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ELEMENTI DI FILOSOFIA – metafisica Þ ONTOLOGIA e TEOLOGIA NATURALE
La metafisica usa un metodo analitico e non deduttivo (come disse Kant) perché l’esperienza dell’essere è alla base di tutto, se si parla di qualsiasi cosa è perché “essa è” e come tale è un dato di fatto e non frutto di un ragionamento.
Terminologia Rovighiana. ENTE: realtà che concreta che esiste (uomo, colore, pensiero ecc.). ESSERE: l’ente come universale, l’ente in quanto ente. ESSERE IN ATTO: l’esistere.
La metafisica considera degli enti solo l’essere e le sue proprietà, e non i vari modi di essere in atto. Come tale una metafisica seppur implicita ce l’hanno tutti; la metafisica non aggiunge nulla di nuovo, ma aiuta a prendere coscienza di ciò che è già implicito in ogni nostra affermazione; la metafisica non appartiene alle scienze particolari, perché non studia i vari tipi di realtà che presuppongono il concetto di essere.
La scolastica giunse alla conclusione che l’essere non implica in sé la materia, può essere pensato prescindendo da essa e per far ciò basta dimostrare l’esistenza di esseri immateriali e che l’Essere primo è immateriale, da cui si conclude che l’essere può realizzarsi anche senza materia. A partire dal XVII secolo la metafisica si divise quindi in: metafisica generale o ONTOLOGIA e metafisica speciale: TEOLOGIA NATURALE (se tratta di Dio) , PSICOLOGIA RAZIONALE (se tratta l’anima come realtà spirituale), COSMOLOGIA (se tratta il mondo corporeo considerato come essere). In realtà la teologia naturale è una conclusione dell’ontologia perché noi possiamo dire di Dio solo quello che è necessario dire per spiegare l’essere di ciò che cade sotto la nostra esperienza.
Capitolo Primo: L’Essere
L’essere come oggetto della metafisica. L’oggetto della metafisica è l’ente in quanto ente, il suo essere. Siamo quindi nel campo del terzo grado di astrazione si prescinde cioè dal soggetto, dalla qualità e dalla quantità.
1. Trascendentalità e analogia dell’essere. La nozione di essere. <<L’essere è ciò in cui l’intelletto risolve tutti i concetti>>. Non si può dare una definizione di essere per genere e differenza specifica, ma si possono usare solo espressioni sinonime che contengono una polarità tra essenza (che cosa è questo?) ed essere in atto (esiste questo?) che sono sempre appaiati, l’uno non ha senso senza l’altro. L’essenza è detta anche: quidditas (traduzione letterale dell’espressione aristotelica to ti hn einai), ratio rei (è ciò per cui una cosa è tale o tal altra), forma (perché ciò che determina l’essenza di una cosa è la sua forma), natura (in quanto la si considera come un principio di attività). La nozione di essere è trascendentale. Perché trascende le categorie, è più ampia e più estesa di qualsiasi categoria ed è proprio per questo che è compresa in qualsiasi nozione. E ciò che si usa per determinare l’essere (determinazioni e differenze), per ottenere altri concetti, non si ottiene aggiungendo qualcosa al concetto di essere, ma sono in qualche modo già impliciti in quello di essere, quindi L’essere contiene implicitamente le diverse sue determinazioni. <<L’essere quindi non è un genere, visto che è determinato da differenze comprese attualmente, nella propria nozione, in modo implicito>> (“De Veritate” di San Tommaso). Perciò l’essere in realtà non è qualcosa di distinto dai suoi inferiori. Univocità, equivocità, analogia. Il primo termine dice la stessa cosa di tutti i soggetti dei quali si predica; il secondo termine dice contenuti affatto diversi a seconda del soggetto a cui viene applicato; il terzo termine dice un contenuto in parte uguale ed in parte diverso dei soggetti dei quali è predicato, uguali sotto un certo aspetto diversi sotto un altro. Analogia dell’essere. L’analogia dell’essere dipende dalla sua trascendentalità: l’essere infatti esprime tutta la realtà dell’oggetto di cui si predica e la esprime totalmente (ossia fino alle ultime differenze). Ma come può un concetto (in questo caso quello di essere) esprimere realtà diverse in quanto tali (diverse), anche nelle differenze che lo diversificano? Come può cioè l’essere essere uno e molteplice? Le vie possibili sono tre: 1)Le differenze dell’essere non sono formalmente essere, ma ‘sta via l’abbiamo già esclusa perché se delle differenze non sono essere, sono nulla e quindi non differenzierebbero alcunché; 2)Non c’è diversità tra le cose, sono tutte un essere solo (panteismo); 3)Il concetto di essere non è uno se non in modo imperfetto, non è univoco, non dice la stessa cosa di tutti i soggetti dei quali è predicato (analogia). Analogia di attribuzione e di proporzionalità. Esistono due tipi di analogia:
L’analogia dell’essere come analogia di attribuzione. Perché ciò che ha veramente l’essere è ciò che ha l’essere in sé e quindi la sostanza, tutto il resto (qualità, quantità e relazione) esistono solo come determinazioni della sostanza, come suoi modi di essere.
L’analogia dell’essere come analogia di proporzionalità. Innanzitutto perché quando si dice di un qualsiasi oggetto che è ente si esprime il suo carattere fondamentale e primo, intrinseco all’oggetto stesso e poi perché ogni categoria di enti ha un suo modo di essere in atto, di esistere, ma tra questi modi esiste una similitudine. Similitudine e non uguaglianza perché l’esistenza non è qualcosa di uniforme, ma ogni essenza ha il suo modo di esistere commisurato a sé.
Don Bona dixit (pag. 20): La Vanni Rovighi preferisce vedere l’analogia dell’essere come analogia di proporzionalità, così come preferisce il quid all’essere in atto, ma così facendo non tiene conto della natura dell’essere. La differenza tra le due è che quella di attribuzione mette prima la sostanza dell’accidente (e mette così in rilievo l’atto di essere che ne è il punto focale e mostra così la gerarchia interna dell’essere), mentre quella di proporzionalità mette prima l’accidente della sostanza (e mette così in rilievo le potenzialità).
2. Essere possibile ed essere ideale. La metafisica si occupa dell’essere reale, il quale abbraccia l’attuale (ciò che attualmente è) ed il possibile (ciò che può essere). Per il momento è importante capire la differenza tra ente possibile (es. ippogrifo), che è ciò che può essere, ed ente ideale (es. gli universali), che è ciò che non può esistere così come è pensato, il suo essere consiste nell’essere pensato. I tre tipi di enti ideali. L’ente ideale può essere una negazione (che indica il semplice non essere di una cosa), una privazione (che indica la mancanza di una cosa che dovrebbe esserci) o una relazione (non tutte le relazioni sono ideali, ma ci sono relazioni ideali, quali ad esempio gli universali riflessi). I realtà comunque non esistono né privazioni, né negazioni esistono (è la nostra mente che se li rappresenta come entità) solo i soggetti mancanti in qualche cosa.
Capitolo Secondo: L’unità dell’essere e i principi di identità e di non-contraddizione
1. L’unità. Trascendentali e categorie. <<Si dice che alcune determinazioni si aggiungono all’essere, ij quanto ne esprimono un modo, che non era espresso dal semplice nome “essere”>> (“De Veritate” di San Tommaso) e questa determinazione può avvenire in due modi: restringendo l’estensione del concetto di essere Þ (categorie) o esprimendone meglio il concetto, ma essendo sempre coestensiva all’essere stesso Þ (proprietà trascendentali dell’essere). Concentrandoci sulla seconda determinazione e quindi sulle proprietà trascendentali dell’essere, o trascendentali, esse sottolineano le relazioni (implicite all’essere) dell’ente:
Essendo res e unum due facce della stessa medaglia ed implicando l’aliquid l’uno perché se c’e distinzione vuol dire che si presuppone l’uno allora i trascendentali sono in realtà tre: unum, verum e bonum. L’attribuzione all’essere di questi tre caratteri da luogo ai tre supremi principi della metafisica:
Per parlare di bonum e verum è prima necessario parlare di Dio perciò ora ci concentreremo sull’unum. Ogni ente è necessariamente uno. Cioè ogni ente è indiviso in sé e distinto da qualsiasi altro. Perciò una realtà è tanto più reale quanto più è una, esistono quindi Diversi gradi di unità: L’unità dell’assolutamente semplice (propria solo di Dio), e l’unità del composto che a sua volta può essere sostanziale (quando uno solo è l’essere delle diverse parti, le parti cioè hanno significato solo come parti di un determinato ente es. corpo e sue parti) e accidentale (es. mucchio di sassi). La formazione del concetto di “uno”. Prima di tutto noi cogliamo l’oggetto come ente, poi in seguito vediamo la diversità tra le “cose che sono” e ci formiamo il concetto di distinzione e se in un ente non cogliamo segni di divisione allora diciamo che esso è uno. Dal considerare insieme diversi uni viene il concetto di moltitudine. L’unità trascendentale (di cui abbiamo parlato fino ad adesso) prescinde comunque dalla quantità, categoria in cui rientra l’unità predicamentale (o unità di misura). Concetti connessi con quello di uno:
2. Il principio di identità. Identità e unità. L’affermazione “ogni ente è uno” porta al principio supremo dell’essere, il principio di identità, ma per far ciò bisogna ricordare che:
La negazione del principio di identità di Hegel. Egli non nega il principio di identità, ma la formulazione eleatica di questo principio. Perché l’essere trascendentale ed analogo della metafisica tradizionale non ha nulla a che vedere con l’essere parmenideo. L’immediata evidenza del principio di identità. Non è possibile pensare infatti qualcosa che non sia determinato (che non sia “questo”, “quello”). Chi non accettasse il principio di identità quindi non potrebbe dire assolutamente nulla. L’obiezione è che esso sia però solo una legge del pensiero umano e non della realtà: se per “pensiero umano” si intende il pensato allora il principio di identità è una legge del pensato e quindi dell’essere, perché ciò che è pensato è qualche cosa; se per “pensiero umano” invece si intende l’attività psichica del pensare allora esso è una realtà, è un ente, un soggetto di questo principio. Altra obiezione hegeliana contro il principio di identità. Se il pensiero si uniformasse al principio di identità, noi non potremmo che dire delle tautologie, insiste Hegel. Ma questo si può dire solo se si pensa che i nostri concetti siano esaustivi della realtà, e non è così, i nostri concetti colgono la realtà in modo sempre più o meno indeterminato.
3. Il principio di non–contraddizione. Deriva immediatamente da quello di identità, come già fece notare Aristotele che così lo formulò:<<È impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga a una stessa cosa e per il medesimo rispetto>>. È impossibile cioè che un ente sia e non sia insieme. Se si nega questo principio anche qui non si riesce più a dare significato a ciò che si dice. La difesa del principio di non-contraddizione del IV libro della Metafisica. Per lui non è possibile negarlo realmente, lo si può negare solo a parole, ma non è necessario che tutto ciò che si dice lo si pensi anche. E non lo si può dimostrare perché è immediatamente evidente, al massimo lo si può dimostrare indirettamente, per assurdo. Ma chi critica ‘sto principio dice che ogni affermazione può esistere con la sua contraddittoria e perciò per confutarlo, non bisogna contraddirne la tesi altrimenti la rafforzeremmo. Per farlo lui si basa sul principio di identità-determinazione perché se anche egli no afferma nulla dovrà pur dire una parola con significato e se anche ne avesse uno solo, non è possibile che A sia B e non B altrimenti non avrebbe nessun significato. Ma perché anche il principio di non-contraddizione è immediatamente evidente, primo? Perché quello di identità esprime l’esigenza implicita in ogni nozione (e come tale è la prima nozione), il principio di non-contraddizione invece esprime l’esigenza implicita in ogni proposizione (e come tale è la prima proposizione, derivante dalla prima nozione). E perciò il principio di identità è il principio della logica noetica (o del dialogo) e quello di non-contraddizione della logica dianoetica (o della dialettica) che ha le radici nella prima.
Capitolo Terzo: Le categorie: La sostanza
Dopo aver parlato dell’essere nella sua universalità è bene ora parlare delle categorie, ovvero di quei predicati che distinguono diversi modi di essere.
1. La sostanza. L’esistenza della sostanza è immediatamente evidente. Il modo fondamentale di essere è quello della sostanza: ciò che esiste in sé e per sé. E la sostanza esiste perché è condizione dell’essere di qualsiasi realtà, come <<Ente si dice ciò che ha l’essere, e tale è soltanto la sostanza, che sussiste>> (San Tommaso) La sostanza è anteriore all’accidente (che a differenza della sostanza non ha l’essere in sé, ma in altro da sé; esiste solo come determinazione di un altro es. colore) sia nell’ordine ontologico (perché e condizione dell’essere dell’accidente) che in quello logico (perché non si ha il concetto di ciò che è in altro senza prima aver il concetto di quell’altro che è per sé. Fenomenismo e sostanzialismo. Nella storia della filosofia a ben guardare non si è mai discusso se vi sia un essere per sé, ma quale sia l’essere per sé, ancora una volta tutte le negazioni della sostanza negavano delle teorie sulla sostanza e non il principio di sostanza in generale. Perché per determinare la sostanza spesso non ci si può appellare all’immediata evidenza, ma occorre un ragionamento che a volte può contenere un errore. Sono sempre esistite due correnti su questo tema:
Fenomenismo ed empirismo. I fenomenisti sono generalmente empiristi (a parte Cartesio) mentre gli empiristi sono tutti fenomenisti perché riducono la sostanza all’insieme dei dati sensibili. Ciò si vede chiaramente in Locke e Hume. Locke. Così come egli è empirista a metà così è fenomenista a metà perché: oscilla tra l’ammettere l’esistenza di un qualcosa oltre ai dati sensibili (idea oscura) e la riduzione della sostanza a dati sensibili; afferma da una parte che la sostanza è la complicanza di più idee messe insieme e dall’altra dice che la sostanza è l’idea di un qualche sostrato in cui idee e qualità sussistano. Il problema sta nel fatto che Locke vorrebbe una immagine sensibile della sostanza, del “sostegno” come la chiama lui e siccome non c’è la chiama idea oscura! Hume. Che è più coerente spazza via l’idea oscura dell’ignoto sostegno e risolve la sostanza nel complesso delle qualità sensibili, perché non vuole ammettere che noi abbiamo idee alle quali non corrisponda una impressione sensibile.
Il sostanzialismo tradizionale. Anche i sostanzialisti non sono tutti d’accordo: i monisti (Bruno, Spinoza ecc.) ritengono che la sostanza sia unica e che tutto ciò che cade sotto l’esperienza sia manifestazione, di un’unica vera realtà; i pluralisti dicono che esistono più sostanze. Dottrina aristotelico-tomistica. L’esperienza sensibile presenta una molteplicità di aspetti che si manifestano in varie unità e siccome dove c’è unità c’e essere, nella molteplicità degli aspetti di una unità si manifesta una realtà, un essere che sta a fondamento di quegli aspetti diversi; questo nucleo fondamentale di realtà, che dà ragione dell’unità di quel gruppo di caratteri, si chiama la sostanza di una cosa. Distinzione tra sostanza e accidente. Per riuscire a distinguere la sostanza dalle qualità che cadono sotto la nostra esperienza, questo nucleo si manifesta molto meglio nel mondo vivente, che nel mondo non vivente, e ancor più in un ente spirituale che non in uno corporeo. Partiremo quindi dall’analisi di noi stessi dove si vede che il complesso delle mie qualità, dei miei atti di pensiero, di sentimenti ecc. ciò che appare (che in terminologia scolastica si chiama accidente) cambia continuamente eppure io resto sempre io, sono lo stesso di ieri, perciò io (sostanza) sono qualcosa di distinto dai miei atti (accidenti). Così posso ammettere che qualcosa di analogo che avviene in me avvenga anche negli altri enti corporei. Pluralità delle sostanze. Si potrebbe obiettare che fino ad ora si è mostrata l’esistenza di una sola sostanza distinta dai suoi accidenti, l’io. È quindi giusto affermare l’esistenza di una pluralità di sostanze? Innanzitutto io mi distinguo dai corpi fuori di me, perciò esistono almeno due sostanze: io ed il mondo esterno a me. Ora questo mondo esterno è un’unica sostanza? O è costituito da più sostanze? E se sì quante sono? Tutte queste domande riguardano la filosofia della natura. Conoscibilità delle essenze specifiche. Il problema che interessa la metafisica, e che è necessario chiarire per dissipare la confusione nata intorno a questo problema, piuttosto è:<< L’uomo può conoscere perfettamente le sostanze specifiche?>> La risposta è negativa, perché l’esperienza ci dice che arriviamo a riconoscere una sostanza dal suo modo di manifestarsi, dalle sue proprietà delle quali arriviamo a conoscerne comunque relativamente poche, tanto che la nostra conoscenza si perfeziona sempre, non è mai definitiva. Noi non conosceremo mai quindi le differenze specifiche (e qui Hume e Locke avevano ragione), ma ciò non ha niente a che vedere con la teoria metafisica della sostanza. Come va intesa l’affermazione che la sostanza non è conosciuta dai sensi. La sostanza è una realtà solo intelligibile, non sensibile, può essere rappresentata solo da un concetto, il che vuol dire che i sensi colgono la sostanza non in quanto sostanza, ma in quanto avente certe proprietà. Sostanza e quantità di materia. Bisogna fare attenzione poi a non confondere il concetto di sostanza con quello di quantità o con quello di materia. Il grande progresso delle scienze è stato quello di cercar di tradurre per quanto più possibile le qualità, l proprietà, in termini quantitativi per poter sottomettere così i fenomeni fisici all’analisi matematica e costruire così una scienza rigorosa, di carattere deduttivo. Ciò però portò dall’altro lato ad una negazione di tutti quegli aspetti che non entravano nelle formule della nuova scienza, negando ad es. come fece Galileo l’esistenza di qualità secondarie, vedendo così nell’estensione la realtà ultima dei corpi. La realtà fu così ridotta al fenomeno razionalisticamente inteso. Si intese cioè per sostanza, per realtà ultima la pura quantità di materia. Concetto kantiano della sostanza. E Kant fu uno dei primi a cadere in questo equivoco perché la “sostanza”, quantum, che lui cita nella Critica della ragion pura non è altro che la quantità di materia della fisica galileiano-newtoniana, così come la causalità di cui parla riguarda il determinismo fisico e non ha nulla a che vedere con il principio metafisico di causalità. Essendo la definizione tomistica di sostanza “essentia cui competit per se esse” cioè “cosa cui compete l’esistere per se stessa” e quella di accidente “cosa a cui compete l’inerire ad una sostanza”, vanno fatte delle Precisazioni sul concetto di sostanza:
Sostanza prima e sostanza seconda. La sostanza prima (che “né si dice di un soggetto, né è in un soggetto”) è la sostanza individua, che è realmente esistente, è l’essere di un soggetto, la sostanza seconda (che “non è in un soggetto, ma si predica di un soggetto”) è invece il concetto universale, che esiste solo nel nostro cervello. La sostanza come natura. Per natura si intende la sostanza in quanto principio di attività cioè <<principio intrinseco e primo del moto e della quiete che competono ad un ente in ragione della sua essenza e non di ciò che gli è accidentale (ndr in senso logico, quinto predicabile, e non metafisico!)>>(Aristotele). Perciò ogni determinata sostanza ha la sua propria attività ed ogni determinata attività procede da una determinata sostanza. Su questa concezione si basa il fondamento della concezione finalistica della natura. Suppositum e persona. La concezione aristotelica vede il Suppositum come “la sostanza individua, per sé sussistente, completa” la cui essenza è perciò incomunicabile e la persona come “il suppositum di natura razionale”. Don Bona Dixit (pag. 52): per la concezione tomistica invece la persona è “individuo di natura intellettuale” il cambio sostanzaÞindividuo si ha per poter applicare la definizione alle persone della trinità, perché in questo caso la sostanza è una, ma gli individui sono tre. Il cambio non provoca alcun cambiamento perché nelle creature individuo coincide con sostanza. Il cambio razionaleÞintellettuale si ha perché la razionalità è solo un tipo di intellettualità che manifesta nella sua metodologia il proprio limite: concetto, enunciazione e ragionamento. Dio invece conosce in modo diverso da noi, in Lui l’atto di essere è anche atto di identità attuale. Da questa riflessione si ha un risvolto anche antropologico, perché così al centro non ci sono le idee, i concetti, ma la realtà, la persona. Il rischio però è di passare da una identità ontologica ad una psicologica “Io sono quello che sento, dico, faccio ecc.” slegando così la libertà dal principio di non-contrapposizione. Perciò si vede che per definire l’identità della persona è utile parlare di Dio. Perciò il Cristianesimo produce una forte svolta antropologica verso l’importanza, la centralità di ogni singola persona e non dell’umanità in generale.
2. L’accidente. L’accidente può essere inteso secondo un significato fisico (che riguarda il modo di essere, quando una realtà esiste come determinazione di un’altra realtà) ed uno logico (che riguarda il modo di predicazione, quando una realtà non si predica necessariamente di un’altra). Noi ci occuperemo solo dell’accidente fisico che è la realtà a cui compete l’essere non in sé, ma in altro, la realtà il cui essere consiste tutto nell’inerire ad un altro. Esistono Vari tipi di accidente:
La relazione. Come tutte le categorie non è definibile, ma gli scolastici dicono che l’essere della relazione è il suo rapportarsi a qualcosa. Nella relazione si distinguono:
Relazioni reali e relazioni ideali. La relazione ideale è quella che è posta solo dal pensiero, quella reale è quella che esiste invece realmente e che può essere trovata dal pensiero. Le relazioni reali si dividono in:
Don Bona Dixit (in seguito a domanda “Ma io crescendo conosco meglio la mia sostanza o essa va modificandosi?”): La sostanza uomo non cambia, gli accidenti (cioè il modo di esprimersi e di conoscersi) sì. Il fatto che l’uomo “si possegga” gradualmente crea l’etica. Perciò gli accidenti non sono superflui, ma la sostanza è più importante, non si può prescinder da essa.
Capitolo Quarto: L’intelligibilità del divenire e il principio del primato dell’atto
1. Il divenire ed il principio di non-contraddizione. Abbiamo visto che ogni ente è incontraddittorio, intelligibile. L’esperienza però questo principio di non-contraddizione, in quanto la realtà è caratterizzata dal divenire, dal mutamento. Questa obiezione è stata formulata molto bene da Hegel che vede il divenire come miscela di essere e non-essere o niente. Sia il principio di identità che il divenire sono due realtà immediatamente evidenti, ma una non nega l’altra. Tentativi di negare il principio di identità. Spesso infatti nella storia della filosofia si è cercato di negare l’uno piuttosto che l’altro. Parmenide e Spinoza hanno ridotto la realtà, il divenire a pura illusione, mentre Eraclito, Hegel, Bergson, Gentile invece hanno tentato di negare il valore ontologico del principio di identità. Ad es. Gentile sosteneva che l’essere si può predicare solo dell’oggetto del pensiero per cui vale il principio di identità e Bergson che dice che l’ente è insieme di essere e non-essere e quindi è frutto di un’astrazione che opera dei tagli nel continuo e le scambia per realtà; egli propone così di concentrarsi sulla spiegazione dell’essere invece di spiegare il divenire. Negazione del valore della conoscenza intellettiva. Ma la negazione dell’essere determinato porta con sé la negazione o comunque la riduzione dell’intelligenza che è conoscenza di enti determinati: infatti se riduciamo gli enti ad astrazioni, a prodotti artificiali, allora riduciamo a fabbricatrice artificiosa l’intelligenza. Per Bergson infatti la facoltà della conoscenza vera non è nell’intelletto, ma nell’intuizione che per lui è un potere extra-razionale, un contatto con la realtà diverso da quello che si ha per mezzo dell’intelligenza. Lo stesso Hegel contrappone all’intelletto la ragione che conserva molto di questa “intuizione” tipica dei romantici, tanto che il Kroner vede Hegel come il più grande irrazionalista di tutti i tempi, perché mette l’irrazionale nel seno stesso del concetto. Il Gentile stesso pur volendo evitare l’irrazionalismo ammette che per conoscere la realtà veraci vuole un tipo di conoscenza speciale che ha una certa analogia con l’intuizione bergsoniana. Non è possibile negare tale valore. Intuizioni, fusioni di stati d’animo, ecc. si troveranno in n poema non in un libro di filosofia; o almeno, se anche ci si trovano, non sono filosofia. Come osserva il Croce:<<Tutti e tre codesti drappelli di negatori (gli estetizzanti, i mistici e gli empiristi) muovono all’assalto contro il concetto, armati di concetto… Gli estetizzanti affermano che la verità è nella contemplazione estetica,… ma codesta loro affermazione è … di carattere universale, dunque è un concetto. I mistici inculcano la necessità del silenzio e di cercare l’Uno, l’Universale, l’Io, ripiegandosi e chiudendosi su se stessi e lasciandosi vivere; ma nel ciò fare … non passano sotto silenzio il silenzio… La teoria del silenzio e della tacita azione ed esperienza interiore è nient’altro dunque un’affermazione con la quale si rifiuta, e si crede di confutare, altre affermazioni. Ma affermazione, negazione e confutazione vuol dire universalità di esigenza e di contenuto; e perciò quella dottrina importa un concetto…>>. È perciò impossibile trovare una realtà che non sottostia alla legge suprema dell’ente e non sia realtà determinata.
2. Potenza e atto. Come concepire quindi il divenire per non rinnegare il principio di identità? La risposta viene dalla teoria aristotelica della potenza e dell’atto. Potenza. L’esperienza del divenire mi porta a dire che se una cosa che prima non c’era ora c’è vuol dire che prima era in potenza. L’essere e il non essere di una cosa non sono mai insieme, ma possono stare insieme il suo essere in potenza ed il suo non essere in atto.. La potenza quindi non va intesa come una pura possibilità logica, ma come una capacità reale del soggetto mutevole. Atto. Potenza è quindi capacità di essere, l’atto è invece l’essere, la realtà, la perfezione:<<L’atto è l’esistenza stessa dell’oggetto … L’atto sta alla potenza come il costruire al saper costruire, l’essere desto al dormire …>> (Aristotele) La nozione di atto come tutte le nozioni fondamentali non può essere definita, si può solo mostrare quali sono gli oggetti ai quali essa si applica. Tutto ciò che diviene ha in sé della potenza. L’ente che muta o diviene ha in sé della potenza, può essere ciò che ancora non è. Siccome però la realtà esiste ed è determinata in quanto è atto, tutto ciò che muta ha un principio attuale ed uno potenziale. Tutto ciò che esiste o è atto puro o è costituito di potenza ed atto. Potenza attiva e passiva. Fino ad ora si è parlato di potenza passiva (principio di mutamento passivo per opera di altro o di sé in quanto altro) che è capacità di essere, di ricevere una perfezione, ma nel linguaggio comune con il termine potenza si intende la potenza attiva (principio di mutamento in altro o in sé in quanto altro) che è capacità di fare. Quando si parla di potenza come opposta all’atto si intende riferirsi alla potenza passiva, perché la potenza attiva suppone l’atto e ne è una manifestazione. Distinzioni nel concetto di atto:
Atto e potenza non sono cose. Quando si parla di atto e potenza reali, si parla di principi realmente distinti e non di distinzione tra cose. Atto e potenza non sono cose, ma principi, condizioni dell’essere delle cose.
3. Il primato dell’atto e il concetto di causa efficiente. Il divenire come sintesi di potenza e atto. Il divenire è il passaggio dalla potenza all’atto e se quindi consideriamo una cosa in divenire a qualsiasi momento del suo divenire, vedremo che essa non va mai contro il principio di identità: è sempre qualcosa di determinato che può, in un altro momento essere qualcosa di diverso. Il primato dell’atto. Ma come avviene il passaggio dalla potenza all’atto? Non si può dire che una conoscenza nuova c’è in me per il solo fatto che potevo acquistarla, perché se ciò per cui un ente è in atto fosse lo stesso per cui era in potenza, sarebbero lo stesso l’essere ed il non essere. È necessario dunque che il divenire, il passaggio all’atto, sia determinato da un ente che è già in atto (principio fondamentale del primato dell’atto). Il divenire deve essere spiegato da qualcos’altro che sia già in atto. Tutto ciò che passa dalla potenza all’atto è determinato a questo passaggio da un ente che ha già in atto ciò a cui il moto termina. Obiezione. Si potrebbe obiettare che questo ragionamento presuppone che ci siano enti in divenire, ma non esistono enti in divenire, esiste solo il divenire. La risposta a questa obiezione è che non è pensabile un divenire che non sia di questo o di quest’altro. Un divenire senza un soggetto diveniente è ben lontano dall’essere il concreto, è invece l’assolutamente indeterminato. Dunque il reale divenire è sempre divenire di un ente; in realtà di sono divenienti, non c’è il divenire. L’analisi di A. Masnovo. Il Masnovo assume come esempio di ente in divenire il soggetto pensante <<il mio hic et nunc diveniente atto di pensiero. … Quali sono dunque le esigenze del divenire? … Il divenire implica un sostrato permanente su cui fluttua la mutazione … e che mantiene uno ciò che diviene. … Il divenire è l’intimo fluttuante atteggiarsi dell’uno. Fuori di questa intimità dell’uno si ha la successione. Diviene una colomba in volo, si succedono due colombe in volo. … Orbene: che cosa implica o esige il divenire in quanto tale per rapporto all’uno in cui si avvera? Certo un prima ed un poi come la semplice successione: ma … sono in rapporto così che il poi è condizionato dal prima, insieme con il quale si radica nell’uno. … Così stando le cose, si fa manifesto che ciò che diviene, in quanto diviene, non ha in sé la ragion sufficiente del suo divenire. Come va inteso il primato dell’atto:
Il concetto di causa efficiente. Ogni ente in divenire è mosso da un altro. Il movente si chiama causa efficiente e tutto ciò che diviene è causato (principio metafisico di causalità). Chiarimenti sulla nozione di causa. Causa è invece ciò che fa essere quello di cui è causa, è ciò che comunica l’essere per sé ad un altro. Aristotele distingue quattro tipi di cause:
Le prime due sono cause intrinseche all’effetto, fanno parte di esso. Le ultime due invece sono cause estrinseche, ossia non fanno parte dell’effetto. Noi ci occuperemo ora solo della causa efficiente che è il principio del divenire. Per eliminare molti fraintendimenti sulla causa facciamo alcune distinzioni:
Una volta fatte queste distinzioni si possono capire i due principi:
Capitolo Quinto: Equivoci sulla causalità
Il termine “principio di causalità” è gravato specialmente dopo la critica di Hume, da tanti equivoci ed è proprio per questo che si è preferito chiamarlo primato dell’atto. Le principali sono state le critiche humiane al principio di causalità e la riduzione kantiana della causalità a categoria valida solo per unificare il mondo fenomenico ma entrambe non toccano affatto il principio metafisico di causalità (o del primato dell’atto) così formulato:<< Ciò che diviene è causato, e la causa prima del divenire deve essere indivenibile.>>
1. La critica di Hume. Impressioni ed idee. Per Hume tutte le percezioni dello spirito umano si possono dividere in impressioni ed idee e tra le due c’è solo differenza di grado. Per lui le impressioni sono condizioni del sorgere dell’idea, sono cause delle idee, ma non riesce a provare che le impressioni siano causa adeguata e totale delle idee. Le idee poi, per lui, possono essere associate tra di loro e dar così luogo alle idee complesse grazie a tre vie: somiglianza, contiguità e causalità. Le prime due per lui sono relazioni reali, la terza no, ma per fornire questa negazione Hume dedica una lunga considerazione alla causalità. Due problemi sulla causalità. La relazione di causalità ha un’importanza particolare, perché è la sola capace di farci conoscere come esistenti oggetti presenti nella nostra percezione Il nesso di causalità implica quello di contiguità, nello spazio e nel tempo, ma è più della semplice contiguità e successione. Questo più è dato precisamente dalla connessione necessaria. Ma Hume si chiede:<<1) Per quale ragione diciamo necessario che tutto ciò che ha un cominciamento debba avere anche una causa? 2) Perché affermiamo che certe cause particolari debbono necessariamente avere certi particolari effetti? Quale è la natura di questa inferenza per cui passiamo dalle une agli altri e della credenza che riponiamo in essa?>>. Il principio di causalità non è una proposizione analitica. La risposta al suo primo quesito è che la proposizione “tutto ciò che comincia deve avere una causa della sua esistenza” non è né intuitivamente né dimostrativamente certa. Riguardo al secondo quesito poi esso è assolutamente incapace di una prova dimostrativa, visto che le idee distinte sono separabili e siccome causa ed effetto sono due idee evidentemente distinte, è facile per noi concepire un oggetto non esistente in questo momento ed esistente il momento dopo senza unirvi l’idea, da esso distinta, di una causa. E questo in risposta alle dimostrazioni a priori di Hobbes e Locke le quali contengono tutte delle petizioni di principio in seguito alle quali Hume dice che il principio di causalità non è analiticamente evidente, né immediatamente (, né mediatamente, in altre parole non vi è una evidenza immediata né una conclusione dedotta, dunque deve derivare dall’esperienza. Fusione dei due problemi. Così i due problemi sono ridotti ad uno, il secondo: se mai sappiamo che ogni cosa che incomincia deve avere una causa, potremo saper questo solo sperimentando che certe cause particolari hanno certi particolari effetti e viceversa. L’esperienza non può fornirci proposizioni necessarie. Ma Hume ha detto che la caratteristica del nesso di causalità è la necessità e quindi l’esperienza ci può sì mostrare due oggetti distinti, ma non ce li può mai far conoscere congiunti necessariamente. Ma qual è quell’impressione che ci aiuta a generare l’idea di connessione necessaria? Siccome nessuno mai ha percepito la causalità in atto e neppure l’attività nostra e l’efficacia della volontà sui movimenti del nostro corpo e del nostro spirito può darci l’impressione della causalità, Hume dice che nessun rapporto è più inesplicabile di quello che passa tra la facoltà del pensiero e l’essenza della materia. Il principio di causalità ha un fondamento solo soggettivo. Quindi la connessione necessaria tra causa ed effetto viene operata per un’unione abituale. La necessità è qualcosa che esiste nello spirito e non negli oggetti.
2. Osservazioni alla critica di Hume. Separazione dei due problemi posti da Hume. Dei due problemi solo il primo interessa la metafisica, mentre il secondo invece è il problema dell’induzione scientifica, sul quali si può essere concordi con Hume. Il secondo problema non è un problema filosofico. È compito infatti delle scienze particolari determinare le cause prossime di certi particolari effetti, determinazione che è possibile solo mediante il processo induttivo. È comunque vero che la determinazione delle cause particolari non è affare di esperienza immediata, ci sembra tale perché il ragionamento (a posteriori) che sta alla base ci è ormai così familiare che non ci accorgiamo più di farlo. Immediatamente evidenti sono solo le successioni di fatti che noi leghiamo tra di loro. Conclusione. Il punto essenziale della critica è quindi sganciare il problema metafisico della causalità dal problema della determinazione delle cause particolari di certi particolari effetti, sganciare il principio “ciò che diviene è causato” da “il tal fenomeno è effetto di tal altro”. Lui effettua la saldatura perché secondo lui la proposizione “ciò che incomincia è causato” non è una verità necessaria, o come dice Hume non è una verità né intuitivamente, né dimostrativamente certa e quindi il negarla non implica contraddizione. Ma essa è una verità necessaria ed il negarla implica contraddizione. Questo lo si è già visto nel capitolo precedente e quindi sembra del tutto ingiustificata la tesi di Hume per cui si costruiscono verità necessarie solo attraverso la somiglianza e la contiguità spaziale e temporale.
3. La critica di Kant. Questa saldatura operata da Hume fra due problemi e due significat affatto diversi rimane comunque un pregiudizio, un idolum, per il pensiero posteriore, a cominciare da Kant che a differenza del predecessore sostiene che la seconda proposizione humiana è un giudizio sintetico a priori, cioè una proposizione necessaria (anche se il negarla non implica contraddizione). Per Kant infatti il giudizio analitico a priori conduce solo a giudizi tautologici (tanto che per lui le proposizioni matematiche sono giudizi sintetici a priori) e proprio per questo per lui Hume <<provò irrefutabilmente che è del tutto impossibile alla ragione di pensare a priori, e traendolo da concetti, un tal collegamento (tra la causa e l’effetto)>>. Riguardo alla seconda proposizione humiana lui infatti scrive che <<tutti i mutamenti avvengono secondo la legge del nesso di causa ed effetto>> (Seconda analogia dell’esperienza) e questo principio è condizione del mondo fenomenico. Per lui quindi i fenomeni naturali sono legati da rapporti necessari espressi dalle leggi naturali, le leggi della fisica hanno la medesima necessità delle proposizioni matematiche, sono giudizi sintetici a priori. Perciò su quest’ultimo punto Hume è stato molto meno condizionato dal suo tempo che non Kant!
4. Il principio di causalità e l’indeterminismo della fisica contemporanea. La confusione humiana tra principio metafisico di causalità e possibilità di determinare le cause particolari di particolari fenomeni sta a fondamento anche di certe obiezioni mosse al principio di causalità in nome della fisica contemporanea. Il principio di indeterminazione. Nel mondo microscopico non si può determinare correttamente la velocità e la posizione di una particella contemporaneamente, ma quanto maggiore sarà la precisione nella determinazione della velocità, tanto maggiore sarà la indeterminazione nella misura della posizione, e viceversa. Non potendo più determinare le condizioni iniziali non potremo prevedere con certezza quali saranno le condizioni del corpuscolo dopo un certo tempo, potremo solo formulare una previsione probabile e così le leggi fisiche riguardanti il mondo microscopico non sono leggi causali, quelle riguardanti il mondo macroscopico invece sì. Ma osserviamo:
Indeterminazione e idealismo. Attenzione che in via generale il fatto che un oggetto non si manifesti se non è sottoposto ad un certo procedimento non mi autorizza a dire che senza quel processo di osservazione l’oggetto non ci sia. Nel caso specifico bisogna rimettersi agli scienziati. Questa ammissione comunque: a) non ha nulla a che fare con l’idealismo perché il procedimento di cui mi servo per l’osservazione è un complesso di fatti fisici; b) non implica l’indeterminismo del mondo fisico, perché comunque c’è sempre una causa determinata che dà luogo ad un effetto determinato.
Capitolo Sesto: L’ascesa a Dio
Introduzione. Grazie al principio di causalità inteso in senso metafisico, liberato così da tutti gli equivoci, esporremo ora la giustificazione razionale dell’esistenza di Dio. Per far ciò bisogna però da una parte superare il pregiudizio, in seguito alla critica kantiana alle prove tradizionali, per cui non sia più possibile dimostrare l’esistenza di Dio e dall’altra capire che con queste prove non vogliono essere moventi psicologici, ma presupposti logici della fede in Dio. Caratteri degli argomenti filosofici per dimostrare l’esistenza di Dio. Gli argomenti filosofici per dimostrare l’esistenza di Dio, proprio perché sono filosofici, non possono presupporre se non ciò che è dato dall’esperienza. Tutti coloro che ci hanno provato nel passato (Aristotele, Sant’Agostino, Sant’Anselmo, San Tommaso ecc.) si sono domandati: il mondo dell’esperienza è l’assoluto? Può stare da sé o esige, per non essere contraddittorio, l’esistenza di un altro? Quali caratteri, quali attributi deve avere quest’altro per rendere ragione del mondo dell’esperienza, ossia perché il mondo dell’esperienza non sia contraddittorio? Solo una volta che si è risposto a queste domande si può giustificare filosoficamente l’affermazione dell’esistenza di Dio, tanto che Dio si trova la prima volta in filosofia come predicato e non come soggetto. Lo schema delle vie tomistiche per dimostrare l’esistenza di Dio. Per dimostrare l’esistenza di Dio si seguirà lo schema della Summa Theologiae di San Tommaso: a) Tutto ciò che è deve essere incontraddittorio Þ b) La realtà che cade sotto l’esperienza sarebbe contraddittoria se fosse tutta la realtà, se fosse l’assoluto Þ c) Il mondo dell’esperienza non è tutta la realtà, ma esige l’esistenza di un’altra realtà per essere intelligibile (non contraddittorio) Þ d) Si esaminano i caratteri di quest’Altro per rendere intelligibile il mondo dell’esperienza, caratteri che corrispondono agli attributi di quello che la coscienza religiosa dell’umanità chiama Dio. La a) è una proposizione universale, il principio di non-contraddizione ed il negare questo principio vuol dire affermare l’irrazionalità, la contraddittorietà del reale e l’impossibilità stessa della filosofia intesa come scienza. La b) è la constatazione, o meglio la dimostrazione, della contingenza (la realtà è in atto, ma per sua natura potrebbe anche non essere) a cui segue la c). Dimostrazione perché San Tommaso vede che la contingenza della realtà non è un dato di immediata constatazione, ma va inferita, va diagnosticata in base a ciò che cade sotto l’esperienza. E questa è la premessa più importante perché in generale gli atei (materialisti, idealisti, immanentisti) pensano che il mondo dell’esperienza non sia contingente, che abbia in sé la sua ragion d’essere, è l’Assoluto. Ecco perché San Tommaso insiste nel mostrare i segni di contingenza nel mondo, le “cinque vie” tomistiche: il divenire, il cominciare ad essere, l’esser corruttibile, l’avere dei gradi di perfezione, la preordinazione ad un fine di enti che non sono capaci di preordinare perché privi di intelligenza. L’unità e la diversità delle cinque vie. È possibile ridurre le cinque vie ad unico argomento? Come tipo di argomentazione sì, perché tutte inferiscono l’esistenza di un Essere assoluto e necessario da quella dell’ente contingente, ma ognuna la scopre in modo diverso e tutti arrivano ad affermare la contingenza, ma nessuno parte dalla contingenza come da un dato. Questa pretesa di unificare in un’unica via nasconde la voglia di dimostrare perché Dio esiste, mentre le cinque vie servono solo per vedere perché dobbiamo affermarne l’esistenza, perché il mondo dell’esistenza non essendo assoluto esige l’esistenza di un Altro. Ci potrebbero poi essere altri argomenti che mostrano l’esistenza di Dio, ma fino ad ora tutti quelli esposti da Pascal e gli esistenzialisti in particolare possono benissimo essere considerati come delle estensioni di quelle già presenti. Attributi a Dio. Di Dio si può dire in filosofia solo quello che è necessario per spiegare il mondo dell’esperienza, così al termine di ogni via tomistica Egli si manifesta sotto un certo attributo: Primo motore immobile, Causa prima, Ente necessario, Ente perfettissimo, Intelligenza ordinatrice. Da uno di questi attributi si possono dedurre tutti gli altri, come ha fatto San Tommaso nel Summa contra Gentiles partendo dall’attributo indivenibile, capendo così che appartengono tutti ad un Ente solo. Particolare importanza hanno l’intelligenza e la volontà perché i dicono che Dio è Persona.
Capitolo Settimo: Analisi delle “vie” tomistiche per dimostrare l’esistenza di Dio.
1. Necessità di dimostrare l’esistenza di Dio. L’esistenza di Dio non è immediatamente evidente, perché noi non intuiamo Dio e non ne conosciamo neanche l’essenza.
2. La prima via. << La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta che non sia potenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto. Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all'atto; e niente può essere ridotto dalla potenza all'atto se non mediante un essere che è già in atto. P. es., il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti : così ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. E dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro. Se dunque l'essere che muove è anch'esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri ; e tutti riconoscono che esso è Dio. >> (Somma Teologica, I, q.2, art.3) Il principio generale. Il principio formulato come premessa maggiore è il primato dell’atto: “tutto ciò che si muove è mosso da un altro”, preceduto da una premessa minore che è un dato di fatto: “alcune cose si muovono” . Il secondo principio che viene applicato è che “non si può in tal modo procedere all'infinito” e si arriva così all’ipotesi del motore immobile. Il fatto del divenire. È importante nella premessa minore cogliere come si ponga in risalto l’attività del muoversi e non la passività dell’essere mosso, che viene messa in risalto dopo e che non è immediatamente evidente. Il significato del termine “motus”. Il moto a cui San Tommaso fa riferimento non è solo un movimento locale, visto che fa l’esempio del riscaldamento che per San Tommaso era un mutamento qualitativo, una alterazione. Perciò con motus si intende non solo mutamento corporeo, ma mutamento in generale: divenire, sia esso corporeo o spirituale. Attenzione poi che il “consta dai sensi” potrebbe trarci in inganno perché non è esclusivo (“si può constatare solo sensibilmente”), ma è un’opzione (“si può constatare anche sensibilmente”), infatti: I) La giustificazione del primo principio viene data in base ai concetti di atto e potenza, che sono concetti metafisici e non fisici e come tali possono essere applicati a tutto l’essere e non solo all’ente corporeo. II) Il primo principio viene poi applicato anche a “moti” spirituali: 1) Come nella risposta alla seconda obiezione dell’articolo stesso: “Similmente gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti ad una causa più alta della ragione e della volontà umana, perché queste sono mutevoli e defettibili, e tutto ciò che è mutevole e tutto ciò che può venir meno, deve essere ricondotto a ima causa prima immutabile e di per sé necessaria, come si è dimostrato”; 2) Nella q.79 art.4 viene applicato all’intelletto umano. Questo per rispondere a chi dice che la prima via presuppone la fisica aristotelica, mentre il concetto di motus sul quale essa si basa è un concetto metafisico, applicabile a qualunque tipo di realtà. Ecco perché alcuni per esaltarne questo aspetto traducono motus con divenire. Il principio della improcedibilità all’infinito. Il secondo principio adoperato nella prima via dice che in questo caso, nel problema cioè della serie delle cause del divenire, non si può procedere all’infinito. Questo perché se si va avanti all’infinito non si elimina la contraddizione iniziale del divenire, in una serie di cause che siano ragion d‘essere dei loro effetti non si può procedere all’infinito (se invece fossero state cause fiendi …).
La prima via ci porta ad affermare l’esistenza di un immutabile o indivenibile, ragion d’essere di ogni divenire.
3. La seconda via. <<La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se medesima; che altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all'infinito nelle cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è causa dell'intermedia, e l'intermedia è causa dell'ultima, siano molte le intermedie o una sola; ora, eliminata la causa è tolto anche l'effetto: se dunque nell'ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe neppure l'ultima, né l'intermedia. Ma procedere all’infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente ; e così non avremo neppure l’effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che evidentemente è falso. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio.>> (Somma Teologica, I, q.2, art.3) Fatto. In questo caso è meno immediatamente evidente perché non si ha l’esperienza, la conoscenza immediata, dell’azione causale fra una cosa e l’altra (come sottolineò Hume); tuttavia la causa può essere facilmente inferita da un altro fatto: il cominciare ad essere. E questo cominciare ad essere non può cominciare dal nulla che “non è” e come tale non può far nulla, né generar nulla, dunque ciò che comincia trae l’essere da un altro che è la sua casa efficiente. Certo l’esperienza dell’incominciare assoluto non si ha, perché noi abbiamo sempre solo trasformazioni di materia, non inizi dal nulla. Per affermare che ciò che nasce da una trasformazione è veramente u nuovo ente, perché è una nuova sostanza bisogna rimandare alla filosofia della natura. Per ora basti pensare che: 1) Io, almeno, non sono stato sempre, io mi trovo nel mondo, non mi ci sono messo io. Per spunti vedasi l’analisi di M. Heidegger. 2) Se non ci fosse un assoluto cominciare e che tutte le apparenti nascite e morti non fossero che trasformazioni di un’unica sostanza, esse sarebbero comunque un divenire e quindi la seconda via si risolverebbe nella prima. Improcedibilità all’infinito. Che si riferisce non solo alle cause del sorgere dell’effetto, ma anche a quelle che sono ragion d’essere dell’effetto.
La seconda via ci porta ad affermare l’esistenza di una Causa prima, non causata.
4. La terza via. Vediamo prima la formulazione data nella Summa contra Gentiles:<< Vediamo nel mondo alcune cose che possono essere e non essere, ossia le cose generabili e corruttibili. Ora tutto ciò che può essere e non essere ha una causa; poiché, siccome per sé sta in egual rapporto all’essere e al non essere, se gli è attribuito l’essere, è necessario che ciò sia in virtù di una causa. Ma nelle cause non si può procedere all’infinito … dunque è necessario porre qualcosa che esista indefettibilmente. Ma ogni ente indefettibile o ha fuori di sé la causa della sua indefettibilità, oppure non l’ha fuori di sé, ma è indefettibile per se stesso, ossia è necessariamente. Ora non si può procedere all’infinito nella serie degli enti indefettibili che hanno fuori di sé la causa della loro indefettibilità. Dunque bisogna porre un primo ente indefettibile che è indefettibile per sé stesso, ossia rigorosamente necessario. E questo è Dio.>> (I Contra Gentiles cap. 15) Fatto. Si parte dall’esistenza di cose generabili e corruttibili, che è ben diverso del partire dall’esistenza di cose contingenti, dove contingente è ciò che, per sua natura, può essere o non essere anche se di fatto è incorruttibile o perenne, che è cioè indefettibile. Questo avvalora il considerare la considerazione iniziale della contingenza come un punto di arrivo e non come un punto di partenza. All’obiezione che nulla nasce e nulla muore si risponde analogamente a come si é fatto per la seconda via: 1) Io sono una persona distinta da ciò che mi circonda e come tale immortale, ma la sostanza umana è corruttibile e ciò lo capisco non tanto perché vedo gli altri morire, ma perché il mio non essere ancora tutto quel che posso essere è già un continuo morire. 2) Se anche le corruzioni non fossero che trasformazioni di un’unica sostanza, queste trasformazioni sarebbero pure una forma di divenire e la terza via si risolverebbe nella prima.
La terza via porta ad affermare l’esistenza di un ente che per sua natura deve esistere, ossia di un ente necessario. La prima, la seconda e la terza via partono tutte dalla considerazione del divenire: la prima considera il divenire in generale, la seconda l’incominciare ad esistere (che è un certo divenire) e la terza il cessare di esistere (che è pure un certo divenire). Perciò la seconda e la terza via non sono altro che specificazioni della prima.
La terza via nella somma teologica. <<La terza via è presa dal possibile [o contingente] e dal necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere ; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che vuoi dire che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose [esistenti in natura sono tali che] possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c'era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso. Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in altro essere oppure no. D'altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità, non si può procedere all'infinito, come neppure nelle cause efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio.>> (Somma Teologica, I, q.2, art.3) Il necessario o ha la sua indefettibilità da un altro o l’ha da sé; se l’ha da un altro allora non si potrà risalire all’infinito, ma bisognerà arrivare ad un ente indefettibile in sé, ad un ente assolutamente necessario, ad un ente che abbia in sé la ragione della sua esistenza. San Tommaso dice che ciò che è generabile e corruttibile ad un certo momento non esiste, ma una delle obiezioni che gli viene mossa è: Ma non è possibile che una cosa per sua natura corruttibile continui tuttavia ad esistere indefinitamente, per qualche circostanza estrinseca alla sua natura? Affinché ciò accada, per impedire la corruzione, ci vuole comunque l’azione conservatrice di un altro ente che se a sua volta è corruttibile … si cade così i un processo all’infinito. Perciò non è impossibile che un ente per sua natura corruttibile, di fatto non si corrompa, purché sia conservato nell’essere da un altro ente incorruttibile. Per eliminare i problemi comunque nel pezzo “ciò che può non essere, un tempo non esisteva” potrebbe essere utile considerare il concetto di generabile piuttosto che quello di corruttibile perché il primo permette di dire che se ho una serie di generabili essa deve cominciare dal nulla, ma dal nulla comincia nulla … mentre il secondo porterebbe ad una serie infinita perché ogni essere prima di morire fa a tempo a generarmi un altro ente e così all’infinito e quindi la frase “in un dato momento niente ci fu nella realtà” non si avvera.
5. La quarta via. <<La quarta via si prende dai gradi che sì riscontrano nelle cose. E un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuisce alle diverse cose secondo che esse si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; così più caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché, come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo Aristotele. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio.>> (Somma Teologica, I, q.2, art.3) Il fatto da cui si parte è che le cose sono (e non le concepiamo!) più o meno perfette, è l’esistenza di una gradazione reale, di un più e di un meno nelle perfezioni trascendentali (che sono convertibili con l’essere). Perciò se una cosa possiede una perfezione in grado maggiore o minore di un’altra, la ragion sufficiente di tale perfezione non è la natura stessa della cosa. Perciò le cose partecipano di questa perfezione, l’hanno da un altro, ma se esso a sua volta non è la perfezione per sua propria natura, anch’esso ne partecipa e siccome anche qui non si può andare all’infinito bisogna arrivare a qualcosa che sia per sé quella perfezione in massimo grado. Ed esso è causa di tutto ciò che è più o meno tale. La gerarchia dei valori. Il fatto su cui si basa la quarta via è la gradazione, ciò che è fino ad un certo punto, non è assolutamente, ma derivatamene; non è per sé, ma per altro. Come dice Pascal:<<Quand’anche l’universo lo schiacciasse l’uomo sa che muore, mentre l’universo non sa nulla del vantaggio che ha su di lui. Perciò tutta la nostra dignità consiste nel pensiero: in base a questo bisogna misurarci, non in base allo spazio o alla durata>> Chi non consente a tale affermazione difficilmente accetterà una dimostrazione dell’esistenza di Dio. Dall’altra chi nega l’esistenza di Dio non può poi affermare la gerarchia dei valori, sarebbe incoerente. Nella storia non è mancato chi ha negato la gerarchia dei valori per affermare che ogni cosa è tutto quel che deve essere, ha tutta la perfezione possibile e che la distinzione tra bene e male dipende solo da una valutazione soggettiva, ma in qualsiasi caso non riuscito a mantenere fino in fondo tale negazione. Spinoza ad esempio da una parte dice che una cosa non può essere meglio dell’altra, visto che tutte esprimono la sostanza divina, ma dall’altra, pur affermando che tutte le azioni umane si esprimono necessariamente, si ribella alla conseguenza che esse abbiano il medesimo valore e insiste che i cattivi non possono essere messi sullo stesso piano dei buoni. Hegel e gli storicisti si può notare che danno giudizi di valore sugli avvenimenti storici, quando per loro hanno tutti lo stesso valore. Insomma la cecità di fronte ai valori è una conseguenza di presupposti errati messi all’inizio del sistema, ma la verità negata si fa comunque largo attraverso incoerenze del pensatore. Oggigiorno la cecità di fronte ai valori porta ad un ateismo pratico, in un disinteresse per i valori che non siano quelli economici e che afferma l’uguaglianza di tutti i valori. La quarta via come prova morale. La quarta via si può applicare a qualsiasi bonum a qualsiasi valore, ma in particolare al valore morale e allora diventa quella che comunemente viene chiamata prova morale. L’esperienza quotidiana è il mio essere inferiore a quello che debbo essere, all’ideale che devo attuare: c’è una gerarchia di valore tra ciò che di fatto sono e ciò che debbo essere. Quindi quel bene che debbo attuare non è costitutivo della mia natura, non può essere in me la ragione sufficiente di quella perfezione che ancora non possiedo. Dall’altra “bene” non è solo un’idea della mia mente, è qualcosa che esige di essere attuato, mentre una semplice idea della mia mente non ha alcuna esigenza di realtà. Esiste perciò una realtà che possiede quella perfezione che io debbo acquistare, alla quale io debbo in qualche modo partecipare. L’Ente che si identifica con il bene morale, che è il bene è sommo Bene, è sommo valore e fonte di ogni valore morale. L’obiezione ce si può fare è all’immediatezza del punto di partenza: abbiamo noi l’immediata esperienza del dovere o il concetto di dovere è u concetto dedotto da quello delle finalità che, a sua volta, presuppone l’esistenza di Dio? La risposta sicura non c’è. Comunque la prova morale significa che chiunque riconosce il carattere oggettivo dell’esigenza morale, del dovere, riconosce implicitamente l’esistenza di Dio. Attenzione che il fine di ogni attività morale non è fare il bene fuori di me, ma quello di attuare pienamente il mio essere. Il bene si farebbe anche senza di me, ma io rinnegherei la mia natura umana se non aderissi a quell’ordine che si compie anche senza di me. E ciò spazza via ogni tentativo di ateismo postulatorio sostenuto esplicitamente da Hartmann. Naturalmente l’adesione a questo ordine morale mi porterà a cercare di realizzare il bene anche al di fuori di me, ma il significato della mia attività morale comunque non è nella sua realizzazione esteriore.
La quarta via si può riassumere in: c’è del bene a questo mondo; non si capirebbe perché non ci fosse tutto il bene, se questo mondo fosse l’assoluto; non si capirebbe perché ci fosse del bene se non ci fosse, da qualche parte, un bene assoluto.
6. La quinta via. <<La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come apparisce dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: donde appare che non a caso, ma per una predisposizione raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo d’intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia dall'arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest'essere chiamiamo Dio. >> (Somma Teologica, I, q.2, art.3) Il finalismo. I) Il fatto dal quale si parte non è il finalismo universale, ma quello di certi enti, quelli privi di conoscenza (ossia della natura corporea fino alla soglia del mondo animale) perché solo questo finalismo è immediatamente evidente, quello universale è da dimostrare solo dopo aver dimostrato l’esistenza di un Dio provvidente. II) La finalità che si prende in considerazione è una finalità intrinseca ad ogni ente considerato, è l’orientamento di tutte le attività di un ente al bene dell’ente stesso che opera e non al bene di un altro ente (finalità estrinseca). III) Il finalismo inteso come preordinazione (e non come ciò a cui ogni ente tende con le sue attività) secondo San Tommaso non è un dato immediato, è inferito da un certo modo di comportarsi delle cose nelle quali scopriamo la finalità. Viene cioè inferito dalla costanza (ad es. tutti gli organi che collaborano alla respirazione lo fanno continuativamente) e dalla perfezione (unità, ordine, accordo di un insieme di molti elementi) del modo di operare che di fatto porta al bene dell’operante stesso. IV) Più che a tutti i corpi fisici forse è meglio limitarci ai corpi vegetali ed alla loro finalità. Basti pensare ai fenomeni di regolazione coi quali un vivente modifica se stesso per adattarsi all’ambiente o a quelli di rigenerazione di una parte dell’organismo. Malintesi da eliminare. 1) Tutto questo discorso non esclude che di tutti i processi e gli elementi si debba dare una spiegazione scientifica, perché lo scienziato si chiede come mai avvengano certi fenomeni, il filosofo invece si chiede perché avvengano proprio quei fenomeni. Tanto è vero che più i fenomeni vitali ci si presentano complessi, tanto più diventa inverosimile che essi siano dovuti ad un incontro casuale. 2) L’affermazione di una preordinazione da parte di un’intelligenza trascendente non esclude un principio immanente di finalità, la cui esistenza in ogni vivente affermeremo invece in filosofia della natura, che però a sua volta, non essendo intelligente, gli è sempre permesso, donato da una intelligenza trascendente. Obiezione. Kant sostiene che la quinta via dimostra al più l’esistenza di un architetto dell’universo, ma non di un creatore dell’universo, di una intelligenza ordinatrice non di una intelligenza creatrice. E questo è vero per sé la quinta via dimostra l’esistenza di un Ordinatore e non di un Creatore, che l’Ordinatore sia lo stesso Creatore lo vedremo più avanti. Insomma come dice il Masnovo:<<… si mette innanzi un Dio da cui dipende una sola parte dell’Universo … non già in quanto all’essere, ma solo quanto al finalismo dell’operare. Va poi rilevato che, in virtù delle premesse tomistiche , il Dio della conclusione certo è trascendente per rispetto alle cose naturali, ma non ancora rispetto alla totalità dell’Universo. … quinta via non esclude di per sé che altri Iddii siano chiamati ad esplicare altri possibili mondi che non cadono sotto la nostra osservazione, o anche solo la parte di questo mondo che non risulta di corpi naturali.>>
Capitolo Ottavo: Osservazioni sulle vie tomistiche.
Si è preferito orientarsi sulle cinque vie tomistiche perché la Vanni ritiene che in filosofia, il meditare un testo classico sia più fruttuoso che il combinare pezzi diversi e che il nuovo nasca da un approfondimento di ciò che l’umanità ha già pensato. Nel far questo si è dovuto tener conto delle interpretazioni e obiezioni sorte nel corso della storia che ora vedremo meglio. Il punto di approdo delle vie tomistiche. Le cinque vie non conducono all’esistenza di un Dio inteso come creatore e provvidente, ma la prima ad un immutabile o indivenibile, la seconda ad una causa incausata, la terza ad un ente necessario, la quarta ad un maxime bonum o maxime ens e la quinta ad un ordinatore intelligente del mondo naturale. Perché allora San Tommaso conclude sempre con << e quest'essere chiamiamo Dio. >>? Si è già detto che, in materia, si preferisce il rigore di Sant’Anselmo (nel Monologion) che cita Dio solo nel cap. 80 del suo lavoro e prima parla sempre si summa essentia e summa natura. Tuttavia tenendo conto dei successivi lavori di San Tommaso tutti tesi a determinare gli attributi di Dio, sembra che San Tommaso (lavorando più da teologo e quindi teso a giustificare razionalmente il dato della Rivelazione, fin dove è giustificabile) voglia dire con questa frase che sarà dimostrato che questo immutabile ecc. la coscienza dell’umanità lo chiama Dio e lo si vedrà più avanti quando passeremo al discorso su Dio. Motivi del rifiuto delle prove tradizionali: Le vie tomistiche partono quindi tutte dal principio che ogni ente è incontraddittorio e dalla constatazione che la realtà che l’esperienza ci offre non è tutta la realtà altrimenti sarebbe contraddittoria. Insomma c’è dell’altro che non ha i caratteri della realtà sperimentata perciò è: indivenibile, incausato e necessario. Le critiche alle cinque vie si basano o sulla negazione del principio o sulla negazione della constatazione. a) Negazione dell’intelligibilità del reale. Considereremo qui solo le negazioni del principio che stano specialmente in rapporto con il problema di Dio e che sembrano essere strettamente connesse con la negazione dell’intelligibilità del reale e quindi del principio di non-contraddizione. N. Hartmann sostiene che tutte le prove dell’esistenza di Dio si fondano sull’orrore della contingenza che come tale non è un argomento filosofico e quindi tali prove non hanno alcun valore. Perché la realtà non potrebbe essere irrazionale? La risposta è che l’affermazione “l’assoluto è contingente” non fa orrore, ma è contraddittoria. Hartmann si salva infatti dicendo che fino ad un certo punto il contraddittorio può esistere e oltre un certo punto può non esistere più, che cioè il principio di non contraddizione ha valore per la realtà, ma oltre un certo punto non ha più valore. Ma questo non si può dire perché il principio di non contraddizione vale per tutto l’essere in quanto essere, ed un ente contraddittorio è un ente che non è e quindi non può esistere. Egli stesso infatti basa tutta la sua ontologia sul concetto di essere e riconosce che se le leggi logiche non fossero anche le leggi del reale non sarebbe possibile alcun ragionamento, ma poi introduce la sua irrazionalità del reale per cui le categorie del reale sono più ricche delle categorie del conoscere. E questo è vero, ma è ben lontano dall’irrazionalismo, perché ammette che le linee fondamentali della realtà, gli aspetti più universali dell’ente siano conosciuti dal nostro intelletto e siano quindi per loro natura intelligibili e quale è la legge più universale dell’essere se non il principio di non contraddizione? M. Heidegger non nega l’esistenza di Dio, ma cerca di fare a meno di Dio. Anche per lui infatti la via a Dio è bloccata dalla negazione della intelligibilità del reale, dalla affermata impossibilità di stabilire se il reale sia o no intelligibile che lui espone nella sua teoria della verità. Per lui la verità è manifestazione, rivelazione dell’essere e affinché ci sia verità ci deve essere un rivelante, ci deve essere qualcuno a cui l’essere è manifesto e costui è l’uomo, pertanto c’è verità solo fino a quando c’è l’uomo, ma l’uomo è un ente contingente e finito, pertanto non ha senso parlare di verità eterne indipendenti dall’uomo. Ed inoltre il tipo originario di manifestazione non è la conoscenza come intuizione, contemplazione, teoria, ma è il sentirsi, l’essere affetti dalle cose che non ci indica la loro presenzialità, ma ciò che noi possiamo fare con esse, anzi è il nostro potere che proietta davanti a noi che cosa siano le cose stesse e come vadano concepite. La conseguenza di questo primato dello stato d’animo pratico-emozionale su quello contemplativo è che le esigenze del pensiero e della logica sono svalutate perché ritenute un derivato delle esigenze dell’azione. Infatti il principio di ragion sufficiente per lui è una verità derivata da atteggiamenti pratici e quindi se da un lato dice l’uomo è contingente e che l’essere si rivela nell’autentica contemplazione filosofica come sospeso nel nulla dall’altro lato non esiste l’affermazione che l’essere non può stare da solo, non ha in sé la ragion d’essere. Ma allora come hanno fatto notare molti critici di Heidegger la stessa metafisica diventa l’espressione di un atteggiamento pratico-emozionale e come tale non ha alcun diritto di imporsi come universalmente valido. b) Le negazioni della contingenza. La premessa comunque più facilmente negata è quella del riconoscimento della contingenza e se si guarda più a fondo anche coloro che negano l’intelligibilità del reale lo fanno perché esaltano il contingente, il finito, proclamandone l’autosufficienza. Il presupposto di tutte le filosofie che negano la contingenza (e anche quelle dell’irrazionale) si può così semplificare: questo ente finito, precario, contingente non basta a se stesso solo se si concepisce l’autosufficienza come beata soddisfazione di sé; ma basta a se stesso se si concepisce l’autosufficienza in modo nobile, elevato, come rischio e amore del rischio. Questa difficoltà nel riconoscere la contingenza sono legate al fatto che le vie tomistiche non ne fondano il riconoscimento su stati d’animo emozionali, ma sull’esperienza del divenire e richiedono poi una riflessione che esige una certa preparazione morale. Esigono riflessione ossia capacità di astrazione metafisica perché bisogna considerare il divenire in quanto tale come passaggio dalla potenza all’atto, e non di questo o di quell’ente. Spesso si crede che una spiegazione filosofica debba essere consecutiva a quella scientifica, ma non è così perché la seconda spiega una determinata forma di divenire, la prima spiega il divenire in generale. E questo passare dal particolare al generale richiede sforzo, fatica, distacco dalla vita intesa come puro impulso, istinto, fatto emozionale; sforzo che è necessario per poter considerare quel mondo in cui la nostra vita è immersa e la vita stessa come qualcosa di oggettivo, di altro da me che lo considero. Per scoprire la contingenza del mondo bisogna voler essere ragione più che istinto, bisogna saper quasi interrompere il ritmo degli impulsi e della vita emotiva per fermarsi a contemplare. Non a torto M. Scheler dice che l’affermazione del valore della ragione si identifica in fondo con l’affermazione dell’esistenza di Dio e che per negare davvero Dio bisogna spodestare la ragione ed affermare il primato della vita intesa come impulso, istinto, fatto emozionale. Lo stesso primato della tecnica odierno, che è conseguenza del primato di queste esigenze vitali, porta a negare il significato della speculazione metafisica e rende ottusi alle dimostrazioni dell’esistenza di Dio. Per prestare attenzione alle considerazioni metafisiche infatti bisogna avere interesse, oltre al mestiere particolare che abbiamo nella società, al nostro mestiere di uomini, perché l’uomo è più di un mero ingranaggio del meccanismo sociale. Ecco perché le vie tomistiche richiedono preparazione morale, un voler guardare che è la condizione soggettiva di ogni vedere. Spesso infatti non si vogliono vedere i segni della contingenza (la instabilità, il fluire, la finitezza) abbandonandosi, come dice Pascal, alla distrazione (divertissement), alla smania del fare per distrarre la mente dal nostro passare nel tempo, dal divenire, dallo sfuggire di ogni cosa.
Se si superano tutti questi ostacoli e si considera il divenire in genere allora si deve concludere che l’ente in divenire non ha in sé la sua ragion d’essere, non si spiega da sé e quindi esige dell’Altro che si indivenibile e che permetta l’attuazione per ogni singolo ente di ciò che ancora non è. Per arrivare a ciò ci siamo giovati delle osservazioni pascaliane applicandole ad un esempio concreto delle prime tre vie tomistiche. Ma queste considerazioni non sono una nuova via!
Capitolo Nono: Osservazioni Su alcuni argomenti tradizionali e critica delle critiche kantiane.
1. L’argomento del Proslogion e alcuni argomenti affini. Dimostrazione a priori e dimostrazione a posteriori. Per dimostrazione a priori si intende quella in cui il medio è ontologicamente anteriore al predicato della conclusione, ossia il medio è casa della verità della conclusione es. Dimostrazione della immortalità dell’anima mediante la spiritualità (perchè essa è causa della immortalità) o della previsione di un eclisse mediante i calcoli dei movimenti della terra e della luna. Nella dimostrazione a posteriori invece il medio è ontologicamente posteriore alla realtà espressa nella conclusione, ne è un effetto es. Dimostrazione della esistenza degli uomini in un luogo dove si siano trovate armi, oggetti d’arte ecc. La dimostrazione dell’esistenza di Dio non può essere un argomento a priori perché noi non abbiamo un’idea di Dio prima di averne dimostrata l’esistenza, non c’è nulla di anteriore a Dio, che possa esserne causa. Generalmente si parla di dimostrazione a priori dell’esistenza di Dio quella che parte dalla considerazione dell’essenza di Dio così come è rappresentata nell’idea che abbiamo di Lui. L’argomento di Sant’Anselmo. Un esempio di tale dimostrazione è quello tentato da Sant’Anselmo nel Proslogion: “crediamo che Dio sia l’ente di cui non si può pensare niente di più grande e anche chi non crede che Dio esista, deve pure avere un’idea di Lui per negarne l’esistenza; anche chi non crede ha quindi l’idea di Dio come dell’essere di cui non si può pensare il più grande. Ma se l’id quo maius cogitari nequit (ciò di cui non si può pensare niente di maggiore) fosse solo pensato e non anche esistente, non sarebbe più l’iqmcn, perché l’iqmcn esistente sarebbe più grande dell’iqmcn soltanto pensato, dunque l’iqmcn per essere veramente tale, deve esistere.” (Proslogion cap.2) A questo argomento si oppose subito il monaco Gaunilone che mosse due difficoltà all’argomento: 1) non si può dimostrare che l’idea dell’iqmcn sia una vera idea e non una semplice finzione, perché non posso dire da dove ho tirato fuori tale idea. 2) L’iqmcn solo pensato non è il vero iqmcn, è un inconveniente solo per chi ammette già che l’iqmcn esiste e cita l’esempio dell’isola fortunata. Sant’Anselmo controbatte a sua volta discutendo solo la seconda obiezione (avendo la meglio) ribadendo che dell’isola perfettissima si può pensare il maggiore mentre l’argomento anselmiano vale solo per il concetto di perfettissimo. E San Tommaso intervenendo riprenderà questa posizione mostrando che se l’iqmcn è soltanto pensato, anche l’esistenza che esso include deve essere soltanto pensata, è necessario che il definito e la definizione siano sul medesimo piano di realtà. L’argomento anselmiano implica quindi un passaggio illegittimo dall’ordine ideale all’ordine reale. Ma la ragione ultima di tale illegittimità è toccata dalla prima obiezione di Gaunilone: prima di sapere se Dio esista, io non so quale valore abbia l’idea di Dio, non so neppure se Dio sia possibile, poiché l’unico criterio di possibilità è la realtà. Quando perciò pronuncio il nome Dio prima di averne pronunciata l’esistenza, io non so se l’idea che sta dietro a quel nome sia una vera idea, esprimente un ente possibile, o un mero nome. L’argomento anselmiano nella storia della filosofia: Cartesio. <<Trovo in me un’infinità di idee di certe cose, che non possono essere stimate un puro niente, … ma hanno le loro nature vere ed immutabili. Come per esempio quando io immagino un triangolo, sebbene non ci sia, forse, in nessun luogo del mondo una tale figura fuori del mio pensiero, e non ci sia giammai stata, non perciò, tuttavia, cessa di esservi una certa natura o forma o essenza determinata di questa figura, la quale è immutabile e eterna e che io non ho inventata e che non dipende dal mio spirito in alcun modo … ora c’è nel mio spirito l’idea di Dio, cioè l’idea di un essere sovranamente perfetto, non meno di quella di qualsiasi figura o di qualsiasi numero. >> (Cartesio in “Meditazioni filosofiche”) Inoltre più avanti dirà che l’essenza di Dio sta alla sua esistenza come l’essenza del triangolo sta all’avere gli angoli interni equivalenti a due retti. Il primo ad obiettare fu Caterus nel suo “Prime Obiezioni alle Meditazioni di Cartesio” in cui rivolge a Cartesio la stessa critica fatta da San Tommaso ad Anselmo:<<Anche se si resti d’accordo che l’essere sovranamente perfetto, in forza del suo proprio nome, importi l’esistenza, tuttavia non ne segue che questa esistenza sia nella natura qualcosa in atto, ma solo che con il concetto o con la nozione dell’essere sovranamente perfetto quello dell’esistenza è inseparabilmente congiunto. Dal che voi non potete inferire che l’esistenza di Dio sia qualcosa in atto …>> quindi il problema ancora a monte è sapere se Dio esiste! Per rispondere Cartesio si appella all’oggettività dell’idea di Dio che sussisterebbe, a suo parere, indipendentemente dalla sua esistenza. La difficoltà per lui sta nel fatto che <<… non sappiamo se la sua essenza è immutabile e vera o se è solamente stata inventata>> e questo è vero, ma successivamente lui sostiene che << … bisogna badare che le idee le quali non contengono vere ed immutabili nature, ma solo nature finte e composte dall’intelletto …, possono essere divise dallo stesso intelletto per mezzo di una chiara e distinta operazione>>, ma lui non riesce a dimostrare che non si può assolutamente dividere il concetto di esistenza necessaria da quello di Dio, indipendentemente da qualsiasi prova a posteriori della sua esistenza. Ripiega così sul concetto di possibilità:<<… almeno l’esistenza possibile gli conviene, come conviene a tutte le altre cose di cui abbiamo in noi qualche idea distinta…concluderemo di qui che egli realmente esiste e che è esistito da tutta l’eternità. Poiché è manifestassimo … che ciò che può esistere per la sua propria forza esiste sempre.>> E quindi la polemica si può ricondurre a quella tra Gaunilone e Sant’Anselmo: Se
Dio è possibile Dio esiste necessariamente. Ma come si può sapere se Dio è possibile, prima di aver dimostrato che Dio esiste? Qui sta il problema. E poi Dio chi lo ha mai visto? L’ultima prova a priori di Cartesio nella risposta a Caterus è molto simile a La prova a priori in Leibniz.<<Dio soltanto (o l’essere necessario) ha questo privilegio, che deve esistere, dato che sia possibile. E poiché nulla può impedire la possibilità di ciò che non implica alcun limite, alcuna negazione, e quindi alcuna contraddizione, ciò solo basta per apprendere a priori che Dio esiste>> Perciò Leibniz, che rimprovera a Cartesio di aver dato una imperfetta dimostrazione a priori, cerca di dimostrare la possibilità di Dio osservando che l’essenza divina non implica contraddizione. Ora, si potrebbe obiettare, l’assenza di contraddizione suppone che un’idea sia costituita di diverse idee parziali e che queste siano compatibili tra di loro, ma come si può sapere che ognuna di queste idee, di questi attributi è possibile? Leibniz risponde che è possibile perché è illimitato e quindi non lascia, per così dire, nessun posto ad un’altra che lo possa negare, ma come posso dire che l’illimitato è possibile quando io ho solo visto cose limitate? Tornando al problema di Gaunilone, come posso io sapere se la nozione di Dio che mi formo risponde ad una vera natura o è una finzione della mia mente? Insomma l’argomento a priori per essere valido dovrebbe presupporre che la nostra idea di Dio rispecchi la natura stessa di Dio, rappresenti Dio realmente esistente. E ciò sarebbe possibile solo se:1) si affermasse l’ontologismo, quella dottrina per cui noi abbiamo l’intuizione di Dio stesso; 2) si presuppone che l’idea di Dio ci è già data dalla Rivelazione (che è il presupposto di Sant’Anselmo che si serve della sua prova per chiarire a se stesso credente l’esistenza di Dio: fides quaerens intellectum). L’argomento <<ex veritatibus aeternis>>. Insomma il problema dell’argomento anselmiano è che parte da una idea di Dio di cui non si è ancora giustificato il valore, da un’idea che potrebbe rappresentare non già una realtà, ma un mero ens rationis, un ente ideale. E anche l’argomento agostiniano espresso nel De libero arbitrio e ripetuto sotto il nome di argomento ex veritatibus aeternis, pecca del medesimo difetto. Dice infatti San’Agostino che avremo trovato Dio quando avremo trovato qualche cosa, di eterno ed immutabile, superiore alla nostra ragione. Siccome le leggi matematiche ed in genere le verità necessarie sono eterne ed immutabili e sono superiori alla nostra ragione, perché quando la nostra ragione giudica, non giudica la verità, ma secondo verità, si sottomette cioè alle verità necessarie come ad immutabili regole che le si impongono. Tali verità non sono Dio, ma essendo superiori alla nostra ragione non possono che essere riflessi di Dio. A tale argomento si obietta: l’immutabilità delle verità necessarie, è un carattere della proposizione in quanto tale, del pensato in quanto pensato e non dell’oggetto reale conosciuto, tant’è vero che noi possiamo pronunciare verità necessarie su enti reali contingenti es. se due cose sono uguali ad una terza allora queste due sono uguali tra di loro, ma ciò che esiste non è “la cosa uguale”, ma enti individui e contingenti che possono essere tra loro in rapporto di uguaglianza. L’universalità quindi è un prodotto della nostra astrazione ed eternità e immutabilità non sono caratteri positivi delle essenze universali, ma sono puramente negative. Perciò non si può partire da verità necessarie per dire che esiste un Ente eterno ed immutabile, poiché quell’eterno ed immutabile che è nel mio intelletto non esiste e ciò che esiste non è né eterno, né immutabile. In difesa dell’argomento agostiniano molti hanno detto che il fondamento ultimo delle essenze da noi astratte risiede in un Ente positivamente eterno ed immutabile, e questo è vero, ma, si potrebbe obiettare, come facciamo noi a sapere che il fondamento ultimo delle essenze è dato dalla essenza divina? Anche qui ciò è possibile solo dopo aver dimostrato l’esistenza di Dio. All’argomento agostiniano comunque bisogna riconoscere che la possibilità di pronunciare sulle cose verità necessarie suppone una intrinseca intelligibilità delle cose, la cui intelligibilità è permessa da una intelligenza creatrice a cui si può arrivare per mezzo di una delle vie tomistiche. Altra prova del Leibniz. Affine all’argomento agostiniano è l’argomento che il Leibniz espone nelle proposizioni 43-44 della sua Monadologia:<<È vero altresì che in Dio non risiede soltanto la fonte delle esistenze, ma anche quella delle essenze, in quanto sono reali, o di quel che v’è di reale possibilità. … È necessario infatti che se c’è una realtà nelle essenze o possibilità, o anche nelle verità eterne, questa realtà sia fondata su qualche cosa di esistente e di attuale, e per conseguenza sull’esistenza dell’Essere necessario nel quale l’essenza implica l’esistenza.>>. Ma come si fa a sapere <<se c’è una realtà nelle essenze o possibilità>>? Non si può saperlo se non deducendo la possibilità dall’attualità, ed è sufficiente quella delle cose contingenti per garantirla non bisogna tirare in ballo l’Ente supremo. L’<<unico argomento>> di Kant. Identico all’argomento del Leibniz è quello che Kant nel periodo pre-critico ritiene sia L’unico argomento possibile per dimostrare l’esistenza di Dio. Lui partendo dalla premessa che l’essere non è predicato di nessuna cosa, non aggiunge nulla all’idea di una cosa, osserva (giustamente) che l’esistenza di una cosa non potrà mai esser dedotta dal concetto della cosa stessa. Per lui la possibilità (intrinseca) di una cosa può essere: formale (che consiste nella non-contraddizione degli elementi che costituiscono il possibile) o materiale (che consiste nell’esser dati quegli elementi che sono compatibili fra loro). La possibilità presuppone dunque l’essere, il possibile presuppone l’attuale, <<ma che vi sia una possibilità e pur non vi sia nulla di reale, ciò è contraddittorio; poiché se nulla esiste, neppure è dato nulla che sia pensabile>>, ma è possibile anche ciò che non è attuale, purché ci sia un Altro attualmente esistente, da cui segua la possibilità del primo. E siccome è necessario che qualche cosa sia possibile, dunque è necessario che qualcosa sia. Questo argomento non è valido perché non è giustificata l’affermazione che << è necessario che qualche cosa sia possibile>>, infatti se qualche cosa è, necessariamente qualche cosa è possibile, ma se l’esistenza di quel qualche cosa è contingente anche la sua possibilità è contingente.
2- Le critiche kantiane alle prove dell’esistenza di Dio. Fra le obiezioni alla possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio ricorderemo solo quelle più famose che sono quelle di Kant nella Critica della ragion pura. Egli cita tre tipi di prove dell’esistenza di Dio: ontologica (che fa un’astrazione da ogni esperienza e conchiudono affatto a priori da semplici concetti all’esistenza di una causa suprema), cosmologica (mettono empiricamente a fondamento soltanto un’esperienza indeterminata, cioè un’esistenza qualunque) e fisico-teologica (che partendo dall’esperienza determinata e dalla particolare natura del mondo sensibile, salgono da esso secondo le leggi della causalità, fino alla causa suprema fuori del mondo). Per lui la prima non ha valore, perché implica un illegittimo passaggio dall’ordine ideale all’ordine reale; la seconda, oltre ad altri difetti, ha quello di appoggiarsi sulla prova ontologica e quindi cade con questa; la terza, oltre ad altri difetti, ha quello di appoggiarsi sulla prova cosmologica e quindi cade con questa. Perciò di tutte le prove tradizionali non resta nulla. Riguardo alla prova ontologica almeno nelle conclusioni si può essere d’accordo con Kant. Critica alla prova cosmologica. Che lui enuncia così:<<Se qualcosa esiste, deve esistere anche un essere assolutamente necessario. Ma io stesso, per lo meno, esisto, dunque esiste un essere assolutamente necessario … Ma la prova deduce più oltre: l’essere necessario non può essere determinato se non in un unico modo, cioè rispetto a tutti i possibili predicati opposti, per uno solo di essi, e però deve essere completamente determinato dal suo concetto. Ora c’è un concetto solo di una cosa possibile che a priori determini questo completamente, ossia quello dell’ens realissimum. Il concetto di Ente realissimo è l’unico concetto onde possa essere pensato un Ente necessario; cioè esiste in modo necessario un Essere supremo>> Perciò per Kant la prova cosmologica consta di due parti: 1) Passaggio da un’esistenza in generale ad un’esistenza necessaria; 2) Attribuzione di questa esistenza necessaria all’ens realissimum, ossia all’essere perfettissimo. E Kant le critica tutte e due:
Capitolo Decimo: L’essenza di Dio. Dio come primo ente.
Tutti gli attributi cui ci hanno condotto le cinque vie tomistiche (immutabile o indivenibile, causa incausata, ente necessario, maxime bonum o maxime ens e ordinatore intelligente)appartengono ad una medesima realtà che noi possiamo chiamare Dio, oppure appartengono ad enti diversi? E così entriamo nel problema della natura di quell’Altro, che per semplicità chiameremo Dio, che abbiamo dovuto ammettere come ragion d’essere del mondo dell’esperienza, senza il quale questo mondo sarebbe contraddittorio. E queste ulteriori determinazioni sulla natura di Dio saranno fatte a partire dagli attributi che già abbiamo conosciuto, ricordandoci che in filosofia si deve dire di Dio tutto quello che è necessario per rendere ragione del mondo dell’esperienza.
1. Dio è atto puro. Eternità e necessità. L’Immutabile deve essere eterno, cioè (secondo la definizione di Boezio): 1) senza principio e senza fine; 2) senza successione. Inizio, fine, successione sono forme di divenire, implicano sempre un passaggio dalla potenza all’atto e come tali vanno esclusi dall’Immutabile. Ciò che è eterno poi è necessario, perché l’eterno non può non essere e quindi è necessario. Quindi il termine della prima via si identifica con quello della terza. Dio è atto puro. L’Immutabile è atto puro, ossia non ha in sé potenza passiva, non può essere ciò che ancora non è, è già tutto quello che potrebbe essere. L’Atto puro esclude perciò da sé ogni divenire, perché possiede già tutta la vita che è possibile possedere. Semplicità divina. Poiché Dio è Atto puro, dobbiamo negare in Lui qualsiasi tipo di potenza e di composizione, poiché ogni composizione suppone potenza. Dio perciò non è corpo (perché essendo esteso implica una pluralità, e quindi una composizione di parti), il Lui non c’è composizione tra sostanza ed accidente, in Lui tutto è sostanziale, tutto si identifica con ciò che Egli è, perciò Dio è (e non “ha” come noi) le sue perfezioni e le sue attività.
2. Dio è l’Ipsum Esse subsistens. In Dio poi l’essenza è l’essere in atto si identificano, perciò non solo Dio è ogni sua perfezione, ma Dio è l’essere in atto, Dio è l’Ipsum Esse subsistens. Con questo concetto si esprime al meglio la trascendenza di Dio, la distinzione fra Dio e tutto ciò che non è Dio. È un primato che questo attributo ha nella conoscenza di Dio, non dell’essenza stessa di Dio, poiché data la semplicità divina, non ci può essere distinzione reale fra gli attributi divini, ma solo distinzione logica cum fondamento in re, poiché quegli attributi che in Dio si identificano, identificandosi tutti con l’essenza divina, si trovano distinti negli altri enti all’infuori di Dio. Dimostrazione che Dio è l’Ipsum Esse Subsistens. Si è detto che in Dio si identificano essenza ed essere, vediamo altre de considerazioni che dimostrino tale identità. 1) L’essere dice atto, poiché una cosa è, quando è in atto; se in una cosa l’essere in atto si distingue da ciò che la cosa è, si dovrà dire che quella cosa ha l’essere e quindi sta all’essere come potenza ad atto. Ma in Dio non c’è potenza, dunque non ci può essere in Lui nulla che si distingua dal suo essere attuale (I Contra Gentiles cap.22). 2) Se una cosa è, e tuttavia non è lo stesso essere, avrà l’essere per partecipazione, ossia lo avrà ricevuto. Ora ciò che riceve l’essere non può essere il primo Ente, non può essere incausato, dunque Dio che è il primo Ente, che è incausato, deve esistere per sua natura, per sua essenza, e quindi il suo essere si identifica con al sua essenza. Dio dunque non ha l’essere, ma è l’Essere, di conseguenza è fuori delle categorie, è al di sopra di ogni genere. Errori da evitare. Con questo bisogna guardarsi bene dal dire che Dio è l’essere comune a tutte le cose o quasi che Dio fosse soltanto essere e non avesse altre perfezioni come vita, intelligenza ecc.
Altri attributi di Dio che si deducono da quello di “Ipsum Esse Subsistens”: Dio è infinito. Infatti il suo essere si attua senza limite, perché Dio è essere per quanto è possibile esserlo e quindi infinitamente. Dio è unico. Se non c’è nessuna perfezione che non sia contenuta in Dio, non ci può essere nulla per cui un Dio si distingua dall’altro e le creature si distinguono da Dio perché non hanno tutta la perfezione possibile, perché hanno in se della potenza non attuata, non sono atto puro. Corollari: a) Trascendenza di Dio. Tutto ciò che abbiamo visto finora ci ha fatto conoscere Dio come distinto dal mondo dell’esperienza, come trascendente. b) Impossibilità del panteismo. Dire che tutte le cose sono Dio, che Dio si identifica con il reale vuol dire negare la trascendenza. Per metterne in rilievo l’impossibilità poi basta osservare che il panteismo, identificando Dio con il mondo, deve: 1) o sforzarsi di negare al mondo quei caratteri che lo manifestano imperfetto ed insufficiente a stare da sé; 2) o introdurre il divenire e la molteplicità in Dio. Tutte le diverse forme di panteismo che presenta la storia infatti sono di due tipi: simili a quello di Spinoza, che riduce ad apparenza a frutto di imperfetta conoscenza, gli aspetti del mondo inconciliabili con la natura divina, o a quello che riduce Dio all’essere del mondo come fanno Bruno ed Hegel. Il primo va contro l’esperienza, il secondo contro la ragione, perché introduce il divenire nell’Assoluto. Insomma Dio è l’essere, ma l’essere non è Dio.
3. Come conosciamo l’essenza di Dio. Aspetto positivo e aspetto negativo nei nostri concetti di Dio. Ogni concetto che ci formiamo di Dio ha una nota positiva ed una negativa: causa (positiva) incausata (negativa), motore (positivo) immutabile (negativo) ecc. L’elemento positivo dei nostri concetti di Dio (e quindi del nostro modo di conoscere Dio, non di Dio stesso) rappresenta una perfezione comune a Dio a alla realtà che sperimentiamo, l’elemento negativo rappresenta invece ciò che è proprio di Dio e lo distingue da ciò che sperimentiamo. Questa duplicità è dovuta al fatto che filosoficamente non possiamo conoscere Dio se non attraverso il mondo dell’esperienza e perciò: 1) dobbiamo attribuirgli in modo eminente quelle perfezioni (e non qualsiasi qualità o difetto!) che troviamo nelle creature (con questo termine intendiamo e abbiamo inteso fino a qui per brevità tutto ciò che ha l’essere), poiché ogni causa deve avere in sé almeno tanta realtà quanta ne ha l’effetto; 2) d’altra parte per avere un concetto che ci faccia distinguere Dio dalle creature, dobbiamo dire qualche cosa che sia proprio di Lui, ma per sapere in che cosa positivamente Dio si distingua dalle creature dovremmo conoscere Dio in se stesso, direttamente e siccome così non è allora procediamo negativamente ed escludiamo da Dio ciò che implica imperfezione, contingenza nelle creature. Analogia. Perciò anche l’elemento positivo dei nostri concetti di Dio, comune a Dio ed alle creature, è solo analogicamente comune, ossia non si avvera nel medesimo modo in Dio e nelle creature, perciò anche le perfezioni che Dio possiede formalmente come ad es. essere, bontà, intelligenza non sono univocamente comuni a Dio e alle creature, ma vi è tra di esse una certa similitudine. La dottrina dell’analogia ci permette così di evitare i due scogli dell’antropomorfismo (in cui si cade quando si vuole predicare qualcosa univocamente di Dio e della creatura, come fanno coloro che pretendono di avere un concetto adeguato di Assoluto e di avere di lì una visione panoramica dell’universo) e dell’agnosticismo (in cui si cade quando si ammette che tutto ciò che si predica di Dio si predica solo equivocamente di Lui e delle creature).
Capitolo Undecimo: Dio come persona e creatore.
Dobbiamo ora domandarci se Dio è Persona (e non come Personalità che è possibile solo per mezzo della Rivelazione), se cioè sia intelletto e volontà. Per far ciò partiremo sempre dal mondo dell’esperienza e affermeremo solo ciò che è necessario a rendere ragione di tale mondo e poiché la ragione non ci fa conoscere Dio se non attraverso il rapporto che le creature hanno con Lui, parleremo anche della creazione.
1. La Creazione. Si chiede San Tommaso dopo aver detto che Dio è causa di alcune cose se si possa affermare che Dio è causa di tutte le cose e la risposta a tale quesito è affermativa. Sì perché Dio è l’Essere per essenza che è uno solo dunque tutto il resto ha l’essere per partecipazione e non può averlo ricevuto se non dall’Essere per essenza, non vi è nulla all’infuori di Dio che dipenda da Lui e quindi le cose derivano da Dio per creazione, ovvero la produzione di una cosa dal nulla, non la semplice trasformazione di una materia preesistente. Libertà della creazione. Il problema più importante è se la creazione sia necessaria o libera, se Dio crei cioè il mondo per necessità della sua natura o liberamente, per libera scelta. La tesi della libertà della creazione può essere giustificata nel modo seguente: ciò che opera per necessità di natura non può essere senza la sua attività, se dunque Dio producesse il mondo per necessità di natura, egli non potrebbe essere senza il mondo, non sarebbe Dio se non producesse il mondo, che come tale sarebbe una parte essenziale, costitutiva di Dio, ma questo è un elemento contraddittorio, perché introduce il divenire, nell’indivenibile. Don Bona dixit: Riguardo alla personalità ce ne sono due tipi: psicologica ed ontologica. Dio ha una personalità ontologica, non di certo psicologica visto che si introdurrebbe la molteplicità. Ciò che ha detto al Rovighi poi non basta a dire che Dio è persona in senso forte e a giustificare l’esperienza, perché si è arrivati a dire che la creazione non è necessaria e però c’è, come mai? Solo dicendo che le caratteristiche personali di Dio sono perfezioni si può dire che Dio è persona libera in senso forte, infatti: Dio è personalità (ontologica); chi conosce l’essere è chiamato ad amarlo, a volere che sia, quindi Dio è amore; chi ha personalità è autonomo perché sa il perché delle cose che sceglie, perché le conosce, Dio è autonomia. Di conseguenza il rapporto di Dio con la creatura è libero (in senso forte) perché è scelto. Relazione tra Dio e la creatura. La relazione Dio-creatura in forza dell’atto creativo non è una relazione reale, ma solo ideale, mentre è reale la relazione tra la creatura e Dio. Una relazione infatti è reale quando il soggetto ha in sé un aspetto che non avrebbe se non ci fosse quella relazione. La creazione non pone dunque nulla di più in Dio. Eternità o temporalità della creazione. Ora se Dio crea liberamente il mondo, il mondo non è necessario a Dio, perciò può benissimo avere un inizio e ciò non è contraddittorio. Alla obiezione poi che il mondo deve essere eterno poiché eterno è l’atto creatore di Dio, ciò non è vero perché esso non è un atto transitivo, ma è un atto di volontà che esiste in Dio dall’eternità e tuttavia quest’azione formalmente immanente, è virtualmente transitiva, ossia ha il potere di fare essere qualcosa fuori di Dio, alle condizioni volute da Dio. Per capire, in un’opera di un’artista si distinguono due azioni: una immanente (che termina nel soggetto stesso operante) ed una transitiva (che passa dal soggetto operante ad un oggetto esterno), infatti l’artista umano deve prima ideare e volere l’opera d’arte e poi deve eseguire l’opera d’arte. In Dio invece l’attività creatrice è solo immanente , perché l’attività di Dio si identifica con la sua essenza, si esaurisce tutta nell’ideare e nel volere, non può uscire e farsi altro, altrimenti sarebbe introdotto il divenire. Ma a questa volontà segue un effetto distinto da Dio così come è voluto da Dio, con tutte le condizioni da lui volute e quindi anche la temporalità. Dio può quindi volere dall’eternità che una creatura sia nel tempo.
2. Intelligenza e volontà divina. Don Bona dixit: Poiché Dio, che è personalità, crea il mondo liberamente, volontariamente, per amore e in totale autonomia e chi crea sceglie di creare, ma chi sceglie deve sapere quello che sceglie, allora Dio è anche intelligenza perciò Dio è Persona (e non solo Intelligenza e Volontà come dice la Sofia). Caratteri dell’intelligenza e della volontà di Dio. Anche intelligenza e volontà come tutte le perfezioni assolute si predicano di Dio solo analogicamente, perciò intelligenza e volontà in Dio sono atto puro e si identificano con la Sua sostanza. Dio quindi è sempre, per sua essenza, intelligente e volente in atto. Da lui dobbiamo poi escludere tutti quei caratteri che implicano il divenire e quindi la molteplicità come il ragionamento (che è proprio di chi non conosce le cose e vuole conoscerle), il discorrere, il giudicare (perché il giudizio è una sintesi di concetti, di idee che non esauriscono pienamente l’oggetto e comporta un passaggio da una conoscenza incompleta ad una più completa). Oggetto della conoscenza divina. Ciò che viene prima nella dimostrazione non è detto che venga prima nella realtà come in questo caso, dove l’oggetto primario e immediato della conoscenza divina è la sua stessa essenza e non la creatura, perché se una cosa da Dio ne perfezionasse la conoscenza ella sarebbe più nobile di Lui o qualcosa che Lui non è, ma ciò è impossibile! Come Dio conosce le creature. Ma come può allo stesso tempo Dio conoscere solo la sua essenza e tuttavia conoscere e volere anche le creature? Perché Dio conosce le altre cose nella sua essenza, perché Dio conosce le cose diverse da sé, perché ne è causa, quindi Dio conosce tutto ciò che è fuori di Lui, fino all’individuo, fino alla materia (che anch’essa è creata da Lui) fino alle modificazioni ed alle attività di ogni singolo individuo. Detto ciò, bisogna fare attenzione agli Errori da evitare che sono: da una parte concepire l’essenza divina come un mosaico di idee platoniche, o le essenze conosciute da Dio come un mondo di idee quasi intermedio tra Dio e le creature (come fecero Platone, Malebranche, Leibniz e altri), perché le idee divine non sono distinte dall’essenza divina; dall’altra non si deve negare a Dio la conoscenza delle cose in particolare e nell’asserire che Dio conosce le cose solo in generale, come enti e creature in genere (come fecero l’averroismo e l’avicennismo o più recentemente il deismo illuministico). Dio è un unico atto che contiene virtualmente in sé una infinità di altri enti. Ciò poi salva la libertà dell’uomo perché Dio conosce ogni cosa con una propria cognizione che non limita la nostra libertà. Dire che Dio crea l’uomo libero e dire che ci conosce e siamo liberi è la stessa cosa. Noi non riusciamo a capirlo perché per noi conoscenza vuol dire limitare qualcosa in un nostro concetto, ma Dio non è così Dio non ha limiti e tantomeno concetti. L’unico rapporto che più o meno si avvicina è quello educatore-educato perché tanto più il primo conosce il secondo, tanto più ne promuove la sua libertà invece di limitarla. Oggetto della volontà divina. Così come Dio conosce primariamente solo se stesso, Dio vuole primariamente solo se stesso e vuole le altre cose in quanto sono partecipazione della sua bontà:<<Ora Dio vuole ed ama la sua essenza per se stessa, ma l’essenza divina non è per se suscettibile di aumento o di moltiplicazioni: è moltiplicabile solo secondo la sua similitudine che può essere partecipata da molte cose. Dunque Dio vuole la moltitudine delle cose in quanto vuole la sua essenza e la sua perfezione>> (I Contra Gentiles cap. 75) Dio vuole se stesso necessariamente e quindi mentre Dio conosce necessariamente tutte le possibili imitazioni della sua essenza, non vuole necessariamente che si attuino tali imitazioni; conosce necessariamente tutte le creature attuali e possibili, ma non vuole necessariamente nessuna creatura. Questo perché l’atto di intelligenza non pone per sé nulla fuori di Dio, mentre l’atto di intelligenza unito con l’atto di volontà creatrice pone l’esistenza di cose diverse da Dio. Libertà di Dio e conoscenza della creatura. Siccome Dio non vuole necessariamente nessuna cosa all’infuori di sé, possiamo parlare di libero arbitrio in Dio che esclude nelle creature una necessità assoluta, ma non una necessità ipotetica derivante dalla:
Entrambe in fondo sono la necessità di non-contraddizione. E quindi il fatto che Dio abbia scelto liberamente le creature non impedisce a queste creature di avere una determinata natura dalla quale seguono necessariamente determinate operazioni ed effetti.
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Onnipotenza divina. Esistono due tipi di potenze, quella passiva (responsabile del divenire, e come tale non è di Dio) e quella attiva (principio per cui un agente agisce su di un altro, e come tale sommamente presente in Dio). Mentre in noi la potenza attiva è sì principio dell’operare, ma anche dell’effetto prodotto, in Dio no, perché la potenza attiva di Dio è infinita, poiché radicata nella sua attività che è infinita, in quanto si può operare tanto più perfettamente si è. In questo senso Dio è onnipotente, può fare cioè tutto ciò che è intrinsecamente possibile, rispettando ovviamente il principio di non contraddizione .
Don Bona Dixit: Passiamo così ad approfondire gli ultimi due trascendentali:
Ma essi sono caratteristici di tutte le cose? Innanzitutto la presenza di questa istanza di ricerca di vero e buono in noi ci fa capire che essi esistono e il nostro percepirci limitati (a causa nostra, perché noi siamo limitati) ci da coscienza della loro illimitatezza. Dissertazione su vero e bene deve così tenere conto degli insuccessi ottenuti nel passato e della presenza del male.
E siccome di Vero e Bene non riusciamo ad avere esperienza diretta, di essi possiamo parlarne solo dopo aver parlato in modo razionale di Dio, che essendo l’unico ad essere l’Essere, ci dona bontà e verità ed il nostro progredire (o regredire) in esse è comunicativo del nostro essere dipendenti.
Quando si parla di verità si intende o ciò che si contrappone all’ignoranza (V o F) o una gradazione presente nelle cose. Quando si parla di verità ontologica ci si riferisce alla seconda. Perciò le cose sono portatrici di verità ontologica, secondo una scala analogica, perché nella realtà non è tutto “vero”, e quindi intelligibile, alla stessa maniera. L’ordine sarà: Materia (che ha una relazione minima con l’essere tanto che Aristotele diceva che non era intelligibile) Þ Esseri materiali non viventi (ad es. minerali) Þ Esseri materiali viventi (ad es. vegetali e animali) Þ Esseri umani Þ (Esseri immateriali?) Þ Dio. E la vita di ogni individuo ha tanto più significato quanto più segue il proprio essere, ma per far ciò ha bisogno di Dio che ha il “piano della sua conoscenza”.
Nella storia della filosofia ci sono stati due filoni di rapporto con la verità ontologica:
I due modi di approccio alla verità sono comunque parenti perché i primi sono segnati da un certo razionalismo-concettualismo, perché pensano la verità come qualcosa di equiparabile alle nostre idee, mentre i secondi facendo giustamente notare l’insufficienza dei nostri concetti negano la nostra impossibilità a conoscere la verità. Essa consiste invece nella identificazione della verità con l’essere come atto, nel considerare l’ente in quanto ente, ma siccome noi non sperimentiamo l’uguaglianza Verità-Essere la possiamo affermare solo per dimostrazione.
3. Vero e bene come proprietà trascendentali dell’essere. Alla nozione di ente la nozione di vero aggiunge la relazione tra l’essere e l’intelligenza, mentre quella di bene la relazione tra l’essere e la volontà. Tutto ciò è possibile però se l’Essere assoluto, fonte di ogni essere, è intelligenza e volontà e quindi ogni ente creato, in quanto ente, è vero e buono. E tutto ciò che noi diciamo essere irrazionale o casuale (per le cause prime) lo è solo per la nostra conoscenza e non per il creatore, in cui non c’è irrazionalità, e quindi la tesi della verità e della bontà degli enti in quanto tali è affermata solo da chi crede in un Dio creatore. Chi crede nella creazione (ad es. tomisti) ha poi un concetto diverso di contingente da coloro che non ci credono (ad es. aristotelici). Contingente infatti è ciò che è, ma potrebbe non essere, ma proprio sul “potrebbe non essere” ci sono le divisioni, perché per i non-creazionisti esso è radicato nella natura delle cose, mentre per i creazionisti esso è radicato nella libertà creatrice, perché tutto ciò che non è Dio è creato da Lui e quindi potrebbe anche non essere.
4. Il possibile. Don Bona Dixit: La possibilità è un’analogia, perché noi come persone siamo aperti alla totalità dell’essere, la possibilità “crea” il futuro e come tale è la condizione della storia. Perciò la possibilità è ambigua da una parte, ma può imprigionarci dall’altra. La possibilità di Dio si confronta con il suo essere perfetto e onnipotente e di fronte alle creature è necessità di potenza che permette il divenire e la indeterminazione. La potenza è la condizione della possibilità.
Altra dottrina che si può capire solo dopo aver parlato di Dio come creatore è quella del possibile che è ciò che ora non esiste, ma può esistere. Questa frase può infatti venir interpretata erroneamente come:
Possibilità estrinseca ed intrinseca. La prima è quella fondata sulla capacità della causa (data una cosa, c’è una causa capace di produrla?), la seconda è il carattere intrinseco per cui una cosa può essere (data una cosa esse per sé, per sua natura, può essere attuata?). Si è soliti poi distinguere tra possibilità estrinseca metafisica (se una cosa è attualizzabile dalla Causa Prima), fisica (se una cosa può essere attuata secondo le leggi naturali) e morale (se una cosa può essere attuata secondo i costumi normali umani). Fondamento della possibilità intrinseca. Non basta la non-contraddizione a fondarla, perché essa è il formale della possibilità, ma serve anche un materiale, e affinché qualcosa esista deve esistere un essere attuale. L’essere possibile intrinseco dipende quindi dall’essere attuale per eccellenza, l’Atto Puro: Dio. Inoltre siccome Dio crea per libera scelta si può capire come oltre agli enti attuali esistano infiniti enti possibili.dei quali attuali saranno solo quelli voluti da Dio. Così diciamo con le parole della scolastica: fondamento remoto della possibilità intrinseca è l’essenza divina, fondamento prossimo l’intelletto divino.
5. Omne ens est bonum. La concezione finalistica del reale. Don Bona Dixit: Nell’antichità c’erano due filoni riguardo al problema “bene”:
Per entrambi comunque per trovare il bene bisogna uscire dall’ambito corporeo. Con l’avvento del cristianesimo e del concetto di creazione, anche la materia ha acquistato dignità, anche essa è buona, perché qualsiasi cosa che esiste è voluta, scelta e attuata da Dio e come tale è buona. Sintetizzando le due precedenti visioni, si vede così il bene come generosità che perfeziona colui che non ce l’ha e che risponde al suo desiderio di bene. Ora se il bene è concreto ha bisogno di essere visto con occhi disinibiti e senza pregiudizi e una volta riconosciuto il bene siamo chiamati ad operarlo. Esso è legato ad una oggettività ed è dappertutto (siccome tutto è creato) in maggiore o minore quantità a seconda dell’essere del soggetto. Così l’uomo è sì buono, ma è anche cosciente di ciò e può essere buono per scelta. Così per l’uomo, il bene da una parte è una invenzione (perché siamo noi che lo attuiamo) e dall’altra è una scoperta (perché lo vediamo fuori di noi).
Dalla metà dell’800 in poi questa concezione metafisica del bene ha cominciato ad andare in crisi perché la concezione fenomeno-psicologica ha preso il sopravvento su quella ontologica esponendo però il concetto di bene alla semplice “invenzione” dell’uomo e legandolo ai suoi alti e bassi. Perciò le filosofie contemporanee più che al bene guardano al valore, che è ciò che si apprezza a livello psicologico che porta a classificare la realtà solo in base a ciò che piace. Questa concezione del bene come valore una forma a priori kantiana basata sullo schema delle nostra azioni (e non del nostro essere!). Il personalismo stesso è una filosofia che mette la persona come valore assoluto al di sopra di tutto. Il male in questa concezione è un dis-valore.
Di fronte a queste asserzioni bisogna rispondere dicendo che tutto comunque è bene, ma noi non sappiamo totalmente cosa esso sia e proprio per ciò è necessaria la metafisica per definire, per quanto si riesce, il bene. A proposito della finalità, bisogna prendere in esame:
Un ente quindi è buono in quanto soddisfa una tendenza, in quanto è ciò a cui si tende, in quanto è fine, ma per affermare ciò si deve dire che il principio di ogni realtà è una Volontà intelligente.
Finalità, necessità, caso. Nella concezione finalistica anche la necessità delle leggi naturali è finalizzata, perché finalismo non equivale ad arbitrarismo (irrazionalismo) o contingentismo (quello che c’è potrebbe anche non esserci), e non nega la necessità delle leggi naturali, ma afferma che le nature delle cose derivano da una Intelligenza. In questo senso quindi è finalizzato anche il caso, perché esistono effetti casuali rispetto alle cause prossime, ma non rispetto alla Causa Prima che tutto vuole in quanto tutto contribuisce al bonum universi, in modo a noi incomprensibile. Tuttavia bisogna sapere distinguere ciò che è fortuito, da ciò che è finalizzato anche rispetto alle cause prossime, dal finalismo particolare di un determinato agente che si può conoscere solo a posteriori, per induzione.
6. Il male. Il problema del male. Don Bona Dixit: Il male è una esperienza provocatrice a livello interpretativo, è un forte provocatore filosofico, perché obbliga a chiedersi dove porlo, in quale contesto. Il male in tutte le sue diverse forme appare inintelligibile, è uno scandalo, tanto che noi diciamo che è male ciò che non riusciamo a comprendere e bene ciò che comprendiamo. Il male può poi essere subito o voluto che si ha quando noi mettiamo in pratica un bene fasullo, ma che a noi appare come bene e che si riversa come male sugli altri. È questo male, quello morale, che scandalizza di più. Nei confronti del male esistono due modi di approcciarsi estremi: tutto è male (Schopenauer) e tutto è bene (Spinoza). Una posizione intermedia molto importante nella storia della filsofia è quella dualista-manichea che vede bene e male come due realtà coeterne, speculari, necessarie e in eterno conflitto in mezzo a cui, ed in balia di cui è posto l’uomo. Questo dualismo è tipico dell’oriente induista, ma in occidente si manifesta sotto la dualità Dio-Materia (filosoficamente con Platonismo, Neo-platonismo e Aristotelismo e religiosamente con la gnosi). La soluzione corretta pare comunque essere quella agostiniana per cui il male non togli la ragione di bene propria del mondo. Il male non è una realtà positiva. Il male formalmente preso, ossia in quanto male, quindi non è una realtà positiva, è un bene mancato. Tentativi di negare l’esistenza del male. D’altra parte però non si può dire che il male sia nulla, che sia una nostra illusione, come affermano i panteisti ed in particolare Spinoza per cui il male non è che un modo di vedere nostro, che dipende dalla nostra inadeguata conoscenza della realtà. Anche però se il male dipendesse da un’illusione si può obiettare, con Sant’Agostino, che la questione è spostata, perché da dove viene questa illusione? Natura del male. Il male perciò non è una semplice negazione, ma una privazione, la mancanza di qualcosa che dovrebbe esserci. Si distingue poi tra male fisico (che è la mancanza di una perfezione che spetta alla natura di un ente) e male morale (che è la mancanza dell’ordine al fine dell’atto libero dell’uomo). Ed essendo una privazione non sussiste per sé (non esiste un ente che sia totalmente male, mentre esiste un ente che è totalmente bene:Dio), è un ente di ragione, esiste in quanto esiste solo in un soggetto che di sua natura, visto che esiste, è buono.Perciò il male non può distruggere tutta la bontà di un soggetto, perché altrimenti ne distruggerebbe tutto l’essere. La causa del male. Come già possiamo intuire non esisterà una casa del male in quanto male, del male preso in sé, semplicemente perché non esiste. La causa del male quindi è la cause del soggetto che ha in sé del male e così la causa (efficiente) del male è un bene, perché per causare deve essere e quindi è buona. Ma perché la Causa ha prodotto un soggetto senza tutti i caratteri che esso dovrebbe avere? La risposta è che la causa non può tendere a produrre la mancanza, la privazione, perché non può che tendere ad una realtà positiva; la mancanza, il male è quindi creato per accidens (che è tipico di ciò che è limitato e che implica l’essere irrazionali), ossia indirettamente, in funzione di altro. Le cose possono infatti essere causate indirettamente, per accidens, per tre motivi: ex virtute agentis (in funzione di altro); ex defectu agentis (difetto di chi crea) e ex defectu materiae (difetto del materiale con cui si crea). Ora Dio essendo perfettissimo non può creare per il secondo modo e tantomeno per il terzo, visto che la materia viene da Dio e quindi non può essere “difettata”. Diciamo quindi la prima via: il male è causato da Dio per accidens, ex virtute agentis, quindi non è creato direttamente, ma è permesso. E questo si capisce anche dal fatto che essendo tutto l’universo derivato da un’unica Intelligenza creatrice, esso risponde ad un unico piano, ed ogni cosa, in esso, è collegata ad altre, perciò anche i singoli mali debbono avere la loro ragion d’essere e contribuire al bene dell’universo, anche se noi non capiamo quale esso sia. In conclusione quindi la filosofia non risolve il problema del male, ma dimostra soltanto che una soluzione ci deve essere. Il vedere che tale soluzione è al di sopra delle forze della nostra ragione spesso ci fa diventare irrazionali, ma non è giusto, anche se la filosofia è sotto scacco e l’interrogativo rimane senza risposta, bisogna lasciare l’interrogativo, non bisogna cancellarlo. Un aiuto a questo problema verrà dalla Rivelazione. Ma ciò non vuol dire che allora la filosofia non serve a nulla perché non sa risolvere questo problema, semplicemente esso è il suo limite, lei si ferma lì. Si può concludere allora come dice Leibniz che Il mondo attuale è il migliore dei mondi possibili? Leibniz dice ciò per una necessità morale e non fisica. S. Tommaso invece dice che Dio avrebbe potuto creare anche mondi migliore dell’attuale (in cui non ci fosse il male per esempio), perché la causa intelligente impone un determinato ordine alle cose che produce in vista del fine che per cui opera, ma siccome, in questo caso, il fine è infinitamente superiore ai mezzi, ci sono infiniti ordini possibili di tali mezzi, perché ognuno di questi ordini, può attuare il fine sotto uno degli infiniti aspetti nei quali è parzialmente attuabile. Dire invece che Dio “doveva” creare il migliore dei mondi possibili, equivale a dire che solo un mondo è possibile, negando così la libertà della creazione, perché fra tutti i possibili ve ne è uno che “pesa” con la sua perfezione sul volere divino, obbligandolo ad attuarlo. Ed è proprio questo l’errore del Leibniz. E poi una perfezione che non abbia sopra di sé una perfezione maggiore, vuol dire che è infinita! Don Bona Dixit: La Vanni nella sua critica non ha però tenuto conto che Leibniz è retto da una istanza morale, perché, per lui, se Dio non fa tutto il bene che gli è possibile allora non è moralmente ineccepibile! E siccome il “dove può arrivare Dio” coincide con quello che fa allora questo è il migliore dei mondi possibili. La critica va quindi mossa dicendo che Dio si agisce da Dio, ma proprio perché tale non esiste un solo modo, Lui lo persegue con i suoi modi, tanto che in qualsiasi mondo ci fosse Dio saprebbe agire al meglio, da Santo, traendo, da quel male che Lui non ha creato, il bene. Come Dio sia Santo in questo mondo ce lo può dire solo la Rivelazione e più precisamente nel mistero della croce, dove Lui non si scandalizza del male, ma lo carica sulle sue spalle e trasformandolo in bene.
Capitolo Dodicesimo: Il Bello.
Don Bona Dixit:Uno dei misteri della bellezza è che da un lato c’è una forte soggettività e dall’altro c’è una ricerca di oggettività attraverso lo studio del bello che tende più che altro a catalogare, riconoscere e stimare particolari forme che fanno da modello per dei “filoni”. Nel valutare la bellezza si deve poi passare da uno strato epidermico ad uno più profondo. Oltre allo studio delle forme della bellezza (Critica) esiste anche uno studio della bellezza in quanto tale (Estetica), che è quello che faremo noi.
L’estetica è nata a metà ‘700 con l’Illuminismo che ha iniziato a spostare l’attenzione da un’oggettività della bellezza tipica dell’era precedente alla soggettività, grazie soprattutto alla “critica del giudizio” kantiana, per cui il bello è ciò in cui si verifica armonia tra sé e il conosciuto. Si inizia così a capire che la bellezza fa parte della conoscenza, ma mentre la verità non sempre è piacevole, la bellezza sì. Kierkeggard sposterà poi l’accento sulla bellezza esistenziale, contrapponendo l’estetica all’etica, dicendo che la migliore è la seconda, perché la prima rischia di fuorviare la persona, non facendogli più vedere il male. E Croce, da buon idealista, separerà ancor più le due dicendo che estetica (più soggettivo-personale) e morale
(più oggettiva) si trovano su due piani dialettici diversi e quindi l’estetica non deve essere imbrigliata dalla morale.
I passi da fare a questo punto sono due: stabilire cosa è il bello e dire se esso è un trascendentale e ha quindi a che fare con l’essere. Il bello, in qualsiasi conoscenza, per essere tale deve avere le seguenti caratteristiche:
Perciò posso dire che un panorama è bello, che una teoria è bella, che un Santo è bello, perché le cose che fa sono belle. Più una bellezza è spirituale, interiore e quindi universale, più essa getta luce sulla vita, più si riesce a dare una visione più ampia del “panorama interiore” e ciò porterà ad apprezzare ancor di più quello “esteriore”. Anche la fede è fonte di bellezza, perché alla luce della Rivelazione fa vedere armonia ovunque, come fa vedere von Baltasaar nell’opera “Gloria”. Detto questo ci sono poi più facoltà conoscitive (i cinque sensi l’intelletto), ma se riesco a fare sintesi a fare unità, allora passo dalla bellezza di alcuni aspetti della vita alla bellezza, alla positività della vita nella sua unità. Da questa unità è lecito interrogarsi sulla trascendentalità della bellezza, visto che vediamo che noi siamo fatti per vedere e creare la bellezza, come armonia tra l’interno e l’esterno. Passiamo così all’analisi di questa trascendentalità. S. Tommaso nella sua classificazione dei trascendentali non inserisce il bello, ma Maritain sostiene che Tommaso affermi l’identità reale di bello e bene (Summa I, q.5, art.4). Definizione tomistica del bello. Tommaso dice <<Pulchrum est quod visum placet>> cioè <<Bello è ciò che veduto piace>>. E ciò non vuol dire che non esiste un fondamento oggettivo del bello, perché anche il Croce dice che non ogni piacevole è bello; dunque il bello è un certo piacevole, ciò che differenzia il piacere estetico da qualunque altro. Infatti San Tommaso dice che l’essenza del bello è che <<nella visione o cognizione di esso sia soddisfatto il desiderio>>. Dunque La bellezza è innanzitutto una relazione con la conoscenza. Perciò mentre il vero dice relazione alla conoscenza e il bene alla tendenza, il bello a tutte e due. Proprio ciò potrebbe spiegare quel senso di agio, come dice Kant, che si ha nella contemplazione del bello, perché tutte le nostre facoltà intervengono e sono soddisfatte. Certo comunque l’attività estetica è essenzialmente conoscenza e quindi si può dire con il Croce che <<bello e buono sono logicamente (ndr e non ontologicamente!!!!) distinti>>. Condizioni della bellezza. Il principio determinatore di ogni ente la scolastica lo chiama “forma”. La bellezza consiste nel vedere, nel trasparire di questa forma e ciò è possibile grazie a:
Questi caratteri sono presenti in ogni ente che essendo vero e quindi intelligibile, lascia trasparire la sua intelligibilità, la sua forma. Perciò si può dire che ogni ente è bello, anche se non di ogni ente sappiamo cogliere la bellezza. Il piacere estetico è disinteressato. Perché non gli occorre il possesso di una cosa, ma solo la visione, la contemplazione, a volere che essa sussista in sé, mentre l’amore interessato, che Tommaso chiama concupiscenza, porta ad appropriarsi della cosa amata, a farla noi e a distruggerla nella sua natura. Da qui anche il valore educativo della contemplazione estetica che aiuta a passare dall’amore di concupiscenza (valore che ha per noi) a quello di amicizia (valore che ha in sé). Natura della intuizione estetica. L’intuizione per San Tommaso poi non è solo di tipo sensibile, ma in generale non sembra si possa ridurre la conoscenza necessaria all’apprensione del bello alla sola intuizione sensibile e dall’altra non sembra che ci sia una intuizione intellettuale, in senso rigoroso, per noi uomini, per l’individuo. Perché l’intuizione intellettuale non coglie l’essenza individua, ma l’universale. Quale differenza dunque tra Intuizione estetica e concetto, tra conoscenza estetica e concettuale? Olgiati fa notare come all’intuizione artistica (ed estetica in generale) sia necessaria una nozione universale, perché la percezione sensibile non diventa intuizione estetica se non quando è animata da un concetto universale. Per dire che un oggetto è bello, dobbiamo sapere cosa esso sia, altrimenti non possiamo esprimere un concetto universale, dobbiamo cogliere nel concreto della sensazione l’astratto, il suo significato, la ratio rei, grazie al nostro sapere intus legere, leggere dentro. Differenza tra intuizione estetica e conoscenza scientifica. Il concetto è comunque condizione necessaria, ma non sufficiente per avere un’intuizione estetica, la cui caratteristica è nella visione di un unirsele nel concreto, come dice il Cerini:<<L’intuizione artistica, dice egli,s’attua come visione dello splendore della forma universale emergente dal limite materiale e concreto (ossia dall’individuo percepito sensitivamente)>>., ma per far ciò <<bisogna che lo spirito si fissi sul sensibile per vedervi irradiare l’intelligibile che in esso risplende>>. Perciò mentre nella scienza si pone attenzione più all’essenza astratta che non all’individuo, non curandosi più di esso quando si lavora scientificamente in quella estetica io guardo all’essenza nel con tenuto sensibile alla luce dell’essenza. Corollari.
Bello e arte. Essendo quindi il bello un trascendentale il suo campo è più vasto di quello dell’arte, anche se è in esso che ha la sua particolare manifestazione. L’artista è così colui che sa esprimere sopra tutto perché sa vedere molto più di quello che vediamo noi. Don Bona Dixit: A tutto ciò va aggiunto:
Conclusione.
Attraverso l’indagine sull’essere abbiamo inferito l’esistenza di un Essere, i cui attributi ci hanno permesso di chiamarlo Dio, la metafisica sfocia così in una teologia naturale che permette di dare u senso preciso alle affermazioni per cui vero e bene sono proprietà trascendentali dell’essere. Ogni scoperta permette così di capire che il reale è intelligibile, ma che allo stesso tempo è più ampio di tutte le conoscenze dell’uomo. Così come dice Pascal:<<L’ultimo passo della ragione è quello di riconoscere che vi è un’infinità di cose che la superano>>. Così in questo quadro si vede che una eventuale Rivelazione Divina non limita la ragione, anzi apre prospettive altrimenti inaccessibili. Certo l’atto della fede pur preparato da considerazioni razionali, resta totalmente libero. Ora tutti hanno una “fede”, perché il credere è un atteggiamento ontologico dell’uomo, perché non esiste alcuna verità che non richieda la mia adesione, la verità si conosce perché si riconosce, inoltre qualsiasi convinzione non può essere dimostrata rigorosamente. I “credenti” sono quindi coloro che indicano chiaramente ciò in cui credono, mentre i così detti “non credenti” non dicono o non si rendono conto di ciò in cui credono. Certo il pensiero cristiano non si è limitato a indicare le verità credute, ma ha anche cercato di cogliere, per quanto possibile, il senso di tali verità.
Fonte: http://web.tiscali.it/dongacio/Files/Metafisica.doc
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