si intende, invece, la classe dei moderni salariati, i quali, non avendo mezzi di produzione propri, sono ridotti a vendere la loro forza-lavoro per vivere.
Per la legge della dialettica (in Marx si parla di materialismo dialettico), come la borghesia è la contraddizione interna del feudalesimo, così il proletariato è la contraddizione interna della borghesia. Difatti, « la proprietà privata, come ricchezza, è costretta a man tenere in essere se stessa e con ciò il suo termine antitetico, il proletariato ». La borghesia, insomma, si sviluppa e cresce come tale alimentando in se stessa il proletariato: « nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale ». Ed è così che « le armi che son servite alla borghesia per atterra re il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa ».: Come fu inutile per il signore feudale difendere i diritti feudali davanti a quella sua creatura che era la borghesia; così ora la borghesia è inutile che lavori per la conservazione dei suoi diritti sul proletariato. La realtà è che « la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari ». Il progresso della grande industria crea, al posto di operai isolati e in concorrenza, unioni di operai organizzati e coscienti della propria forza e della propria missione. E «quando la teoria afferra le masse, essa diventa violenza rivoluzionaria ». La borghesia produce dunque i suoi seppellitori. « Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili ».
L’avvento del Comunismo
Il feudalesimo ha prodotto la borghesia. La borghesia, per esistere e svilupparsi, deve produrre nel suo seno chi la porterà alla morte, cioè il proletariato. Il proletariato è, infatti, l’antitesi della borghesia. Lungo la via crucis della dialettica il proletariato porta sulle sue spalle la croce dell’umanità intera. L’alba della rivoluzione è un giorno inevitabile. E questo giorno che segnerà il trionfo del proletariato sarà il giorno della resurrezione di tutta l’umanità.
Ed è così che si passa dalla società capitalista al comunismo. Questo non è un passaggio che si fa attraverso le « prediche moraleggianti » che non servono a nulla. « La classe operaia — dice Marx — non ha da realizzare alcun ideale ». Si tratta di un passaggio necessario ad una società senza proprietà privata e quindi senza classi, senza divisione del lavoro, senza alienazione e soprattutto senza Stato. Il comunismo, per Marx, è « il completo, consapevole ritorno dell’uomo a se stesso, come uomo sociale, cioè come uomo umano ».
A dire il vero, non è che Marx dica molto su come si configurerà la nuova società, la quale, dopo l’abbattimento della società capitalista, non potrà che realizzarsi per gradi. All’inizio resterà una certa disuguaglianza tra gli uomini, ma poi più tardi, quando sarà scomparsa la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e quando il lavoro sarà diventato un bisogno e non un mezzo della vita, allora la società — scrive Marx in Per la critica del programma di Gotha (1875) — « potrà scrivere sulla propria bandiera: Ognuno secondo la sua capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni
Questo sarebbe per Marx il comunismo autentico, che Marx nei Manoscritti del ‘44 distingueva da quello rozzo consistente non nell’abolizione della proprietà privata ma nell’attribuzione della proprietà privata allo Stato: questa attribuzione ridurrebbe tutti gli uomini a proletari. Questo comunismo rozzo negherebbe ovunque “la personalità dell’uomo”. In realtà, Marx pensava che, abolita la proprietà privata, il potere politico si sarebbe gradualmente ritirato, fino — come disse En gels — ad estinguersi. Lo Stato, infatti, per Marx, « non è altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità [...] al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi». Per questo, quando non ci sarà più né proprietà privata né esisteranno più le classi sociali, allora — leggiamo nella Miseria della filosofia — « non ci sarà più nessun potere politico vero e proprio ». Il potere politico, infatti, non sarebbe altro che la violenza organizzata di una classe per l’oppressione dell’altra.
Tuttavia, questo non si realizzerà subito. Subito avremo quella che è la ditta tura del proletariato, il quale userà il suo dominio « per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante ». Ciò potrà ovviamente avvenire mediante interventi dispotici che, nelle diverse situazioni, porteranno a provvedimenti come i seguenti:
1) Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato;
2) Imposta fortemente progressiva;
3) Abolizione del diritto di successione;
4) Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli;
5) Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo;
6) Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano dello Stato;
7) Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo;
8) Uguale obbligo di lavoro per tutti; costituzione di eserciti industriali, special mente per l’agricoltura;
9) Unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e dell’industria, misure atte ad eliminare gradualmente l’antagonismo tra città e campagna;
10) Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell’istruzione con la produzione materiale e così via.
L’attuazione di queste misure dovrebbe essere la fase intermedia del passaggio dalla società borghese a quella comunista. Successivamente si avrà il « salto nella libertà » e allora « alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti ».
Lineamenti generali
Il Positivismo può essere considerato da due punti di vista:
teoretico: da questo punto di vista esso può essere considerato come una reazione ai grandi sistemi idealisti;
storico: da questo punto di vista il positivismo ha una propria storia che non ha niente a che vedere con l’Idealismo.
L’Idealismo dà il primato all’idea e considera l’uomo come spirito che partecipa allo Spirito Assoluto.
Diversamente, il Positivismo dà il primato all’osservazione, al controllo, alle scienze positive e riduce l’uomo ad un prodotto della natura; la divinità viene considerata come un’illusione puerile.
Storicamente è errato dire che il Postitivismo nasce dall’idealismo perché ha attinto da altre fonti, specie dagli ideologi francesi. È opportuno al riguardo dire che il termine “ideologia” è qui inteso diversamente da come lo intendeva Marx (per Marx gli ideologi sono quelli che pensano che con la teoria, senza prassi, si cambia il mondo; in Marx, quindi, il termine ha una connotazione negativa). Per gli ideologi francesi l’ideologia è lo studio della genesi delle idee seguendo una metodologia analitica, psicologica e logica delle idee.
Il Positivismo francese si confronta con gli ideologi. La tesi comune è che una preparazione scientifica è una base indispensabile per la filosofia; inoltre dalla metafisica bisogna rimuovere ogni considerazione metafisica; infine, questa nuova filosofia deve essere la base per una riforma sociale.
Auguste COMTE è il padre del Positivismo è dà una definizione del termine positivo.
POSITIVO
relativo, organico, preciso, certo, utile, reale.
Il positivo esclude il chimerico, il misterioso (ad es. l’essenza dell’uomo, cos’è?).
La base è l’esperienza concreta.
Si cerca di spiegare tutto senza principi non controllabili.
Solo ciò che viene dall’esperienza è utile. ‘Utile’ significa che può migliorare la condizione dell’uomo. Si oppone all’ascetismo, ad ogni ideale contemplativo.
‘Certo’ significa che si oppone all’indecisione. La conoscenza positiva cerca di eliminare tutti i dubbi, cerca di risolvere i problemi irrisolti dell’antica metafisica e mette da parte ciò che non si può risolvere.
‘Preciso’ significa che si oppone al vago. La conoscenza precisa viene solo dalle scienze positive.
‘Organico’ significa che mette insieme i risultati delle varie scienze che possono cambiare il futuro.
In ogni caso, nonostante tali diversificazioni, esistono nel Positivismo dei tratti di fondo comuni che ne permettono l’identificazione come movimento di pensiero:
1. Diversamente che nell’idealismo, nel Positivismo si rivendica il primato del la scienza: noi conosciamo solo quello che ci fanno conoscere le scienze, e l’unico metodo di conoscenza è quello delle scienze naturali.
2. Il metodo delle scienze naturali (reperimento delle leggi causali e loro controllo sui fatti) non vale solo per lo studio della natura ma anche per lo studio della società.
3. Per questo, la sociologia, intesa come scienza di quei “fatti naturali” che sono i rapporti umani e sociali, è un frutto qualificante del programma filosofico positivistico.
4. Nel Positivismo non si ha soltanto l’affermazione dell’unità del metodo scientifico e del primato di questo metodo come strumento conoscitivo, ma la scienza viene esaltata come l’unico mezzo in grado di risolvere, nel corso del tempo, tutti i problemi umani e sociali che fino ad allora avevano tormentato l’umanità.
5. Di conseguenza, l’era del Positivismo è un’era pervasa da un ottimismo generale, che scaturisce dalla certezza in un progresso inarrestabile (talvolta concepito come frutto dell’ingegnosità e del lavoro umano, e talvolta invece visto come necessario e automatico) verso condizioni di benessere generalizzato in una società pacifica e pervasa da umana solidarietà.
6. Il fatto che la scienza venga proposta dai Positivisti come l’unico solido fondamento della vita dei singoli e di quella associata; che essa sia considerata come garanzia assoluta delle sorti progressive dell’umanità; che il Positivismo si pronunci per la “divinità” del fatto, tutto questo ha indotto alcuni studiosi ad interpretare il Positivismo come parte integrante della mentalità romantica Solo che, nel caso del Positivismo, sarebbe appunto la scienza a venire infinitizzata.
7. Siffatta interpretazione non ha però proibito ad altri interpreti di scorgere nel Positivismo temi fondamentali mutuati dalla tradizione illuministica, come la tendenza a considerare i fatti empirici quale unica base della vera conoscenza, la fede nella razionalità scientifica come risolutrice dei problemi dell’umanità, o anche la concezione laica della cultura intesa quale costruzione pura mente umana senza dipendenze da presupposti e teorie teologiche.
8. Sempre in linea generale, il Positivismo (John Stuart Mill fa qui eccezione) è caratterizzato da una fiducia acritica e spesso sbrigativa e superficiale nella stabilità e nella crescita senza ostacoli della scienza. Tale acritica fiducia nella scienza di venne un fenomeno di costume.
9. La “positività” della scienza conduce la mentalità positivistica a combattere le concezioni idealistiche e spiritualistiche della realtà — concezioni che i Positivisti bollavano come metafisiche, anche se loro ricaddero poi in metafisiche altrettanto dogmatiche
10. La fiducia nella scienza e nella razionalità umana, i tratti illuministici in somma del Positivismo, hanno indotto anche alcuni Marxisti a ritenere insufficiente e comunque riduttiva l’interpretazione usuale marxista che vede nel Positivismo so lo l’ideologia della borghesia della seconda metà dell’Ottocento.
Il metodo delle scienze sperimentali è osservare – sperimentare – controllare è si può applicare anche allo studio della società. La fede nella razionalità sostituisce quella teologica.
Il Positivismo rappresenta un composito movimento di pensiero che ha dominato gran parte della cultura europea, nelle sue manifestazioni filosofiche, politiche, pedagogiche, storiografiche e letterarie (pensiamo, a proposito di queste ultime, al verismo e al naturalismo), da circa il 1840 fino ad arrivare quasi alle soglie della prima guerra mondiale. Passato l’uragano del 1848, se si eccettuano lo scontro in Crimea del 1854 e la guerra franco-prussiana del 1870, l’era del Positivismo è un’epoca di sostanziale pace in Europa e simultaneamente è l’epoca dell’espansione coloniale europea in Africa e Asia. All’interno di questo quadro politico, l’Europa dà fondo alla sua trasformazione industriale, e gli effetti di tale rivoluzione sulla vita sociale sono massicci: l’impiego delle scoperte scientifiche trasforma l’intero modo di produrre; le grandi città si moltiplicano; cresce impressionantemente la rete dei traffici; si rompe l’antico equilibrio tra città e campagna; aumentano produzione e ricchezza; la medicina debella le malattie infettive, antico e angoscioso flagello dell’umanità. In poche parole, la Rivoluzione industriale muta dalle radici il modo di vivere. E gli entusiasmi si coagulano attorno all’idea di un progresso umano e sociale irrefrenabile, giacché d’ora in avanti si sarebbero posseduti gli strumenti risolutivi di ogni problema. Questi strumenti venivano visti soprattutto nella scienza e nelle sue applicazioni all’industria, e poi nel libero scambio e nell’educazione.
Vita e opere
Nato a Montpellier da una famiglia modesta, « eminentemente cattolica e monarchica »; discepolo e segretario (e in seguito deciso antagonista) di Saint-Simon; allievo della famosa École Polytechnique (e qui non dobbiamo dimenticare la funzione di modello svolta dall’École Polytechnique che, nata come fucina dell’esercito della Rivoluzione, venne poi trasformata in vista della preparazione di quegli ingegneri e tecnici specializzati di cui l’industria francese in sviluppo avrebbe avuto sempre più bisogno); versato in matematica; lettore, negli anni della sua formazione, oltre che degli empiristi inglesi, di Diderot, D’Alembert, Turgot e Condorcet — più tardi « per igiene mentale » leggerà il meno possibile —, Auguste Comte (1798- 1857), è l’iniziatore del Positivismo francese, il padre ufficiale della sociologia, e l’esponente, per certi aspetti, più rappresentativo dell’indirizzo di pensiero positivistico.
Tra il 1826 e il 1829 ebbe una cattiva salute e turbamenti psichici.
Nel 1830 fondò l’associazione politecnica per la diffusione della cultura francese.
Tiene lezioni private e fa un corso di filosofia positiva.
Fonda la religione del “Grande Essere” e la religione universale dell’umanità.
Da un secondo periodo di malattia si riprese soprattutto grazie all'influsso di Clotilde de Vaux, della quale si innamorò profondamente. La donna, spentasi dopo un solo anno, rimase l'ispiratrice dell'opera successiva del filosofo, favorendone l'orientamento mistico.
Muore il 5 settembre 1857.
Nel 1822 pubblica “Una prospettiva di lavoro scientifico necessario per la riorganizzazione della società”.
In “Corso di filosofia positiva” (1830, in 6 volumi) egli elabora la famosa legge dei “tre stati”.
Dal 1848 non leggeva più niente perché pensava di possedere tutta la verità.
Clotilde diventa l’immagine della divinità.
La religione dell’umanità
Fonda la religione dell’umanità scimmiottando il Cattolicesimo.
Affascinato dal Cattolicesimo, a motivo del suo universalismo e della sua capacità di convogliare in sé l’intera vita umana, Comte sostiene che la religione dell’Umanità, deve essere l’esatta copia del sistema ecclesiastico. I dogmi della nuova fede sono già pronti: essi sono la filosofia positiva e le leggi scientifiche. I riti, i sacramenti, il calendario, il sacerdozio sono necessari alla diffusione dei nuovi dogmi. Ci sarà un battesimo secolare, una cresima secolare e una estrema unzione secolare. L’angelo custode positivo sarà la donna (non dobbiamo dimenticare l’idealizzazione fatta da Comte della sua donna amata: Clotilde de Vaux). I mesi prenderanno i nomi significativi — per es. Prometeo — della religione positiva, e i giorni della settimana saranno consacrati ognuno ad una delle sette scienze. Si costruiranno templi laici (istituti scientifici). Un Papa positivo eserciterà la sua autorità sulle autorità positive che si occuperanno dello sviluppo delle industrie e dell’utilizzazione pratica delle scoperte. Nella società positiva i giovani saranno sottoposti agli anziani e il divorzio sarà proibito. La donna diventa la custode e la fonte della vita sentimentale dell’Umanità. L’Umanità è il “Grande Essere”; lo spazio il Grand’Ambiente e la terra il Gran Feticcio: questa è la trinità della religione positiva.
La legge dei tre stadi
Nel Corso di filosofi positiva Comte cita la sua « grande legge ». Si tratta della legge dei tre stadi, secondo la quale l’umanità, al pari della psiche dei singoli uomini, passa attraverso tre stadi: quello teologico, quello metafisico e quello positivo. « Studiando io sviluppo dell’intelligenza umana [...] dal suo primo manifestarsi ad oggi, io credo — dice Comte nel Corso di filosofia positiva (1830- 1842) — di aver scoperto una grande legge fondamentale, alla quale essa è assoggettata per necessità invariabile, e che mi sembra si possa solidamente stabilire, sia per le prove razionali fornite dalla conoscenza & noi stessi, sia per la verifica storica che se ne può trarre con un esame attento del passato. Questa legge consiste in ciò: che ciascuna delle nostre concezioni principali, ciascun ramo delle nostre conoscenze passa necessariamente per tre stati teorici differenti:
lo stato teologico, o fittizio;
lo stato metafisico, o astratto;
lo stato scientifico, o positivo.
Di qui tre tipi di filosofia, o di sistemi concettuali generali, sull’insieme dei fenomeni, che si escludo no reciprocamente. Il primo è un punto di partenza necessario dell’intelligenza umana; il terzo è il suo stato fisso e definitivo; il secondo è unicamente destinato a servire come tappa di transizione ».
Nello stadio teologico i fenomeni vengono visti come « prodotti dell’azione di retta e continua di agenti soprannaturali, più o meno numerosi »; nello stadio meta fisico essi vengono spiegati ad opera di essenze, idee o forze astratte (i corpi si unirebbero grazie alla “simpatia”; le piante crescerebbero a motivo della presenza del 1’”anima vegetativa”; l’oppio — come ironizzava Molière — addormenta perché possiede la “virtù soporifera”); ed è soltanto « nello stadio positivo, che lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità di ottenere conoscenze assolute, rinuncia a do mandarsi qual sia l’origine e il destino dell’universo, quali siano le cause intime dei fenomeni, per cercare soltanto di scoprire, con l’uso ben combinato del ragionamento e dell’osservazione, le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni invariabili di successione e di somiglianza ».
Tale, dunque, è la légge dei tre stadi, il concetto-chiave della filosofia di Comte Legge che troverebbe conferma sia nello sviluppo della vita dei singoli (ogni uomo è teologo nella sua infanzia; è metafisico nella sua giovinezza; è fisico nella sua virilità), sia nella storia degli uomini. Ogni stadio ha, quindi, diversi gradi di sviluppo.
Ogni stadio ha uno sbocco: lo stadio teologico porta al monoteismo; lo stadio metafisico porta a ridurre tutto alla natura; lo stadio positivo porta a ridurre tutti i fenomeni sotto un’unica legge (ad es. la gravitazione).
La storia umana è un cammino progressivo dello spirito umano.
La dottrina della scienza
Ora, dunque, siamo nello stadio positivo. I metodi teologici e metafisici non sono più impiegati da nessuno, eccetto che — osserva amaramente Comte nel Corso di filosofia positiva — nel campo dei fenomeni sociali, « benché la loro insufficienza al riguardo sia già pienamente sentita da tutti gli spiriti un poco evoluti ». Ecco, dunque, sottolinea Comte — « la grande e sola lacuna che si tratta di colmare per costitituire la filosofia positiva ». La filosofia positiva deve quindi sottoporre la società ad una rigorosa indagine scientifica, giacché unicamente una sociologia scientifica potrà « essere considerata la sola base solida per la riorganizzazione sociale, che deve chiudere lo stato di crisi nel quale si trovano da lungo tempo le nazioni più civili ».
Non si possono risolvere crisi sociali e politiche senza la debita conoscenza dei fatti sociali e politici. Ed è per siffatta ragione che Comte vede come compito estremamente urgente quello dello sviluppo di una fisica sociale, vale a dire della socio logia scientifica. Ma, innanzi tutto, in che cosa consiste la scienza per Comte? Ebbene, ad avviso di Comte, lo scopo della scienza sta nella ricerca delle leggi, poiché «solo la conoscenza delle leggi dei fenomeni, il cui risultato costante è di farceli prevedere, può evidentemente condurci nella vita attiva a modificarli a nostro vantaggio ». La legge è necessaria per prevedere e la previsione è necessaria per l’azione dell’uomo sulla natura. « Insomma, afferma Comte, scienza, donde previsione; previsione, donde azione: tale è la formula semplicissima che esprime in modo esatto la relazione generale fra la scienza e l’arte, prendendo questi due termini nella loro accezione totale ».
La conoscenza positiva richiede una teoria che connetta i fatti osservati.
I risultati e gli scopi della filosofia positiva sono che essa:
1) diventa una metodologia di ricerca, una logica, un’epistemologia;
2) mostra l’unicità di tutto il sapere, unifica tutte le nostre conoscenze;
3) contribuisce al progresso delle singole scienze;
4) produce un’unica base solida alla riorganizzazione sociale.
La classificazione delle scienze
La relazione tra le scienze deve avere un ordine logico che è anche ordine storico.
La sociologia — la cui costruzione è compito urgente della filosofia politica — si pone al vertice dell’ordinamento delle scienze. A partire dalla loro piattaforma matematica, le scienze positive sono gerarchizzate secondo un grado decrescente di generalità e crescente di complicazione: astronomia, fisica, chimica, biologia, sociologia. In tale schema non sono comprese la teologia, la metafisica e la morale. Le prime due non sono scienze positive; la terza viene risolta nella sociologia. La psicologia, anch’essa esclusa dall’elenco, viene ridotta da Comte in parte alla biologia e in parte alla sociologia. Anche la matematica non figura nell’elenco, ma il primo volume del Corso di filosofia positiva è tutto dedicato alla matematica la quale, «da Cartesio e da Newton in qua, è la vera base fondamentale di tutta la filosofia naturale », cioè di tutte le scienze, nel senso che essa è « una immensa mirabile estensione della logica naturale ad un certo ordine di deduzioni ».
Comte pretende che l’ordine delle scienze da lui proposto sia simultaneamente un ordine logico, storico e pedagogico. L’ordine logico è dato dal criterio della semplicità dell’oggetto: prima vengono le scienze che, a suo avviso, hanno un oggetto più semplice; e poi si giunge via via fino alla sociologia, che avrebbe l’oggetto più complicato. L’ordine storico è individuabile nel passaggio delle singole scienze al lo stato positivo: l’astronomia uscì dalla metafisica con Copernico, Keplero e Galileo; la fisica raggiunse lo stato positivo grazie alle opere di Huygens, Pascal, Papin e Newton; la chimica esce dal suo limbo metafisico con Lavoisier; la biologia con Bichat e Blainville. Rimane la sociologia che, come scienza positiva, è ancora allo stato programmatico. Comte si impegnò appunto a realizzare siffatto programma. L’ordine pedagogico è dato dal fatto che si dovrebbero insegnare le scienze nello stesso ordine della loro genesi storica.
Nella gerarchia di Comte le scienze più complesse presuppongono quelle meno complesse: la sociologia presuppone la biologia la quale presuppone la chimica che, a sua volta, presuppone la fisica. Tuttavia ciò non significa che le scienze superiori siano riducibili a quelle inferiori. Ognuna di esse ha la sua autonomia, le sue leggi autonome. E la sociologia, pertanto, non può ridursi né alla biologia né alla psicologia. La società ha una realtà naturale e originaria: gli uomini vivono in società perché questo fa parte della loro natura sociale. Sono sociali sin dall’inizio e non c’è bisogno di nessun “contratto sociale”, come vorrebbe Rousseau, per associarli.
La sociologia come fisica sociale
Per passare da una società in crisi all’”ordine sociale” c’è bisogno di sapere. La conoscenza è fatta di leggi provate sui fatti. Talché occorre trovare le leggi della società se vogliamo risolverne la crisi. « Abbandonata anche nella filosofia politica la ragione delle idealità metafisiche per il campo delle realtà osservate, per mezzo di una subordinazione sistematica, diretta e continua, dell’immaginazione all’osservazione, necessariamente le concezioni politiche cessano di essere assolute per divenire relative allo stato della civiltà umana, di modo che le teorie, potendo seguire il corso naturale dei fatti, permettono di prevederli […] È nella prevedibilità razionale dello sviluppo futuro della convivenza sociale che si può riassumere lo spirito fonda mentale della politica positiva».
Considerazioni politiche preliminari sulla necessità e opportunità della fisica sociale tratte dall’analisi della società attuale: è un sottotitolo ad una sua lezione del Corso di filosofia positiva.
Ci dice che la fisica sociale è una teoria per la riorganizzazione della società.
La società attuale è caratterizzata dall’anarchia causata dalla rivoluzione francese e dalla riforma protestante, che hanno abbattuto l’ordinamento controllato.
Per Comte c’è bisogno di riorganizzare la società sulla base della scienza positiva.
Comte è padre della sociologia che lui chiama fisica sociale.
Comte ritiene che la riforma protestante e la rivoluzione francese abbiano abbattuto l’ordinamento sociale basato sulla filosofia teologica.
Ci deve essere sia l’ordine sia il progresso.
La filosofia teologica garantisce l’ordine, ma impedisce il progresso.
Per lui è necessaria una teoria della società per la riorganizzazione.
Comte cerca di proporre una teoria che garantisca sia l’ordine sia il progresso.
Per lui tutto è degenerato in dogmi:
- illimitata libertà di coscienza: questa non è compatibile con una società che garantisce l’ordine e il progresso la libertà deve essere limitata;
- eguaglianza garantita dalla rivoluzione francese. Se uguaglianza vuol dire riconoscimento della dignità va bene, ma se questa vuol dire fare le cose come si vuole, allora questa è inconciliabile con una buona organizzazione sociale. Nella società riorganizzata tutti non saranno uguali, ma l’uguaglianza è stata necessaria per abolire il sistema antico;
- sovranità popolare: è un bel termine, ma vuoto di contenuto perché il popolo non è mai sovrano.
Per Comte bisogna prendere i fenomeni sociali senza trattarli indefinitamente ed arbitrariamente. I fenomeni sociali sono come i fenomeni naturali, ma sono modificabili solo limitatamente, non indefinitamente e non arbitrariamente. I fenomeni sociali, per Comte, sono soggetti alle leggi naturali.
La legge fondamentale dell’ordine è il fatto che l’uomo è un essere sociale.
Gli uomini non hanno fatto un contratto sociale, ma sono socievoli per natura.
Il progresso si studia con la legge dei tre stadi.
Dalla sperimentazione si arriva alle leggi, ma in caso sociale si possono sperimentare solo alcuni fenomeni, i “casi patologici”.
Sottolineamo alcuni punti decisivi della sociologia di Comte:
1) la statica sociale indaga, sulle condizioni dell’Ordine; la dinamica studia le leggi del Progresso;
2) « il progresso umano, nel suo insieme, si è attuato sempre seguendo tappe obbligate perché naturalmente necessarie; la storia dell’umanità è il dispiegamento della natura umana »;
3) lo sviluppo dell’umanità va dallo stadio teologico a quello positivo, e tuttavia Comte non svaluta il passato e la tradizione in nome dell’esaltazione del l’avvenire. È il passato che è gravido del futuro e o l’umanità è composta più di morti che di vivi a; « i morti governano sempre più i vivi »;
4) la fisica sociale è il presupposto necessario di una politica razionale.
E la cosa disastrosa — dice Comte — è che la politica è in mano agli avvocati e ai letterati che non sanno nulla del modo di funzionare della società. I fenomeni sociali, al pari di quelli naturali, possono essere modificati solo a patto che ne conosciamo le leggi. Natura, ripete Comte con Bacone, non nisi parendo vincitur.
Ma attraverso quali vie si potranno conoscere le leggi della società? Le vie per il raggiungimento della conoscenza sociologica sono, ad avviso di Comte, l’osservazione, l’esperimento e il metodo comparativo. L’osservazione dei fatti sociali è una osservazione diretta e inquadrata nella teoria, cioè nella teoria dei tre stadi. L’esperimento in sociologia non è così semplice come In fisica o in chimica, giacché non si possono mutare a piacere le società, tuttavia, come in biologia così in sociologia, i casi patologici, alterando il normale flesso degli eventi, sostituiscono in certo qual modo l’esperimento. Il metodo comparativo studia le analogie e le differenze tra diverse società nei loro rispettivi stadi di sviluppo. Ed è il metodo storico — dice Comte — che costituisce « la sola base fondamentale sulla quale possa realmente fondarsi il sistema della logica politica ».
Lineamenti generali
Il movimento di pensiero che va sotto il nome di Fenomenologia è strettamente collegato al nome del suo iniziatore e rappresentante principale che è Edmund Husserl (1859-1938). La Fenomenologia si colloca, con una fisionomia dai tratti autonomi, all’interno di quella ridiscussione delle concezioni filosofiche positivistiche, che ebbe luogo nella cultura tedesca negli ultimi due decenni del secolo scorso. In quegli anni, le idee di Marx, di Nietzsche e di Freud, idee che poi avrebbero improntato di sé la cultura della generazione successiva, erano quasi del tutto ignorate dai professori universitari. Ma è proprio coli costoro che Husserl è in con tatto; e costoro, attenti agli sviluppi delle scienze positive, della matematica e anche delle scienze storico-sociali, sottopongono a critica il dogmatismo positivistico nella concezione della conoscenza, oltre che la fiducia religiosa che i Positivisti nutrivano per la scienza. E per questa ragione che la Fenomenologia trova, per determinati aspetti, punti di contatto di un certo rilievo con il Neokantismo e lo Storicismo e la Filosofia della vita.
Critica, quindi, del Positivismo, la Fenomenologia si presenta anche come un pensicro diffidente nei confronti di ogni apriorismo idealistico. E con ciò si inserisce in quel vasto mo vimento di pensiero caratterizzato, per esprimerci con Jean Wahl, dalla tendenza «verso il con creto». In questa preoccupazione di costruire una filosofia il più possibile aderente a «dati immediati» ed innegabili, sui quali erigere poi le teorie, la Fenomenologia va d’accordo con il Pragmatismo di William James e con il pensiero di Henri Bergson; ed è questo il motivo per cui essa promuoverà e si intreccerà con le concezioni esistenzialistiche di Heidegger, Sartre o Merleau-Ponty.
Scrive Heidegger in Essere e tempo: «L’espressione ‘fenomenologia’’ significa anzitutto un concetto di metodo […]. Il termine esprime un motto che potrebbe venir formulato così:
torniamo alle cose stesse! E ciò in contrapposizione alle costruzioni campate per aria e ai trovamenti casuali: in contrapposizione all’accettazione di concetti solo apparentemente giustificati e ai problemi apparenti che si impongono da una generazione all’altra come veri problemi».
Dunque, la parola d’ordine della Fenomenologia è quella del ritorno alle cose stesse, di andare al di là della verbosità dei filosofi e dei loro sistemi campati per aria. Ma come si farà per costruire una filosofia che regge? Ecco, per assolvere a questo compito, occorrerà partire da dati indubitabili sulla cui base innalzare poi l’edificio filosofico. Si cercano, insomma, evidenze stabili da porre a fondamento della filosofia: «senza evidenza non vi è scienza» dirà Husserl nelle Ricerche logiche. I limiti dell’evidenza apodittica rappresentano i limiti del nostro sapere. Occorre, dunque, cercare cose così manifeste, fenomeni così evidenti, da non poter essere negati. Questo, pertanto, è l’intento di fondo della Fenomenologia; intento che i Fenomenologi cercano di realizzare attraverso la descrizione dei “fenomeni’’ che si annunziano e si presentano alla coscienza dopo che si è fatta l’epoché, cioè dopo che sono state messe tra parentesi le nostre persuasioni filosofiche, i risultati delle scienze e le convinzioni incastonate in quel nostro atteggiamento naturale che ci impone la credenza nell’esistenza di un mondo di cose. Bisogna, in altri termini, sospendere il giudizio su tutto ciò che non è né apodittico nè incontrovertibile finché si riesca a trovare quei “dati’’ che resistono ai reiterati assalti del l’epoché. Questo punto d’approdo dell’epoché, il residuo fenomenologico — come lo chiamerà Husserl —, i Fenomenologi lo trovano nella coscienza: l’esistenza della coscienza è immediata mente evidente.
Ebbene, a partire da questa evidenza, i Fenomenologi intendono descrivere i modi tipici in cui le cose e i fatti si presentano alla coscienza: e questi modi tipici sono appunto le essenze eidetiche. La Fenomenologia non è scienza dei fatti, ma scienza di essenze. Al Fenomenologo non interessa l’analisi di questa o quella norma morale, ma interessa comprendere perché questa o quella norma sono norme morali e non, per es., norme giuridiche o regole di comporta mento. Parimenti al Fenomenologo non interesserà (o almeno non interesserà principalmente) esaminare i riti e gli inni di questa o quella religione; egli sarà invece interessato a capire che cos’è la religiosità, cos’è che rende inni e riti tanto diversi, inni e riti religiosi. Certo, il Fenomenologo produrrà anche analisi più specifiche su ciò che caratterizza essenzialmente, per es., il pudore, la santità, l’amore, la giustizia, il rimorso o tipi di società, ma in ogni caso la sua è, appunto, scienza di essenze. Essenze che diventano oggetto di studio se il ricercatore, ponendosi nell’atteggiamento di spettatore disinteressato, si libererà dalle opinioni preconcette e, senza farsi travolgere dalla banalità e dall’ovvio, saprà “vedere” e riuscirà ad intuire (e a de scrivere) quell’universale per cui un fatto è quello e non un altro. Noi distinguiamo un testo magico da un testo scientifico, ma come facciamo a far questo se non perché adoperiamo discriminanti essenziali, se non perché, magari senza esserne consapevoli, sappiamo cos’è magia e cos’è scienza? Come è che diciamo che questo è un atto di simpatia, quello un gesto di ira, quest’altro un comportamento disperato o quell’altro ancora un atteggiamento di santità, se non si dessero appunto essenze, idee essenziali di simpatia, di ira, di disperazione o di santità?
Ecco, dunque, che cosa vuol essere la Fenomenologia: una scienza, stabilmente fondata de dita all’analisi e alla descrizione delle essenze.
Su questa base possiamo capire come la Fenomenologia si distingua da una analisi psicologica o da una analisi scientifica. A differenza dello psicologo, il Fenomenologo non manipola dati di fatto, ma essenze; non studia fatti particolari ma idee universali; non si interessa del comportamento morale di questa o quella persona, ma intende conoscere l’essenza della moralità e magari vedere se la morale sia o meno frutto di risentimento. Il Fenomenologo, insomma, assolve a compiti ben diversi da quelli degli scienziati. La coscienza è «intenzionale» è sempre coscienza di qualche cosa che si presenta in modo tipico: l’analisi di questi modi tipici è proprio il compito del Fenomenologo che si chiede ed indaga su quel che la coscienza trascendentale in-tende per amore, percezione, religiosità, giustizia, comunità, simpatia, e così via.
A questo punto la Fenomenologia poteva prendere due direzioni: una idealistica e l’altra realistica. I significati o essenze degli oggetti, delle istituzioni e dei valori sono costituiti e posti dalla coscienza, oppure lo sguardo del teoreta disinteressato li intuisce in quanto oggettivamente dati? Qui divergeranno, per es., le strade di Husserl e di Scheler: Husserl, soprattutto l’ultimo Husserl, batterà la strada dell’Idealismo e così il pensatore che pose come programma della Fenomenologia quello del ritorno alle cose stesse, alla fine si ritroverà con quell’unica realtà che è la coscienza: la coscienza trascendentale la quale nulla re indiget ad existendum e che ‘‘costituisce’’ i significati delle cose, delle azioni, delle istituzioni e il senso del mondo (da badare che qui trascendentale vuoi dire kantianamente quel che è nella nostra coscienza in quanto indipendente dalla sensibilità, e quindi a-priori, ma funzionalmente ordinato alla “costituzione” dell’esperienza). Scheler, da parte sua, volgerà l’analisi verso i valori oggettivi gerarchicamente ordinati che si impongono, come la luce all’occhio o il suono all’ “orecchio”, all’intuizione emozionale.
Alle origini della Fenomenologia
La Fenomenologia nasce con Husserl come polemica antipsicologistica ed una delle idee fondamentali di Husserl e della Fenomenologia è quella dell’intenzionalità della coscienza. Proprio riguardo a questi due nuclei problematici, Flusserl attinse a due pensatori di notevole livello, e cioè a Bernhard Bolzano e a Franz Brentano.
• Bolzano (1781.1848), matematico e filosofo, prete cattolico e professore di filosofia della religione all’Università di Praga sino al 1819 (anno in cui fu allontanato dalla cattedra e sospeso a divinis) ci ha lasciato due importanti opere: I paradossi dell’infinito (scritti nel ‘47-48, ma pubblicati nel 1851) e la Dottrina della scienza (1837). Il primo lavoro ha avuto un notevole influsso sulla storia del pensiero matematico. Il secondo, invece, elabora la dottrina della ‘‘pro posizione in sé” e della “verità in sé”. La proposizione in sè è il puro significato logico di un enunciato, e non dipende dal fatto che esso venga espresso o pensato. La verità in sé è data da qualsiasi proposizione valida, sia che questa venga o non venga espressa o pensata. Così, la validità di un principio logico, come quello di non contraddizione, resta tale sia che lo pensiamo o non lo pensiamo, sia che lo esprimiamo a parole o per iscritto, sia che non lo esprimiamo. Le proposizioni in sé possono derivare l’una dall’altra, possono entrare in contraddizione: esse fanno parte di un mondo logico-oggettivo; esse risultano indipendenti dalle condizioni soggettive del conoscere. E ben vero che i Neokantiani, antipsicologisti e antiempi risti, distinguevano problemi di fatto, riguardanti l’origine della conoscenza, dal problema di diritto concernente la validità della conoscenza, tuttavia la critica allo psicologismo (che inten deva fondare gli asserti matematici su processi psicologici) Husserl la riprende da Frege e da Bolzano.
• Brentano (1838-1917), anch’egli prete cattolico, poi uscito dalla Chiesa, fu professore al l’Università di Vienna, visse a lungo a Firenze e morì a Zurigo. Ha scritto molto su Aristotele ma l’opera sua che ebbe maggior successo fu la Psicologia dal punto di vista empirico (1874). È qui che Brentano afferma il carattere intenzionale della coscienza. Nella Scolastica intentio significava il concetto in quanto indica qualcosa di diverso da sé. Secondo Brentano, appunto, l’intenzionalità è quel che tipicizza i fenomeni psichici: questi si riferiscono sempre ad altro. E si distinguono in tre classi fondamentali che sono: la rappresentazione, il giudizio, e il sentimento. Nella rappresentazione l’oggetto è puramente presente; nel giudizio esso viene affermato o negato; nel sentimento esso viene amato oppure odiato. Un’altra teoria di Brentano, di cui non possiamo qui non far cenno, è che, a suo avviso, ogni realtà è sempre individuale, mentre ogni conoscenza coglie il reale nella sua generalità. Brentano è stato maestro di Husserl a Vienna.
Vita e opere
Husserl nasce a Prossnitz (in Moravia) nel 1859. Studia matematica a Berlino dove segue i corsi di algebra di Weierstrass. Si laurea nel 1883 con una tesi sul calcolo delle variazioni.
A Vienna, segue le lezioni di Brentano. Pubblica nel 1891 la Filosofia dell’aritmetica. Libero docente ad Halle nel 1887, viene nominato professore di filosofia a Gottinga nel 1901. In questo anno appaiono le Ricerche logiche. Del 1911 è la Filosofia come scienza rigorosa e del 1913 le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica. Passa ad insegnare a Friburgo nel 1916 dove rimane fino al 1928, anno in cui venne collocato a riposo. Non poté, come emerito, proseguire la sua attività didattica perché, essendo ebreo, ne fu ostacolato dal regime nazista. Morì nel 1938.
La Logica formale e la logica trascendentale è del 1929, e nel 1931 vengono pubblicate le conferenze parigine col titolo Meditazioni cartesiane. Alla sua morte Husserl lasciò una grande quantità di inediti (circa 45.000 pagine stenografate) che, salvate a stento durante la guerra dal belga padre I-Iermann van Breda, costituiscono ora 1’”Archivio Husserl’’ di Lovanio. Da questa grande mole di manoscritti sono stati tratti parecchi libri, il più noto ed importante dei quali è La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, pubblicata nel 1950, ma scritta negli anni 1935-1936.
La polemica contro lo psicologismo
Nel 1891 Husserl pubblica dunque la Filosofia dell’aritmetica. In questo libro il discepolo di Brentano sostiene, contrariamente ai ‘‘logicisti’’, la riduzione del concetto di numero a pro cessi psichici relativi all’attività del contare. La matematica e la logica, per Husserl, giungono alla fine a concetti ultimi ed ‘‘elementarissimi’’ non definibili e «ciò che si può fare in questi casi è solo mostrare i fenomeni concreti da e con i quali essi sono astratti».
Il lavoro di Husserl viene fatto oggetto di una dura recensione da parte di Frege, il quale afferma che l’autore del libro ha adottato «una concezione ingenua del numero». La realtà per Frege è che «una descrizione dei processi mentali che precedono l’enunciazione di un giudizio numerico non può mai, anche se esatta, sostituire una vera determinazione del concetto di numero. Non potremo mai invocarla per la dimostrazione di qualche teorema, né apprendere. mo da essa alcuna proprietà dei numeri». La rappresentazione psicologica è particolare, empi rica e soggettiva. E la psicologia non può darci altro che giudizi di fatto, mentre i giudizi matematici sono universali, ideali ed oggettivi. Il numero è, secondo la definizione di Frege, la classe di tutte le classi i cui elementi sono fra loro in corrispondenza biunivoca.
La recensione di Frege da una parte e l’approfondimento del pensiero di Bolzano dall’altra, portano Husserl al rifiuto dello psicologismo. Difatti, nel primo volume delle Ricerche logiche, costituito dai Prolegomeni a una logica pura (1900), Husserl afferma che le leggi logiche sono rigorosamente universali e necessarie e proprio per questa ragione non possono dipende re dalle leggi psicologiche le quali, essendo generalizzazioni ottenute per induzione, non sono affatto necessarie. «I fatti di coscienza — scrive Husserl — sono singolarità reali, temporalmente determinati, che sorgono e scompaiono. Ma la verità è «eterna, o piuttosto: è un’idea, e come tale sovratemporale». Così, per es., il principio di non contraddizione non è una congettura induttiva, ma una verità universale e necessaria. E siamo con ciò all’idea di una logica pura.
Ci sono verità fattuali e verità universali e necessarie. Queste ultime sono le verità logiche, le quali sono comuni a tutte le scienze. Ogni singola scienza ha premesse proprie in base
alle quali organizza le sue argomentazioni o dimostrazioni. Ma queste argomentazioni, per essere valide, devono venir condotte secondo principi logici: una argomentazione è valida quando le premesse sono vere e la deduzione è corretta. I principi della corretta deduzione sono i principi logici. Per questo, la logica pura è «la teoria delle teorie, la scienza delle scienze». Per essere ancora più espliciti, la validità del principio di non contraddizione è, sostiene Husserl, illimitata, e l’evidenza di tale principio non dipende dal sentimento di certezza che accompagna la sua formulazione, ma è piuttosto la sua validità apodittica a generare tale sentimento.
L’intuizione eidetica
Le proposizioni universali e necessarie sono condizioni che rendono possibile una teoria ed esse sono distinte dalle proposizioni ottenibili induttivamente dall’esperienza. Ebbene, alla base di questi due tipi di proposizioni Husserl pone la distinzione tra intuizione di un dato di fatto e intuizione di un’essenza. Di intuizione delle essenze Husserl parla nella seconda Ricerca logica e nel primo capitolo delle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, anche se nelle Ricerche logiche egli non usa ancora il termine essenza (Wesen) ma quello di specie.
Le Idee iniziano con il capitolo intitolato Fatto ed essenza. Husserl è persuaso che la nostra conoscenza comincia con l’esperienza: con l’esperienza di cose esistenti, di fatti. L’esperienza ci offre di continuo dati di fatto, quei dati di fatto con i quali siamo indaffarati nella vita quoti diana, e dei quali si occupa pure la scienza. Un fatto è quel che accade qui ed ora; un fatto è contingente, potrebbe esserci o non esserci. Questo suono di violino potrebbe anche non esserci. Ma quando un fatto (questo suono, questo colore, ecc.) ci si presenta alla coscienza, noi con il fatto cogliamo un’essenza (il suono, il colore, ecc.). Nelle occasioni più disparate noi possiamo udire i suoni più diversi (danno, violino, pianoforte, ecc.), ma in essi noi riconosciamo qualcosa di comune, un’essenza comune. Nel fatto si coglie sempre un’essenza. L’individuale si annunzia alla coscienza attraverso l’universale. Quando la coscienza coglie un fatto qui ed ora, essa coglie anche l’essenza, il quid di cui questo fatto particolare e contingente è un caso particolare: questo colore è un caso particolare dell’essenza colore, questo suono è un caso particolare dell’essenza suono, questo rumore è un caso particolare dell’essenza rumore, ecc. Le essenze sono, dunque, i modi tipici dell’apparire dei fenomeni. E non è che noi astraiamo le essenze, come volevano gli Empiristi, dalla comparazione di cose simili, giacché la somiglianza è già un’essenza. Non astraiamo l’idea o essenza di triangolo dalla comparazione di più triangoli, quanto piuttosto questo, quello e quell’altro sono tutti triangoli perché sono casi particolari dell’idea di triangolo. Questo triangolo isoscele disegnato sulla lavagna è qui ed ora, di queste dimensioni e non di altre. Esso è un dato di fatto singolo. Ma in esso noi cogliamo un’essenza. E la conoscenza delle essenze non è una conoscenza mediata, ottenuta, come si ripete, attraverso l’astrazione o la comparazione di più fatti: per comparare più fatti bisogna aver colto già un’essenza, un aspetto cioè per cui sono simili. La conoscenza delle essenze è un’intuizione. E un’intuizione distinta da quella che ci permette di cogliere i fatti singoli. Essa è ciò che Husserl chiama l’intuizione eidetica o intuizione dell’essenza (Wesen, eidos). Si tratta di una conoscenza distinta da quella del fatto. I fatti singoli sono casi di essenze eidetiche. Queste essenze eidetiche, pertanto, non sono oggetti misteriosi o evanescenti. E vero che sono reali solo i fatti singoli, e che gli universali non sono reali, come i fatti singoli. Gli universali, cioè le essenze, sono concetti, cioè oggetti ideali che tuttavia permettono di classificare, riconoscere e distinguere i farti singoli, dei quali la coscienza, quando si presentano ad essa, riconosce, sì, l’hic et nunc, ma anche il quid.
Ontologie regionali e ontologia formale
La Fenomenologia intende essere scienza di essenze e non di dati di fatto.
Essa è, sì, fenomeno-logia, vale a dire “scienza dei fenomeni”, ma il suo scopo è quello di descrivere i modi tipici con cui i fenomeni si presentano alla coscienza. E queste modalità tipiche (per cui questo suono è un suono e non un colore o un rumore, o per cui questo disegno è un triangolo e non altro) sono appunto le essenze. La Fenomenologia, pertanto, è scienza di esperienza, ma non di dati di fatto. Gli oggetti della Fenomenologia sono le essenze dei dati di fatto, sono gli universali che la coscienza intuisce quando ad essa si presentano i fenomeni. E in questo consiste la riduzione eidetica, cioè nell’intuizione delle essenze, allorché nella descrizione del fenomeno che appare alla coscienza sappiamo prescindere dagli aspetti empirici e dalle preoccupazioni che ci legano ad essi. Le essenze, in questo senso, sono invarianti.
È ovvio che queste essenze non vivono solo all’interno del mondo percettivo, anche fatti come ricordi, speranze o desideri hanno la loro essenza, si presentano cioè alla coscienza in modo tipico. Inoltre, la distinzione tra il fatto (che è un questo) e un’essenza (che è un quid) permette ad Husserl di giustificare la logica e la matematica. Le proposizioni logiche e matematiche sor giudizi universali e necessari perché sono rapporti tra essenze.
Il fatto del riferimento alle essenze ideali apre alla Fenomenologia l’esplorazione e la descrizione di quelle che Husserl chiama ontologie regionali. “Regioni”, in questo senso, sono la natura, la società, la morale, la religione. Lo studio di queste ontologie regionali si prefigge di cogliere e di descrivere le essenze, cioè le modalità tipiche con cui alla coscienza appaiono i fenomeni morali o, per es., quelli religiosi. Su questa linea Max Scheler darà contributi importanti alla fenomenologia dei valori.
L’intenzionalità della coscienza
La Fenomenologia, dunque, è scienza delle essenze, cioè dei modi tipici dell’apparire e del manifestarsi dei fenomeni alla coscienza, la cui fondamentale caratteristica è quella della intenzionalità. La coscienza, infatti, è sempre coscienza di qualche cosa. Quando percepisco, o immagino, o penso, o ricordo, io percepisco, immagino, penso o ricordo qualche cosa. Da ciò si vede, dice Husserl, che la distinzione tra soggetto ed oggetto è data immediatamente: il soggetto è un io capace di atti di coscienza, come il percepire, il giudicare, l’immaginare, il ricordare; l’oggetto, invece, è quanto si manifesta in questi atti: corpi colorati, immagini, pensieri, ricordi. Per questo, dobbiamo ancora distinguere l’apparire di un oggetto dall’oggetto che appare. E se è vero che si conosce ciò che appare, è anche vero — per Husserl — che si vive l’apparire di ciò che appare. E nelle Idee Husserl chiama noesi l’aver coscienza e noema ciò di cui si ha coscienza. E tra i diversi noemi Husserl, come già sappiamo, distingue nettamente i fatti dalle essenze.
La coscienza è, dunque, intenzionale.
Quel che conta, è descrivere quello che effettivamente si dà alla coscienza, quello che in essa si manifesta e nei limiti in cui si manifesta. E ciò che si manifesta, ciò che appare è il fenomeno, dove per “fenomeno” non dobbiamo intendere l’apparenza” contrapposta alla “cosa in sé”: io non sento l’apparenza di una musica, io sento la musica; io non percepisco l’apparenza di un profumo, io percepisco il profumo; né io ho l’apparenza di un ricordo, io ho un ricordo. Di conseguenza, il «principio di tutti i principi» enunciato da Husserl nelle Idee è il seguente: «Ogni intuizione che presenta originariamente qualche cosa è di diritto fonte di conoscenza; tutto ciò che si offre a noi originariamente nell’intuizione (che ci si offre, per così dire, in carne ed ossa) deve essere assunto così come si offre, ma anche soltanto nei limiti in cui si offre».
L’epoché o riduzione fenomenologica
L’epoché ha qualche analogia col dubbio scettico (dal quale dubbio scettico trae il nome) ed anche col dubbio metodico cartesiano. Tuttavia, fare epoché non significa propria mente dubitare. Fare epoché vuol dire piuttosto sospendere il giudizio su tutto quello che innanzitutto ci dicono le dottrine filosofiche con i loro inconcludenti dibattiti metafisici, su quanto dicono le scienze, su quello che ognuno di noi afferma e presuppone nella vita quotidiana, cioè sulle credenze che intessono quello che Husserl chiama atteggiamento naturale.
L’atteggiamento naturale dell’uomo è fatto di svariate persuasioni, utili e necessarie alla vita quotidiana e la prima di queste persuasioni è clic si viva in un mondo di cose esistenti.
Né le dottrine filosofiche, né i risultati della scienza, nè le credenze anche le più ovvie dell’atteggiamento naturale possono costituire punti di partenza indubitabili dei quali ha appunto bisogno la filosofia concepita come scienza rigorosa. Tutte queste credenze vanno, per tanto, messe tra parentesi. Ma esiste qualcosa di cui non si può dubitare e che non si lascia mettere tra parentesi? Se c’è, che cos’è ciò che può resistere all’epoché? Ebbene, per Husserl ciò che resiste agli attacchi dell’epoché, ossia ciò che non si può mettere tra parentesi è la coscienza, o soggettività. Ciò la cui esistenza è assolutamente evidente è il cogito con i suoi cogitata, la coscienza alla quale si manifesta tutto ciò che appare. La coscienza, dunque, è il residuo fenomenologico che resiste ai continuati assalti dell’epoché.
Mal coscienza, prosegue Husserl non è soltanto la realtà più evidente, ma è anche realtà assoluta, è, com’egli scrive nelle Idee, il fondamento di ogni realtà, è quella realtà che nulla re indiget ad existendum. Il mondo, dice Husserl, e’ “costituito” dalla coscienza. E qualche interprete ha inteso questa “costituzione” del mondo da parte della coscienza, nel senso che è la coscienza che dà significato al mondo.
La crisi delle scienze europee e il “mondo della vita”
Nel 1954 appare postuma La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Questa è l’ultima opera di grande impegno alla quale Husserl lavorò fino quasi alla morte. La crisi delle scienze non è, ovviamente, la crisi della loro scientificità, bensì è crisi di ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per l’esistenza umana.
Ciò che è oggetto della critica di Husserl è il naturalismo e l’oggettivismo, la pretesa per cui la verità scientifica è l’unica verità valida e l’idea a questa connessa che il mon do descritto dalle scienze sarebbe la vera realtà.
Per Husserl noi siamo funzionari dell’umanità.
Contro il formalismo kantiano
Max Scheler (1875-1928) era un “genio” vulcanico. Alla Fenomenologia lo legarono due cose: «l’avversione per le costruzioni astratte e la capacità di cogliere intuitivamente la verità dell’essenza». Scheler è autore di opere piene di idee interessanti e nuove (Il risentimento nella edificazione delle morali, 1912; Crisi dei valori, 1919; L’eterno nell’uomo, 1921; La posizione dell’uomo nel cosmo, 1928; Le forme del sapere e la società, 1926; Essenza e forme della simpatia, 1923), ma l’opera sua più conosciuta è Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori che apparve per la prima volta nello «Jahrbuch» di Husserl tra il 1913 e il 1916. In tale lavoro Scheler estende l’applicazione del metodo fenomenologico al campo dell’attività morale.
Scheler è un deciso avversario della concezione etica kantiana Kant aveva posto la questione etica nell’alternativa tra dovere e piacere. Si vuole qualcosa o perché lo esige la legge morale ovvero perché questo qualcosa piace. Ma, se accettiamo quest’ultimo caso, allora viene a mancare qualsiasi base di valutazione oggettiva. Di conseguenza, al fine le valutazioni morali, occorre definire il bene in relazione alla legge morale, che è tale se universalizzabile. Ebbene, questa etica imperativa è per Scheler arbitraria. Essa dice «tu devi perché devi» ma il comando non è giustificato. È un’etica del risentimento (e il risentimento è «la tensione tra il desiderio e l’impotenza»), che in nome del dovere isterilisce e blocca la pienezza e la gioia della vita.
Per Scheler, invece, non è il dovere a costituire il concetto fondamentale dell’etica, bensì il valore. E Kant non ha distinto i beni dai valori. I beni sono le cose le quali hanno valore; i valori, d’altra parte, sono essenze nel senso husserliano, sono cioè quelle qualità per cui sono beni le cose buone: bene è per esempio, una macchina il valore è la sua utilità; bene è un dipinto, ma lo è per il valore della bellezza; bene è un gesto, valore è la sua nobiltà; bene è una legge, ma lo è per il valore della giustizia. I beni, in sostanza, sono fatti, i valori sono essenze.
Scheler è ben pronto a riconoscere i meriti di Kant. Tali sarebbero il rifiuto di derivare il criterio della condotta morale attraverso una induzione da fatti empirici; l’aver cercato di costituire una legge morale a priori universale; la negazione dell’etica del successo, e il richiamo alla interiorità della legge morale. Ma tutti questi pregi sono vanificati, ad avviso di Scheler, dalla fondamentale ed errata equazione con la quale Kant identifica a priori con formale. Proprio contro siffatta identità si rivolge il pensiero di Scheler, il quale si mantiene fedele all’apriorismo e all’universalità della norma morale, definendo però materialmente, cioè concretamente, la sfera dei valori. Quel che Scheler sostiene è l’esistenza di proposizioni a priori (vale a dire necessarie e universali) e tuttavia materiali, giacché le materie su cui esse vertono non sono fatti, ma essenze, cioè i valori. In tale maniera Scheler intende pervenire alla fondazione di una etica a priori, ma non formale bensì materiale (“materiale” si oppone qui a “formale”): un’etica materiale e non dei beni.
Valori “materiali” e loro gerarchia
Dunque, contro Kant, Scheler afferma il primato del valore sul dovere. Quel che manca all’etica di Kant è il riconoscimento del “valore materiale”, la consapevolezza che l’uomo si trova circondato da un cosmo di valori che egli non deve produrre ma solo riconoscere e scoprire. E i valori non sono oggetti di attività teoretica, ma di una intuizione emozionale. Scheler dice che pretendere di cogliere i valori con l’intelletto equivarrebbe alla pretesa di vedere un suono. È unicamente un pregiudizio negare l’intenzionalità del sentimento, la capacità di questo di “vedere” essenze e cogliere valori; è un pregiudizio che deriva dall’altro pregiudizio secondo cui soltanto l’intelletto dà origine ad attività spirituali. Per Scheler, invece, c’è «un’eterna e assoluta legittimità dei sentimenti, assoluta come la logica pura, ma non riducibile in nessun modo alla legittimità tipica della attività intellettuale». Ciò che il sentimento vede sono le essenze come valori. «Esiste — egli dice un modo di esperienza i cui oggetti sono inaccessibili all’intelletto: questo nei loro confronti è così cieco come l’orecchio e l’udito nei confronti dei colori; tale modo di esperienza ci mette di fronte a degli oggetti autentici e all’ordine eterno che c’è fra loro, cioè ai valori e alla loro gerarchia».
Per rendere le cose più comprensibili, potremmo dire che noi abbiamo innato uno strumento, l’intuizione sentimentale, quei valori oggettivi per cui le cose sono beni, e coglie e riconosce la gerarchia esistente tra tali valori. Questi valori, ciascuno de quali si trova incarnato in una persona o modelo-tipo, vengono a Scheler enunciati e proposti nella seguente successione gerarchica:
1) valori sensoriali (gioia-pena, piacere-dolore) gaudente
2) valori della civilità (utile-dannoso) tecnico
3) valori vitali (nobile-volgare) eroe
4) valori culturali o spirituali: genio
a. estetici (bello-brutto) artista
b. etico-giuridici (giusto-ingiusto) legislatore
c. speculativi (vero-falso) saggio
5) valori religiosi (sacro-profano) santo
Questo cosmo di valori e la loro gerarchia (per cui si va — in ordine di preferibilità — dai valori religiosi a quelli sensoriali) sono colti e riconosciuti dalla intuizione o visione emozionale che ci mette immediatamente in contatto col valore, indipendentemente dalla volontà e dal dovere, i quali piuttosto sono condizionati e fondati proprio dall’intuizione del valore.
Non è vero, dunque, che ciò che non è razionale sia sensibile: c’è un’attività spirituale extra teoretica che è l’intuizione emozionale; esiste, insomma, quello che Pascal chiama l’ordre du coeur.
La persona
Queste idee sui valori e sulla loro gerarchia mentre permettono a Scheler raffinate analisi critiche del soggettivismo etico nel mondo moderno e una acuta delineazione dell’antropologia del “borghese” (cioè dell’uomo risentito e diffidente, fanatizzato dal valore dell’utile e insensibile a quello del tragico), dall’altra gli consentono la costruzione di una antropologia personalistica, da dove emerge un soggetto come essere spirituale e come persona. L’uomo è capace di domandarsi che cosa sia una cosa in se stessa, è capace di cogliere essenze a prescindere dall’interesse vitale che le cose possono avere per me, per te. L’uomo, dunque, è capace scrive Scheler ne La posizione dell’uomo nel cosmo «di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con la “vita” e da ciò che le appartiene», e in questo senso egli è un essere spirituale, non più legato «agli impulsi e all’ambiente» ed è così che è «aperto al mondo» anzi è così che egli «ha un mondo». E in quanto soggetto spirituale l’uomo è persona, vale a dire centro di atti intenzionali. La persona non è l’io trascendentale, ma un individuo concreto, è l’unità organica di un soggetto spirituale che si serve del corpo, come di uno strumento per attuare valori.
Da questa concezione della persona deriva l’idea scheleriana di ascesi mondana, che va al di là dell’edonismo sensualista e dell’ascetismo patologico, evita il solipsismo e instaura un triplice rapporto di apertura dell’uomo con la natura, con il prossimo e con Dio.
La persona, per Scheler, non è un soggetto che considera la natura pragmatisticamente solo come un oggetto da dominare; la persona sa porsi, quasi francescanamente, nell’estatico atteggiamento di apertura alle cose. La persona, inoltre, è originariamente in rapporto con l’io dell’-altro. E questo rapporto va dalle forme più basse di socialità al culmine rappresentato dal rapporto di amore. La forma più bassa di socialità è la massa che nasce dal contagio emotivo; poi viene la società la quale nasce dal contratto; a questa segue la comunità vitale o nazione; abbiamo poi la comunità giuridico-culturale (Stato, scuola, circolo); e infine la comunità d’amore, la Chiesa.
In Essenza e forme della simpatia, Scheler considera la simpatia come l’unico autentico fon damento del rapporto interpersonale: la simpatia, infatti, garantisce l’autonomia della persona e la possibilità della comunicazione e della comprensione. La simpatia non è il contagio emotivo che si scatena nelle masse e che può arrivare sino alla fusione emotiva. «La vera funzione della simpatia, scrive Scheler, consiste nel distruggere l’illusione solipsistica e nel rivelarci come dotata di valore uguale alla nostra la realtà dell’altro in quanto altro».
La simpatia, però, ha dei limiti. Essa, infatti, è una forma di comprensione che si ha al l’interno e nei limiti di quei rapporti che ci legano alle altre persone: provo simpatia per un’al tra persona in quanto e nei limiti in cui fa parte della mia nazionalità, della mia famiglia, dei miei amici, della mia collettività, e così via. Solo l’amore, afferma Scheler, può superare i limiti in cui si imbatte la simpatia e instaurare un rapporto di profondità. Tuttavia, ancor più della simpatia, l’amore esalta l’autonomia e la diversità dell’altro. L’amore vero non considera mai l’altro come identico a se stesso. «L’amore vero consiste nel comprendere sufficientemente un’altra individualità modalmente differente dalla mia, nel potermi mettere al suo posto pur mentre la considero come altra da me e differente da me e pur mentre affermo, col calore emozionale e senza riserva, la sua propria realtà, il suo proprio modo d’essere». Proprio per questa sua profondità e radicalità, Scheler pone l’amore a fondamento della stessa simpatia. L’amore si dirige verso ciò che l’altro ha di valido. Si dirige verso la natura, verso la persona umana e verso Dio, verso ciò che questi hanno di altro da colui che ama.
Sul rapporto con Dio Scheler ha scritto uno tra i più significativi libri di Fenomenologia della religione: L’eterno nell’uomo. La prima evidenza filosofica, dice Scheler, è che c’è qualcosa, che non c’è il nulla. E dal prendere coscienza che c’è qualcosa nasce lo stupore di fronte all’essere: «Chi non ha guardato nell’abisso dell’assoluto Nulla non si accorgerà dell’eminente positività del contenuto dell’intuizione che vi è qualcosa e non piuttosto il nulla». Ma dopo questa prima evidenza, si presenta immediata l’evidenza che vi è un essere assoluto caratterizzato dall’aseità, l’onnipotenza e la sacralità. Siffatti caratteri vengono intuiti attraverso un atto di percezione immediata, cui corrisponde un sentimento di creaturalità. Nell’esperienza religiosa si ha la rivelazione del Sacro, e ad essa che è grazia l’uomo risponde con la fede. L’uomo può sapere di Dio solo in Dio. «Il Dio della coscienza religiosa scrive Scheler è e vive esclusivamente nell’atto religioso, non nel pensiero metafisico fondato su contenuti e realtà extra religiose. Ciò cui tende la religione non è la conoscenza razionale della realtà originaria (Weltgrund), ma è la salvezza dell’uomo mediante una comunione di vita con Dio, una divinizzazi ne)». Il Dio della religione e il salvatore della persona è anch’Egli, quindi, persona. Per tutto ciò, la teologia negativa è più profonda ed autentica della teologia positiva.
Sociologia del sapere
L’ontologia personalistica e teistica di Scheler subisce nel 1923 una svolta, nel senso che Scheler indirizzò le sue ricerche (rimaste incompiute per la sua prematura morte) nella direzione di un panteismo evoluzionistico. L’intenzione di Scheler era quella di costruire una imponente “antropologia filosofica” di cui restano, come documentazione, brevi e acuti scritti.
Dalla Fenomenologia all’Esistenzialismo
L’esponente principale della Filosofia dell’esistenza è Martin Heidegger. Nato a Messkirch nel 1889, studia teologia e filosofia; allievo di H. Rickert, si laurea in filosofia nel 1914 con una tesi su La dottrina del giudizio nello psicologismo. Nel 1916 pubblica, come tesi per l’abilitazione all’insegnamento universitario, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto. Nel frattempo Husserl viene chiamato ad insegnare a Friburgo ed Heidegger lo segue come assistente. Professore per alcuni anni all’Università di Marburgo, nel 1929 Heidegger succede ad Husserl sulla cattedra di filosofia a Friburgo, e tiene la prolusione su: Che cos’è la metafisica? Dello stesso anno è il saggio Sull’essenza del fondamento (scritto per il volume miscellaneo per il settantesimo anniversario di Husserl) e il volume Kant e il problema della metafisica. Nei 1927 era nel frattempo uscito il lavoro fondamentale di Heidegger Essere e tempo (Sein und Zeit). L’opera avrebbe dovuto essere seguita da una seconda parte, che tuttavia non apparve più, giacché i risultati ottenuti nella prima parte ne proibivano lo sviluppo. Essere e tempo è dedicato ad Husserl e Heidegger afferma che egli procede con metodo fenomenologico, senonché la sua filosofia cosa che costateremo fra poco è ben diversa da quella di Husserl.
Intanto nel 1933 Heidegger, che aveva aderito al nazismo, diventa rettore dell’Università di Friburgo e pronuncia il discorso: L’autoaffermazione dell’università tedesca. Dalla carica di rettore si dimise poco dopo. Gli scritti successivi a questo periodo sono: Hölderlin e l’essenza della poesia (1937); La dottrina di Platone sulla verità (1942), ristampato nel 1947 insieme alla Lettera sull’umanesimo; L’essenza della verità (1943); Sentieri interrotti (1950); Introduzione alla metafisica (1953); Che cos’è questo - la filosofia? (1956); In cammino verso il linguaggio (1959); Nietzsche (1961) in due volumi. Heidegger è morto nel 1976.
Lo scopo dichiarato di Essere e tempo è quello di una ontologia capace di determinare in maniera adeguata il senso dell’essere. Ma, per raggiungere tale scopo, occorre analizzare chi è colui che si pone la domanda sul senso dell’essere. E se Essere e tempo si risolve in un’analitica esistenziale su quell’ente (l’uomo) che si interroga sul senso dell’essere, gli scritti che vanno dal 30 in poi abbandonano l’impostazione originaria: non si tratta più di analizzare quell’ente che cerca vie d’accesso all’essere, ma si punta sull’essere stesso e sulla sua autorivelazione. Qui sta appunto la “svolta” del pensiero di Heidegger, il quale, nel secondo periodo della sua filosofia, prescinde dall’esistenza che diviene una determinazione inessenziale dell’essere. «La storia dell’essere — scrive Heidegger — regge e determina ogni condizione e situazione umana».
L’Esserci e l’analitica esistenziale
«L’intento della presente trattazione [Essere e tempo] è […] — dice Heidegger — la concreta elaborazione del problema del senso dell”essere”». Senonché, il problema del senso del l’essere pone subito questo interrogativo: Presso quale ente deve venir carpito il senso dell’essere?» ebbene, prosegue Heidegger, «se il problema dell’essere deve venir esplicitamente posto in tutta la sua trasparenza, allora […] si rende necessaria la messa in chiaro delle maniere di penetrazione nell’essere, di comprensione e di possesso concettuale del suo senso, nonché la delucidazione della possibilità di una retta scelta dell’ente esemplare e l’indicazione dell’autentica via d’accesso a questo ente. Penetrazione, comprensione, delucidazione, scelta, accesso, sono momenti costitutivi del cercare e nello stesso tempo modi di essere di un determinato ente, e precisamente di quell’ente che, noi che cerchiamo, già siamo». Per tutto ciò, «elaborazione del problema dell’essere, viene dunque a significare: rendersi trasparente di un ente, porre il cercante nel suo essere». E in ciò consiste l’analitica esistenziale.
L’uomo è, dunque, l’ente che si pone la domanda sul senso dell’essere. Per questo, una corretta impostazione del problema del senso dell’essere, richiede una esplicitazione preliminare di quell’ente che si pone la domanda sul senso dell’essere: e «questo ente che noi stessi già sempre siamo, e che ha, fra le altre possibilità di essere, quella di cercare, noi lo indichiamo col termine Esserci (Dasein)». L’uomo, considerato nel suo modo di essere, è appunto Da-sein, esser-ci; e il “ci” (da) sta ad indicare il fatto che l’uomo è sempre in una situazione, gettato in essa, e in rapporto attivo nei suoi confronti.
L’Esserci, cioè l’uomo, non è soltanto quell’ente che pone la domanda sul senso dell’essere, ma è anche quell’ente che non si lascia ridurre alla nozione di essere, accettata dalla filosofia occidentale che identifica l’essere con l’oggettività, ossia, come dice Heidegger, con la semplice-presenza. Le cose sono certamente diverse una dall’altra, ma tutte sono oggetti (ob-jecta) posti davanti a me: e in questo loro essere presente la filosofia occidentale ha visto l’essere. Ma l’uomo non può ridursi ad un oggetto puro e semplice nel mondo; l’Esserci non è mai una semplice-presenza, giacché esso è proprio quell’ente per cui le cose sono presenti.
Il modo di essere dell’Esserci è l’esistenza:
«la “natura”, l”essenza” dell’Esserci consiste nella sua esistenza» questa è la novità dell’esistenzialismo.
E «i caratteri che risultano propri di questo ente non hanno nulla a che fare con le “proprietà” di un ente semplicemente-presente». La realtà, per Heidegger, è che «l’Esserci non è una semplice presenza che, aggiuntivamente, abbia il requisito di poter qualcosa, ma, al contrario, è primariamente un esser-possibile. L’Esserci è sempre ciò che può essere E...]. L’essenziale esser-possibile dell’Esserci coinvolge le modalità già caratterizzate del prendersi cura del “mondo”, dell’aver cura degli Altri […]. L’essenza dell’esistenza è data, pertanto, dalla possibilità, che non è una vuota possibilità logica né una semplice contingenza empirica.
L’essere dell’uomo è sempre una possibilità da attuare, e di conseguenza l’uomo può scegliersi, può cioè conquistarsi o perdersi. In questo senso, l’Esserci (o uomo) è «l’ente a cui ne va del suo essere» e «l’esistenza viene decisa, nel senso del possesso o del fallimento, soltanto da ogni singolo Esserci».
L’essere-nel-mondo e l’essere-con-gli-altri
L’uomo è quell’ente che si interroga sul senso dell’essere. L’uomo non può ridursi ad un puro oggetto, cioè ad un semplice esser-presente. Il modo di essere dell’uomo è l’esistenza. L’esistenza è poter-essere. Ma poter-essere vuoi dire progettare. Per questo l’esistenza è essenzialmente trascendenza, identificata da Heidegger con l’oltrepassamento. In tal modo la trascendenza non è, per Heidegger, uno fra i molti possibili comportamenti dell’uomo, bensì la sua costituzione fondamentale: l’uomo è progetto e le cose del “mondo” sono originariamente utensili in funzione del progettare umano. Tutto questo ci introduce alla trattazione di quel carattere fondamentale dell’uomo che Heidegger chiama l’essere-nel-mondo.
L’uomo è-nel-mondo. Ma siccome l’uomo è costitutivamente progetto, il mondo — a differenza di quanto pensava Husserl non è originariamente una realtà da contemplare, quanto piuttosto un complesso di strumenti “per” l’uomo, un insieme di utensili; vale a dire di cose da adoperare, alla mano, e non di cose da contemplare come presenti. L’esistenza è poter-essere, progetto, trascendenza verso il mondo: essere-nel-mondo significa, dunque, originariamente fare del mondo il progetto delle azioni e dei possibili atteggiamenti dell’uomo. La trascendenza istituisce il progetto o l’abbozzo di un mondo; essa è un atto di libertà, anzi, per Heidegger, è la libertà stessa.
Tuttavia, se è vero che qualsiasi progetto si radica in un atto di libertà, è pur vero che ogni progetto limita immediatamente l’uomo che si ritrova dipendente da bisogni e limitato dall’insieme di quegli utensili che è il mondo. Essere-nel-mondo, quindi, vuol dire per l’uomo prendersi cura delle cose che occorrono ai suoi progetti, avere a che fare con una realtà-utensile, mezzo per la sua vita e per le sue azioni.
Essendo l’Esserci costitutivamente progetto, il mondo esiste come insieme di cose utilizzabili: il mondo viene ad essere grazie al suo essere utilizzabile. L’essere delle cose equivale al loro, essere utilizzate dall’uomo. L’uomo non è pertanto uno spettatore del gran teatro del mon do: l’uomo è nel mondo, coinvolto in esso, nelle sue vicende. E trasformando il mondo, egli forma e trasforma se stesso.
L’atteggiamento teoretico e contemplativo dello spettatore disinteressato (sul quale ave va tanto insistito Husserl, e in genere la tradizione filosofica occidentale) è solo un aspetto della più ampia, anzi generale, utilizzabilità delle cose. Le cose sono sempre strumenti: se con viene, potranno essere viste come strumenti che soddisfano un piacere estetico; ma, se lo si ritiene utile, potranno venir viste “obiettivamente”, cioè scientificamente, sullo sfondo di un progetto totale. L’uomo capisce una cosa quando sa che cosa farsene, come capisce se stesso quando sa cosa può fare di sé, quando cioè sa cosa può essere.
Sulla base di siffatte considerazioni Heidegger dissolve la questione gnoseologica tipica della filosofia moderna che pone il conoscere dentro il conoscente e non riesce poi a venir fuori dal teatro interno della mente. Questo, ad avviso di Heidegger, è uno pseudo-problema che si fonda sull’idea errata secondo cui il conoscere sia una qualità interna del soggetto e sul presupposto del tutto infondato che tale conoscere sia il modo originario di rapportarsi dell’uomo al mondo.
La realtà è, invece, che il soggetto è apertura al mondo e non una monade e che il conoscere non è il modo originario del rapporto dell’uomo con il mondo. Per tutto ciò, «il problema se vi sia un mondo e se il suo essere possa venire dimostrato, come problema posto dall’uomo come esser nel mondo (e chi altro potrebbe porselo?) è privo di senso».
La conoscenza è apertura al mondo.
Se l’essere-nel-mondo (in der-Welt-sein) è un esistenziale, anche l’esser-con-gli altri (Mit-sein) è un esistenziale. Non c’è «un soggetto senza mondo», e parimenti non c’è «un io isolato senza gli altri». Husserl nella quinta delle Meditazioni cartesiane aveva proposto la fenomenologia della intersoggettività negli stessi termini in cui la pone Heidegger: gli altri non sono inferiti come altri io, essi piuttosto sono dati, proprio come altrettanti io, fin dall’origine. Essendo l’esistenza costitutivamente apertura, fin dall’origine gli altri io, in quanto tali, sono partecipi dello stesso mondo nel quale io vivo.
Per questa ragione, come è uno pseudoproblema quello della dimostrazione del mondo esterno, così è uno pseudoproblema quello del solipsismo. D’altro canto, come l’essere-nel mondo dell’uomo si esprime nel prendersi cura delle cose, così il suo essere-con-gli altri si esprime nel l’aver cura degli altri, cosa che costituisce la struttura basilare di ogni possibile rapporto tra gli uomini. E l’aver cura degli altri può prendere due direzioni: nella prima si cerca di sottrarre gli altri dalle loro cure, nella seconda li si aiuta ad acquistare la libertà di assumersi le loro cure. Nel primo caso si ha un semplice “essere insieme” e siamo davanti ad una forma inautentica di coesistenza; nel secondo caso, si ha un autentico “coesistere”.
autentica ontologica
ESISTENZA
inautentica ontica
L’essere-per-la morte, esistenza inautentica ed esistenza autentica
L’esserci c’è ed ha da essere; l’uomo cioè si trova sempre in una situazione, e fronteggia questa situazione con il suo progettare. Ma in quanto rivolge la sua “cura” al piano “ontico” o “esistentivo” cioè al piano degli enti nella loro fattualità, l’uomo rimane nell’esistenza inautentica. In questa, l’uomo adopera le cose, le utilizza, e stabilisce rapporti sociali con altri uomini. Ma tutti questi progetti, in una sorta di modo vorticoso, rigettano l’uomo al livello dei fatti. L’utilizzazione delle cose si ritrasforma in fine a se stessa. Il linguaggio allora si trasforma nella chiacchiera dell’esistenza anonima che sottostà all’assioma «la cosa sta così perché così si dice». Una siffatta esistenza anonima cerca di riempire il vuoto che la caratterizza rincorrendo di continuo il nuovo: essa annega nella curiosità. E, infine, oltre la chiacchiera e la curiosità, la terza caratteristica dell’esistenza inautentica è l’equivoco: l’individualità delle situazioni, in una esistenza divorata dalla chiacchiera e dalla curiosità, svanisce nella nebbia dell’equivoco. L’esistenza inautentica è un’esistenza anonima: è l’esistenza del “si dice” e del “si fa”.
L’analisi esistenziale rivela che l’esistenza anonima è un costitutivo poter essere dell’uomo; e alla base di tale poter essere c’è, dice Heidegger, la deiezione, vale a dire la caduta del l’uomo sul piano delle cose del mondo. Senonché, esiste la voce della coscienza che richiama all’esistenza autentica, allorché ci si pone non più sul piano “ontico” o “esistentivo” bensì su quello “ontologico” o “esistenziale” e si cerca il senso dell’essere degli enti, il senso cioè del loro esistere. La voce della coscienza riporta l’uomo travolto dalla cura davanti a se stesso, richiamandolo alla questione di ciò che egli è nel più profondo e che non può occultare. L’esistenza, come già sappiamo, è poter-essere; ed è su questo poter-essere che si fonda il progettare o trascendere dell’uomo; ma ogni progettare riporta l’uomo al livello delle cose e del mondo. Tutto ciò vuol dire che i progetti e le scelte dell’uomo sono, in fondo, tutti equivalenti: posso dedicare la mia vita al lavoro, allo studio, alla ricchezza o a qualunque altra cosa, ma posso essere uomo sia scegliendo una possibilità sia scegliendo l’altra. E per tale ragione che, considerando come ultima e decisiva una di queste scelte o possibilità, l’uomo si decide per e si disperde in una esistenza inautentica. Tuttavia, tra le varie possibilità ce n’è una diversa dalle altre a cui l’uomo non può sfuggire: si tratta della morte. Difatti, posso decidere di spendere la vita per uno scopo o per un altro, posso scegliere una professione o un’altra, ma non posso non morire. Allorché la morte diventa realtà, l’esistenza non c’è più. Ciò fa capire che, finché c’è l’esistente, la morte è una possibilità permanente ed essa è la possibilità che tutte le altre possibilità divengano impossibili. «La morte, in quanto possibilità — dice Heidegger — non dà niente all’uomo da realizzare» essa è la possibilità dell’impossibilità di ogni progetto e, con ciò, di ogni esistenza: con la morte, infatti, non ci sono altre possibilità da scegliere e ulteriori progetti da attuare.
La voce della coscienza ci richiama, dunque, al senso della morte, e svela la nullità di ogni progetto: dalla prospettiva della morte tutte le situazioni singole appaiono come possibilità che possono diventare impossibili. In questo modo la morte proibisce il fissarci su di una situazione, mostra la nullità di ogni progetto, fonda la storicità dell’esistenza. L’esistenza autentica, pertanto, è un essere-per-la-morte. E soltanto comprendendo la possibilità della morte come impossibilità dell’esistenza, soltanto assumendo questa possibilità con una decisione anticipatrice, l’uomo ritrova il suo essere autentico: l’anticipante farsi liberi per la propria morte affranca dalla dispersione nelle possibilità che si intrecciano casualmente, sì che le possibilità effettive, cioè situate al di là di quella insuperabile (della morte) possono essere comprese e scelte autenticamente.
Il coraggio dinanzi all’angoscia
Il «vivere per la morte» costituisce, pertanto, il senso autentico dell’esistenza. Il vivere per la morte» ci stacca dall’essere sommersi nei fatti e nelle circostanze. L’anticipazione della morte (che non significa affatto il realizzarla con il suicidio) dà senso all’essere degli enti, attraverso l’esperienza del loro nulla possibile. Tale esperienza, tuttavia, non si ha ad opera di un atto intellettivo, quanto piuttosto attraverso quello specifico sentimento che è l’angoscia. «L’essere per-la-morte è essenzialmente angoscia». L’angoscia pone l’uomo davanti al nulla, al nulla di senso, cioè al nonsenso dei progetti umani e della stessa esistenza: «la situazione affettiva che può tener aperta la costante e radicale minaccia intorno a se stesso, minaccia nascente dal più proprio ed isolato essere dell’esserci, è l’angoscia. In essa l’Esserci si trova innanzi al nulla della possibile impossibilità della propria esistenza».
Esistere autenticamente implica avere il coraggio di guardare in faccia alla possibilità del proprio non essere, di sentire l’angoscia dell’essere-per-la-morte. L’esistenza autentica, dunque, significa l’accettazione della propria finitezza. E questa l’accettazione cui ci richiama la voce della coscienza: l’accettazione della propria finitezza e negatività. L’esistenza inautentica e anonima, invece, ha paura dell’angoscia di fronte alla morte, talché, per sfuggire all’angoscia, l’esistenza anonima si affaccenda con le cose e sprofonda nel regno del si (man): «l’esistenza anonima e banale non ha il coraggio dell’angoscia dinnanzi alla morte». E questo si vede già nel fatto che l’esistenza anonima banalizza l’angoscia nella paura: «la paura è un’angoscia de caduta al livello del mondo, non autentica, e nascosta a se stessa come angoscia». Si ha paura sempre di qualche cosa; mentre ci si angoscia di niente: nell’angoscia è presente il nulla nella sua potenza di annullamento.
Il tempo
Dato che l’esistenza è possibilità e progettazione, tra le determinazioni del tempo (passato, presente, futuro) quella fondamentale — scrive Heidegger in Essere e tempo — è il futuro: «Il progettarsi-in-avanti sull’ “in-vista-di-se-stesso”, progettarsi che si fonda sull’avvenire, è un carattere essenziale della esistenzialità. Il suo senso primario è l’avvenire». Tuttavia, la cura, che anticipa delle possibilità, sorge dal passato e lo implica. E tra passato e futuro c’è quell’affaccendarsi con le cose che è il presente. Queste tre determinazioni del tempo trovano il loro significato nel loro esser “fuori di sé”: il futuro è un protendere, il presente è un essere presso le cose, il passato è un ritornare ad una situazione di fatto per accettarla. E questa la ragione per cui Heidegger chiama i tre momenti del tempo estasi (da intendersi in senso etimologico di “stare fuori”).
In ogni caso, le tre determinazioni del tempo mutano, ciascuna, in base al fatto che si tratti di tempo autentico o di tempo inautentico, dove il tempo autentico è quello dell’esistenza autentica e quello inautentico è tipicizzato dalla preoccupazione per il successo, è l’attenzione alla riuscita; mentre nell’esistenza autentica, che assume la morte come possibilità qualificante dell’esistenza, il futuro è un vivere per la morte che non permette all’uomo di venir travolto nelle possibilità mondane. E se il passato autentico è non l’accettare passivamente la tradizione, ma un affidarci alle possibilità che la tradizione ci offre e rivivere le possibilità dell’uomo che è già stato, il presente autentico è l’istante, in cui l’uomo ripudia il presente inautentico (dove l’uomo è assorbito senza requie nelle cose da fare) e decide il suo destino.
Da questa analisi del tempo derivano, tra altre, alcune conseguenze di rilievo nel pensiero di Heidegger. 1) I significati del tempo usati nel pensiero comune e nella scienza (la databilità e la misura scientifica del tempo) sono tempo inautentico, giacché rimandano all’esistenza gettata tra le cose del mondo. 2) L’esistenza autentica è l’esistenza angosciata che vede l’insignificanza di tutti i progetti e i fini dell’uomo.
La metafisica occidentale come oblio dell’essere e il linguaggio della poesia come linguaggio dell’essere
Il compito dichiarato di Essere e tempo è quello della determinazione del senso dell’essere. Senonché, questa interrogazione — che si è snodata nell’analitica esistenziale, cioè nell’analisi delle strutture dell’esistenza — ha dato come risultato che il senso dell’essere non si può ottenere attraverso l’interrogazione di un ente. L’analisi dell’esistenza fa vedere che l’esistenza autentica è il nulla di ogni progetto e il nulla della stessa esistenza. L’analisi dell’Esserci, cioè di quell’ente privilegiato che si pone la domanda del senso dell’essere, non rivela il senso del l’essere, bensì il nulla dell’esistenza. Queste considerazioni vengono esplicitate da Heidegger nella sua Introduzione alla metafisica (1956) che si presenta come una critica radicale alla meta fisica classica.
La metafisica classica, da Aristotele a Hegel e allo stesso Nietzsche, ha fatto ciò che l’analitica esistenziale ha mostrato essere impossibile: ha cercato il senso dell’essere indagando gli enti. La metafisica ha identificato l’essere con l’oggettività, cioè con la semplice-presenza degli enti. In questo modo essa non è metafisica ma una “fisica” assorbita dalle cose, che ha obliato l’essere, e che anzi conduce all’oblio di questo oblio. Platone, dice Heidegger, è stato il primo responsabile della degradazione della metafisica a fisica. I primi filosofi (Anassimandro, Parmenide, Eraclito) avevano concepito la verità come un dis-velarsi dell’essere, come testimonierebbe il senso etimologico del verbo greco velare preceduto dall’ privativo. Senonché, Platone ha respinto la verità come “non-nascondimento” dell’essere ed ha capovolto il rapporto tra essere e verità, fondando l’essere sulla verità, nel senso che la verità starebbe nel pensiero che giudica e stabilisce rapporti tra i propri “contenuti” o “idee”, e non nell’essere che si svela al pensiero. In tal modo l’essere dovrebbe finitizzarsi e relativizzarsi alla mente umana, anzi al suo linguaggio.
È ben vero che siamo noi a “parlare il linguaggio”, ma quel patrimonio di parole, di regole logiche, grammaticali e sintattiche che è il linguaggio pone limiti invalicabili a quel che possiamo dire. Il linguaggio dell’uomo può parlare degli enti, non dell’essere. Per questo la rivelazione dell’essere non può essere l’opera di un ente, seppur privilegiato come l’Esserci, ma può aversi soltanto attraverso l’iniziativa dell’essere stesso. Qui sta la “svolta” del pensiero di Heidegger. L’uomo non può svelare il senso dell’essere. Egli ha da essere il pastore dell’essere e non il padrone dell’ente: e la sua dignità «consiste nell’esser chiamato dall’essere stesso a far da guardia alla sua verità». Per questo occorrerà risollevare la filosofia dalla sua deformazione “umanistica” al “mistero” dell’essere, al suo originario disvelarsi. Ma dov’è che avviene questo svelarsi dell’essere? L’essere, dice Heidegger, si svela nel linguaggio, ma non nel linguaggio scientifico proprio degli enti, o nel linguaggio inautentico della chiacchiera, bensì nel linguaggio autentico della Poesia: «Il linguaggio — scrive Heidegger nella Lettera sull’umanesimo — è la casa dell’essere. In questa dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i guardiani di questa dimora». Nella forma aurorale della Poesia, la parola ha un carattere “sacrale”: la poesia, lingua originaria, dà nome alle cose e fonda l’essere. Questa fondazione dell’essere, però, non è specifica Heidegger in Hölderlin e l’essenza della poesia (1937) opera dell’uomo, bensì un dono dell’essere. Nel linguaggio del Poeta non è l’uomo che parla, ma il linguaggio stesso e in questo l’essere. Di conseguenza, il giusto atteggiamento dell’uomo nei confronti dell’essere è quello del silenzio per l’ascolto dell’essere; l’abbandono (Gelassenheit) all’essere è il solo atteggiamento corretto. L’uomo, pertanto, deve rendersi libero per la verità, concepita come svelamento dell’essere. E con ciò, libertà e verità si identificano. E, come la verità, anche la libertà è un dono dell’essere all’uomo, una iniziativa dell’essere.
La tecnica e il mondo occidentale
Sono, dunque, i “pensatori essenziali” (quali Anassimandro, Parmenide, Eraclito, Hölderlin) ad essere testimoni o ascoltatori della voce dell’essere, e non la metafisica occidentale.
Il padrone dell’ente non è il pastore dell’essere. Ma l’uomo occidentale, proprio in forza di quella “fisica” che ha preteso di essere “metafisica”, si è trasformato in padrone dell’ente. La svolta data da Platone al concetto di verità e con ciò il destino della metafisica spiegano il destino dell’Occidente con il primato della tecnica nel mondo moderno. La tecnica non è uno strumento neutrale nelle mani dell’uomo, che la può usare per il bene o per il male; né la tecnica è un evento accidentale dell’Occidente. La realtà, per Heidegger, è che la tecnica è l’esito scontato di quello sviluppo per cui l’uomo, obliando l’Essere, si è lasciato travolgere dalle cose, rendendo la realtà puro oggetto da dominare e da sfruttare. E questo atteggiamento, che non si fermerà nemmeno quando arriva come oggi accade — a minacciare le basi della vita stessa, è un atteggiamento ormai onnivoro; si tratta di una fede, della fede nella tecnica come dominio su tutto.
Caratteristiche comuni
Quando si parla di Esistenzialismo non ci si può riferire ad un particolare sistema filosofico.
Solo Sartre chiamò esplicitamente Esistenzialismo la sua filosofia.
Sia Marcel sia Heidegger, anche se in pratica erano esistenzialisti, ripudiarono di esserlo se per Esistenzialismo si intendeva la filosofia di Sartre.
Alla radice dell'Esistenzialismo si trova il pensiero di Kierkegaard, il quale ha influenzato i maggiori rappresentanti di questa corrente: Heidegger, Sartre, Marcel e Jaspers.
Unamuno è conosciuto come il Kierkegaard spagnolo. In un certo senso possono essere considerati esistenzialisti anche Socrate, Agostino e Tommaso (per Tommaso essere è esistere).
Tra le varie forme di Esistenzialismo ci sono varie differenze, ma ci sono, comunque, alcuni punti in comune.
Il tema centrale dell’Esistenzialismo è: l’esistenza precede l’essenza.
Il primato viene dato all’esistenza che diventa l’essenza dell’uomo.
L’uomo è un essere con possibilità, aperto agli altri e al mondo.
• L’Esistenzialismo è un tentativo di filosofare dal punto di vista dell’attore e non dello spettatore.
(Ad esempio Aristotele ha un atteggiamento impersonale, spettatore dell’universo; Kierkegaard, invece, pensa che la filosofia sia connessa alla vita, in risposta ai problemi personali e concreti)
• Per gli esistenzialisti il problema è sempre un problema vitale, che nasce dall’esistenza personale. L’Esistenzialismo cerca sempre di trovare una soluzione ai problemi vitali.
• Nell’Esistenzialismo manca un elemento di sistematizzazione, eccetto che in Sartre e un po’ nel primo Heidegger.
• Si cerca di risolvere i problemi dell’uomo in quanto uomo.
L’uomo è considerato come soggetto che riflette su se stesso, non come oggetto.
L’uomo è aperto agli altri, non è una monade leibnitziano (Buber scrive il suo capolavoro “Io-tu”).
L’uomo è spirito incarnato.
L’uomo è un soggetto che si autocrea, autotrascendendo, cercando di diventare sempre più se stesso.
• L’Esistenzialismo vuole illuminare l’esistenza per promuovere un’autentica e libera scelta. Già Heidegger aveva distinto tra esistenza autentica e esistenza in autentica.
• L’Esistenzialismo è una riaffermazione dell’individuo libero e si sviluppa come una protesta dell’individuo contro:
tutto ciò che minaccia la sua unicità, la sua soggettività, la sua esistenza libera;
il materialismo, il determinismo, l’idealismo, il totalitarismo politico-sociale dove l’individuo viene sommerso nella collettività;
la tendenza moderna dell’evoluzione sociale che tende ad assegnare ad ogni uomo una funzione o un ruolo particolare (l’uomo non ha nome, ma solo una funzione);
la depersonalizzazione dell’uomo;
la filosofia del pragmatismo, utilitarismo e marxismo.
• L’Esistenzialismo si propone come una via di salvezza (solo per il credente Marcel questo non è valido) sia per i credenti come Jaspers, sia anche per gli atei convinti come Sartre e Camus.
• Una caratteristica comune è la drammatizzazione dell’esistenza umana (es. Heidegger dice che l’esistenza è angoscia).
• Tutti gli esistenzialisti seguono la metodologia fenomenologica.
• Tutti parlano della distinzione tra esistenza autentica ed esistenza in autentica: per gli esistenzialisti siamo chiamati a vivere un’esistenza autentica.
Lineamenti generali
L’Esistenzialismo o Filosofia dell’esistenza è quella vasta corrente filosofica contemporanea che si afferma in Europa appena dopo la prima guerra mondiale, si impone nel periodo tra le due guerre e si sviluppa ancora e si espande sino a diventare una moda soprattutto nei due decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Se consideriamo, dunque, il tempo della sua nascita e della sua crescita, non ci vuol molto ad accorgersi che l’Esistenzialismo esprime e porta a consapevolezza la situazione storica di una Europa dilaniata fisicamente e moralmente da due guerre; di una umanità europea che, tra le due guerre, sperimenta in molte delle sue popolazioni la perdita della libertà con regimi totalitari che, benché di segno opposto, l’attraversano dagli Urali all’Atlantico, dal Baltico alla Sicilia. L’epoca dell’Esistenzialismo è un’epoca di crisi: della crisi di quell’ottimismo romantico che per tutto l’Ottocento e il primo decennio del Novecento “garantiva”, in nome della Ragione dell’Assoluto, dell’Idea o dell’Umanità, il senso della storia, “fondava” valori stabili e “assicurava” un Progresso sicuro e inarrestabile. L’Idealismo, il Positivismo e il Marxismo sono tutte filosofie ottimistiche, che presumono di aver colto il principio della realtà e l’assoluto senso progressivo della storia. L’Esistenzialismo, invece, considera l’uomo come un essere finito, “gettato nel mondo”, continuamente lacerato in situazioni problematiche o assurde. Ed è proprio dell’uomo, dell’uomo nella sua singolarità che l’Esistenzialismo si interessa. L’uomo dell’Esistenzialismo non è l’oggetto che esemplifica una teoria, un membro di una classe o un esemplare di un genere rimpiazzabile da qualsiasi altro esemplare dello stesso genere. Né l’uomo preso in considerazione dalla filosofia dell’esistenza è un semplice momento del processo di una Ragione onnicomprensiva o una deduzione del Sistema. L’esistenza è indeducibile; e la realtà non si identifica con né si riduce alla razionalità.
La non identificazione della realtà con la razionalità si accompagna come elemento caratterizzante ad altri tre punti nodali del pensiero esistenzialista che sono: 1) la centralità dell’esistenza come modo di essere di quell’ente finito che è l’uomo; 2) la trascendenza dell’essere (il mondo e/o Dio) cui l’esistenza si rapporta; 3) la possibilità come modo di essere costitutivo dell’esistenza e quindi come categoria insostituibile nell’analisi dell’esistenza stessa.
L’Esistenzialismo — dalla prospettiva della storia delle idee — si presenta come una delle manifestazioni della grande crisi dell’Hegelismo, manifestazioni che si sono espresse nel pessimismo di Schopenhauer, nell’umanesimo di Feuerbach e nella filosofia di Nietzsche e che, per altro verso, trovano il loro corrispettivo nell’opera letteraria, così intrisa di tanto profonda problematicità umana, di Dostojewskij e di Kafka.
Alla radice dell’Esistenzialismo si trova il pensiero di Kierkegaard.
La difesa del concreto
Nella prefazione al suo Mistero dell’essere (1951), Gabriel Marcel designa il suo pensiero col nome di Neosocratismo. E, in realtà, tutta la sua filosofia è pervasa da un elemento costante rinvenibile «in un’ostinata e instancabile battaglia contro lo spirito d’astrazione». Nato a Parigi nel 1889, Gabriel Marcel, al pari di Sartre, è stato, oltre filosofo, critico e autore di teatro. E al drammaturgo e filosofo Marcel «quel che importa è l’uomo concreto, determinato, che si trova in una certa situazione». Siffatta attenzione alla concretezza dell’uomo nelle sue situazioni spiega l’origine del Giornale metafisico che Marcel pubblica nel 1927 (lo stesso anno in cui appare Essere e tempo di Heidegger) e le cui prime annotazioni risalgono addirittura al 1914; ma spiega anche la natura delle sue successive opere filosofiche (oltre che del suo teatro) le quali appartengono non tanto al mondo dei sistemi ma a quello dei problemi. Le opere filosofiche di Marcel sono (a prescindere dal Giornale metafisico e da Il mistero dell’essere, già richiamati): Essere e avere (1935), Dal rifiuto all’invocazione (1939), Homo viator (1944), Gli uomini contro l’umano (1951), L’uomo problematico (1955). Marcel è morto nel 1973.
Se si guarda il pensiero di Marcel nel suo sviluppo complessivo, non si tarderà ad accorgersi che esso è attraversato da tre motivi fondamentali che di continuo si sovrappongono e si integra no: 1) la difesa della singolarità irripetibile dell’esistente e del mistero dell’Essere contro le pretese di un razionalismo che intende ridurre l’esistenza e la realtà tutta all’esperienza conosciuta attraverso il metodo della verifica empirica; 2) il riconoscimento della fondamentale inoggettivabilità del sentimento corporeo; 3) la dottrina del mistero ontologico, per la quale l’esistenza si fa autentica nella partecipazione all’Essere, partecipazione che può venir colta dall’analisi di alcuni tratti dell’esperienza cristiana quali la “fedeltà”, la “speranza” e l”amore”.
L’asimmetria tra credere e verificare
Il razionalista, in base all’idea che tutto il sapere possibile è quello e soltanto quello ottenuto e ottenibile per mezzo dei procedimenti della verifica scientifica, rigetta la fede nel mondo buio delle emozioni, nel mondo cioè dell’arbitrarietà soggettivistica. Il suo dilemma è quello del “credere o verificare”. Marcel, però, si ribella a siffatto dilemma che oppone, come se fossero antitetici, il credere al verificare, la fede alla scienza: «Sempre lo stesso dilemma. Fatto oggettivo o disposizione interiore. Tutto quello... o nient’altro che questo. Ogni volta che io lo ritrovo, ho come la sensazione di dover sollevare una montagna». La convinzione di Marcel è che il dilemma del razionalista «lascia sfuggire l’essenziale della vita religiosa e del pensiero metafisico più profondo». Il credere e il verificare non sono dunque, ad avviso di Marcel, antinomici, quanto piuttosto asimmetrici. Il verificare esclude da sé tutto un mondo (Dio, la persona, il contenuto della fede) che, sebbene inverificabile, può venir avvicinato, attraverso quella che Marcel chiama “riflessione seconda” la quale, pur non essendo un procedimento scientifico, sarebbe tuttavia un procedimento razionale.
La scienza (o il verificare) non può cogliere l’oggetto della fede che è Dio. Dio è l’inverificabile. E il credente non può dare ragione di Dio per mezzo di dimostrazioni verificabili, giacché Iddio, scrive Marcel nel Giornale metafisico, è al di là di tutte le ragioni, al di là di ogni nesso causale. Dio è l’altro dalla scienza che verifica; è l’assolutamente Altro. Se l’oggetto del la fede va oltre la scienza, anche il soggetto della fede, cioè l’individuo irripetibile nella sua situazione irrimpiazzabile, fuoriesce dal discorso scientifico verificabile. Una teoria scientifica può venir verificata da Mario, Pietro e Giuseppe; ma quel che conta, nel controllo della teoria, non è Mario nella sua irripetibile individualità o Pietro ugualmente nella singolarità eccezionale della sua esistenza: quel che conta è la verifica della teoria ripetibile da tutti. Questo è proprio quanto non può darsi nella fede: davanti a Dio, io non sono rimpiazzabile da nessuno, la mia scelta è soltanto mia. Il soggetto della fede deve al contrario essere concreto». Non solo l’oggetto della fede e il soggetto della fede sono al di là della verificazione, ma anche il fatto o la storia religiosa trascendono, per loro natura, le categorie storiografiche fondate sulla verificazione. La storia religiosa (cioè il contenuto dell’atto di fede) non può venir ingabbiata nella trama dei nessi causali. Il mondo guardato con gli occhi della fede è radicalmente diverso dal mondo letto con la grammatica della scienza. Il mondo della scienza è «il luogo di una sorta di immensa ed inflessibile contabilità», il mondo della fede è il mondo di una radicale contingenza metafisica. Per l’uomo profondamente religioso «tutto è perpetuamente rimesso in questione; nulla è acquisito; e questo non è [...] se non una maniera indiretta di definire la speranza». Non c’è sapere della Provvidenza.
Problema e metaproblema
Al fondo della asimmetria tra verificare e credere Marcel pone la distinzione — fonda mentale nella sua filosofia — tra problema e metaproblema (o mistero). La filosofia tradizionale ha voluto trattare il “problema dell’essere” come se questo fosse, pur nella sua importanza, della stessa natura degli altri problemi. Ma così facendo ha offuscato il carattere unico ed irriducibile del problema dell’essere, fino a che alcune correnti filosofiche contemporanee non l’hanno poi riposto tra gli pseudo-problemi. Ma le cose per Marcel stanno ben diversamente. Difatti, quando ci si imbatte in un problema, per es. nelle scienze fisiche, in chimica o in biologia, noi ci troviamo davanti ad un’incognita x che dobbiamo trovare a partire da un certo numero di dati cogniti (a, b, c, ecc.) applicando quell’insieme di regole procedurali di verifica che costituiscono il metodo scientifico. Talché, semplificando un po’ le cose, possiamo dire che un problema scientifico trova la sua formulazione standard nella formula della più semplice equazione algebrica: a x = b. Senonché, quando noi ci poniamo il problema dell’essere, il problema cioè del senso della realtà e di noi stessi, tutti i dati scompaiono in quanto tali: tutto diventa problematico, la realtà, gli altri, io stesso che mi interrogo. Ma, così, un problema, dove tutti i dati sono incogniti, finisce per svanire come problema. Anche Heidegger ha notato che, nella do manda metafisica, l’esistenza dell’uomo che pone la domanda diventa problema essa stessa: la domanda metafisica coinvolge lo stesso domandante. Al pari di Heidegger, Marcel osserva in Essere e avere che la riflessione sul problema ontologico gli schiude un abisso: «Io stesso che mi interrogo sull’essere, non so inizialmente se io sono, né a fortiori che cosa sono [...]; vediamo dunque che il problema dell’essere si allarga sui propri dati, e si approfondisce all’interno dello stesso soggetto che lo pone. Con ciò stesso si nega (o si trascende) come problema e si trasforma in un mistero».
Il problema dell’essere, quindi, non è propriamente un problema, esso è un metaproblema. E la scoperta del metaproblema ci fa capire, secondo Marcel, che oltre il problema che noi comprendiamo c’è il mistero che ci comprende. «Il problema è qualcosa che si incontra, che ci sbarra la strada. E interamente innanzi a me. Il mistero, al contrario, è qualcosa in cui mi trovo impegnato, la cui essenza quindi implica che non possa trovarsi tutto intero dinnanzi a me». Il mistero e l’ontologico coincidono nel pensiero di Marcel, anche se molti metafisici tradizionali hanno disconosciuto questo fatto ed hanno degradato il “mistero” ontologico a “problema” ontologico.
E ovvio che, se le cose stanno così, «gli approcci concreti al mistero ontologico non dovranno essere cercati sul piano del pensiero logico [...] ma invece nella elucidazione di certi dati propriamente spirituali, come la fedeltà, la speranza, l’amore». Difatti, non si può essere fedeli, non possiamo impegnare sul serio il nostro futuro, se non attraverso la garanzia religiosa di un Tu assoluto. La fedeltà autentica, «una fedeltà assoluta presuppone una Persona assoluta», che ci crea e ci chiama ad essere persona e ci dà la responsabilità di essere fedeli o di tradire. Analogamente, la speranza autentica non è evasione, ma si rivela come «una volontà il cui punto di applicazione sarebbe collocato all’infinito». La speranza autentica è «una speranza assoluta» per la quale è essenziale, «quando fosse stata delusa sul terreno del visibile, di rifugiarsi sopra un piano dove non potrà più patire delusioni». In questo senso la speranza vera è quella del malato che ha compreso che tutto può non essere perduto anche se la guarigione non verrà. La speranza appare così come «l’arma degli inermi, o più esattamente essa è addirittura il contrario di un’arma, ed è in ciò che consiste misteriosamente la sua efficacia». D’altro canto, fa presente Marcel, è nell’amore che si annodano insieme la fedeltà e la speranza. Si spera perché si ama. E la formula più adeguata della speranza è: «Io spero in Te per noi».
Il discorso su Dio non è dunque fattibile per Marcel attraverso argomentazioni logiche in grado, per es., di approdare alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, quanto piuttosto, scoprendo il metaproblematico, si capisce che il mistero ci comprende. Il mistero non possiamo comprenderlo e dominarlo: non si capisce il mistero. Quel che possiamo però fare è compiere l’analisi dei nostri modi di partecipazione ad esso, come è il caso delle esperienze cristiane della fedeltà, della speranza e dell’amore. In breve, l’unico modo di parlare di Dio è l’invocazione, cioè parlare a Dio. Dio non si dimostra, si invoca.
Avere ed essere
Affinché la persona riscopra se stessa e si renda quindi disponibile al mistero dell’Essere, deve fare una torsione su se stessa e capovolgere la gerarchia che il mondo moderno e contemporaneo hanno fissato tra la categoria dell’avere e quella dell’essere. Secondo la metafisica del l’avere, si vale per quel che si ha e non per quello che si è, e il mondo e gli altri sono unicamente oggetti di un possesso sempre più vasto. Alla nascita e allo sviluppo di questo atteggiamento non è estranea, secondo Marcel, la mentalità oggettivante del razionalismo scientifico e tecnico per la quale «il mondo stesso tende [...] ad apparire talora come un semplice cantiere di sfruttamento, talaltra come uno schiavo addormentato». Senonché, mentre colui che possiede tenta, con ogni mezzo, di trattenere, conservare ed aumentare la cosa posseduta, questa, essendo soggetta al logorio e alle vicende del tempo, può sfuggire e diventa così il centro dei timori e delle ansietà di chi vuole possederla. «Ciò che vi è di più paradossale in questa situazione — scrive Marcel in Essere e avere — è che al limite sembra che io stesso mi annienti in questo attaccamento, che io venga ad essere assorbito in questo corpo a cui aderisco: sembra letteralmente che il mio corpo mi divori, e lo stesso accade in tutti i miei possessi che sono ad esso in qualche misura agganciati o sospesi [...]. Così l’avere in quanto tale sembra al limite tendere ad annullarsi nella cosa originariamente posseduta, ma che ora assorbe quello stesso che credeva di disporre di essa. Sembra proprio che sia dell’essenza del mio corpo o dei miei strumenti, in quanto li tratto come oggetti di possesso, di tendere a sopprimere il mio io che li possiede». La realtà, sotto il segno della categoria dell’avere, cessa di essere vita, mistero e gioia creatrice, e si trasforma in una voragine di oggetti che assorbe inesorabilmente chi li vuole possedere.
Scrivere per capirsi
Testimone attento ed acuto del nostro tempo, Jean-Paul Sartre, nato a Parigi nel 1905, compiuti gli studi alla Scuola Normale Superiore, ha insegnato filosofia nei licei di Le Havre e di Parigi sino all’inizio dell’ultima guerra, ad esclusione di un periodo trascorso a Berlino (1933-1934) dove studiò la Fenomenologia e scrisse La trascendenza dell’Ego. Richiamato alle armi, venne fatto prigioniero dai Tedeschi e deportato in Germania. Tornato poco dopo in Francia, fondò, assieme a Merleau-Ponty, il gruppo di resistenza intellettuale “Socialismo e libertà”. Nell’immediato dopoguerra, il suo pensiero si è imposto, per due decenni circa, al pubblico mondiale (grazie soprattutto al suo “teatro di situazioni”), influendo ampiamente sulla società e sul costume. Negli ultimi due decenni l’attività di Sartre non ha conosciuto requie: i viaggi politici (come quello a Cuba, dove ha incontrato Fidel Castro e Che Guevara; e quello a Mosca, dove è stato ricevuto da Kruscev) non gli hanno impedito il frenetico lavoro di filosofo, romanziere, saggista, drammaturgo, conferenziere e sceneggiatore cinematografi co. Sartre è morto nel 1980.
Simone de Beauvoir, che sarà la compagna della sua vita, fu colpita fin dall’inizio dalla «passione tranquilla e forsennata» con cui Sartre guardava al suo destino di pensatore e di scrittore. «Certo — ricorda Simone de Beauvoir ne L’età forte non si proponeva di condurre un’esistenza d’uomo di studio; detestava le routines e le gerarchie, le carriere, i focolari, i diritti e i doveri, tutto il serio della vita. Non si adattava all’idea di fare un mestiere, di avere dei colleghi, dei superiori, delle regole da osservare e da imporre; non sarebbe mai divenuto un padre di famiglia, e nemmeno un uomo sposato».
Il destino e il compito di Sartre sono stati quello dello scrittore. Alla fine de Le parole (1964), volume in cui Sartre rievoca la sua infanzia, egli confessa: «Scrivo sempre. Che c’è da fare di diverso? Nulla dies sine linea. E la mia abitudine, e poi è il mio mestiere».
Sartre ha consegnato il suo pensiero sia in romanzi (La nausea, 1938; L’età della ragione, 1945; Il rinvio, 1945; La morte nell’anima, 1949) sia in scritti per il teatro (Le mosche, 1943; A porte chiuse, 1945; La sgualdrina timorata, 1946; Le mani sporche, 1948; Il diavolo e il buon Dio, 1951; Nekrassov, 1956; I sequestrati di Altona, 1960), sia nel pamphlet politico (L’antisemitismo, 1946; I comunisti e la pace, 1952), oltre che in opere di pura natura filosofica (delle quali la più importante è L’essere e il nulla. Saggio di un’ontologia fenomenologica, 1943; e, tra le quali, non possiamo dimenticare: La trascendenza dell’Ego, 1936; L’immaginazione, 1936; Saggio di una teoria delle emozioni, 1939; L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, 1940). Del ‘46 è il saggio L’esistenzialismo è un umanismo; nel ‘60 è apparsa la Critica della ragione dialettica.
La nausea di fronte alla gratuità delle cose
Sartre inizia la sua attività di pensatore con analisi di psicologia fenomenologica concernenti l’io, l’immaginazione e le emozioni. Sartre riprende da Husserl l’idea di intenzionalità della coscienza. Tuttavia egli rimprovera ad Husserl di essere caduto, con il suo soggetto trascendentale, nell’idealismo e nel solipsismo. Ne La trascendenza dell’Ego Sartre afferma che «l’io non è un abitante della coscienza» che esso non è «nella coscienza ma è fuori, nel mondo: è un ente del mondo come l’io di un altro». E si compiace di «aver rituffato l’uomo nel mondo [...] restituendo alle sue angosce e alle sue sofferenze, e anche alle sue rivolte, tutto il loro peso». Per Husserl, l’io porta con sé l’immagine delle cose, il fantasma idealistico del mondo; ma Sartre ne L’essere e il nulla obietta che «un tavolo non è nella coscienza, neppure a titolo di rappresentazione. Un tavolo è nello spazio, vicino alla finestra ecc. [...]. Il primo passo che ha da fare la filosofia è proprio quello di espellere le cose dalla coscienza e di ristabilire il vero rapporto di questa col mondo, cioè che la coscienza è coscienza posizionale del mondo» L’uomo, dice Sartre, è l’essere la cui apparizione fa sì che esista un mondo. Il mondo non è la coscienza. La coscienza è apertura al mondo; la coscienza è incarnata nella densa realtà dell’universo; il mondo può essere visto come un insieme di utensili. Ma il mondo non è l’esistenza. E quando l’uomo non ha più scopi, il mondo resta privo di senso.
La nausea è il sentimento che ci invade quando si scopre l’essenziale contingenza e l’assurdità del reale.
«L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è esser lì, semplicemente; gli esseri appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre [...]. Non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità». E qui che Sartre voleva arrivare: «Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare... ecco la Nausea».
La vita è priva di senso; nessuno scopo riesce più ad orientarla; l’uomo esiste come una cosa, come tutte le cose che emergono, nell’esperienza della nausea, nella loro gratuità e assurdità: un soggetto senza senso cancella di colpo il senso di tutte le cose e vengono a mancare le istruzioni per il loro uso. La nausea di Sartre non è lontana dall’angoscia di Heidegger.
L”in-sé (en-soi) e il per-sé (pour-soi)”; l”essere” e il ‘‘nulla”
Se l’esperienza della nausea rivela la gratuità delle cose e dell’uomo ridotto a cosa e sommerso nelle cose, le analisi sviluppate ne L’essere e il nulla rivelano, prima di tutto, che la coscienza è sempre coscienza di qualcosa: di qualcosa che non è coscienza. L’ispezione dell’esperienza ci mostra, in altre parole, che sin dall’inizio l’essere-in-sé, cioè gli oggetti che trascendono la coscienza, non sono la coscienza. Io ho coscienza degli oggetti del mondo, ma nessuno di questi oggetti è la mia coscienza: la coscienza «è un nulla d’essere e insieme un potere nullificante, il nulla». Il mondo è l’«in-sé», è il dato «impastato di se stesso», «opaco a se stesso perché pieno di se stesso» assolutamente contingente e gratuito (come appunto rivela la nausea).
Di fronte all’«in-sé» sta la coscienza, che Sartre chiama il «per-sé». La coscienza è nel mondo, nell’essere-in-sé, ma è radicalmente diversa da esso, non è legata ad esso. La coscienza, che è poi l’esistenza o l’uomo, è pertanto assolutamente libera. L’«in-sé» è «l’essere che è ciò che è»; la coscienza non è un oggetto. L’essere è pieno e compiuto; la coscienza è vuota di essere, è possibilità: e la possibilità non è realtà. La coscienza è libertà.
«La libertà — scrive Sartre ne L’essere e il nulla — non è un essere; essa è l’essere dell’uomo, cioè il suo niente d’essere». La libertà è costitutiva della coscienza: «Io sono condannato ad esistere per sempre al di là dei moventi e dei motivi del mio atto: io sono condannato ad essere libero. Ciò significa che non si possono trovare alla mia libertà altri limiti che la libertà stessa; o, se si preferisce, che non siamo liberi di cessare di essere liberi».
L’uomo, una volta gettato nella vita, è responsabile di tutto ciò che fa, del progetto fondamentale, cioè della sua vita. E nessuno ha scuse: se si fallisce, si fallisce perché si è scelto di fare fallimento. Cercare delle scuse significa essere in malafede: la malafede presenta il voluto come necessità inevitabile. Sartre ha analizzato con finezza le astute finzioni della malafede. L’uomo è ciò che progetta di essere.
L’uomo, quindi, si sceglie; la sua libertà è incondizionata; ed egli può mutare il suo progetto fondamentale ad ogni momento. E come la nausea costituisce quell’esperienza metafisica che svela la gratuità e l’assurdità delle cose, così l’angoscia è l’esperienza metafisica del nulla, cioè della libertà incondizionata. L’uomo, e solo l’uomo, infatti, è «l’essere per cui tutti i valori esistono».
Le cose del mondo sono gratuite e un valore non è superiore ad un altro. Le cose sono prive di senso e fondamento, e le azioni degli uomini senza valore. La vita, insomma, è un’avventura assurda, dove l’uomo si proietta di continuo al di là di se stesso, come per voler diventare Dio. «L’uomo —scrive Sartre — è l’essere che progetta di essere Dio», ma in realtà egli si mostra per quello che è: «una passione inutile». «La libertà, leggiamo ancora ne L’essere e il nulla, consiste nella scelta del proprio essere. E questa scelta è assurda».
L”essere-per-altri”
L’uomo o essere-per-sé è anche essere-per-altri (être-pour-autrui). L’altro non ha bisogno di venir inferito analogicamente a partire da me stesso. L’altro si rivela come altro in quelle esperienze in cui egli invade il campo della mia soggettività e da soggetto mi trasforma in oggetto del suo mondo. L’altro, insomma, non è colui che è veduto da me quanto piuttosto colui che mi vede, colui che mi si fa presente, al di là d’ogni dubbio, tenendomi sotto l’oppressione del suo sguardo. Sartre analizza con abilità magistrale quelle esperienze tipiche dello sguardo- altrui, che sono in genere le esperienze dell’inferiorità, quali la vergogna, il pudore, la timidezza. Quando d’improvviso nel mondo della mia coscienza entra un altro, la mia esperienza viene modificata, non ha più il suo centro in me, mi ritrovo come elemento di un progetto che non è il mio e non mi appartiene. Lo sguardo altrui mi fissa e mi paralizza, mentre fino a quando l’altro era assente, io ero libero, ero cioè soggetto e non oggetto. Quando appare l’altro, pertanto, nasce il conflitto: «il conflitto è il senso originale dell’essere-per-altri». «La mia caduta originale dice ancora Sartre è l’esistenza dell’altro». E a uno dei personaggi di A porte chiuse egli fa pronunciare la famosa espressione: l’inferno sono gli altri».
Tanto per esplicitare il pensiero di Sartre su questo punto, accenniamo alla sua analisi della vergogna. Se io sono solo non mi vergogno. Mi vergogno quando appare un altro che, con la sua presenza, mi riduce ad oggetto, ad un “in-sé”. In questo senso, «la vergogna pura non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto reprensibile, ma di essere un oggetto in generale, cioè di riconoscermi in quest’oggetto degradato, dipendente e fisso, che io sono per gli altri. La vergogna è il sentimento di caduta originale, non perché io abbia commesso questa o quella colpa, ma solo perché sono caduto nel mondo, in mezzo alle cose». E cado nel mondo ad opera dello sguardo altrui. Per questo il conflitto è il senso originale dell’essere-per-altri: gli uomini tendono ad asservire per non restare asserviti. Ciò è anche quanto accade nell’amo re: amare è, nella sua essenza, il progetto c farsi amare è una rivincita su chi vuol fare di noi un suo strumento; è un cercare di fare prigioniera la volontà altrui che tenta di paralizzar ci. E se l’amore è un progetto carico di egoismo e diretto a negare la libertà dell’altro, nell’odio io riconosco la libertà dell’altro, ma la riconosco come opposta alla mia e cerco di negarla. E come nell’amore l’altro si fa carne per chi diventa carne per lui, per cui il mio possesso del l’altro mi fa, a sua volta, diventare possesso altrui; così l’odio omicida mi degrada per sempre ad assassino. L’amore e l’odio rappresentano i due tipi di relazione fondamentali nei confronti degli altri. E tutti e due sono votati allo scacco. L’uomo è una passione; ma una passione inutile. E «ciascuno di noi è un carnefice per gli altri».
L’Esistenzialismo è un umanesimo
Negli anni successivi a L’essere e il nulla Sartre ha sempre più smorzato, come vedremo tra poco, il tono disperato della sua prima filosofia. La possibilità di un senso meno negativo della coesistenza umana è già accennata nel saggio L’esistenzialismo è un umanismo, pubblicato nel 1946 per rispondere soprattutto a quei Marxisti che avevano accusato la dottrina di Sartre sulla libertà di «gratuità gidiana». Pure in questo scritto Sartre identifica l’uomo con la sua libertà; l’uomo non è affatto soggetto al determinismo; la sua vita non somiglia a quella di una pianta, il cui futuro è già scritto nel seme; l’uomo è il demiurgo del suo avvenire. L’uomo, insomma, non è un’essenza fissa: egli, piuttosto, è ciò che progetta di essere. In lui, l’esistenza precede l’essenza. Ora, però, se, in realtà, l’esistenza precede l’essenza, non sarà mai possibile spiegarla in riferimento ad una natura umana data e immodificabile; in altre parole, non c’è determinismo, l’uomo è libero, l’uomo è libertà». D’altro canto, «se [...] Dio non esiste, noi non troviamo innanzi a noi dei valori e degli ordini in grado di legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo, né dietro a noi né dinnanzi a noi, in un dominio luminoso di valori, delle giustificazioni o delle scuse. Siamo soli, senza scuse. E ciò che esprimerò con le parole che l’uomo è condannato ad essere libero. Condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa». La libertà difesa da Sartre è una libertà assoluta, e la responsabilità che egli, di conseguenza, attribuisce all’uomo è totale.
Critica della ragione dialettica
La mia libertà, però, non dipende solo da quella degli altri. Essa è anche condizionata da precise situazioni con le quali i progetti fondamentali degli uomini debbono fare i conti. E su questa base che Sartre affronta la questione dei rapporti tra il suo Esistenzialismo e il Marxismo. In realtà, afferma Sartre, «dire di un uomo ciò che egli è, significa dire ciò che egli può e reciprocamente: le condizioni materiali della sua esistenza circoscrivono il campo delle sue possibilità [...] così il campo del possibile è lo scopo verso il quale l’agente oltrepassa la sua situazione obbiettiva. E questo campo, a sua volta, dipende strettamente dalla realtà sociale e storica». Da ciò si capisce perché Sartre affermi con decisione di aderire senza riserve alla teoria del materialismo storico per la quale, come dice Marx, «il modo di produzione della vita materiale domina in generale lo sviluppo della vita sociale, politica e intellettuale». Ma se Sartre aderisce al materialismo storico, egli rifiuta però il materialismo dialettico. Il Marxismo, insomma, non è affatto, per Sartre, «il materialismo dialettico, se per questo s’intende l’illusione metafisica di scoprire una dialettica della Natura. Questa dialettica può effettivamente esistere, ma bisogna riconoscere che non ne abbiamo la benché minima prova. Perciò il materialismo dialettico si riduce ad un discorso ozioso e presuntuoso sulle scienze fisico-chimiche e biologiche, e serve solamente a dissimulare, almeno in Francia, il più trito meccanicismo analitico».
Scienza e filosofia
Insieme ad Heidegger, Karl Jaspers (Oldenburg 1883-Basilea 1969) è l’altro grande pensatore dell’Esistenzialismo tedesco. Jaspers, laureato in medicina, considerò Max Weber (da lui conosciuto nel 1909) come suo maestro. Professore di filosofia all’Università di Heidelberg fino al 1937 (quando vi fu cacciato per il suo antinazismo), dopo aver pubblicato nel ‘13 la Psicopatologia generale (dove i fenomeni psicopatologici sono analizzati con metodo fenomeno logico), dà alle stampe nel 1919 la Psicologia delle intuizioni del mondo, opera che, contenendo i temi fondamentali sviluppati da Jaspers nei suoi successivi lavori, può considerarsi come il primo scritto della Filosofia dell’esistenza.
In ogni caso, l’opera centrale e di maggior rilievo di Jaspers resta la Filosofia (1932), consistente in tre volumi: 1) Orientamento filosofico nel mondo; 2) Chiarificazione dell’esistenza; 3) Metafisica. In seguito comparvero: Ragione ed esistenza (1935), Nietzsche (1936), Descartes e la filosofia (1937), Filosofia dell’esistenza (1938), La verità (1947), La fede filosofica (1948), Origine e fine della storia (1949), Introduzione alla filosofia (1950). Filosofo di elevata sensibilità morale, si oppose con coraggio al nazismo, e, convinto che «non c’è grande filosofia senza pensiero politico» ha scritto sul problema della bomba atomica e sulla Colpa della Germania (1946), opuscolo quest’ultimo che Jaspers conclude ricordando Geremia il quale non dispera nemmeno dopo la distruzione di Gerusalemme e la deportazione degli Ebrei: «Che significa ciò? si chiede Jaspers. Significa che Dio c’è, e tanto basta. Se tutto svanisce, Dio c’è: questo è l’unico punto fermo per noi».
Jaspers, dunque, è venuto alla filosofia partendo dalla medicina. L’interesse per la scienza è stato sempre vivo nella sua speculazione, tanto che egli è arrivato a dire che, se non deve esistere «torbida contaminazione» tra scienza e filosofia, tuttavia «la filosofia e la scienza non sono possibili l’una senza l’altra». Da una parte, infatti, «la via della scienza è indispensabile per la filosofia, perché soltanto la conoscenza di questa via impedisce che un’altra volta si affermi, in un modo poco chiaro ed oggettivo, esservi nella filosofia la conoscenza oggettiva delle cose, che ha invece la sua sede nella ricerca metodicamente esatta». E la scienza che ci fornisce conoscenze chiare sui dati di fatto e «se al filosofo mancasse l’affiatamento con le scienze, egli rimarrebbe senza conoscenza chiara del mondo, come cieco». D’altro canto, anche la scienza ha bisogno della filosofia. «La filosofia — scrive Jaspers in Filosofia dell’esistenza — fa presa sulle scienze in tale modo da rendere realmente presente l’intimo senso loro, la filosofia che vive nelle scienze dissolve il dogmatismo sempre rinnovantesi della scienza stessa (questo sur rogato così poco chiaro della filosofia), ma soprattutto la filosofia diviene la garante consapevole dello spirito scientifico contro l’ostilità della scienza». La filosofia e la scienza, quindi, non debbono contaminarsi. L’una però non vive senza l’altra,eppure non dobbiamo dimenticare che «l’attività filosofica non può essere né identica né antinomica al pensiero scientifico».
L’orientazione nel mondo e il “tutto-abbracciante”
Ma che cos’è la scienza, o meglio l’atteggiamento scientifico, di cui parla Jaspers? Ebbene, per Jaspers, l’atteggiamento scientifico è innanzi tutto caratterizzato dalla consapevolezza metodologica dei limiti di validità della scienza e, oltre a ciò, «l’atteggiamento scientifico è la pronta disposizione dell’indagatore ad accettare ogni critica alle sue opinioni. Per l’indagatore la critica è una condizione di importanza vitale. Egli non può essere mai abbastanza criticato, alfine di provare la sua perspicacia. Anche l’esperienza di una critica ingiustificata agisce in modo produttivo per un vero ricercatore. Colui che si sottrae alla critica non vuole “sapere” nel senso proprio della parola [...]».
Stabilite siffatte premesse, Jaspers fissa con estrema lucidità i limiti del sapere scientifico. Tali limiti possono essere così brevemente caratterizzati:
a) «La conoscenza scientifica delle cose non è conoscenza dell’essere». La conoscenza scientifica si riferisce ad oggetti determinati; essa «non sa che cosa è l’essere stesso».
b) «La conoscenza scientifica non è in grado di dare nessuna direzione per la vita. Non stabilisce valori validi; la scienza come scienza non può guidare la vita; per la sua chiarezza e decisione essa rimanda ad un altro fondamento della nostra vita».
c) «La scienza non può dare nessuna risposta alla domanda riguardante il suo vero e proprio senso: il fatto che la scienza esista è basato su impulsi che non possono essere neppure essi dimostrati scientificamente come veri e come tali da dover esistere».
La ricerca scientifica, dunque, non può, per quello che essa è e fa, stabilire il senso dell’essere; è incapace di fondare stabili valori; non è in grado di dimostrare la necessità della sua esistenza (ci sono state e ci sono, dopotutto, culture non scientifiche). La conoscenza scientifica è oggettiva nel senso che vale per tutti; e tuttavia essa non risolve tutti i problemi, anzi esclude proprio quelli che per l’uomo sono i più importanti. La conoscenza scientifica è conoscenza degli oggetti di fatto e Jaspers la chiama orientazione nel mondo. «Si chiama orientazione perché, continuamente inconclusa, resta un processo infinito, e si chiama orientazione nel mondo perché si costituisce come il sapere intorno ad un determinato essere, e precisamente quello che è nel mondo». La scienza, come orientazione nel mondo, è e resta inconclusa, è sempre conoscenza di un determinato oggetto nel mondo e il mondo come “totalità” rimane sempre al-di-là di essa: «nessun essere saputo scrive Jaspers è l’essere». Certo, si operano delle sintesi scientifiche via via più ampie, si va verso orizzonti sempre più vasti, ma questo movimento procede necessariamente all’infinito, al pari del cammino di chi volesse raggiungere l’orizzonte fisico, il quale si sposta, appunto, con chi cammina. Il senso dell’essere, la comprensione della totalità onnicomprensiva determina quindi lo “scacco” della ricerca. L’assoluto è sempre al-di-là: al-di-là di ogni orizzonte scientifico. «Se voglio afferrare l’essere in quanto essere - scrive Jaspers nella sua Filosofia - sono irrimediabilmente votato al naufragio». E ciò per la ragione che «nel processo dell’indagine oggettiva noi ci accostiamo, volta per volta, ad apparenti totalità, le quali però non ci si dimostrano mai come l’essere pieno ed autentico, ma devono, invece, essere oltrepassate in estensioni sempre nuove». Questo rende conto del fatto che «l’essere non ci può essere dato rinchiuso e gli orizzonti sono per noi illimitati. L’essere ci trascina in tutti i sensi verso l’infinito». Noi vogliamo conoscere l’essere, ma «esso sempre indietreggia e si allontana». Questo essere Jaspers lo chiama il tutto-abbracciante: «Il tutto abbracciante è dunque ciò che sempre e continuamente si annunzia a noi, e ci si annunzia non in quanto ci venga innanzi esso stesso, ma in quanto è la scaturigine di ogni altra cosa».
L’inoggettivabilità dell’esistenza
Senonché, oltre l’intelletto (cioè la scienza), c’è la ragione. E proprio alla ragione Jaspers affida quella illuminazione-della-esistenza in cui consiste la filosofia. «C’è un pensare, scrive Jaspers, in cui non viene conosciuto niente che abbia validità universale e costringa all’assenso, ma che può rivelare dei contenuti che servono di sostegno e di norma per la vita. Questo pensare penetra e si fa strada, illuminando e non già conoscendo […] Il pensiero in tal caso non mi procura conoscenze di cose finora estranee a me, ma mi rende chiaro quel che io vera mente intendo e quel che io veramente voglio e quel che io veramente credo. Il pensiero in tal caso mi crea e mi determina il fondo chiaro della mia autocoscienza».
Non è difficile notare come Jaspers faccia sua, interpretandola con libertà, la distinzione hegeliana tra intelletto e ragione. Ed in base a siffatta distinzione egli prende le distanze sia dai razionalisti che, in nome della scienza, rifiutano tutto il resto (religione, morale, ecc.) rigettandolo nel regno della soggettività emotiva, arbitraria ed istintuale, sia degli irrazionalisti che «portano alle stelle» quel che dai razionalisti viene disprezzato. Agli intellettualisti Jaspers fa presente che «l’esattezza pura e semplice non ci appaga», e agli irrazionalisti rimprovera la loro inconsistente «ebbrezza di vitalismo».
Dunque: «la verità è qualcosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica», e la filosofia è quell’atteggiamento o quella attività che chiarisce l’esistenza portandola alla coscienza di se stessa e alla comunicazione con le altre esistenze. L’uomo può essere studiato (attraverso la biologia, la psicologia, la sociologia, ecc.) come un oggetto del mondo. Ma questo studio, dice Jaspers, lascia e sempre lascerà fuori da sé l’esistenza. L’esistenza nella sua concretezza, singolarità ed irripetibile eccezionalità non può essere oggetto o esemplare indifferente e rimpiazzabile di teorie o discorsi universali. L’esistenza è sempre la mia esistenza, singola ed inconfondibile, come hanno visto Kierkegaard e Nietzsche. Costoro, afferma Jaspers, «hanno posto in questione la ragione in base alla profondità dell’assistenza»; Kierkegaard in nome del la fede, Nietzsche in nome dell’affermazione di un uomo nuovo. Per l’uno e per l’altro «capire se stessi è E...] la via alla verità». Ma non alla verità oggettivante, anonima perché valida per tutti, della scienza, bensì alla verità dell’esistenza, della mia esistenza. E questa la ragione — sostiene Jaspers — per cui, «mentre tutti i filosofi posthegeliani perdono sempre più terreno, Nietzsche e Kierkegaard ci appaiono oggi come i veri ed autentici grandi pensatori del loro tempo». Tale è, dunque, il primo importante risultato della filosofia intesa quale chiarificazione dell’esistenza: l’esistenza è inoggettivabile; nella sua autenticità, non può venir identificata con un Dasein (essere) empirico, con un dato di fatto comprensibile dell’intelletto scientifico. L’esistenza non è un indifferente dato di fatto, è «una questione personale». «Io sono esistenza, dice Jaspers, in quanto non divento oggetto. In essa mi so indipendente senza poter intuire che cosa sono. Della sua possibilità vivo; solo nel realizzarla sono io». L’uomo non è dato, non è un dato di fatto; egli può essere. Ma che cosa può essere l’uomo? La sua scelta, afferma Jaspers, sta soltanto nel riconoscimento e nell’accettazione di quella possibilità — che è l’unica possibilità — che è la situazione in cui l’uomo si trova: «il mio io è identico con il luogo della realtà in cui mi trovo».
La mia situazione si identifica con me stesso: non posso essere se non ciò che sono e non posso divenire se non quel che sono: «Io sono in una situazione storica se mi identifico con una realtà e con il suo compito immenso [...] Io posso appartenere soltanto ad un unico popolo, posso avere soltanto questi genitori e non altri, posso amare soltanto un’unica donna». Certo, io posso tradire: ma se io tradisco (tentando di appartenere ad un altro popolo, amando un’altra donna, disconoscendo i miei genitori), io tradisco me stesso, giacché io sono la mia situazione e questa è una realtà intrascendibile. Io posso diventare solo ciò che sono; e l’unica scelta autentica sta nella consapevolezza e nell’accettazione della situazione in cui si è. La libertà non è lo strumento di alternative, essa assomiglia all’amor fati di Nietzsche.
Il naufragio dell’esistenza e le cifre della trascendenza
L’inoggettivabiità dell’esistenza e la sua storicità sono, pertanto, i primi due risultati cui conduce l’illuminazione dell’esistenza. E ciò mostra che esistenza e ragione «non sono due potenze in lotta», ma che «ognuna è per virtù dell’altra, e nell’atto di compenetrarsi si danno reciprocamente realtà e chiarezza». Ma le cose non si fermano qui, poiché l’esistenza rimanda necessariamente alla trascendenza. Difatti, l’esistenza consapevole si accorge che ogni cosa ha una fine: «Le mete raggiunte col mutare delle condizioni sociali, diventano insostenibili, e crollano. Tutte le possibilità a cui si possa pensare vengono ad esaurirsi. I vari assetti della vita spirituale, si smorzano. Quanto ci fu di grande, andò perduto». Nessun fatto è eterno, nessuna istituzione resiste stabilmente nel tempo. «Alla fine c’è il naufragio». Il naufragio è in agguato non solo per le cose e le istituzioni, ma anche per «tutto quello che, in generale, viene effettuato e raggiunto col pensiero». E — prosegue Jaspers se lo guardiamo dal punto di vista della scienza, «naufraga […] il mondo stesso in quanto esserci, per la ragione che non può essere compreso per se stesso e in base a se stesso».
Ebbene, dinanzi alla consapevolezza del naufragio del mondo e degli enti del mondo, si afferma l’evidenza che questi possono valere come cifre della trascendenza. Non ci fanno conoscere la trascendenza, poiché questa non è conoscibile come gli enti del mondo, ma ci rinviano ad essa come all”Altro” di cui essi sono portatori. In questo senso, per l’esistenza “rischiarata” dalla Ragione, il mondo e gli enti del mondo sono il linguaggio cifrato della trascendenza.
La trascendenza, però, si rivela soprattutto in quelle che Jaspers chiama situazioni-limite, dove appunto il termine limite sta ad indicare qualcosa che trascende l’esistenza: «situazioni come quelle di esser sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e senza dolore, di dovere assumere una irrimediabile colposità, che debbo morire, costituiscono quelle che io chiamo situazioni-limite. Esse non subiscono mutamenti sostanziali, ma solo fenomenici; rispetto al nostro esserci hanno il carattere della definitività. Non sono trasparenti; nel nostro esserci non ci è dato di scorgere nulla al di là di loro. Sono come un muro contro il quale urtiamo e naufraghiamo. Da parte nostra non possiamo modificarle, ma soltanto portarle a chiarezza [...]». Sono sempre in situazione, non posso vivere senza lotta e dolore, sono destinato alla morte: queste situazioni sono immutabili, definitive, irriducibili, intrasformabili, sono come un muro in cui urtiamo fatalmente. L’unica cosa che possiamo fare è quella di chiarificarle. E nella chiarificazione vediamo che in tali situazioni «il vero io, quello che veramente vuoi essere se stesso, non può reggersi da solo». L’esistenza fa naufragio. E «quando l’io fallisce nel suo voler bastare a se stesso, si può dire che è pronto per quello che è l’altro di fronte ad esso, cioè per la Trascendenza». Le situazioni-limite con la loro perentorietà, invalicabilità, definitività, lasciano intravvedere, ad una esistenza finita e destinata al naufragio, ciò che la trascende. «Io — afferma Jaspers non sono me stesso senza la trascendenza». La trascendenza viene appunto intravvista e non conosciuta; essa trascende le regole del discorso scienti fico; parla un linguaggio diverso da quello della scienza; e l’esistenza autentica sorprende quasi, nelle “cifre” della trascendenza, la trascendenza che sempre le sfugge. «A chi domandasse che cosa sia la trascendenza, non si potrebbe dare nessuna risposta in termini di conoscenza. La risposta vien fuori indirettamente nella misura in cui ci si rischiara la struttura del mondo, che non è mai chiuso in se stesso, e la struttura dell’uomo che non può mai realizzarsi perfetta mente, quando ci si rivela l’impossibilità di una duratura e definitiva sistemazione del mondo e la fatalità del naufragio universale [...].
Il sentimento della lacerazione dell’essere in ogni suo aspetto, e quello del radicale dominio del contraddittorio, è in grado di farci intendere che niente di ciò che noi riusciamo a conosce re si regge da sé solo e non ha bisogno di altro». Per Jaspers «senza trascendenza non c’è esistenza». E «l’ultima questione — egli scrive nella sua Metafisica — [...], è di sapere se dal fondo delle tenebre un essere può brillare».
Esistenza e comunicazione
La trascendenza è inattingibile alla conoscenza scientifica, eppure essa si rivela nelle “cifre” delle situazioni-limite e del naufragio dell’esistenza. Ma questo linguaggio cifrato deve venir letto. E viene letto nell’intimità della propria esistenza. Per questo, mentre la verità scientifica è oggettiva ed anonima, quella filosofica è esistenziale e singola. «Dio è sempre il mio Dio, ed io non l’ho in comune con gli altri uomini». Ma se la verità filosofica ha le sue radici nel profondo della singola esistenza, come si può comunicarla agli altri e con quali ragioni può mai venire selezionata ed accettata?
Per Jaspers la “verità”, cioè la trascendenza, è cercata da tutte le filosofie ma essa non è mai l’esclusivo possesso di un punto di vista. Certo, la verità è connessa alla singola esistenza, per questo essa è unica: io sono la mia verità. Ma se la verità è unica, essa è anche molteplice, giacché la singola esistenza sta insieme ad altre esistenze che hanno ognuna la propria verità: «L’esistenza — scrive Jaspers in Ragione ed esistenza — diventa manifesta a se stessa e con ciò reale, se essa con un’altra esistenza, attraverso di essa e con essa, giunge a se stessa.» In sostanza, la verità altrui non è tanto una verità opposta alla mia, quanto piuttosto la verità di un’altra esistenza che, insieme alla mia, cerca quell’Unica Verità che è al-di-là di tutte le verità, è l’orizzonte che le trascende tutte e verso cui tutte si muovono.
Di conseguenza, Jaspers evita sia il dogmatismo e il fanatismo di chi afferma essere la propria verità l’unica verità; sia il relativismo e lo scetticismo di chi sostiene esistere tante
verità quante sono le esistenze. Il filosofo attento «non cade nell’errore della verità totale e compiuta». Quel che il filosofo dà non è, quindi, una verità definita; egli difende sempre, avanzando per una via senza garanzie, la possibilità della comunicazione fra le verità delle singole esistenze.
[Proprio a partire da riflessioni del genere Jaspers scaglia la sua critica ai sistemi totalitari (come quello marxista o quello nazista) e si schiera per il mondo libero. I sistemi totalitari presumono di conoscere l’intero corso della storia, e «fondano la loro pianificazione totale sulle basi di questa conoscenza totale. Ma come a nessuno è possibile, né attraverso la conoscenza né attraverso l’azione, afferrare la totalità del mondo, colui che nondimeno tenta di farlo deve di conseguenza conquistare il mondo con la forza, ma lo farà come un assassino che si impossessa di un cadavere, e non come un uomo che cerca c entrare in relazione con altri esseri umani per erigere un mondo comune». Senonché le presunte conoscenze del totalitario sono solo fede in uno stato di salvezza, e non conoscenza, anche se tutti i dogmatici totalitari «affermano qualcosa che trascende la conoscenza scientifica come se si trattasse di una conoscenza ancora più scientifica». Questo fanno il nazionalsocialismo e il bolscevismo. E così fanno tutti i dogmatici. Contro tali dogmatismi «lo scopo della filosofia dice Jaspers è di rafforzare la resistenza interiore contro la cinica propaganda di schiere faziose, come di difendere l’individuo dal cader preda di fedi assurde come quella che raggiunge il suo punto più alto nella “confessione” rilasciata in certi ridicoli processi». Nel dominio della libertà, invece, benché esistano forze negative che tendono a distruggere la libertà, «il pensiero filosofico si manifesta in una grande varietà di modi, dovuti alla molteplicità delle possibilità». Nel mondo libero, l’individuo, pur con la sua debolezza, aiuta a sostenere il tutto, nei regimi totalitari è oppresso e schiacciato dal tutto. Da una parte c’è la libertà di giudizio del singolo, la quale si esercita nelle libere discussioni, e dall’altra l’arrogante censura del potere che opprime e proibisce.
Da quanto detto non è difficile capire Jaspers allorché asserisce che «in opposizione a una supposta conoscenza totale, la filosofia ha il dovere di tenere sveglia la facoltà di pensiero indi pendente, e di conseguenza l’indipendenza dell’individuo, che il potere totalitario cerca di soffocare».]
Il rifiuto dell’Idealismo
Nella sua Autobiografia (1962), guardando all’intera sua vita, Bertrand Russell (1872-1970) ha scritto: «Trovo che sia valsa la pena di viverla, e la rivivrei con gioia se me ne fosse offerta la possibilità». Questa vita, prosegue Russell, è stata dominata «da tre passioni semplici, ma di una forza irresistibile: la sete dell’amore, la ricerca della conoscenza, e una immensa pietà per le sofferenze umane». Russell, discendente da una famiglia whig distintasi fin dal sedicesimo secolo nella lotta per le libertà costituzionali, aveva senza dubbio ereditato dai suoi avi lo spirito di rivolta contro ogni dogmatismo ed ogni autoritarismo. Uno di questi suoi avi, Lord William Russell, prese parte alla congiura contro Carlo II e fu giustiziato; suo nonno, Lord John Russell, fu ministro della regina Vittoria, lottò per la riforma elettorale e, tra l’altro, visitò Napoleone all’isola d’Elba; suo padre, visconte di Amberley, fu discepolo e poi amico di Stuart Mill, fu membro del Parlamento nel 1861-1862, si fece convinto fautore del “controllo delle nascite” e morì nel 1876; sua madre Caterina, figlia del secondo Lord Stanley di Alderley, morì nel 1875. Bertrand Arthur William Russell era nato il 18 maggio del 1872 a Ravenscroft, vicino Tintern, nel Monmouthshire e, dopo la precoce morte di entrambi i genitori, venne accolto in casa di sua nonna, “Lady John”, scozzese e presbiteriana, che difese i diritti degli Irlandesi e attaccò la politica imperialista della Gran Bretagna in Africa. Russell ricevette la sua prima educazione da precettori privati agnostici; apprese in maniera perfetta il francese e il tedesco, e nella biblioteca di suo nonno acquistò il gusto della storia e scoprì nella geometria di Euclide la gioia che possono dare il rigore e la chiarezza della matematica.
La fanciullezza di Russeil non fu felice. Ma a diciotto anni egli entrò come studente al Trinity College di Cambridge. Cambridge gli svelò «un mondo nuovo» e gli offrì «un periodo di infinita delizia». Qui egli si legò in amicizia con uomini come Lowes Dickinson, il Dr. Trevelyan, Mc Taggart, Sidgwick e G. E. Moore. Più tardi, sempre al Trinity, ebbe come discepolo L. Wittgenstein, l’ispiratore del Neopositivismo del Circolo di Vienna e il maestro riconosciuto del movimento analitico-linguistco che ormai passa sotto il nome di Cambridge Oxford-Philosophy. Dell’incontro con Wittgenstein, Russell disse che rappresentò per lui «una delle avventure intellettuali più eccitanti della sua vita». In seguito Russeli e Wittgenstein si allontanarono sempre di più sino a rompere del tutto la loro amicizia.
Ebbene, al Trinity, sotto l’influsso di J. M. F. Mc Taggart, Russell fu, per un breve periodo, hegeliano, di un hegelismo passato attraverso Bradley. Ma nel 1898 con l’aiuto di Moore, si liberò dell’Idealismo. «A Cambridge — egli scrive — io lessi Kant e Hegel, e anche la Logica di Bradley che mi influenzò profondamente. Per alcuni anni io fui discepolo di Bradley, ma intorno al 1898 mutai i miei punti di vista, in gran parte a motivo delle argomentazioni di G. E. Moore [...]. Egli assunse la guida della ribellione, e io lo seguii con un senso di liberazione. Bradley aveva sostenuto che qualsiasi cosa in cui crede il senso comune è mera apparenza; noi passammo all’estremo opposto, e pensammo che è reale ogni cosa che il senso comune, non influenzato dalla filosofia e dalla religione, suppone che sia reale. Con il senso di fuggire da una prigione ci permettemmo di pensare che l’erba è verde, che il sole e le stelle esisterebbero anche se nessuno fosse consapevole di essi [...] e fu così che il mondo che era stato fino ad allora sottile e logico, di improvviso diventò ricco, vario e solido».
L’atomismo logico e l’incontro di Russell con Peano
Fu in questa maniera, dunque, che Russell si liberò dalle catene dell’Idealismo e tornò nella scia del tradizionale Empirismo della filosofia inglese. E a questa concezione empirica e realista della filosofia egli contribuì, in seguito, con tutta una lunga serie di volumi concernenti vitali e difficili questioni di gnoseologia e di epistemologia: I problemi della filosofia (1912), La nostra conoscenza del mondo esterno (1914), Misticismo e logica (1918), L’analisi della mente (1921), L’analisi della materia (1927), La conoscenza umana: suo scopo e suoi limiti (1948). E, pur in uno sviluppo che vede mutati alcuni punti di vista, Russell ha sempre sostenuto che «la filosofia non può essere feconda se è distaccata dalla scienza. Con questo — egli prosegue ne La mia vita in filosofia (1959) — non intendo dire che il filosofo dovrebbe “tenersi informato” di qualche scienza come passatempo domenicale. Intendo qualcosa di molto più profondo: e cioè che l’immaginazione del filosofo dovrebbe essere impregnata di concezioni scientifiche ed egli dovrebbe essere convinto che la scienza ci ha messi a confronto con un mondo nuovo, con concetti nuovi e con metodi nuovi, non conosciuti in altri tempi, e che l’esperienza ha dimostrato fruttuosi laddove i vecchi concetti e i vecchi metodi si erano dimostrati sterili». Per Russell, in breve, «una filosofia, per avere un qualche valore, dev’essere costruita su ampie e solide fondamenta di conoscenza non specificamente filosofica». E la propria concezione del mondo il Russell degli anni Sessanta la vedeva come «una concezione risultante dalla sintesi di quattro scienze differenti: e cioè la fisica, la fisiologia, la psicologia e la logica matematica».
Queste cose Russell le scriveva nel 1959. Ma, tornando indietro, egli sposta nel 1899-1900 la data fondamentale del suo lavoro filosofico: è in questo periodo che egli adotta «la filosofia dell’atomismo logico e la tecnica di Peano nella logica matematica [...]. La svolta di quegli anni ha rappresentato una rivoluzione; i mutamenti successivi hanno avuto i caratteri di una evoluzione». L’atomismo logico vuole essere una filosofia emergente dalla simbiosi tra un empirismo radicale e una logica scaltrita. La logica offre le forme standard del corretto ragionare e l’empirismo premesse che sono o proposizioni atomiche o proposizioni complesse costruite a partire dalle prime. «La ragione per cui io chiamo la mia dottrina atomismo logico — scrive Russell nel 1918 ne La filosofia dell’atomismo logico — è che gli atomi ai quali desidero arrivare come residui ultimi dell’analisi sono atomi logici e non atomi fisici». E la proposizione atomica de scrive un fatto, afferma che una cosa ha una certa qualità o che determinate cose hanno certe relazioni. Un fatto atomico, da parte sua, è ciò che rende vera o falsa una proposizione atomi ca. “Socrate è ateniese” è una proposizione atomica ed esprime il fatto che Socrate è cittadino ateniese. “Socrate è marito di Santippe” è un’altra proposizione atomica. “Socrate è ateniese e Socrate è marito di Santippe” è una proposizione complessa o molecolare. Queste idee le vedremo ritornare nel Tractatus logico-philosophicus di L. Wittgenstein.
Per quanto riguarda l’incontro con Giuseppe Peano, «il grande maestro dell’arte del ragionamento formale fra gli uomini dei nostri giorni», Russell scrive: «Fu al Congresso Internazionale di Filosofia di Parigi, nell’anno 1900, che mi resi conto dell’importanza di una riforma logica nella filosofia della matematica. Me ne resi conto ascoltando le discussioni tra Peano di Torino e gli altri filosofi là riuniti. Non avevo letto in precedenza le opere di Peano, ma rimasi colpito dal fatto che, in ciascuna discussione, egli rivelava una maggiore precisione e un maggior rigore logico di chiunque altro. Andai da lui e gli dissi: “Vorrei leggere tutte le sue opere. Ne ha delle copie con sé?”. Le aveva, e le lessi immediatamente tutte. Furono quei libri che dettero la spinta necessaria alle mie teorie sui principi della matematica». Russell ave va già studiato un grande precursore della logica matematica e cioè Leibniz (La filosofia di Leibniz, 1900) e al Trinity College di Cambridge aveva ben curato i suoi interessi per la geometria e la matematica, e nel 1903 pubblica I principi della matematica dove si propone «di mostrare, in primo luogo, che l’intera matematica procede dalla logica simbolica, e poi di scoprire, per quanto possibile, quali fossero i principi della logica simbolica stessa». Ebbene, il primo scopo Russell lo illustrò con il volume ora richiamato, mentre intese sviluppare il secondo con i Principia Mathematica, tre grossi volumi stesi in collaborazione con A. N. Whitehead e apparsi, rispettivamente, nel 1910, 1912 e 1913. Siccome delle concezioni logiche di Russeil si parla nel capitolo sugli sviluppi delle scienze matematiche e fisico-naturali nel secolo XX, diciamo soltanto che Russell, insieme al tedesco Gottlob Frege ritiene: che la matematica può essere ridotta a un ramo della logica; che «la matematica pura è la classe di tutte le proposizioni della forma “p implica q”»; che non esistono concetti tipici della matematica che non possano esse re ridotti a concetti logici (di logica delle classi); e che, a maggior ragione, non esistono procedimenti di calcolo e di derivazione entro la matematica che non si possano risolvere in derivazioni di carattere puramente formale.
La teoria delle descrizioni
Vicino a Frege nel programma logicista, Russell nella sua reazione all’Idealismo è d’accordo con Frege anche nel sostenere il Realismo platonico per gli oggetti della matematica: i numeri, le classi, le relazioni, ecc, hanno un’esistenza indipendente dal soggetto e dall’esperienza. Una relazione come «Se A = B e B = C, allora A = C» esiste indipendentemente dal soggetto che la pensa, esiste ed è sempre vera. Tuttavia, c’è una questione importante, sulla quale Russell, in quegli anni, si distanzia da Frege: si tratta della sua Teoria delle descrizioni (1905). Frege aveva fatto notare che espressioni come “la stella del mattino” e “la stella della sera”, pur indicando lo stesso pianeta Venere, dicono cose diverse, hanno sensi diversi. Di conseguenza egli aveva distinto tra senso (Sinn) e significato (Bedeutung) o, in termini classici, tra connotazione e denotazione o intensione ed estensione. Le due espressioni precedenti hanno lo stesso significato o la stessa denotazione, indicano cioè lo stesso oggetto; mentre il loro sen so o connotazione, ciò che dicono di questo oggetto, è diverso. Ora, però, anche Alexius Meinong aveva riflettuto su questi problemi e sullo status di certe frasi come le seguenti: «La montagna d’oro non esiste» oppure «Il circolo quadrato non esiste». Queste sono proposizioni vere, e in alcuni casi possono essere anche utili. Ma ecco il problema: come può una proposizione essere vera ed aver significato se essa riguarda il nulla? Si pensò, quindi, che ci dovesse essere un qualche senso in cui esistono sia le montagne d’oro sia i circoli quadrati, cioè gli oggetti indicati dalle espressioni denotanti. Insomma, anche se non esistono realmente, le montagne d’oro, le chimere e i circoli quadrati debbono pur avere un qualche genere d’esistenza, se le espressioni che li denotano fanno parte di enunciati che hanno significato e sono veri come è il caso dell’asserto «il circolo quadrato non esiste». Ebbene, Russell si ribellò al regno delle ombre di Meinong e, per evitare gli inghippi e gli enigmi a cui conducono siffatte espressioni denotanti, propose una analisi mirante a far scomparire tali espressioni, per cui invece di dire «la montagna d’oro non esiste» si può dire «Non c’è nessuna entità che nello stesso tempo sia d’oro e sia una montagna». Una analisi siffatta elimina la locuzione “una montagna d’oro” e, di conseguenza, elimina anche qualsiasi ragione di credere che l’oggetto da essa indicato abbia un qualche genere di esistenza. E allora la proposizione «Il presente re di Francia è calvo» diventa «Non è sempre falso di x che x è adesso re di Francia e che x è calvo e che di y sia sempre vero che, se y è adesso re di Francia, y è identico a x». La proposizione «Giorgio IV voleva sapere se Scott era l’autore del Waverly» diventa «Giorgio IV voleva sapere se uno e solo un uomo aveva scritto il Waverly e Scott era quest’uomo». La frase «Il cerchio quadrato non esiste» diventa «Non è mai vero che x sia circolare, y sia quadrato e non sia sempre falso che x e y si identificano». Come si vede, nelle ricostruzioni di Russell spariscono le espressioni denotanti; e scompaiono le voci del verbo “esistere” e del verbo “essere” in funzione non copulativa. Questa teoria, esposta nel 1905, venne poi sviluppata nei Principia Mathematica, dove Russeil distingue tra descrizioni indefinite o ambigue (“Un uomo”, “uno che cammina”, ecc.) e descrizioni definite (“Il primo re di Roma”, “il così e così”, ecc.). Per questa via Russell pensava di eliminare i paradossi metafisici de!l”esistenza” e i paradossi dei non esistenti. La teoria delle descrizioni di Russel! afferma, in sostanza, che le espressioni denotanti sono in complete, sono cioè incapaci di avere significato da sole e si distinguono nettamente dai nomi propri (i quali isolatamente presi hanno significato).
Di recente, nel 1950, P. F. Strawson con il suo saggio Sul riferimento ha attaccato la teoria di Russell: «Né le regole aristoteliche né quelle di Russell — scrive Strawson — danno la logica esatta di qualche espressione del linguaggio ordinario, perché il linguaggio ordinario non ha una logica esatta». Sulla scia del “secondo” Wittgenstein, Strawson prosegue: «Io spiego e illustro le convenzioni che governano l’uso dell’espressione. Questo è dare significato dell’espressione. Ed è ben diverso dal dare (in qualsiasi senso) l’oggetto a cui essa si riferisce; infatti l’espressione in sé non si riferisce ad alcunché, sebbene, in occasioni diverse, possa essere usata, per riferirsi ad innumerevoli cose». In sostanza, Strawson rimprovera a Russell di aver con fuso tra l’enunciato e l’uso dell’enunciato. L’intento di Russell, ha detto L. Linsky (Riferimento, 1967), è di analizzare una certa classe di proposizioni; l’intento di Strawson è di studiare un certo uso delle parole. Russell replicò, e duramente, a Strawson. La divergenza di fondo tra filosofi come Strawson e se stesso, Russell la scorge nel fatto che «essi sono persuasi che il parlare comune è abbastanza buono non solo per la vita quotidiana, ma anche per la filosofia». Russell non riesce a rendersi conto di siffatte pretese: se la fisica ha abbandonato, e con indubbi successi, il linguaggio ordinario, perché questo dovrebbe essere proibito alla filosofia?
Russell contro il “secondo” Wittgenstein e la Filosofia analitica
Attento analista del linguaggio, Russell per tutta la sua vita ha sottoposto al “microscopio della logica” tutta una serie di questioni filosoficamente rilevanti e spesso difficili ed ingarbugliate. Ma ha fatto questo sempre preoccupato del rapporto che il linguaggio deve avere con i fatti, se ci deve essere conoscenza valida. Certo, Russell è consapevole dei limiti dell’Empirismo. Difatti, l’Empirismo può esser definito con l’affermazione secondo la quale «tutta la conoscenza sintetica è fondata sull’esperienza». Ma questo principio non è fondato sull’esperienza. Di conseguenza, l’Empirismo è una teoria che mostra le sue inadeguatezze. E tuttavia, dice Russell, tra quelle disponibili l’Empirismo è la teoria migliore. Contrario al Pragmatismo, Russell ha avversato anche quei Neopositivisti (Neurath, Hempel, ecc.) i quali paiono aver dimenticato che lo scopo delle parole «è di occuparsi di cose diverse delle parole». Ma i suoi attacchi più feroci Russell li ha riservati al “secondo” Wittgenstein e alla filosofia del linguaggio.
Di Wittgenstein Russell ha scritto: «Il primo Wittgenstein, che conoscevo intimamente, era un uomo dedito in maniera intensa e appassionata al pensiero filosofico, profondamente conscio dei difficili problemi di cui, io, come lui, avvertivo l’importanza, e in possesso (almeno così pensavo) di un vero genio filosofico. Il nuovo Wittgenstein, al contrario, sembra essersi stancato di pensare sul serio e sembra aver inventato una dottrina adatta a rendere non necessaria questa attività. Non credo neppure per un istante che una dottrina la quale ha queste malinconiche conseguenze sia vera».
Del movimento analitico, nel suo insieme, lo stesso Russell ha detto: «La dottrina, per quanto io ne capisca, consiste nel sostenere che il linguaggio della vita quotidiana, con le paro le usate nel loro significato ordinario, basta per la filosofia, e che questa non ha bisogno di termini tecnici o di cambiamenti nel significato dei termini comuni. Non riesco assolutamente ad accettare questa opinione. Sono contrario ad essa: a) perché è insincera; b) perché è suscettibile di scusare l’ignoranza della matematica, della fisica e della neurologia in coloro che hanno avuto solo un’educazione classica; c) perché viene presentata da certuni con un tono di santimoniosa rettitudine, come se l’opposizione ad essa fosse un peccato contro la democrazia; d) perché rende trita e superficiale la filosofia; e) perché rende quasi inevitabile il perpetuarsi tra i filosofi di quell’atteggiamento confusionario che essi hanno ripreso dal senso comune».
Russell, insomma, crede che i Filosofi del linguaggio stiano praticando la mistica dell’uso comune; ed egli rifiuta il fatto che gli Oxoniensi considerino il linguaggio comune come il banco di prova di ogni altro linguaggio. Certo, nel linguaggio comune non vogliamo affatto «rima nere a discorrere del sole che sorge e che cade. Ma gli astronomi trovano migliore un linguaggio diverso, e io sostengo che un linguaggio diverso è preferibile anche in filosofia».
Russell critica la Filosofia analitica perché si interesserebbe del senso dei discorsi più che della loro verità. «Da ragazzo, egli scrive nella Prefazione a Parole e cose di Gellner, avevo un orologio al quale si poteva togliere il pendolo. Mi accorsi che senza il pendolo l’orologio andava molto più in fretta. Se lo scopo fondamentale di un orologio è quello di funzionare, era preferibile togliere il pendolo. Non poteva più indicare l’ora, questo sì, ma la cosa non aveva importanza se si riusciva ad imparare ad essere indifferenti al passare del tempo. La filosofia linguistica, che si occupa del linguaggio e non del mondo, è come un bambino che preferisce l’orologio senza il pendolo perché, anche se non indica più l’ora, funziona con maggiore facilità e ad un ritmo assai più divertente».
Due, pertanto, sono i capi d’accusa che Russell solleva contro la Filosofia analitica, vale a dire che, da una parte, essa praticherebbe il culto dell’uso comune del linguaggio a scapito di ogni linguaggio tecnico; e, dall’altra, che essa, piuttosto che cercare il senso delle cose e della realtà, si occuperebbe sterilmente del senso delle parole.
La morale e il Cristianesimo
Persuaso che i valori non si possano logicamente dedurre dalla conoscenza, Russell è stato un tenace sostenitore delle libertà dell’individuo contro ogni dittatura e contro i soprusi del potere. Sensibile alle ingiustizie sociali, Russell è stato pure uno dei più convinti assertori del pacifismo. A proposito della prima guerra mondiale ebbe a scrivere: «Un effetto della guerra fu di togliermi la possibilità di continuare a vivere in un mondo di astrazioni. Guardavo i giovani che salivano sulle tradotte per andare a farsi massacrare sulla Somme, per colpa della stupidità dei generali. Provavo un’intensa comprensione per quei giovani e mi sentivo legato al mondo reale in uno strano matrimonio di dolore. Tutti gli elevati pensieri che avevo avuto circa il mondo astratto mi apparivano piccoli e volgari in confronto alle terribili sofferenze che mi circondavano. Il mondo non umano restava un rifugio occasionale. Non una patria nel la quale fosse possibile costruirsi un’abitazione permanente».
La vita irriducibile ed ostinata, con le sue lacerazioni, e le sue sofferenze spesso inutili, riportò Russell dal cielo della matematica alla terra degli uomini sofferenti. Avversario delle ingiustizie del capitalismo, Russell non è stato meno duro nei riguardi dei metodi del bolscevismo. In Teoria e pratica del bolscevismo (1920), leggiamo: «Il settarismo e la crudeltà mongolica di Lenin [con cui Russell ebbe nel 1920 una lunga conversazione] mi gelarono il sangue nelle vene». Nel 1952 chiede al governo americano che venga liberato Morton Sobell (accusato da Rosenberg nel 1951), che era stato condannato a trent’anni di prigione per spionaggio. Nel 1954, appoggiato da Einstein, promuove una campagna contro gli armamenti atomici. Durante la crisi di Cuba scrive a Kennedy e a Krusciov due memorabili lettere; qualche mese più tardi scrive alle Izvestia per combattere l’ostilità russa nei confronti degli Ebrei; pacifista durante la prima guerra mondiale, fu per gli alleati durante la seconda; inorridito dai crimini nazisti, aveva successivamente creato, perché la coscienza delle masse si sollevasse contro la guerra degli Stati Uniti nel Vietnam, “la fondazione atlantica della pace” e aveva ispirato “il tribunale Russell”, perché venissero smascherati i crimini di guerra contro il Vietnam.
Pacifista coerente e demistificatore coraggioso, Russell ha pagato di persona per i suoi ideali. Processato più volte, è stato in prigione, ha affrontato l’impopolarità, gli fu tolta la cattedra di filosofia al City College di New York. E ciò perché, su istanza presentata da una certa signora Jean Kay di Brooklyn, la corte suprema di New York decretò la rimozione di Russell, la cui opera fu qualificata «oscena, libidinosa, lasciva, depravata, erotica, afrodisiaca, irriv rente, povera di spirito, bugiarda, e priva di ogni fibra morale». L’intervento congiunto di Einstein, Dewey e Whitehead a favore di Russell non ebbe ragione sull’istanza della signora Kay.
Russell ha difeso il libero amore. Si è sposato quattro volte e, evidentemente, ha divorziato tre volte. Nel 1927 aveva fondato, insieme alla sua seconda moglie Dora Winefred Black, una scuola basata su principi educativi “rivoluzionari”; in essa ragazzi e ragazze leggevano quel che volevano, non venivano mai puniti, facevano il bagno insieme, e correvano nudi per il parco. La scuola fallì.
In fondo, per Russell solo le asserzioni tautologiche della matematica e quelle sintetiche delle scienze empiriche hanno senso. E su questi fondamenti è ovvio che debba crollare ogni fede, ogni visione metafisica del mondo, qualsiasi religione. «Il mondo — scrive Russell — non ha bisogno di dogmi, ha bisogno di libera ricerca». Il Cristianesimo, come tutte le altre religioni, egli l’ha considerato (per es. in Perché non sono cristiano, dove si riporta anche il dibattito da lui avuto alla BBC con il padre F. Copleston, S. J.), dal punto di vista teorico, come un insieme di non-sensi e, dal punto di vista etico, come implicante una morale disumana e oscurantista.
Ma a questo punto sorge il forte sospetto che Russell non abbia o, forse, non abbia voluto riconoscere altra interpretazione storica del Cristianesimo diversa da quella imperante in Inghilterra nel grigio periodo dell’epoca vittoriana. In realtà, Russell, come ricorda il suo biografo A. Wood, «ha combattuto uno stato di cose crudele e assurdo, in cui i giovani erano tenuti deliberatamente nell’ignoranza dei fatti sessuali, cosicché un ragazzo poteva credere che i cambiamenti della pubertà fossero sintomi di qualche paurosa malattia e una ragazza poteva sposarsi senza sapere che cosa l’attendeva nella sua notte di nozze; in cui alle donne si insegnava a guardare ai rapporti sessuali non come a una fonte di gioia, ma come a un penoso dovere matrimoniale; in cui la pruderie giungeva al punto di avvolgere in drappeggi le gambe dei pianoforti; in cui il mistero creato artificialmente, evocava una morbosa curiosità, e l’ipocrisia si accompagnava all’infelicità; in cui non c’era via d’uscita dall’infelicità di un matrimonio sfortunato se non attraverso le complicate prove legali dell’adulterio; e a un rigido codice morale si accompagnava la tacita accettazione della prostituzione».
Russeil ha speso la sua vita per un nuovo mondo in cui, com’egli ebbe a dire, «lo spirito creativo è vivace, in cui la vita è un’avventura piena di gioia e di speranza […] un mondo in cui l’affetto abbia libero gioco, e dove la crudeltà e l’invidia siano state messe in fuga dalla felicità e dallo sviluppo libero e sciolto di tutti quegli istinti che costruiscono la vita e la riempiono di intellettuali delizie. Un tale mondo è possibile; esso — conclude Russell attende soltanto che gli uomini vogliano crearlo». Russell ha anche scritto una brillante Storia della filosofia occidentale (4 voll., 1934), dove tenta «di mostrare che i filosofi sono il risultato del loro milieu sociale». Bertrand Russell è morto nella notte del lunedì 3 febbraio 1970.
La vita
Ludwig Wittgenstein nasce a Vienna nel 1889. Avviato dal padre (Karl Wittgenstein, fondatore dell’industria dell’acciaio dell’Impero asburgico) agli studi di ingegneria, si iscrive alla Technische Hochschule di Berlino-Charlottenburg (1906-1907). Successivamente (1908-1911) si trasferisce alla Facoltà di Ingegneria di Manchester, da dove, nel 1911, su consiglio di G. Frege, si reca a Cambridge (Trinity College) per studiare i fondamenti della matematica sotto la guida di B. Russell. Nel 1913 muore il padre lasciandogli un’eredità che lui rifiutò e diede ai fratelli (visse sempre una vita modesta). Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, si arruola volontario nell’esercito austriaco. Fatto prigioniero dagli Italiani, nel 1918, trascorre quasi un anno nel campo di prigionia di Cassino. Liberato nell’agosto del ‘19, si incontra subito dopo in Olanda con Russell per discutere il manoscritto del lavoro che poi uscirà nel ‘21 col titolo, proposto da G. E. Moore, Tractatus logico-philosophicus. Dal ‘20 al ‘26 insegna come maestro elementare in tre piccoli paesi della Bassa Austria. Dal ‘26 al ‘28 progetta e segue i lavori per la costruzione della casa viennese di una delle sue sorelle. Ritorna a Cambridge nel ‘29, dove nel giugno gli viene conferita la laurea. Nel 1930 diviene Fellow del Trinity College ed inizia la sua attività di insegnante. Succede nel ‘39 a G. E. Moore sulla cattedra di filosofia. Durante la seconda guerra mondiale fa, per un certo tempo, il portaferiti al Guy’s Hospital di Londra. E lavora in seguito in un laboratorio medico di Newcastle. Tiene le sue ultime lezioni nel 1947. Trascorre in solitudine l’anno 1948 in Irlanda. Si reca nel ‘49 negli Stati Uniti in visita al suo ex-allievo ed amico Norman Malcolm. Tornato a Cambridge, scopre di ave re il cancro.
Muore il 29 aprile 1951 in casa del suo medico, il dottor Bevan, presso il quale era ospite. N. Malcolm scrive che, prima di perdere conoscenza, Wittgenstein mormorò alla signora Bevan: «Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa!». E sempre Malcolm commenta: «Con “loro” alludeva senza dubbio ai suoi amici intimi. Quando penso al profondo pessimismo di lui, all’intensità delle sue sofferenze mentali e morali, all’inflessibilità con la quale spronò il proprio intelletto, al suo bisogno d’affetto a cui andava unita un’asprezza che respingeva l’affetto, mi pare che la sua vita debba essere stata crudelmente infelice. Eppure, mentre stava per morire, esclamò egli stesso ch’era stata meravigliosa! Parole misteriose e stranamente commoventi».
Il “Tractatus logico-philosophicus”
Il Tractatus logico-philosophicus esce nel 1921, in tedesco, negli «Annalen der Naturphilosophie», XIV, 3-4, pp. 185-262; e nel 1922 viene pubblicato in inglese, con testo tedesco a fianco, dall’editore Kegan Paul di Londra, con una introduzione di B. Russell. La logica è lo studio del logos, del discorso su qualche cosa, il mondo.
Le tesi fondamentali del Tractatus sono le seguenti:
«Il mondo è tutto ciò che accade» (prop. 1);
«Ciò che accade, il fatto, è l’esistenza dei fatti atomici» (prop. 2);
«La raffigurazione logica dei fatti è il pensiero» (prop. 3);
«Il pensiero è la proposizione esatta» (prop. 4);
«La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari» (prop. 5);
«La forma generale della funzione di verità è: [ρ, ξ, N(ξ)]. Questa è la forma generale della proposizione» (prop. 6) ossia la verità è sempre colta nella proposizione;
«Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere» (prop. 7).
Ad un primo approccio, troviamo nel Tractatus una ontologia: «Il mondo si divide in fatti» (prop. 1.1). Ma il fatto stesso è divisibile: «Ciò che accade, il fatto, è l’esistenza difatti atomici» (prop. 2). E i fatti atomici, a loro volta, sono costituiti da oggetti semplici: questi sono la sostanza del mondo. «Il fatto atomico è una combinazione di oggetti (entità, cose)» (prop. 2.01); «L’oggetto è semplice» (prop. 2.02); «Gli oggetti costituiscono la sostanza del mondo. Perciò non possono essere composti» (prop. 2.021); «Il fisso, il consistente, l’oggetto, sono una cosa sola» (prop. 2.017); «L’oggetto è il fisso, il consistente; la configurazione è il mutevo le, l’instabile» (prop. 2.0271).
Alla teoria della realtà corrisponde la teoria del linguaggio. Il linguaggio, stando al Wittgenstein del Tractatus (o, come si dice, al “primo” Wittgenstein), è una raffigurazione proiettiva della realtà. «Noi ci facciamo delle raffigurazioni dei fatti» (prop. 2.1); «La raffigurazione è un modello della realtà» (prop. 2.12). E «ciò che la raffigurazione deve avere in comune con la realtà per poterla raffigurare esattamente o falsamente secondo la propria maniera, è la forma di raffigurazione» (prop. 2.17). Certo, dice Wittgenstein, «a prima vista non sembra che la proposizione così come ad es. sta stampata sulla carta — sia una raffigurazione della realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non sembra a prima vista una raffigurazione della musica, né la nostra scrittura fonetica (o lettere) pare una raffigurazione del nostro linguaggio parlato. Eppure questi simboli si dimostrano, anche nel senso ordinario del termine, raffigurazioni di ciò che rappresentano» (prop. 4.011). «Il disco fonografico, il pensiero musicale, la notazione, le onde sonore, stanno tutti tra di loro in quell’interno rapporto raffigurativo che intercorre tra lingua e mondo. A tutte queste cose è comune la struttura logica (come nella favola i due giovani, i loro due cavalli, e i loro gigli. Essi sono tutti, in un certo senso, una cosa sola)» (prop. 4.014).
Dunque: il pensiero o proposizione raffigura, rispecchia proiettivamente la realtà. E ad ogni elemento costitutivo del reale ne corrisponde un altro nel pensiero. La realtà consta difatti che si risolvono in fatti atomici, composti a loro volta di oggetti semplici. Analogamente, il linguaggio è formato da proposizioni complesse (molecolari), che si possono dividere in proposizioni semplici o atomiche (elementari) non ulteriormente divisibili in altre proposizioni. Queste proposizioni elementari sono il corrispondente dei fatti atomici. Ed esse sono combinazioni di nomi, corrispondenti agli oggetti: «Il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo significato [...]» (prop. 3.203). Per esemplificare, “Socrate è ateniese” è una proposizione atomica, la quale descrive il fatto atomico per cui Socrate è ateniese; “Socrate è ateniese e maestro di Platone” è una proposizione molecolare che riflette il fatto molecolare per cui Socrate è ateniese e maestro di Platone. La proposizione atomica è la più piccola entità linguistica della quale si può predicare il vero o il falso. Il fatto atomico è ciò che rende vera o falsa una proposizione atomica. Il fatto molecolare è una combinazione difatti atomici che rende vera o falsa una proposizione molecolare.
L’antimetafisica di Wittgenstein
Tra le proposizioni, come tra i fatti, non v’è gerarchia; vi sono solo collezioni di proposizioni; e l’intera collezione è l’intero sapere. Ma fin dove si estende questo sapere? Fin dove si estende la realtà raffigurabile proiettivamente attraverso il linguaggio? Non è che Wittgenstein si sia molto preoccupato di siffatto problema. A lui, come ha fatto notare acutamente Paolo Filiasi-Carcano, quel che premeva era la teoria del linguaggio (di cui era convinto per altra via), e per salvare questa ha creato la sua ontologia, che in effetti è una pseudo-ontologia. Tuttavia, benché studiosi come Maslow, Specht e soprattutto la Anscombe non siano d’accordo su questo punto con Russell e i Neopositivisti, i quali interpretarono la realtà raffigurabile e quindi conoscibile come la realtà empirica, ci sono nel Tractatus stesso dei supporti per ritenere valida, almeno su tale problema, l’interpretazione di Russell e dei Neopositivisti. E, difatti, alla prop. 2.0251 Wittgenstein accenna agli oggetti nei termini seguenti: «Spazio, tempo, colore (l’essere colorato), ecc. sono forme di oggetti Quindi, stando a questa proposizione, un fatto dovrebbe essere spazializzato, temporalizzato, colorato, ecc., dovrebbe insomma essere percepibile fisicamente. E che le cose stiano così lo si può vedere anche dalla prop. 4.11 in cui si dice che: «la totalità delle proposizioni vere costituisce la scienza naturale totale (o la totalità delle scienze naturali)»; e dalla prop. 6.53 per la quale nulla si può dire «se non quello che può dirsi, cioè le proposizioni scientifiche».
«Il senso della proposizione è il suo accordo o disaccordo con le possibilità dell’esistenza e non esistenza dei fatti atomici» (prop. 4.2). Mentre la «verità o falsità della raffigurazione consiste nell’accordo o disaccordo del suo senso con la realtà» (prop. 2.223). E la realtà raffigurabile dalle proposizioni pare ridursi a quella empirica. Su questa base, allora, diviene comprensibile l’attacco wittgensteiniano alla metafisica: «La maggior parte delle proposizioni e delle questioni, che sono state scritte in materia di filosofia, non sono false ma insensate. A questioni di questo genere perciò non possiamo affatto rispondere, ma soltanto stabilire la loro insensatezza. La maggior parte delle questioni e proposizioni di filosofia derivano dal fatto che non comprendiamo la logica del nostro linguaggio. (Sono del tipo della questione se il bene sia più o meno identico che il bello). E non c’è da meravigliarsi che i più profondi problemi non siano propriamente dei problemi» (prop. 4.003). Dunque: unicamente la scienza ha senso e «la filosofia non è una scienza naturale» (prop. 4.111). «La filosofia non è dottrina, ma attività. Un’o pera filosofica consiste essenzialmente in elucidazioni» (prop. 4.112). E si fa attività filosofica mostrando la capacità dei simboli di rappresentare il simboleggiato e chiarificando le combinazioni dei simboli tra loro. La filosofia, così, si trasforma da dottrina in attività, in attività chiarificatrice degli asserti delle scienze empiriche, delle tautologie logiche e degli asserti matematici, e in attività dissolutrice degli pseudo-asserti della metafisica.
Queste, in breve, sono le idee centrali del Tractatus. Ma Wittgenstein si rende ben conto che, se anche la scienza rappresenta proiettivamente il mondo, tuttavia, al di là della scienza e del mondo, «c’è veramente l’inesprimibile. Si mostra; è ciò che è mistico» (prop. 6.522); «Non come il mondo sia, è ciò che è mistico, ma che esso sia» (prop. 6.44). «Il senso del mondo deve trovarsi al di fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e avviene come avviene: in esso non v’è alcun valore — e se ci fosse non avrebbe alcun valore […]» (prop. 6.4 1). E «noi sentiamo che se pure tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati. Certo, non rimane allora alcuna domanda; e questa è appunto la risposta» (prop. 6.52). «Il problema della vita si risolve quando svanisce» (prop. 6,521). In questi asserti consiste precisamente quella che si chiama la parte mistica del Tractatus.
L’interpretazione non-neopositivistica del “Tractatus”
Letto, discusso, indagato nei presupposti e nei diversi nuclei teorici, interpretato da prospettive diverse, il Tractatus è stato uno dei libri filosofici più influenti di questo secolo. E l’influsso più consistente lo esercitò sui Neopositivisti che, quantunque ne respingessero la parte mistica, ne accettarono l’antimetafisica, ne ripresero la teoria della tautologicità degli asserti logici, ne interpretarono le proposizioni atomiche come protocolli delle scienze empiriche e ne assunsero l’idea che la filosofia fosse attività chiarificatrice del linguaggio scientifico e non dottrina. E attraverso sia l’Introduzione di B. Russell al Tractatus, sia l’interpretazione dei Neopositivisti, il Tractatus fu visto dalla maggior parte degli studiosi come la Bibbia del Neopositivismo.
Senonché, ai nostri giorni, questa immagine del Tractatus è giustamente venuta meno. Wittgenstein non solo non fu membro del Viener Kreis e non partecipò mai alle sedute del Circolo, ma non fu mai Neopositivista. I suoi intenti erano ben diversi da quelli dei Neopositivisti.
[Quello che non è scritto, quello che non è detto poiché non dicibile scientificamente è la parte più importante: l’etica e la religione. Ed è così che si riconciliano in un tutto consistente la “logica” e la “filosofia” del Tractatus con la “mistica” dello stesso Tractatus.]
Il ritorno alla filosofia
[Nella Prefazione al Tractatus, Wittgenstein scriveva che «la verità delle idee qui comunicate è intoccabile e definitiva» e pensava «di avere nell’essenziale risolti definitivamente i problemi». Di conseguenza, Wittgenstein tacque. I problemi erano definitivamente risolti, e per questo il 4 luglio 1924 Wittgenstein scrive a J. M. Keynes (che insieme al matematico E. P. Ramsey si preoccupava di far ritornare il filosofo austriaco a Cambridge): «Lei mi chiede se può far qualcosa per rendermi c nuovo possibile il lavoro scientifico. No, per questa faccenda non c’è più nulla da fare; infatti, io non ho più nessun forte impulso interno per una simile occupazione. Tutto quello che avevo realmente da dire, l’ho già detto e con ciò la sorgente si è inaridita. La cosa può suonare strana, ma è così».]
In realtà, non doveva essere così per lungo tempo. Difatti, nel gennaio del 1929 Wittgenstein era di nuovo a Cambridge. E il ritorno a Cambridge è il ritorno alla filosofia. Wittgenstein, in sostanza, avvertì che i problemi filosofici non erano stati definitivamente risolti. E sebbene il richiamo al lavoro filosofico sembri trovare la motivazione nella conferenza che il matematico intuizionista L. E. Brouwer tenne a Vienna nel marzo 1928 e alla quale Wittgenstein presenziò, non bisogna, riguardo al suo ritorno alla filosofia, dimenticare tre cose: a) gli incontri che Wittgenstein ebbe con alcuni membri del Circolo di Vienna soprattutto Schlick e Waismann , dei quali colloqui abbiamo oggi il resoconto lasciatoci da Waismann nel volume Wittgenstein e il Circolo di Vienna (1967); b) gli “innumerevoli colloqui” che Wittgenstein dice di avere avuto con Ramsey e che avevano avuto per oggetto la revisione dei Principia Mathematica di Russell e le tesi del Tractatus sulla logica e sui fondamenti della matematica; c) il contatto con “il linguaggio reale dei bambini” delle scuole elementari. Questi tre eventi: la riflessione sulla matematica intuizionistica, i colloqui con Ramsey e il linguaggio dei bambini, spingono Wittgenstein ad assumere una nuova prospettiva teorica nell’interpretazione del linguaggio.
Le “ricerche filosofiche” e la teoria dei “giochi di lingua”
Le Ricerche filosofiche iniziano con una serrata critica allo schema interpretativo tradizionale che vede il linguaggio come un insieme di nomi denominanti o designanti degli oggetti, nomi di cose e di persone uniti dall’apparato logico-sintattico costituito da termini quali “e”, “o”, “se... allora”, ecc. E ovvio che, se il linguaggio è così concepito, il comprendere si riduce a dare spiegazioni che si risolvono in definizioni ostensive, le quali definizioni ostensive postula no tutta quella serie di atti e processi mentali che dovrebbero render conto del passaggio dal linguaggio alla realtà. Come ben si vede, la teoria della raffigurazione, l’atomismo logico e il mentalismo sono strettamente congiunti.
In realtà, però, il gioco linguistico della denominazione (Benennungssprachspiel) non è per nulla primario. Difatti, se io dico, indicando una persona o un oggetto: «Questo è Mario», o «questo è rosso», rimarrà sempre per chi mi ascolta una certa ambiguità, non sapendo questi a quale proprietà della persona o dell’oggetto io mi sia riferito. «Dicendo: “ogni parola di questo linguaggio designa qualcosa” non abbiamo detto proprio niente», scrive Wittgenstein nelle Osservazioni sopra i fondamenti della matematica. «Si pensa che l’apprendere il linguaggio consista nel denominare oggetti. E cioè: uomini, forme, colori, dolori, stati d’animo, numeri, ecc. Come s’è detto, il denominare è simile all’attaccare a una cosa un cartellino con un nome. Si può dire che questa è una preparazione all’uso della parola. Ma a che cosa ci prepara?» (Ricerche filosofiche, par. 26).
La teoria della raffigurazione sostiene che, con il nostro linguaggio, noi facciamo una sola cosa: denominiamo. Ma Wittgenstein è persuaso che «invece, con le nostre proposizioni, facciamo le cose più diverse. Si pensi soltanto alle esclamazioni. Con le loro funzioni diversissime.
Acqua! Via! Ahi!
Aiuto! Bello! No!
Adesso sei ancora disposto a chiamare queste parole “denominazione di oggetti”?» (ibid., par. 27).
Con il linguaggio facciamo le cose più varie; “i giochi linguistici” sono innumerevoli: «innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che noi chiamiamo “segni”, “parole”, “pro posizioni”. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati (un’immagine approssimativa potrebbero darla i mutamenti della matematica).
Qui la parola “gioco linguistico” è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita.
Due sono le conseguenze:
1) il senso di una parola non si coglie isolatamente, ma solo nel contesto;
2) il linguaggio esprime, non un mondo di cose, ma la nostra attività sulle cose e con le cose.
Il significato diventa, così, l’uso della parola.
Il movimento analitico di Cambridge ed Oxford
La Filosofia analitica inglese (o, come anche si dice, Filosofia del linguaggio) si è sviluppata in due centri: Cambridge ed Oxford, tanto che si parla di Cambridge-Oxford Philosophy. È più un movimento che una scuola. Tra gli Analisti (non tutti inglesi, ma comunque di lingua inglese), infatti, non c’è un corpus unitario di dottrine e spesso non c’è accordo sui risultati ottenuti. Quello che invece è comune è una specie di mestiere, una mentalità, un tipo di lavoro, che si esercita sulla “lingua” per vedere come funziona il “linguaggio” in modo che, tra l’altro, il mondo per leggere il quale noi usiamo il linguaggio ci appaia maggiormente chiaro e sempre più in profondità. In breve nella Cambridge-Oxford Philosophy spira aria di famiglia.
B. Russell fu studente e professore a Cambridge. E, oltre al suo, i nomi più prestigiosi di Cambridge sono quelli di G. E Moore (1873-1958) e di L. Wittgenstein. La filosofia di Moore si è imperniata sul rifiuto dell’Idealismo (Il rifiuto dell’idealismo 1903) e sulla difesa della verità del senso comune (Difesa del senso comune, 1925); e in filosofia dell’etica (Principia Ethica, 1903) Moore ha combattuto la «fallacia naturalistica» (secondo cui il “bene” è una qualità osservabile delle cose) e ha sostenuto quella che sarà poi una delle correnti più influenti della metaetica analitica, cioè l’intuizionismo, vale a dire l’idea dell’indefinibilità del “bene” (il “bene” è una nozione indefinibile, come “giallo”). Moore fu sostanzialmente estraneo al mondo della scienza. Egli fu invece attratto dalle mostruose asserzioni di quei solitari interpreti dell’universo che sono i filosofi (“il tempo è irreale”; “ non esiste il mondo esterno”, ecc.); e il suo lavoro consistette nella paziente analisi di queste mostruose asserzioni. Moore fu così “il filosofo dei filosofi” ed insegnò a fare filosofia analitica.
A Cambridge, dunque, Russeil, Moore, Wittgenstein, M. E. Johnson, C.D. Broad, e F. P. Ramsey, nonostante le diversità, sostennero tutti che la filosofia è analisi, chiarificazione del linguaggio, e quindi del pensiero. Ed un prodotto di siffatta atmosfera fu la rivista «Analysis» che, diretta da A. Duncan-Jones apparve nel 1933, e alla quale collaborarono, tra gli altri, L. S. Stebbing, C. A. Mace e l’oxoniense G. Ryle. «Analysis» si propose di «pubblicare brevi articoli, su questioni filosofiche circoscritte e definite con precisione, questioni riguardanti la chiarificazione difatti conosciuti, invece che prolisse generalizzazioni e astrattissime speculazioni metafisiche su fatti possibili o sul mondo nella sua totalità».
Wisdom (nato nel 1904) è oggi il più conosciuto filosofo di Cambridge. «La metafisica è paradosso»; è «un tentativo di dire quello che non si può dire»; le asserzioni metafisiche sono «sintomi di penetrazione linguistica». I paradossi (paradossi nei con fronti degli standarcis “normali” dei nostri usi linguistici) metafisici come le asserzioni del solipsista, del difensore dell’irrealtà del mondo esterno, o il principio di verificazione, ecc.— hanno insomma la funzione di aprire degli squarci tra i muri dei nostri apparati intellettuali, di aprire nuovi orizzonti, di porci nuovi problemi: questioni, infatti, che non trovano una risposta, possono generare problemi che hanno una soluzione. In breve: il filosofo è un creatore. Dev’essere «come colui che ha visto molto e non ha dimenticato nulla, e come colui che vede ogni cosa per la prima volta».
È certamente difficile, se non impossibile, etichettare il tipo di lavoro praticato a Cambridge; ma se lo dovessimo fare, diremmo che la caratteristica di tale lavoro è l’analisi filosofica concepita come terapia.
Dopo il 1951 il movimento analitico di Oxford si è venuto sempre più affermando, anche quantitativamente, a differenza di quello di Cambridge, tanto che nel 1953 ad Oxford c’erano circa un migliaio di persone interessate alla filosofia, mentre a Cambridge ce n’erano solo una trentina.
Ad Oxford, la scena intellettuale è stata dominata fino ad una quindicina di anni fa da G. Ryle e J. L. Austin.
Filosofia analitica e linguaggio ordinario
La chiusura del Wiener Kreis è cosa pressoché ignota al movimento analitico di Cambridge ed Oxford, dove l’indagine filosofica si è sviluppata su tutta una serie di grandi temi che vanno dal linguaggio religioso a quello metafisico, a quello della storiografia, dell’etica e della politica, dell’estetica e della percezione. Eppure la filosofia analitica ha subito molteplici e velenosi attacchi, in quanto «filosofia del linguaggio ordinario». In sostanza, l’analisi filosofica è stata accusata di praticare il culto dell’uso comune del linguaggio a scapito dei linguaggi tecnici e inoltre le è stato rimproverato di occuparsi sterilmente del senso delle parole piuttosto che cercare il senso delle cose e della realtà.
Ora, però, da quanto si è detto e come risulterà ovvio da quel che si dirà queste critiche vanno fuori bersaglio. Infatti:
1) è falso sostenere che la Filosofia analitica pratichi il culto dell’uso comune e si disinteressi dei linguaggi tecnici. Forse che i linguaggi della matematica, della logica, del diritto, della fisica, della psicologia e della teologia sono linguaggio ordinario o asserzioni del senso comune? No. E tuttavia a Cambridge e ad Oxford tutti questi strati linguistici costituiscono fecondi ambiti di ricerca.
2) È falso sostenere che la Filosofia analitica, con la sua preoccupazione per il linguaggio e per le parole, eluda i problemi fattuali. Tra l’altro, si perfeziona e si cerca di comprendere meglio il funzionamento del linguaggio per capire — come già sostenne Leibniz più profondamente il mondo dei fatti cui il linguaggio si riferisce.
3) È falso asserire che il senso comune e il linguaggio ordinario siano per gli Analisti il toccasana per ogni problema che si presenti nell’ambito della filosofia. Il linguaggio ordinario, nella pratica della terapia linguistica, è solo la prima, non l’ultima parola della filosofia.
4) Il linguaggio ordinario entra nella pratica della terapia linguistica, nel senso che, quando l’Analista ha dinanzi a sé discorsi (dove giocano termini ed espressioni che si sono allontanati dal linguaggio d’origine, che è quello ordinario, senza che attraverso regole siano stati fissati nuovi significati con la conseguenza di far girare a vuoto entità linguistiche che nel linguaggio ordinario funzionavano), l’Analista si rifà al linguaggio ordinario per vedere se, come, quando, per quali ragioni le espressioni in questione siano state trasferite in contesti linguistici diversi.
5) Pur non essendo nulla di assoluto, né un toccasana per medicare i mali filosofici, il linguaggio ordinario è fatto oggetto d’indagine, da parte di alcuni Analisti, proprio perché è un linguaggio ricco: in esso sono memorizzate esperienze fatte dall’uomo per milioni di anni.
6) L’analisi del linguaggio comune, condotta allo scopo di enucleare la mappa logico-linguistica che guida il nostro approccio ultimo nei confronti del mondo, si avvicina a quella che Strawson ha chiamato metafisica descrittiva, e, in questo senso, può costituire un serio contributo all’etno-linguistica, così come ci è stata proposta, per esempio, da studiosi quali B. L. Whorf [a) Linguaggio, pensiero e realtà; b) Cultura, linguaggio e personalità] e E. Sapir [Il linguaggio].
7) G. E. Moore non ha difeso, contrariamente a quanto pensano M. Lazerowitz, N. Malcolm o A. Ambrose, l’intangibilità del linguaggio ordinario. Moore ha difeso la verità (non dimostrabile con una prova decisiva) del senso comune e, riguardo al linguaggio ordinario, ha sostenuto che in genere in esso si esprimono le verità del senso comune ma che, in ogni caso, questo non è il toccasana della filosofia e che è sicuramente perfettibile.
8) Il “secondo Wittgenstein”, in base al principio di uso, ha affermato che «ordinary language is all right», che compito della filosofia è quello di esaminare il linguaggio, così com’è.
9) Ma il linguaggio così com’è ci mostra, ad avviso di Ryle, un uso del linguaggio ordinario e un uso ordinario del linguaggio, per cui accanto all’analisi del linguaggio ordinario (del linguaggio cioè che usiamo quando non facciamo uso di linguaggi tecnici) c è l’analisi degli usi ordinari, cioè tecnici, del linguaggio.
10) J. L. Austin, da parte sua, ha asserito, a proposito del linguaggio ordinario, che: a) esso deve essere analizzato, specie nelle aree filosoficamente calde (percezione, responsabilità ecc.) perché in esso sono racchiuse finezze e distinzioni le quali possono risultare utili perché, se tali distinzioni e finezze ci sono ed hanno resistito, vuol dire che a qualcosa dovevano pur servire; b) e ciò nella persuasione che il linguaggio ordinario non è l’ultima parola in filosofia, ma solo la prima.
Fonte: http://anteprima.qumran2.net/aree_testi/studi/filosofia/filosofiacontemporanea.zip/Filosofia%20Contemporanea%20(1).doc
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