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L’empirismo inglese: Jhon Locke
La filosofia di John Locke ha due temi principali: da un lato la ricerca di una soluzione per armonizzare le divisioni religiose e politiche che laceravano l’Inghilterra del XVII sec., dall’altro il tentativo di illuminare l’origine e il funzionamento della conoscenza umana.
Nel pensiero di Locke il problema socio-religioso e il problema gnoseologico vanno di pari passo poiché egli ritiene che la giustizia e la convivenza fra confessioni religiose opposte sarà possibile solo se verrà fondata su un’idea di tolleranza religiosa condivisa su basi razionali, e cioè sulla base di un’esperienza comune a tutti gli uomini.
Il nuovo concetto di esperienza formulato da Locke è appunto la cifra fondamentale del pensiero empirista anglosassone e sarà poi ripreso e radicalizzato da David Hume e da molti illuministi del XVIII sec.: l’esperienza ha origine nelle percezioni che i nostri organi di senso ricevono dal mondo esterno e a partire da essa, tramite la riflessione, la nostra mente è in grado di formulare un mondo di idee con le quali possiamo progredire nelle nostre conoscenze.
La concezione empirista dell’esperienza prevede dunque che gli uomini non siano a contatto diretto con la realtà, ma che siano in grado di avere delle percezioni di essa che andranno poi formalizzate e conosciute con le idee della nostra mente.
L’intento di Locke, dunque, non è tanto quello di raggiungere una certezza sulle verità che professiamo, ma di descrivere come funziona l’intelligenza umana così da poter spiegare l’origine e la consistenza di ogni nostra conoscenza di fede o di ragione, vera, falsa o probabile che sia: Kant definì questo tentativo lockiano come la prima “fisiologia dell’intelletto umano” su base naturalista o empirica.
L’io perde così la sua consistenza di sostanza o di anima per divenire soltanto il centro di una funzione mentale che procede attraverso le percezioni degli organi di senso e la riflessione della mente; la stessa realtà non è più fatta di sostanze sussistenti fuori di noi, ma si riduce ad esser soltanto quel qualcosa di cui possiamo farci un’idea a partire dalle nostre percezioni.
Locke compie un’operazione simile quando analizza le strutture portanti dello Stato liberale moderno: il diritto di sovranità dei governanti non proviene da Dio ma dall’esigenza comune dei cittadini di salvaguardare la proprietà privata e la sicurezza di ciascuno.
I cittadini allora delegano i governanti a tutelare i propri diritti fondamentali non sulla base di una antropologia negativa di hobbesiana memoria, ma per una semplice esigenza naturale fondata sul riconoscimento della natura politica dell’essere umano.
Il tema politico e il tema gnoseologico infine trovano il loro fondamento in Dio: Egli ci ha creati dotandoci della sensibilità e della mente così come di una naturale tendenza alla socialità, e questa fede ci toglie dall’imbarazzo del dubbio sulle nostre verità e ci permette di affidarci alla nostra intelligenza come guida sicura della nostra esistenza.
Vita e opere di Locke
Nato nel 1632 da una famiglia puritana a Wrington, vicino Bristol nel Sud dell’Inghilterra, Locke affrontò gli studi classici e delle lingue antiche alla Westminster School di Londra e proseguì gli studi teologici, etici e di filosofia naturale al Christ Church College di Oxford .
Fin da giovane Locke era convinto che per sistemare i dissidi fra Parlamento e Corona britannica e i contrasti fra le diverse sette protestanti inglesi (puritani, presbiteriani, quaccheri, etc.) e la Chiesa anglicana sarebbe stato necessario affidarsi all’idea di una tolleranza religiosa che garantisse la convivenza civile.
Nei due Trattati sul magistrato civile del 1662 e del 1664 Locke sostiene la tesi che le controversie religiose devono essere risolte dall’autorità politica; poi, nei Saggi sulla legge di natura del 1664 cercò di trovare il fondamento razionale della tolleranza nel concetto di legge di natura.
L’incontro del 1666 con lord Anthony Ashley Cooper Conte di Shaftesbury e presidente del Consiglio del re portò Locke a stabilirsi a corte e ad iniziare l’attività di consulente politico e di medico privato della stessa famiglia di Shaftesbury, e divenne membro della Royal Society. Sulla scia del suo protettore, intento a promuovere una politica di pacificazione generale tra le confessioni protestanti del paese, Locke scrisse nel 1667 il suo Saggio sulla tolleranza circa i rapporti tra Stato e Chiesa d’Inghilterra.
Trasferitosi a Parigi nel 1675 per problemi di asma, si interessò alla filosofia cartesiana e ai suoi commentatori da cui trasse la nozione di “idea” .
Tornato a Londra nel 1769 riprese l’attività diplomatica fino a quando Shaftesbury cadde in digrazia per un’accusa di alto tradimento contro il re Carlo II nel 1682.
Locke riparò in Olanda dove conobbe la setta calvinista dei rimostranti e dove stese la prima Lettera sulla tolleranza, i Due trattati sul governo e il Saggio sull’intelletto umano, coinvolgendosi con gli organizzatori della imminente Gloriosa rivoluzione .
Al seguito di Gugliemo III d’Orange, nel 1689 Locke riprese la sua attività politica in patria come commissario d’appello e come commissario del commercio e delle colonie, pubblicando anche le Considerazioni sulle conseguenze che derivano dalla diminuzione dell’interesse del denaro nel 1690 e altre due Lettere sulla tolleranza nel 1792. Nel 1693 pubblicò i Pensieri sull’educazione e nel 1697 un libello sulla Condotta dell’intelletto. Infine si dedicò all’esegesi biblica con la pubblicazione nel 1695 de la Ragionevolezza del cristianesimo. Lasciati tutti i suoi incarichi politici nel 1700, stese le Parafrasi e note alle Epistole di san Paolo ai Galati, ai Corinzi, ai Romani, agli Efesini e un Saggio per la comprensione delle Epistole di san Paolo, consultando lo stesso Paolo. Morì a Oates il 28 ottobre 1704.
Dal problema sociale al problema conoscitivo.
Secondo Locke l’uomo è in grado di giungere alla verità circa i problemi etici, politici e religiosi tramite l’esercizio della propria ragione, in forza della cosiddetta legge di natura. La legge di natura è presente in ogni uomo come verità razionale originaria e può essere conosciuta semplicemente “impiegando in maniera appropriata le facoltà di cui [ogni uomo] è stato dotato dalla natura”.
Questa verità razionale originaria, ovvero la legge di natura, è l’unico terreno comune a tutti gli uomini utile per rifondare una nuova forma di convivenza civile, ed è per questo motivo socio-politico che risulta allora necessario comprendere come si origini in noi tale verità originaria ed ogni possibile conoscenza.
I filosofi del passato hanno proposto diverse teorie sull’origine della legge di natura: alcuni sostenevano che la legge di natura sia innata, ovvero “scolpita dalla natura nell’animo di tutti”; altri sostennero che la legge di natura ci è trasmessa per tradizione da parte delle autorità morali e civili delle proprie comunità; altri ancora pensarono che la legge di natura abbia origine in noi per via di “ciò che percepiamo con i nostri sensi”.
Le ipotesi innatista e tradizionalista sono confutate dal fatto che non si sia mai trovato nella storia un accordo universale tra gli uomini circa la legge di natura e dall’attestazione di molteplici diverse tradizioni dei popoli che assumono principi spesso radicalmente opposti.
La legge di natura, conclude Locke, ci è dunque insegnata dai sensi, intesi come parte integrante dell’unico lume naturale che guida ogni nostra conoscenza: “a quanto sembra, infatti, sono soltanto queste due facoltà [il senso e la ragione] a educare, ad ammaestrare la mente umana e a compiere la funzione propria di ogni luce, cioè di far sì che le cose, altrimenti del tutto ignote e nascoste nelle tenebre, si rendano accessibili all’osservazione, alla conoscenza, all’analisi della mente” .
L’esperienza sensibile, da cui si originano tutte le nostre conoscenze, si forma dall’azione combinata dei sensi e della ragione: i sensi forniscono “le idee delle cose sensibili” alla ragione, ovvero i contenuti di ogni nostro pensiero; la ragione invece, intesa da Locke come “facoltà discorsiva dell’anima”, permette di passare dalle cose note a quelle ignote secondo deduzioni logiche e consequenziali. Soltanto insieme, i sensi e la ragione permettono la “costruzione della conoscenza”. Così osservando con i sensi la bellezza della natura possiamo contemplare la gloria del suo Creatore; attraverso il naturale istinto di sopravvivenza possiamo prenderci cura di noi stessi come di esseri destinati all’eternità; attraverso la nostra natura le tendenza a vivere in comunità ci volgiamo a curarci del prossimo.
L’origine delle nostre idee: l’esperienza
All’inizio del suo Saggio sull’intelletto umano, Locke dichiara esplicitamente che prima di occuparsi della pacificazione politica tra le diverse confessioni religiose inglesi “era necessario esaminare le nostre stesse capacità, e veder quali oggetti siano alla portata della nostra intelligenza, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione” .
Ha così inizio il primo trattato moderno di gnoseologia. Non si tratta più di cercare il fondamento metafisico della verità, bensì di descrivere l’origine sensibile di tutte le nostre idee e di indagare il funzionamento della mente umana nel parlare e nel giudicare in senso lato: “Ecco il metodo che ho deciso di seguire. Esaminerò innanzitutto quale sia l’origine delle idee, nozioni o come vi piaccia chiamarle, che l’uomo osserva in sé e che è conscio di fronte a sé stesso di avere nella propria mente; e con quali mezzi l’intelligenza si trovi rifornita di queste idee. In secondo luogo cercherò di far vedere quale sia la conoscenza che l’intelligenza acquista per mezzo di queste idee; e quale sia la certezza, l’evidenza e l’estensione di tale conoscenza. In terzo luogo, farò qualche indagine sulla natura e i fondamenti della fede o dell’opinione; con le quali parole intendo quell’assenso che noi diamo a una proposizione come veritiera, benché non abbiamo una conoscenza certa della sua verità. E qui avremo occasione di esaminare le ragioni e i gradi dell’assenso” .
Locke procede così a criticare l’innatismo , definendola come un’inutile teoria per la quale tutti gli uomini avrebbero iscritti nella propria anima fin dalla nascita alcune verità universali (come il principio di non contraddizione per cui “è impossibile che una cosa sia e allo stesso tempo non sia”) e alcune regole morali (come il principio evangelico “non fate ad altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi”): gli uomini invece interpretano ognuno a suo modo tali principi che appunto non possono essere considerati come innati.
Al contrario la nostra mente è, secondo Locke, originariamente vuota, una tabula rasa senza idee e senza conoscenze pregresse.
Tutto ciò che sappiamo quindi non può essere già dato ma dev’essere stato acquisito tramite le nostre facoltà conoscitive. Bisogna allora comprendere come funzionano le nostre facoltà e vedere come da esse si originano le idee che abbiamo nella mente.
Idea, per locke, indica “tutto ciò che è oggetto della nostra intelligenza quando pensiamo” o quando compiamo una qualsiasi operazione cognitiva come il percepire, il ricordare, l’immaginare, etc.
Così, da Locke in avanti, il termine idea non indica più qualcosa che ha una sua consistenza propria e che si riferisce a qualcosa di altro dalla nostra mente, ma va a coincidere con lo stesso contenuto mentale, come un qualcosa che è immanente alla mente stessa.
Secondo Locke le idee non servono a farci conoscere qualcosa, ma sono esse stesse gli unici oggetti che conosciamo, e le idee non hanno altra origine che non sia l’esperienza: “Supponiamo dunque che la mente sia quel che si chiama un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea. In che modo esso giungerà a ricevere delle idee? Donde e come ne acquista quella quantità prodigiosa che l’immaginazione dell’uomo, sempre all’opera e senza limiti, le offre con una varietà senza limiti? Donde ha tratto tutti questi materiali della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: l’esperienza. È questo il fondamento di tutte le nostre conoscenze, da cui esse traggono la loro prima origine. Le osservazioni che facciamo sia intorno agli oggetti esteriori e sensibili, sia intorno alle operazioni interiori della nostra mente, che percepiamo e sulle quali noi stessi riflettiamo, forniscono la nostra intelligenza di tutti i materiali del pensiero. Sono queste le due sorgenti da cui discendono tutte le idee che abbiamo, o che possiamo avere naturalmente” .
L’esperienza è costituita quindi di sensazioni e di riflessioni: le sensazioni forniscono alla mente “le idee delle qualità sensibili” dei corpi esterni con cui entriamo in contatto; le riflessioni invece ci permettono di percepire le operazioni che la mente stessa compie sulle idee ricevute tramite le sensazioni e di ricavare altre idee ancora, ovvero “le idee delle sue proprie operazioni”, come ad esempio l’idea del ricordare, l’idea del percepire, l’idea del pensare, l’idea del credere, etc.
È possibile ora classificare tutte le idee che possediamo sapendo che esse si sono originate dalla sensazione o dalla riflessione o ancora dalla combinazione operata dalla nostra mente di queste idee prime.
Locke chiama idee semplici le idee di cui l’intelligenza ha una percezione uniforme, senza varietà o composizione: queste possono provenire da un senso solo (come il colore dalla vista o l’odore dall’olfatto), da più sensi (come le idee di spazio e di movimento date da vista e tatto insieme) o infine dalla riflessione, che ci offre l’idea semplice delle operazioni della nostra mente come il pensare, il percepire, il ricordare, etc. Dall’unione di sensazione e riflessione si generano altre idee semplici come i numeri, l’esistenza, il potere, il piacere, etc. Locke chiama invece qualità “il potere che un oggetto ha di produrre una certa idea nella mente” (ad es. le qualità di una palla di neve coincidono con il potere che essa ha di produrre nella nostra mente le idee di bianco, freddo e rotondo).
Le qualità possono essere primarie o secondarie: le prime sono proprie dei corpi e si conservano sempre, a prescindere dal fatto che noi le percepiamo o meno, come “la solidità, l’estensione, la figura, il numero, il movimento o il riposo”; le secondarie invece dipendono dal movimento di particelle che dai corpi colpiscono i nostri organi di senso e tramite i nervi giungono alla mente producendo le idee dei colori, dei suoni, dei sapori e degli odori, etc.
Secondo Locke dunque non è possibile affermare che il fuoco appartenga per natura al fuoco, o che il freddo appartenga per natura alla neve, in quanto il freddo e il caldo sono soltanto sensazioni nostre che si trasformano in idee della nostra mente : il calore del fuoco può diventare idea del dolore se ci bruciamo, ma non possiamo comunque affermare che il dolore si trovi nel fuoco.
Se le idee semplici sono ricevute passivamente dalla nostra mente, vi sono altre idee generate da alcune operazioni mentali che combinano o separano fra loro i materiali propri delle idee semplici, e prendono il nome di idee complesse.
Le idee complesse sono formate dall’unione di più idee semplici o dal confronto fra diverse idee o dalla scomposizione o astrazione di un’idea da tutte le altre.
Idee complesse sono innanzitutto i modi con cui si presenta un’idea semplice: ad esempio l’idea semplice di spazio può darsi nel modo o idea complessa dell’estensione o anche l’idea semplice di durata può darsi nel modo o idea complessa di eternità.
Idee complesse sono pure le idee delle sostanze che otteniamo dalla combinazione di idee semplici e che la nostra mente è abituata a considerare come “cose particolari distinte, sussistenti di per sé stesse”.
Le idee delle relazioni infine sono idee complesse che otteniamo dal “considerare e confrontare un’idea con un’altra”, come nel caso dell’idea di “causa ed effetto”.
Quindi tutte le nostre idee derivano dalla sensazione o dalla riflessione - idee semplici - o dalla combinazione fra queste - idee complesse.
Sebbene Locke si sia formato nel solco della tradizione della filosofia scolastica, per la quale la sostanza è ciò che esiste di per sé, egli risentì della corrente inglese a lui contemporanea chiamata fenomenismo la quale spiegava la natura solo in base a ciò che appare ai nostri sensi.
Così Locke, pur affermando che le idee si riferiscano a qualità proprie delle cose fuori di noi, critica l’idea di sostanza negando che l’uomo sia in grado di conoscere la natura essenziale delle cose e sostenendo che questa rimarrà per sempre inaccessibile alla nostra mente: “Poiché, come ho spiegato, la mente è provvista di un gran numero di idee semplici, che le vengono recate dai sensi così come si trovano nelle cose esterne, o dalla riflessione sulle sue proprie operazioni, essa osserva altresì che un certo numero di queste idee semplici vanno costantemente assieme; e poiché si presume che esse appartengano ad una medesima cosa, e le parole sono adattate alla comune comprensione, e di esse si fa uso per un rapido scambio, queste idee, così riunite in un solo oggetto, vengono chiamate con un solo nome. Ma poi, per disattenzione, siamo portati a parlarne considerandola come una sola idea semplice, mentre invece si tratta di una complicazione di molte idee messe insieme. E questo, come ho già detto, perché non sappiamo immaginare in qual modo queste idee semplici possano sussistere da sole, e pertanto ci abituiamo a supporre un qualche substratum nel quale esse effettivamente sussistano e di cui siano il risultato: e quello chiamiamo, perciò, sostanza” .
Il tradizionale sostrato metafisico, la sostanza, risulta così il frutto di una disattenzione con cui la nostra mente scambia un’idea complessa per un qualcosa di unitario che esiste di per sé e che erroneamente consideriamo come il punto sorgivo di tutte le qualità che sperimentiamo.
Perciò secondo Locke noi avremo sempre e soltanto una conoscenza “oscura e confusa” circa l’idea di sostanza, spirituale o materiale che sia, la quale appunto non giungerà mai ad essere una nozione “chiara e distinta” nella nostra mente: “la sensazione ci convince che vi sono delle sostanze estese e solide, e la riflessione, che vi sono delle sostanze pensanti. L’esperienza ci assicura dell’esistenza di tali esseri, e dal fatto che l’uno ha il potere di muovere un corpo mediante l’impulso, l’altro mediante il pensiero: di questo non possiamo dubitare. L’esperienza, dico, ci fornisce ad ogni istante delle chiare idee sia dell’una cosa che dell’altra. Ma oltre queste idee, quali son ricevute attraverso le loro fonti appropriate, le nostre facoltà non giungono. Se cerchiamo di indagare più a fondo nella loro natura, causa e modi, non percepiamo la natura dell’estensione più chiaramente di quanto comprendiamo la natura del pensiero” .
L’uomo dunque può accedere alla realtà soltanto attraverso le facoltà conoscitive della sensazione e della riflessione, che rappresentano però anche i confini dei nostri pensieri, oltre i quali la mente, per quanti sforzi faccia, non è in grado di avanzare di un passo.
Se la conoscenza delle sostanze ci è preclusa, tuttavia possiamo utilizzare il linguaggio e le parole in relazione all’esperienza che abbiamo del mondo: il linguaggio infatti è utile per permettere la comunicazione (necessaria al fine di mantenere unita una società), è importante per la conoscenza (che si serve sempre di asserzioni linguistiche) e, infine, è legato all’esperienza per via delle parole, considerate come “i segni sensibili delle idee” che abbiamo nella mente.
Le parole si riferiscono dunque alle idee della mente, semplici o complesse che siano; dunque i termini generali o universali che usiamo, secondo la tradizione occamista, indicheranno proprio e soltanto quelle idee elaborate dalla mente associando più individui particolari o astraendo dalle cose particolari dell’esperienza alcuni aspetti purificati dalle sue determinate condizioni di spazio e tempo: “è chiaro che il generale e l’universale non appartengono all’esistenza reale delle cose, ma sono invenzioni e creature dell’intelligenza, fatte da essa per il suo uso, e riguardano soltanto dei segni, siano essi parole o idee” .
Locke definisce i nomi generali (ovvero i segni sensibili delle idee generali) essenze nominali, proprio perché non indicano essenze reali, ma per il fatto che producono nella mente “i legami tra le cose particolari che esistono” e forniscono così “i nomi sotto i quali le cose stesse dovranno essere catalogate”.
Conoscenza certa e conoscenza probabile: Knowledge e Judgment.
Se da un lato la nostra conoscenza dipende dal fatto di avere delle idee nella mente, dall’altro essa consiste propriamente nella concatenazione tra idee, e può essere più o meno certa.
La conoscenza consiste, per Locke, nella “percezione del legame e della concordanza, oppure del contrasto e della discordanza tra le nostre idee, quali che siano”.
La concordanza o la discordanza tra le idee può derivare dalla constatazione della identità di un’idea con sé stessa (e quindi dalla sua diversità rispetto alle altre idee), della relazione che sussiste tra diverse idee, della coesistenza o meno di diverse idee in uno stesso soggetto e, infine, della sua esistenza reale fuori dallo spirito: “ ‘Il blu non è giallo’ è un’affermazione circa l’identità. ‘Due triangoli su basi uguali tra due parallele sono uguali’ è un’affermazione di relazione. ‘Il ferro è suscettibile agli influssi magnetici’ è un’affermazione di coesistenza. ‘Dio esiste’ è un’affermazione di esistenza reale” .
La nostra conoscenza è certa quando ha il carattere dell’evidenza, la quale si evince o tramite una intuizione immediata di un’idea (come quando intuiamo l’esistenza del nostro io dubitante), o tramite un ragionamento dimostrativo tra più idee (quando dimostriamo la necessità dell’esistenza di Dio come sommo artefice della realtà), o tramite i sensi che attestano passivamente, e quindi in modo incontrovertibile, l’esistenza reale di oggetti esterni a noi.
Al di fuori della conoscenza certa, ovvero la Knowledge derivante dall’intuizione, dalla razionalità e dalla sensibilità, si apre l’orizzonte dell’opinione, ovvero delle conoscenze soltanto probabili, che Locke chiama Judgemnt.
L’uomo ha un’infinità di idee nella mente che, pur non sono evidenti, lo costringono a prendere posizione e a decidere di volta in volta.
È proprio la facoltà del giudizio che interviene in questi casi facendoci decidere per ciò che riteniamo più ragionevole in base al maggiore o minore assenso che concediamo a certe nostre credenze o abitudini.
Il giudizio interviene dunque nel regno della probabilità, che purtroppo riguarda la maggior parte dei nostri interessi pratici quotidiani. Il giudizio rimane comunque una facoltà razionale poiché agisce in base all’accordo che rinveniamo tra un fatto e la nostra esperienza passata (ad es. se il fuoco ci ha bruciato una volta, è probabile e ragionevole pensare che ci brucerà ancora), oppure in base alla testimonianza che ci offerta da altri uomini che consideriamo affidabili (ad es. è ragionevole fidarsi di ciò affermano gli storici sulla base di documenti e prove da loro verificate). Anche riguardo ad altri fenomeni soltanto probabili, come l’esistenza della gravità o degli angeli, è ragionevole prendere posizione e concedere il nostro assenso verso ciò che ci appare plausibile.
La ragione è appunto la facoltà comune a tutti gli uomini che è responsabile delle nostre conoscenze e che regola l’assenso che concediamo a questioni soltanto probabili.
Se è la ragione a dover verificare la verità dei contenuti delle rivelazione divina, allora la fede non potrà che essere un atto conoscitivo razionale: la “fede non è altro se non un saldo assenso della mente; il quale, se ben regolato, come sarebbe dover nostro, non può essere dato a cosa alcuna se non per una buona ragione: e, perciò, non può essere opposto alla ragione” .
Il Saggio sull’intelletto umano fu criticato duramente da diverse personalità ecclesiastiche, primo fra tutti il vescovo di Worcester Edward Stillingfleet: Locke fu accusato di aver ridotto ogni certezza di fede a credenza meramente probabile; di aver tolto al dogma trinitario, in quanto conoscenza oscura e confusa, ogni fondamento razionale; di sostenere ultimamente una posizione deista, per la quale nell’indagine teologica vanno accettati soltanto argomenti provenienti dalla ragione naturale e dev’essere respinta ogni rivelazione storica ed ogni confessione ecclesiastica. Locke si difese sostenendo la centralità delle Sacre Scritture che considerava come guida costante per il nostro assenso e uniche depositarie di una verità infallibile circa le verità rivelate.
Negli ultimi anni della sua vita, infatti, Locke si dedicò infatti allo studio esegetico della Bibbia e scrisse la Ragionevolezza del cristianesimo e opere di commento alle lettere di San Paolo sostenendo che soltanto l’interpretazione letterale delle Bibbia è autentica difesa contro le interpretazione dogmatiche.
Locke conclude che Gesù è realmente il Messia profetizzato dall’Antico Testamento; che la fede richiede le opere, il pentimento e la conversione continua; che nella predicazione di Gesù emerge la coincidenza tra la legge morale naturale – che ciascun uomo può raggiungere con la propria razionalità – e la legge morale rivelata da Dio attestata autorevolmente dalle Sacre Scritture.
Il criterio per distinguere una verità autenticamente rivelata da credenze false e superstiziose, secondo Locke, è quello di osservare se le verità in cui diciamo di credere non risultino incompatibili con le idee chiare e distinte che possediamo nella nostra mente.
La ragione infatti “non è offesa né turbata” da ciò che, provenendo dalla fede, le è superiore; anzi essa è “aiutata e accresciuta da quelle nuove scoperte della verità che provengono dall’eterna fonte di ogni conoscenza” che è Dio. Il problema è che le verità religiose che professiamo non confliggano con le nostre naturali facoltà conoscitive, secondo la visione tipica del deismo .
Il deismo è una dottrina filosofico-religiosa puramente naturale che fa coincidere Dio con l’Ente supremo - o supremo Architetto del mondo –, il quale avrebbe creato l’Universo secondo leggi fisiche e meccaniche immutabili. Il desimo non ammette contenuti religiosi rivelati, miracoli o misteri soprannaturali e rifiuta in maniera decisa ogni dogma ed ogni Chiesa positiva. Nella prospettiva del deismo essere religiosi coincide con l’assumere e mantenere una condotta di vita morale e irreprensibile, che verrà premiata dall’Autore del mondo nell’al di là. Il deismo è nato in Inghilterra nel clima della scuola platonica di Cambridge, di cui gli esponenti più celebri furono Herbert di Cherbury (La verità, 1624) e John Toland (Cristianesimo senza misteri, 1696). Quest’ultimo accolse positivamente molte delle tesi gnoseologiche lockiane.
In questo caso cadremmo nel fanatismo superstizioso che Locke definisce come entusiasmo irrazionale o fideismo.
Il fideismo è proprio di coloro che pretendono di aver ricevuto direttamente da Dio, attraverso esperienze mistiche e interiori, alcune verità ultime e segrete.
Questo tipo di uomini vivono in realtà un’esperienza del tutto vaga, la quale, “lasciando da parte la ragione, vorrebbe stabilire la rivelazione senza di essa [ragione]”. Il fideismo porta le diverse sette cristiane al fanatismo, all’odio e quindi alla violenza degli uni contro gli altri, minando la convivenza pacifica delle persone in uno Stato.
Soltanto la ragione e l’obbedienza ai testi sacri, entrambi di origine divina, permettono di evitare lo scoppio delle guerre di religione e il caos sociale che ne deriverebbe.
Il pensiero liberale: dallo stato di natura allo stato di diritto in vista del bene comune.
Il tema politico è il cuore della riflessione di Locke. Dopo aver criticato l’assolutismo monarchico e il diritto divino dei re nel primo dei Due trattati sul governo, nel secondo, intitolato Saggio sulla vera origine, l’estensione e il fine del governo civile, il filosofo inglese espone la sua teoria politica più originale: l’uomo nello stato di natura, prima di ogni possibile associazione e prima di qualsiasi organizzazione comunitaria, civile o statale, possiede dei diritti innati che però non è in grado di salvaguardare; lo stato di diritto nasce allora dalla libera associazione tra gli uomini che intendono difendere i propri diritti costituivi attraverso leggi e apposite autorità civili.
Lo stato di diritto nasce dunque sulla base dello stato di natura, con lo scopo di perfezionare quest’ultimo. Nello stato di natura gli uomini, “non avendo nessuno più di un altro”, nascono liberi ed eguali, sottoposti ad una legge di natura che vincola naturalmente gli uni al rispetto degli altri, e, proprio per questa ragione, “essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi” .
Al contrario di Hobbes , che considerava lo stato di natura come una condizione di continua guerra fra individui naturalmente egoisti e violenti, Locke concepisce lo stato di natura come una condizione di pacifica concordia, obbligata dalla legge di natura all’amore e al rispetto reciproco.
È possibile però che qualcuno, violando la legge di natura, porti guerra, violenza, inimicizia e distruzione: evitare tale stato di guerra è allora “l’unico grande motivo per cui gli uomini si costituiscono in società e abbandonano lo stato di natura”.
La libertà naturale, infatti, si può pienamente realizzare soltanto nello stato di diritto che, tramite la forza delle leggi, la può tutelare: “Il solo modo in cui un uomo si spoglia della sua libertà naturale e assume su di sé i vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per associarsi e unirsi in una comunità al fine di vivere gli uni con gli altri in comodità, sicurezza e pace, nel sicuro godimento della sua proprietà e con una maggiore protezione contro coloro che non vi appartengono” .
Per preservare da violazioni arbitrarie la propria vita, la propria libertà e i propri beni o proprietà, gli uomini, stipulando liberamente un contratto sociale, decidono di sottomettere le proprie volontà individuali allo stato e si uniscono in un solo corpo civile governato, attraverso il consenso della maggioranza, in vista del bene comune.
Non c’è dunque contrapposizione tra stato di natura e stato di diritto, ma il secondo si rivela essere l’unica possibilità di compimento e di reale tutela del primo.
Lo stato di diritto infatti crea la legge, a cui tutti gli individui devono sottomettersi e vincolarsi; esso crea la figura del giudice imparziale, che emana giuste sentenze e che ne verifica l’esecuzione; infine, lo stato di diritto permette di far rispettare le proprie giuste leggi anche ad altre civiltà esterne alla propria.
Il potere legislativo, “il potere supremo in ogni Stato”, è legittimato dal consenso della maggioranza e regola i rapporti tra gli individui in vista del bene comune. Chi detiene tale potere, persona singola o assemblea che sia, risponderà del suo operato solo di fronte al popolo, e verrà giudicato, ad esempio, grazie a periodiche elezioni.
Nella concezione liberale lockiana il legislatore “non è, nè può essere assolutamente arbitrario riguardo alla vita e ai beni del popolo”, ma deve rispettare i diritti naturali alla vita e alla proprietà dei cittadini, pena la sua caduta; il legislatore dev’essere imparziale e, a tale scopo, non può “governare per mezzo di decreti estemporanei o arbitrari, ma è tenuto a dispensare la giustizia e a stabilire i diritti dei sudditi per mezzo di leggi promulgate e di giudici autorizzati e riconosciuti”; il legislatore non può nemmeno imporre tributi che sottraggano ad un uomo parte della sua proprietà senza il consenso della maggioranza, poiché scopo di un governo legislativo è proprio quello di garantire “che gli uomini abbiano proprietà e sicurezza dei loro beni”; infine, il legislatore non può trasferire in altre mani il potere di emanare le leggi, poiché tale potere gli è stato affidato dalla volontà del popolo che unicamente “può stabilire la forma dello Stato”.
Per evitare che il legislatore sia ingiusto e si esoneri dal rispetto alle stesse leggi che produce , è necessario costituire un altro potere - chiamato esecutivo o giudiziario - “sempre in atto che vigili sull’esecuzione delle leggi emanate”.
Tale potere può essere affidato anche ad una sola persona, la figura del “sovrano”, a cui viene concesso il ruolo di “supremo esecutore della legge fatta dal potere congiunto suo e altrui”.
Il sovrano e i magistrati a lui inferiori ottengono così il loro legittimo potere dal consenso della maggioranza del popolo in vista del bene comune dei cittadini, e diventano così gli autentici simboli dello Stato. Se i detentori del potere esecutivo, si opponessero con forza e violenza arbitraria alle leggi emanate dal legislativo, allora il popolo legittimamente potrà sopprimere tale potere concederlo nuovamente ad altri.
In ultimo lo stato di diritto stabilisce il potere federativo - spesso associato all’esecutivo -, ovvero “il potere di guerra e di pace”, tramite il quale si costituiscono “leghe e alleanze e tutti i negoziati con tutte le persone e le comunità che sono fuori dello Stato” in vista “della sicurezza e dell’interesse della comunità all’esterno”. Il potere federativo non può essere fondato su leggi di natura preesistenti ma dev’essere affidato “alla prudenza e alla saggezza di coloro nelle cui mani si trova”, poiché riguarda i rapporti con comunità che possono essere estranee allo stato di diritto.
Ecco dunque in sintesi il contenuto del pensiero politico liberale, fondamento della monarchia costituzionale inglese e di ogni stato democratico moderno: “chiunque detenga il potere legislativo o supremo di uno Stato è tenuto a governare secondo leggi stabilite e fisse, promulgate e rese note al popolo, e non secondo decreti estemporanei; per mezzo di giudizi imparziali e retti, che decidano le controversie secondo quelle leggi; e a impiegare la forza della comunità all’interno solo per l’esecuzione di quelle leggi, e all’esterno al fine di prevedere e risarcire le offese esterne, e mettere al sicuro la comunità da incursioni e invasioni. E tutto questo non deve essere diretto ad altro fine che la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo”
La tolleranza e la convivenza civile.
Nella prima Lettera sulla tolleranza del 1689 Locke, avendo ben presente la pacifica comunità calvinista olandese, afferma che la reciproca tolleranza tra i cristiani sia “il più importante segno di riconoscimento di una vera Chiesa”: la forza, la costrizione e la tortura dovranno ovunque essere abolite e sostituite dai principi evangelici dell’amore, della carità e della benevolenza, al fine di “regolare la vita umana con rettitudine e pietà”.
Secondo Locke, “la tolleranza di quelli che hanno opinioni religiose diverse è così consona al Vangelo e alla ragione, che sembra mostruoso che gli uomini siano ciechi in una luce così chiara”.
Il problema della tolleranza riguarda essenzialmente la concezione del rapporto che lega lo Stato e la Chiesa, i quali, per Locke, devono rimanere separati “come il cielo e la terra”, secondo “confini fissi e irrevocabili”: da un lato lo Stato è “una società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili”, dall’altro la Chiesa è “una società libera e volontaria” che nasce “per ottenere la salvezza dell’anima”.
Se Stato e Chiesa riguardano però il medesimo individuo-cittadino, in una ipotetica controversia chi avrà il diritto di stabilire cosa sia giusto e cosa sia invece illecito?
Locke non ha dubbi sul fatto che lo il magistrato civile abbia sempre il primato sull’autorità della Chiesa e che debba intervenire e regolare anche le questioni di ordine religioso, poiché egli ha la responsabilità dell’utilità pubblica che, al di sopra dei credi religiosi, è l’unica “regola e misura delle leggi”.
Lo Stato dovrà dunque essere sempre tollerante verso quelle “cose indifferenti”, quali, ad esempio, l’esercizio del culto e l’abbigliamento religioso, a meno che risultino dannosi per il bene pubblico.
Allo stesso modo bisogna tollerare le credenze religiose di ciascuno, a patto che non ledano i diritti civili dei cittadini: il potere civile infatti non può costringere in nessun caso “l’intelligenza umana” per quel che riguarda il contenuto delle sue credenze.
Le azioni e la rettitudine dei costumi, invece, sono giudicati sia dal tribunale della coscienza di ciascuno (secondo il principio per cui prima “si deve obbedienza a Dio, poi alle leggi”), sia dal tribunale del magistrato civile, che deve vigilare affinché non venga turbato e offeso il bene pubblico stabilito dalle leggi del diritto positivo. In linea teorica, sostiene Locke, se lo stato viene governato con giustizia e la coscienza è guidata dalla legge naturale, non si avrà alcuna contraddizione tra il tribunale della coscienza e quello del magistrato civile.
Infine, lo stato non potrà mai tollerare quei culti e quelle credenze avverse alla società umana e ai buoni costumi e nemmeno quelle confessioni religiose che si ritengono portatrici di valori e diritti superiori a quelli riconosciuti e garantiti dalle leggi dello stato, come ad esempio il diritto di scacciare un re eretico sostenuto dai cattolici.
I cattolici, inoltre, definiti “papisti” in quanto riconoscono al Pontefice romano un’autorità più alta rispetto a quello dello stato, sono portati ad obbedire al papa prima che al re e perciò vanno perseguitati, ovvero “tollerati o soppressi nella misura in cui l’uno o l’altro di questi trattamenti può servire a diminuirne il numero e ad indebolirne il partito” .
Lo Stato non può tollerare nemmeno quelle religioni, come l’Islam, che non riconoscono la separazione tra il potere spirituale e il potere temporale e che tendono a imporre una “legislazione straniera” nei territori dove vanno a stabilirsi. Anche gli atei, negando Dio, minano la stabilità di uno stato poiché tolgono il fondamento ad ogni promessa, patto e giuramento, impedendo che tali atti giuridici e civili possano essere considerati “qualcosa di stabile e di sacro”.
In generale comunque, è il rifiuto della tolleranza a generare le guerre fra religioni: “Non la differenza delle credenze, che non può essere evitata, ma il rifiuto della tolleranza, che poteva essere concessa, a quelli che nutrono credenze diverse, ha prodotto la maggior parte delle lotte e delle guerre, che nel mondo cristiano sono nate dalla religione. […] La storia prova, più di quanto occorra, che finora queste cose sono andate così, e che così sarà in futuro dimostra la ragione, fino a quando magistrato e popolo ammetteranno il principio della persecuzione per questioni religiose, e fino a quando quelli che dovrebbero essere i messaggeri della pace e della concordia chiameranno gli uomini alle armi e da ogni lato li inciteranno alla guerra” .
Locke- testi
La critica dell'innatismo
La prima conseguenza del principio lockiano fondamentale, secondo cui tutte le idee derivano sempre e soltanto dall'esperienza, è che non esistono idee innate. Questa importante argomentazione, che polemizza soprattutto contro l'appello degli innatisti al "consenso universale", è svolta da Locke nel primo libro dei Saggio sull'intelletto umano (1690).
1. L'erronea opinione che sussistano princìpi innati nello spirito
È opinione diffusa che ci siano nell'intelletto certi princìpi innati, alcune nozioni primarie, caratteri, per così dire, impressi nello spirito dell'uomo, che l’anima riceve fin dal primo momento della sua esistenza e porta con sé nel mondo. Sarebbe sufficiente, per convincere i lettori scevri da pregiudizi della falsità di questa supposizione il mostrare (come spero di fare nelle seguenti parti di questo discorso) come gli uomini, soltanto col semplice uso delle loro facoltà naturali, possono acquistare tutta la conoscenza che hanno senza il soccorso di alcuna impressione innata e raggiungere la certezza, senza tali nozioni originarie o princìpi. Infatti mi si concederà facilmente, credo, che sarebbe incongruo supporre che le idee dei colori siano innate in una creatura alla quale Dio ha dato la vista e il potere di riceverle con gli occhi dagli oggetti esterni; e non sarebbe meno irragionevole attribuire molte verità alle impressioni della natura o ai caratteri innati, quando possiamo osservare in noi stessi facoltà adatte per acquisire una conoscenza di esse altrettanto facile e certa come se fossero originariamente impresse nel nostro spirito.
Ma poiché ad un uomo non è permesso senza biasimo di seguire i propri pensieri nella ricerca della verità, quando essi lo conducono anche per poco fuori dalla strada comune, esporrò i motivi che mi hanno fatto dubitare della verità di quell'opinione, quale scusa per il mio errore, se ne ho fatto uno, - il che lascio giudicare a coloro che, come me, sono disposti ad abbracciare la verità ovunque la trovino.
2. L'argomento del consenso universale e la sua insufficienza
Non v'è opinione più comunemente accettata di quella secondo la quale ci sono certi princìpi, sia speculativi che pratici (giacché ci si riferisce ad entrambi), sui quali l'umanità è universalmente concorde, questi princìpi, si dice, devono quindi necessariamente essere le impressioni costanti che l'anima degli uomini riceve con l'esistenza stessa e porta nel mondo con sé con altrettanta necessità e realtà delle loro facoltà inerenti.
Questo argomento, tratto dal consenso universale, presenta l’inconveniente che, se fosse vero in linea di fatto che ci sono verità sulle quali tutta l'umanità è d'accordo, ciò non proverebbe che sono innate, se c'è un'altra maniera qualsiasi per indicare come gli uomini giungono a quell'accordo universale nelle cose sulle quali consentono, il che presumo si possa fare.
Dunque colui che parla di nozioni innate nell'intelletto non può (se con ciò intende una qualunque verità distinta) voler dire che tali verità si trovino nell'intelletto in modo che esso non le abbia percepite e che ne sia totalmente ignorante. Giacché se le parole «essere nell'intelletto» hanno una qualche proprietà, significano «essere intese». Dunque essere nell'intelletto e non essere inteso, essere nello spirito e non essere percepito, è tutt'uno col dire che qualsiasi cosa è e non è nello spirito o nell'intelletto. Se quindi queste due proposizioni: «Tutto ciò che è, è» e « È impossibile che la stessa cosa sia e non sia» fossero impresse dalla natura, i bambini non potrebbero ignorarle, - i bambini in fasce e tutti coloro che hanno un'anima dovrebbero necessariamente averle nel loro intelletto, conoscerne la verità e assentire ad essa.
J. Locke, Saggio sull'intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, UTET
L'origine delle idee
Nel secondo libro del Saggio sull'intelletto umano, Locke si occupa direttamente dell'origine delle idee semplici, le quali costituiscono gli elementi primi del pensiero. Le idee derivano esclusivamente dall'esperienza, e precisamente dall'esperienza sia esterna (sensazione; ) sia interna (riflessione).
1. L'idea è l'oggetto del pensiero
Poiché ogni uomo è consapevole di pensare, e poiché ciò cui il suo spirito si applica mentre pensa sono le idee che vi si trovano, è fuori dubbio che gli uomini hanno nel loro spirito molte idee; come ad esempio quelle espresse dalle parole bianchezza, durezza, dolcezza, pensare, movimento, uomo, esercito, ubriachezza e così via. La prima domanda da porsi è dunque: come gli vengono queste idee?
So che è dottrina comunemente ammessa che gli uomini abbiano idee e caratteri originari stampati nel loro spirito fin dal primo momento della loro esistenza. Ho già esaminato diffusamente quest'opinione, e credo che ciò che ho detto nel Libro precedente sarà più facilmente accolto quando avrò mostrato da dove l'intelletto può procurarsi tutte le idee che ha e in quali modi e gradi esse possono giungere allo spirito: sul che mi appellerò all'osservazione e all'esperienza di ognuno.
2. Le due fonti della conoscenza umana
Supponiamo dunque che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea. In che modo verrà ad esserne fornito? Da dove proviene quel vasto deposito che la fantasia industriosa e illimitata dell'uomo vi ha tracciato con una varietà quasi infinita? Da dove si procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall'esperienza. Su di essa tutta la nostra conoscenza si fonda e da essa in ultimo deriva. La nostra osservazione adoperata sia per gli oggetti esterni sensibili, sia per le operazioni interne del nostro spirito che percepiamo e sulle quali riflettiamo, è ciò che fornisce al nostro intelletto tutti i materiali del pensare. Queste sono le due fonti della conoscenza, dalle quali scaturiscono tutte le idee che abbiamo o possiamo avere naturalmente.
3. 1 cosiddetti princìpi speculativi non sono oggetto di universale consenso
Ma, e ciò è peggio, quest'argomento del consenso universale, di cui ci si serve per provare i princìpi innati, a me sembra una dimostrazione che non ce ne sono: giacché non ce n'è nessuno cui tutta l'umanità dia un assenso universale. Comincerò dai princìpi speculativi, e nella specie con quei celebri princì:pi di dimostrazione: «Tutto ciò che è, è» e «È impossibile che la stessa cosa sia e non sia»; i
quali, fra tutti gli altri, credo abbiano il titolo più riconosciuto all'innatezza. Questi hanno una reputazione così salda di massime universalmente accettate, che senza dubbio si troverà strano che qualcuno sembri porle in dubbio. Ma mi permetto di dire che queste proposizioni sono tanto lontane dal ricevere un assenso universale, che da una gran parte dell'umanità non sono neppure conosciute.
4. 1 bambini e gli idioti ignorano i princìpi speculativi, che, dunque, non sono innati
Infatti, anzitutto è evidente che i bambini e i deficienti non hanno la minima percezione o pensiero di queste proposizioni. E questa mancanza basta a distruggere quell'assenso universale che deve per forza essere la concomitante necessaria di tutte le verità innate; mi sembra quasi una contraddizione dire che ci sono verità l’impresse nell’anima che essa non percepisce o comprende: giacché l'impressione, se significa qualcosa, non può essere altro che il far sì che certe verità siano percepite. L'imprimere qualcosa nello spirito senza che lo spirito lo percepisca mi sembra infatti cosa difficilmente intelligibile. Se dunque i bambini e i deficienti hanno un'anima o uno spirito nel quale ci sono queste impressioni, essi devono inevitabilmente percepirle e necessariamente conoscere quelle verità e darvi il loro assenso; poiché non lo fanno, è evidente che non ci sono tali impressioni, infatti, se non sono nozioni naturalmente impresse, come possono essere innate? E se sono nozioni impresse, come possono essere sconosciute? Dire che una nozione è impressa nello spirito, e allo stesso tempo dire che lo spirito ne è ignorante e che finora non se ne è mai accorto, significa rendere quest'impressione nulla. Di nessuna proposizione si può dire che essa sia nello spirito mentre lo spirito non l'ha mai conosciuta o non ne è mai stato consapevole. Se si potesse, alla stessa stregua si potrebbe dire che tutte le proposizioni che sono vere e alle quali lo spirito potrà dare il suo assenso sono già impresse nello spirito; infatti se si può dire di una qualche proposizione che è nello spirito senza che esso l'abbia mai conosciuta, sarà soltanto perché è capace di conoscerla; e altrettanto si può dire per tutte le verità che esso conoscerà. Anzi, in tal modo possono essere impresse nello spirito verità che non ha mai conosciuto né conoscerà mai, giacché un uomo può vivere a lungo, e infine morire, ignorando molte verità che il suo spirito era capace di conoscere, anche con certezza. Perciò, se la capacità di conoscere fosse l'impressione naturale di cui si parla, tutte le verità che un uomo verrà mai a conoscere sarebbero innate. Il che non è che un modo molto improprio di esprimersi, il quale, mentre pretende di asserire il contrario, non dice nulla di diverso da coloro che negano i princìpi innati. Infatti, non credo che nessuno abbia mai negato che lo spirito sia capace di conoscere parecchie verità. La capacità, essi dicono, è innata; la conoscenza è acquisita. Ma allora quale scopo ha la polemica sulle massime innate? Se le verità possono essere impresse nell'intelletto senza essere percepite, non vedo quale differenza ci possa essere, rispetto alla loro origine, fra ogni verità che lo spirito è capace di conoscere: devono essere tutte innate o tutte avventizie, e invano si cercherà di distinguerle.
a. La sensazione
In primo luogo, quando i nostri sensi vengono in rapporto con oggetti sensibili particolari, trasmettono allo spirito molte percezioni distinte delle cose, secondo i vari modi in cui quegli oggetti agiscono sui nostri sensi. E così veniamo ad avere le idee del giallo, del bianco, del caldo, del freddo, del morbido, del duro, dell'amaro, del dolce e di tutte quelle che chiamiamo qualità sensibili. E quando dico che i sensi le trasmettono allo spirito intendo che dagli oggetti esterni essi trasmettono allo spirito ciò che vi produce queste percezioni. Chiamo questa grande fonte della maggior parte delle idee che abbiamo, che dipendono interamente dai nostri sensi dai quali l'intelletto le deriva, sensazione.
b. la riflessione
In secondo luogo, l'altra sorgente dalla quale l'esperienza trae le idee che fornisce all'intelletto è la percezione delle operazioni del nostro spirito in noi stessi, così com'è applicato alle idee che ha, - operazioni che, quando l'anima ci riflette e le considera, forniscono all'intelletto un altro insieme di idee che non potrebbero essere ottenute dalle cose esterne. Tali sono il percepire, il pensare, il dubitare, il credere, il ragionare, il conoscere, il volere e tutte le diverse azioni del nostro spirito; e giacché ne siamo consapevoli e le osserviamo noi stessi, ne riceviamo nel nostro intelletto idee altrettanto distinte quanto quelle che ci provengono dai corpi che agiscono sui nostri sensi. Ogni uomo ha in sé questa fonte di idee, - e sebbene non si tratti di un senso, poiché non ha nulla a che fare con gli oggetti esterni, tuttavia è molto simile ad esso e potrebbe propriamente essere chiamata senso interno. Ma così come chiamo l’altra sensazione, chiamo questa riflessione, perché le idee che essa ci da sono soltanto quelle ottenute dallo spirito quando riflette in se stesso sulle proprie operazioni. Con riflessione intendo dunque, ne seguito di questo discorso, quella informazione che lo spirito ha delle proprie operazioni e della maniera in cui queste si svolgono, per cui vengono ad esserci nell'intelletto le idee di queste operazioni, lo dico che queste due cose, cioè le cose esterne materiali quali oggetti della sensazione, e le operazioni del nostro spirito dentro di noi quali oggetti della riflessione, sono le sole origini dalle quali tutte le nostre idee hanno inizio. Adopero il termine operazioni in senso lato, come comprensivo non solo delle azioni dello spirito intorno alle proprie idee ma anche di qualche sorta di passione che nasce talvolta da esse, quale può essere la soddisfazione o l'inquietudine cui da luogo un pensiero.
5. Non v'è altra fonte di conoscenza
Non mi pare che l'intelletto abbia il minimo barlume di una idea che non le provenga dall'una o dall'altra di queste due fonti. Gli oggetti esterni forniscono allo spirito le idee delle qualità sensibili, che sono tutte quelle diverse percezioni che essi producono in noi; e lo spirito fornisce all'intelletto le idee delle proprie operazioni.
Quando avremo esaminato ben bene queste idee e i loro vari modi [combinazioni e relazioni], troveremo che l'intera nostra provvista di idee si riduce ad esse e che non abbiamo nulla nel nostro spirito che non ci provenga per l'una o l'altra di queste vie. Esamini ognuno i propri pensieri e indaghi a fondo sul proprio intelletto: e mi dica poi se tutte le idee originarie che vi si trovano provengono da una fonte diversa dagli oggetti dei suoi sensi o dalle operazioni del suo spirito, considerate come oggetti della sua riflessione. E per grande che sia la massa delle conoscenze che crede di avere, egli vedrà, dopo un esame rigoroso, che non ha alcuna idea nel suo spirito che non sia stata impressa attraverso una di queste due fonti.
J. Locke, Saggio sull'intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagliano, UTET
Le idee complesse
Lo spirito, che è passivo nel ricevere le idee semplici, una volta ricevutele è in grado di operare attivamente su di ésse in diversi modi, e soprattutto ha il potere di combinare le idee tra loro, formando così le idee complesse.
Le idee semplici
a. Elementarità delle idee semplici
Per meglio capire la natura, il modo e l'estensione della nostra conoscenza, una cosa va attentamente- osservata circa le idee che abbiamo: alcune di esse sono semplici, altre complesse.
Sebbene le qualità che agiscono sui- nostri sensi sono, nelle cose stesse, così unite e mescolate che non c'è separazione né distanza tra loro, è chiaro tuttavia che le idee prodotte da esse nello spirito vi entrano, per via dei sensi, semplici e non mescolate. Infatti, anche la vista e il tatto ricevono spesso nello stesso tempo diverse idee dallo stesso oggetto, come ad esempio quando si vedono ad un tempo il movimento e il colore, o quando la mano avverte la mollezza e il calore nello stesso pezzo di cera, tuttavia le idee semplici, così unite nello stesso soggetto, sono così nettamente distinte come quelle che arrivano da sensi diversi. La freddezza e la durezza che si sentono in un pezzo di ghiaccio sono idee altrettanto distinte nello spirito quanto l'odore e la bianchezza di un giglio o il sapore dello zucchero e l'odore di una rosa. Nulla c'è di più evidente per un uomo della percezione chiara e distinta che ha di quelle idee semplici; ognuna delle quali, non essendo in se stessa composta, contiene in sé null'altro che una sola apparenza uniforme o concezione nello spirito, e non può essere distinta in idee diverse.
b. Lo spinto non può né creare né distruggere le idee semplici
Le idee semplici, che sono i materiali di tutta la nostra conoscenza, sono suggerite e fornite allo spirito solamente per quelle due vie sopra menzionate, cioè la sensazione e la riflessione. Una volta che l'intelletto ha immagazzinato le idee semplici, ha il potere di ripeterle, confrontarle, e unirle assieme, in una varietà quasi infinita, e così può formare a suo piacere nuove idee complesse. Ma neppure l'ingegno più esaltato o l'intelletto più vasto hanno il potere, per vivace e vario che sia il loro pensiero, di inventare o follare una sola idea semplice nuova nello spirito, che non sia appresa nei modi già menzionati; e neppure può la forza dell'intelletto distruggere quelle che ci sono. Il dominio dell'uomo su questo piccolo mondo del suo intelletto è pressoché lo stesso di quello che ha nel gran mondo delle cose visibili, dove il suo potere, anche se esercitato con arte e abilità, non riesce a fare altro che a comporre e dividere i materiali che sono a disposizione, ma non può far nulla per fabbricare la minima particella di materia nuova o per distruggere un atomo di quella che già esiste. Chiunque vorrà accingersi a foggiare nel suo intelletto un'idea semplice non ricevuta mediante i sensi da oggetti esterni o dalla riflessione sulle operazioni del suo spirito, riscontrerà in sé la medesima incapacità. Vorrei che qualcuno cercasse d'immaginare un gusto che non abbia mai colpito il suo palato, o di farsi l'idea di un profumo che non abbia mai odorato; quando lo potrà fare, sarò pronto a concludere che un cieco può avere le idee dei colori e un sordo nozioni distinte dei suoni. [...]
Le idèe complesse
a. Lo spirito forma le idee complesse con le semplici
Abbiamo finora esaminato le idee che lo spirito riceve passivamente, e che sono quelle semplici ricevute dalla sensazione e dalla riflessione di cui abbiamo appena parlato; lo spirito non può formarsene da sé, né avere alcuna idea che non consista interamente di esse. Ma mentre lo spirito è interamente passivo nel ricevere tutte le sue idee semplici, esso esercita percento suo numerosi atti mediante i quali altre idee sono foggiate con le idee semplici, quali materiali e fondamenti di esse. Gli atti con cui lo spirito esercita il suo potere sulle idee semplici sono principalmente questi tre. 1 ) Combinare varie idee semplici per formarne una complessa; così sono formate tutte le idee complesse. 2) Mettere assieme due idee, semplici o complesse, e giustapporle in modo da vederle insieme senza unirle, - così lo spirito ottiene tutte le sue idee di relazioni. 3) Separare le idee da tutte le altre che le accompagnano nella loro esistenza reale, e questo si chiama astrazione: in tal modo sono formate tutte le idee generali. Questo mostra che il potere dell'uomo e i modi del suo operare sono molto si-mili nel mondo materiale e in quello intellettuale. Infatti, in entrambi questi mondi, i materiali sono tali che egli non ha alcun potere su di essi né per farli né per distruggerli, e quindi tutto ciò che può fare è di unirli assieme o giustap-porli o separarli del tutto. Comincerò dal primo di questi atti nel considerare le idee complesse, e tratterò gli altri due nel debito luogo. Poiché si osserva che le idee semplici esistono unite assieme in varie combinazioni, lo spirito ha il potere di considerare parecchie di esse unite assieme come un'unica idea; e ciò avviene non solo in quanto sono unite negli oggetti esterni, ma anche in quanto lo spirito stesso le ha unite. Le idee così composte di varie idee semplici messe assieme, le chiamo complesse-, tali sono la bellezza, la gratitudine, un uomo, un esercito, l'universo, - le quali, sebbene siano composte di varie idee semplici o d'idee complesse a loro volta formate da idee semplici, vengono tuttavia considerate, quando lo spirito lo voglia, ognuna di per sé, come una cosa intera e designata con un solo nome.
In questa facoltà di ripetere e congiungere fra loro le proprie idee, lo spirito ha un grande potere di variare e moltiplicare gli oggetti dei suoi pensieri, molto al di là di ciò che gli è stato fornito dalla sensazione o dalla riflessione, - ma tutto si limita tuttavia alle idee semplici che esso ha ricevuto da quelle due fonti, che sono i materiali ultimi di ogni sua composizione. Le idee semplici provengono infatti tutte dalle cose stesse, e da queste lo spirito non può averne di più né di diverse di quelle che gli vengono suggerite. Non può avere altre idee delle qualità sensibili tranne quelle che gli vengono dall'esterno mediante i sensi, né idee qualsiasi di altre specie di operazioni di una sostanza pensante tranne quelle che trova in se stesso. Ma una volta ottenute le idee semplici, esso non è ridotto al la semplice osservazione e a ciò che gli viene offerto dall'esterno, - può, col suo stesso potere, mettere assieme le idee che ha e così formare nuove idee complesse, che non aveva mai ricevuto così unite.
b. Modi, sostanze, relazioni
Comunque siano composte o decomposte, per infinito che sia il loro numero e senza limiti la loro varietà, che occupa e impegna i pensieri degli uomini, credo che le idee complesse possono tuttavia essere riportate sotto questi tre capi:
In primo luogo, chiamo modi le idee
complesse che, comunque composte, non contengono in sé la supposizione di sussistere di per sé, ma sono considerate come dipendenze o affezioni delle sostanze: tali sono le idee designate dalle parole triangolo, gratitudine, omicidio, ecc. E chiedo scusa se in ciò uso la parola "modo" in un senso alquanto diverso dal suo significato ordinario, - è infatti inevitabile nei discorsi che differiscono dalle nozioni comunemente ricevute o coniare nuove parole o far uso di quelle vecchie in un senso nuovo. Nel caso presente, quest'ultimo caso è forse il più accettabile dei due.
Di modi, ve ne sono due specie che meritano una considerazione a parte.
Primo, alcuni sono semplici variazioni o combinazioni diverse della stessa idea semplice, senza la mescolanza di altre idee: come una dozzina o una ventina, le quali non sono altro che le idee di altrettante unità distinte addizionate, e queste io chiamo modi semplici, in quanto sono contenuti nei limiti di una sola idea semplice.
Secondo, ve ne sono altri composti di idee semplici di varie specie, messe assieme per formare un'idea complessa: per esempio, la bellezza, che consiste di una certa composizione di colore e di figura la quale causa piacere a chi la guarda, - il furto, che è il mutamento clandestino nel possesso di una cosa qualsiasi, senza il consenso del proprietario, e contiene, com'è evidente, una combinazione di varie idee di specie diverse. Questi li chiamo modi misti.
In secondo luogo, le idee di sostanze sono combinazioni di idee semplici di cui si assume rappresentino cose particolari distinte che sussistono per sé, e di cui l'idea presunta o confusa di sostanza, quale che sia, è sempre la prima e la più importante. Così [...] la combinazione delle idee di una certa specie di figura con i poteri del movimento, del pensiero e del ragionare, unite alla sostanza, forma l'idea comune dell'uomo. Ora vi sono due specie d'idee anche delle sostanze, - una, di sostanze singole quali esistono separatamente, come di un uomo o di una pecora, - l'altra di parecchie di queste messe assieme, come un esercito di uomini o un gregge di pecore. E queste idee collettive di parecchie sostanze messe assieme sono, ciascuna di per sé, idee singole come quelle di un uomo o di una unità.
In terzo luogo, l'ultima specie di idee complesse è quella che chiamiamo relazione, la quale consiste nel considerare e confrontare un'idea con un'altra.
J. Locke, Saggio sull'intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, UTET
Parallelamente a questi studi, grazie all’incontro con il medico Richard Lower e il fisico Robert Boyle, Locke si interessò amche alla medicina e alle scienze sperimentali.
Cfr. Cap. …… sulla filosofia Cartesiana, p. …
Scoppiata la guerra civile nel 1642 tra i sostenitori del Parlamento e i sostenitori della Corona, l’Inghilterra fu trasformata in un Commonwealth repubblicano (1649-1660) sotto la guida del Lord protettore puritano Olivier Cromwell, nell’intento di sanare i dissidi religiosi e politici. Fallita l’esperienza repubblicana l’Inghilterra assistette al ritorno degli Stuart (Carlo II e poi Giacomo II) sul trono e fu riproposta una politica assolutista con tendenze pericolosamente filocattoliche. Gli oppositori protestanti di Giacomo II Stuart si misero in contatto col principe protestante olandese Guglielmo III d’Orange (marito di Maria Stuart, figlia protestante di Giacomo II) offrendogli il trono. Il 5 novembre 1689 con circa 15 mila uomini Guglielmo sbarcò in Inghilterra senza spargimenti di sangue, accolto dalla nobiltà e dalla borghesia protestanti del regno, e dopo aver firmato la Carta dei diritti promulgata dal Parlamento fu proclamato sovrano insieme alla moglie Maria.
Locke, Saggi sulla legge naturale, IV.
Locke, Saggio sull’intelletto umano, Lettera al lettore.
Locke, Saggio sull’intelletto umano, I, cap. I, par. 3
Gli innatismi ritengono“come opinione incontestabile, che nell’intelligenza vi siano certi principi innati, certe nozioni primarie, altrimenti dette nozioni comuni, caratteri, per così dire, impressi nella nostra mente, che l’anima riceve fin dal primo momento della sua esistenza, portandoli con sé nel mondo”, Locke, Saggio sull’intelletto umano, I, cap. 2, par.1
Lo stesso Cartesio aveva definito l’idea come “ciò che è concepito immediatamente dallo spirito”. Locke specifica che la parola idea indica ciò che nella tradizione filosofica era definito come “fantasma, nozione, specie, o qualunque cosa occupi la mente quando pensa”. Saggio, Intr., par.8
Locke, Saggio sull’intelletto umano, II, cap.I, par.2.
“Ciò che nell’idea è dolce, azzurro o caldo, non è nei corpi ai quali assegniamo questi attributi, nient’altro che una certa grandezza, figura e movimento delle particelle insensibili di cui essi si compongono”, Saggio, II, cap. 8, par. 15.
I modi sono quelle idee composte che “non contengono in sé la supposizione di sussistere di per sé stesse, ma si considera che siano dipendenze o affezioni delle sostanze”, Saggio, II, cap. 12, par. 4.
Locke, Saggio sull’intelletto umano, II, cap. 23, par. 1.
Locke, Saggio sull’intelletto umano, II, cap. 23. par. 29
Locke, Saggio sull’intelletto umano, III, cap. 3, par. 11
Locke, Saggio sull’intelletto umano, IV, cap. I, par. 7
Locke, Saggio sull’intelletto umano, IV, cap. 17, par. 24.
Locke, Secondo trattato sul governo, par. 6.
Thomas Hobbes, cfr. cap. …
Locke, Secondo Trattato sul governo, par. 95.
“Per coloro che hanno il potere di fare le leggi può essere troppo grande la tentazione di avere nelle loro mani anche il potere di eseguirle, esonerandosi così dall’obbedienza alle stesse leggi che essi fanno”. Locke, Secondo trattato sul governo, par. 144.
Locke, Secondo trattato sul governo, par. 146.
Locke, Secondo trattato sul governo, par 131.
Locke, Abbozzo del Saggio sulla tolleranza.
Locke, Lettera sulla tolleranza.
Fonte: https://www.liceomalpighi.it/didattica/mferrari/downloads/Locke.doc
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