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Lo stoicismo antico
1. Il senso della filosofia
Conformemente ad una tendenza tipica del periodo ellenistico, gli stoici concepirono la filosofia in modo fortemente sistematico, accettan¬do la distinzione, già diffusa nell’Accademia di Platone, tra logica, fisica ed etica. Tale tendenza è tuttavia in loro accentuata dagli stretti legami che le diverse parti della filosofia hanno fra di loro: sono verosimili le testi-monianze antiche che ci suggeriscono come le diverse discipline erano in-segnate intrecciandone continuamente gli argomenti. Questa concezione sistematica è bene suggerita da alcune metafore:
[Gli stoici] rappresentano la filosofia come un animale, paragonando la parte logi¬ca alle ossa e ai nervi, l’etica ai muscoli, la fisica all’anima. O anche come un uovo: la logica è il guscio, dopo viene l’etica, la parte più interna è la fisica. O anche come un campo fertile, del quale la siepe di recinzione è la logica, il frutto è l’etica, il terreno o gli alberi la fisica. O infine ad una città ben costruita e amministrata secondo ragione (SVF II.38).
Meno corretto è invece attribuire allo stoicismo un interesse pre-valente per i temi etici. Questo giudizio non è suffragato né dall’entità delle testimonianze, che ci mostrano interessi molto profondi in tutte e tre le parti della filosofia, né dalle affermazioni esplicite, che più di una volta pongono la fisica, intesa come contemplazione del mondo animato dal lo-gos divino, come culmine dell’itinerario filosofico. Vero è piuttosto che, così come in tutta l’antichità, la filosofia stessa veniva intesa inscindibil-mente come teoria e come pratica di vita (quest’ultimo aspetto veniva evidenziato anche dal legame con la scuola socratica cinica). Questa coe-renza impressionò favorevolmente anche i contemporanei, come ci è atte-stato dal decreto con il quale gli Ateniesi riconobbero allo straniero Zeno-ne pubblici onori:
Poiché Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, per molti anni è stato nella nostra cit-tà per far filosofia e per tutto il resto ha vissuto da uomo buono, e i giovani che anda-vano da lui, esortandoli alla virtù e alla moderazione, li spingeva alle cose migliori dopo aver offerto a tutti la propria vita come modello; con il favore del Fato ha decretato il popolo di dar lode a colui che era coerente con i discorsi che faceva con gli altri, a Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, e attribuirgli una corona d’oro secondo la legge, in ri-conoscimento della virtù e della moderazione, e di costruirgli anche un sepolcro a spese pubbliche nel Ceramico (SVF I.7).
Un ruolo importante è giocato anche dalla totale separazione da precisi progetti politici e dalla tendenza ad astrarre dalle condizioni con-crete delle persone: ciò rendeva l’ideale del sapiente stoico almeno in li-nea di principio accessibile non ad una élite ma a tutti (anche a donne e schiavi, ci precisano le fonti antiche [SVF III.253]).
Degli scritti stoici nulla ci è giunto per intero, fatto salvo un inno a Zeus composto da Cleante, che ebbe una grande notorietà nel mondo an-tico, anche al di fuori dei confini dello stoicismo. Esso, benché in un lin-guaggio attento più all’effetto poetico che all’esattezza, percorre nel loro intreccio tutti i temi fondamentali della fisica e dell’etica stoica, e può dunque essere citato per intero a mo’ di introduzione:
O più nobile degli immortali, dai molti nomi, sempre onnipotente,
Zeus, guida della natura, che governi tutte le cose con la legge,
salve! È un dovere per tutti i mortali rivolgersi a te.
Di te infatti siamo stirpe, avendo in sorte un’immagine di dio,
soli tra tutti i mortali che vivono e si muovono sulla terra.
A te dedico il mio inno e canterò sempre la tua forza.
A te tutto questo cosmo, che ruota attorno alla terra,
obbedisce, dovunque lo conduci, e spontaneamente ti si sottomette:
nelle mani invincibili hai uno strumento tale:
il fulmine a doppio taglio, fiammeggiante, sempre vivo,
e sotto il suo colpo tutte le cose della natura si compiono.
Con esso tu regoli il logos comune che per tutte le cose
si aggira, mescolandosi alle luci grandi e alle piccole.
Per esso tu sei diventato un così supremo re di ogni cosa
e nessuna azione avviene sulla terra senza te, o divino,
né nell’etereo cielo divino né sul mare,
tranne ciò che compiono i malvagi con le loro follie.
Ma tu anche gli eccessi sai ridurli a misura
e ordinare le cose disordinate e le non amiche ti sono amiche.
Così hai armonizzato in unità tutte le cose buone alle cattive,
cosicché il logos di tutto, che sempre è, diventasse uno.
Ma i mortali malvagi lo abbandonano fuggendo,
miseri!, e desiderando di acquisire sempre beni
non osservano né ascoltano la legge comune del dio,
obbedendo con intelletto alla quale avrebbero una vita buona.
Ma essi stolti hanno impulso chi verso un male chi verso un altro
gli uni per la fame avendo contrastate preoccupazioni,
gli altri per il guadagno stravolti senza alcun ordine,
altri abbandonandosi alle opere piacevoli del corpo.
Ma si scontrano nei mali, e si trascinano di qua e di là
ottenendo che avvenga l’esatto opposto di queste cose.
Ma tu, Zeus datore dei doni, padrone delle nubi e del fulmine splendente,
strappa gli uomini dalla ignoranza trovinosa,
padre, cacciala dall’anima e fa’ che si ottenga
la conoscenza, fidando della quale tu governi tutto con giustizia,
affinché, essendo onorati, con onore ti ricambiamo,
inneggiando continuamente alle tue opere, come è giusto
per chi è mortale, perché non vi è merito maggiore né fra i mortali
né fra gli déi che inneggiare con giustizia alla legge comune ed eterna (SVF I.537).
Nella storia dello stoicismo si distinguono comunemente tre periodi: lo stoicismo antico, legato ai nomi del fondatore della scuola e dei suoi due primi successori: Zenone di Cizio (344-262 a.C.), Cleante di Asso (m. 232 a.C.), Crisippo di Soli (m. 206 a.C.); lo stoicismo medio, che ebbe come maggiori rappresentanti Panezio di Rodi (185-109 a.C.) e Posidonio di Apamea (135-51 a.C.); infine lo stoicismo nuovo (per lo più concentrato sui temi etici), impersonato da Seneca (4 a.C-65 d.C.), Epitteto (55-135), Marco Aurelio (121-180).
Malgrado il grande successo goduto dal pensiero stoico nell’antichità, la sua esatta ricostruzione presenta notevoli problemi. Bene attestato, con le opere pressoché complete, è lo stoicismo nuovo, ma per quello anteriore, più ricco e articolato, possediamo solo testimonianze: nu-merose sì, ma spesso poco esatte, ripetitive e provenienti da fonti avverse. Esse inoltre spesso non distinguono gli apporti dei diversi stoici (non di ra-do in dissenso tra loro), rendendo più difficile da recuperare proprio una delle caratteristiche dello stoicismo più ammirate nell’antichità, cioè l’assoluta coerenza del discorso filosofico.
In tale situazione, tracciare un quadro generale dello stoicismo anti-co equivale a privilegiare il pensiero di Crisippo. Egli era infatti considerato già dai suoi contemporanei il più autorevole tra gli stoici, avendo organizza-to in un insieme coerente e completato (soprattutto nel settore logico) le dottrine non sempre concordanti dei suoi predecessori.
2. La logica
2.1 Il concetto di logica
La logica stoica comprende sia una riflessione molto dettagliata sulla forma dei ragionamenti, sia una teoria generale della conoscenza, le-gata strettamente alla concezione dell’anima. Il primo aspetto venne svi-luppato soltanto a partire da Crisippo, il quale riprese e rielaborò temi ori-ginariamente studiati dalla scuola megarica (in particolare Eubulide di Mi-leto, Diodoro Crono e Filone di Megara). Senza dubbio essi mostrano un’analogia con le ricerche dell’Organon di Aristotele: in entrambi i casi si tratta infatti di una logica «formale», che prende a proprio oggetto la sola forma del pensiero a prescindere dai suoi contenuti. Ciononostante la dottrina stoica, per quanto la possiamo ricostruire a partire dalle testi¬mo-nianze frammentarie, costituisce una forma nuova e originale, il cui valore solo negli ultimi decenni è stato riscoperto dopo secoli di disin¬teresse o fraintendimento.
La prima innovazione degli stoici consiste anzitutto nel considera-re la logica una vera e propria parte integrante della filosofia, anziché sem-plicemente un suo «strumento» (órganon), come voleva Aristotele (o per-lomeno i suoi discepoli). La filosofia infatti si serve sì della logica, ma questa a sua volta non fa parte di nessuna altra scienza: dunque è una par-te della filosofia. Tale concezione viene sostenuta però soprattutto dall’indi¬viduazione di una peculiare materia della logica, che è costituita dai «ragionamenti»:
La ricerca logica non ha né la stessa materia né lo stesso fine [delle altre parti della filosofia]: la sua materia sono i ragionamenti (lógoi), il fine è la conoscenza dei metodi dimostrativi, e tutte le altre indagini concorrono a sviluppare una dimostrazione scientifica. Dunque non può essere messa sotto nessuna delle due altre parti della filo-sofia. Infatti, se anche la logica indaga sulle cose umane e divine (ce ne serviamo infatti quando discutiamo di cose umane o divine), non si occupa esclusivamente di quelle umane (come le sezioni della filosofia pratica [etica]), né esclusivamente di quelle divi-ne (come le sezioni di quella teoretica [fisica]). Dunque non è una semplice sezione della filosofia, ma la sua terza parte (SVF II.49 = FDS 28).
Questo giustifica anche il termine di «logica» (logiké), che venne messo in uso proprio dagli stoici e significa evidentemente «scienza del logos». Questa concezione viene precisato tramite una importante distin-zione che ad Aristotele era in parte ignota:
Gli stoici dicono che questi tre elementi sono connessi fra di loro: il signifi¬cato (semainómenon), il significante (semáinon) e l’evento (tynchánon). Il si¬gni¬ficante è il suono stesso, ad esempio «Dione»; il significato è l’entità manifestata e che ap¬pren-diamo in quanto coesiste con il nostro pensiero, e che gli stranieri non capiscono, seb-bene odano il suono; l’evento è ciò che esiste all’esterno, ad esempio Dione stesso. Di questi, due sono corporei, e cioè il suono e l’evento, e una è incorporea, e cioè l’entità si-gnificata, l’esprimibile (lektón), che [solo] è vero o falso (SVF II.166 = FDS 67).
L’oggetto peculiare della logica è costituito per gli stoici solo dagli esprimibili (lektá). La distinzione stabilita tra «eventi» ed «esprimibili» corrisponde sostanzialmente a quella moderna tra «estensione» e «inten-sione». Per mostrarne la dif¬fe¬ren¬za, prendiamo come esempio la proposi-zione «Gli uomini sono mor¬ta¬li». Da un punto di vista estensionale, essa viene interpretata così: «L’insieme degli uomini è incluso nell’insieme dei mortali». Da un pun¬to di vista intensionale viene invece spiegata così: «Il concetto di uomo com¬prende il concetto di mortale». Gli stoici, ritenendo che la pro¬po¬si¬zione in sé non abbia alcun corrispondente «reale» (al con-trario dei suoi termini), ma sia solo un lektón, scelsero senza incertezze per la loro logica un’interpretazione intensionale.
Nella testimonianza appena citata va osservato il termine «evento» (tynchánon): esso rappresenta il primo caso della tendenza tipica dello stoi-cismo (e spesso fatta oggetto di ironia da parte dei contemporanei) a conia-re nuovi termini. Il motivo di questo conio (come degli altri) è però signifi-cativo: «chiamano le cose “eventi”, perché il loro fine è quello di avvenire» (SVF II.236 = FDS 681). Il senso esatto di questa definizione si vedrà all’interno della fisica, e costituisce uno dei numerosi casi di stretto legame tra le varie parti della filosofia stoica.
2.2 Le proposizioni
Dove la logica stoica supera nettamente l’analitica aristotelica, creando praticamente un campo nuovo, è nello studio della proposizio¬ne (chiamata axíoma). La sua caratteristica fondamentale è quella di poter essere vera o falsa, ovvero di poter «essere valutata» (axióusthai). Tale definizione non soltanto costituisce una premessa indispensabile per la lo-gica, ma non manca (come vedremo) di ripercussioni sulla concezione del-la realtà. Esse diventano importanti soprattutto in riferimento al pro¬blema dei «futuri contingenti», riguardo ai quali gli stoici sostengono un’opinione difforme da quella di Aristotele:
Le proposizioni contraddittorie relative al futuro gli stoici le valutano esatta-mente come le altre. Come infatti sono quelle relative ad eventi presenti e passati, così affermano che sono anche le future, esse stesse e le loro parti. O è vero il «sarà», o il «non sarà», se è necessario che sia o vera o falsa: le cose future sono determinate infatti nello stesso modo. E se domani ci sarà una battaglia navale, è vero dire che ci sarà; se non ci sarà, è falso dire che ci sarà. O ci sarà o non ci sarà, dunque una delle due affer-mazioni o è vera o è falsa (SVF II.198 = FDS 881).
Tra le proposizioni, una prima distinzione fondamentale è tra sem-plici e complesse. Semplice è la proposizione che contiene solo un predi-cato (per esempio «è giorno»), complessa è quella costi¬tuita dal collega-mento di più proposizioni tramite connettivi logici (per esempio «è giorno e piove»). Ovviamente, i connettivi possono unire proposizioni a loro vol-ta complesse. Si osservi che la negazione di una proposizione semplice (per esempio «non è giorno»), che oggi viene classificata tra le proposi-zioni complesse, era invece considerata sem¬plice dagli stoici.
Ora, la loro intuizione fondamentale è che i connettivi logici (non, e, o, se ... allora, ecc.) vanno considerati operatori, simili, per esempio, ai comuni operatori aritmetici (+, –, ×, /). Mentre però questi ultimi operano su valori numerici, i connettivi logici operano sui valori di verità che le proposizioni possiedono in quanto lektá. Il caso più semplice è quello del-la negazione logica: quando essa è applicata ad una proposizione vera ge-nera una proposizione falsa, e viceversa. Ri¬guardo ai connettivi che colle-gano due proposizioni bisognerà conside¬rare quattro casi: due proposizio-ni entrambe vere, due entrambe false, la prima vera e la seconda falsa, e viceversa. Definire una connessione logica equivale così a scrivere la sua «tavola di verità», cioè precisare quale sia il valore di verità della proposi-zione complessa in corrispon¬denza dei quattro casi ora detti. Per esempio, una proposizione con¬giuntiva («è giorno e piove») sarà comples¬sivamente vera solo quando entrambe le proposizioni congiunte sono vere. In questo modo gli stoici vennero definite diverse connessioni. Eccone le più impor-tanti, delle quali diamo a sinistra il nome e a destra, sulla stessa riga, la ta-vola di verità:
vera vera falsa falsa
vera falsa vera falsa
congiuntiva (... e ...) vera falsa falsa falsa
disgiuntiva in¬clusiva (... o ...) vera vera vera falsa
disgiuntiva esclusiva (o solo ... o solo ...) falsa vera vera falsa
condizionale (se ... allora ...) vera falsa vera vera
condizionale doppia (solo se ... allora ...) vera falsa falsa vera
Un paio di osservazioni. La prima riguarda le due diffe¬renti di-sgiunzioni, che né in greco né in italiano sono chiaramente distinte nel lin-guaggio naturale. Quella esclusiva esclude, appunto, la verità di entrambe le proposizioni disgiunte (per esempio: «partirò lunedì o martedì», ma non i due giorni contemporaneamente); quella inclusiva invece no (per esempio: «se c’è pioggia o neve bisogna guidare con prudenza», e anche se ci sono le due cose contemporaneamente). La distinzione tra le due è facile in lati-no, dove l’esclusiva s’indica con aut e l’inclusiva con vel. Come si vedrà, gli stoici, contrariamente all’uso moderno, usavano per lo più la disgiun-zione esclusiva.
Una seconda osservazione riguarda la proposizione condizionale (o implicazione). La tavola definisce la cosiddetta «implicazione materiale» o «fi¬loniana», dal nome del logico megarico Filone. Essa risulta falsa solo nel caso che ad un antecedente vero segua un conseguente falso, e ciò indipen-den¬te¬mente dal contenuto delle proposizioni connesse. Per esempio, tutte e tre queste proposizioni risultano vere: «se 2 è pari, allora è un numero pri-mo», «se la lu¬na è verde, allora il cielo è azzurro», «se Aristo¬tele è cinese, allora Platone è turco». Tale uso è molto più am¬pio di quello del linguaggio naturale, in cui invece una proposizione condi¬zionale viene con¬si¬derata ve-ra solo quando in più c’è un nesso reale tra le due proposizioni (co¬me per esempio nei sil¬lo¬gi¬smi aristotelici). Questa è detta «implicazione for¬male», e di essa due varianti furono definite da Diodoro Crono e da Crisippo. Il problema era molto di¬bat¬tuto, al punto che un biblio¬tecario di Alessandria del II sec. riferisce: «Anche i corvi gracchiano sui tetti su quali implicazioni siano corrette» (FL 20.06). La discussione continuerà nel Medioevo, quan-do Paolo Veneto (1368-1429) elencherà ben dieci signifi¬cati differenti dell’im¬pli¬cazione, e arriverà fino ai giorni nostri.
Con la definizione dei connettivi logici viene così iniziata quella che oggi è chiamata logica proposizionale e che in età moderna venne ri-fondata da diversi logici, tra i quali spicca Gottlob Frege. In essa, al con-trario della logi¬ca dei predicati (di cui la sillogistica aristotelica co¬stituisce una parte), non viene considerata la struttura interna delle pro¬posizioni, ma solo il loro valore di verità. Tramite le tavole è possibile «calcolare» una pro¬posizione comunque complessa, ovviamente una volta che sia noto il valore di verità delle proposizioni semplici.
2.3 I ragionamenti conclusivi
Questa chiara nozione permise di formulare una distinzione che ad Aristotele era sfuggita: quella tra ragionamenti conclusivi e proposizioni vere (in linguaggio moderno: tra deduzioni corrette e leggi logiche):
Un ragionamento (lógos) è un sistema costituito da premesse (lémmata) e da una conclu¬sione (epiphorá). Le premesse sono le proposizioni accettate per la dimo-strazione della conclu¬sione, la conclusione è la proposizione dimostrata a partire dalle premesse. Prendiamo ad esempio il seguente ragionamento:
Se è giorno allora c’è luce;
ma è giorno;
dunque c’è luce.
In esso c’è luce è la conclusione, le altre proposizioni sono le premesse (FDS 1038).
Alcuni ragionamenti sono conclusivi (synaktikói), altri non conclusivi. Sono conclusivi quando la proposizione condizionale che inizia con la congiunzione delle premesse del discor¬so e finisce con la sua conclusione è vera. Ad esempio, il ragiona-mento citato è conclusivo, perché alla congiunzione delle premesse (<è giorno> e <se è giorno allora c’è luce>) segue c’è luce, in questa proposizione condizionale: se <è giorno> e <se è giorno allora c’è luce>, allora <c’è luce>. Non conclusivi sono i ra-gionamenti che non sono fatti così (FDS 1058).
Più esplicitamente, un ragionamento conclusivo corrisponde ad una proposizione condizionale sempre vera, qualunque sia il valore di veri-tà delle proposizioni semplici che la compongono. In generale, oggi viene chiamata legge logica una proposizione complessa (anche non condizio-nale) che è vera indipendentemente dai valori di verità delle proposi¬zioni semplici. Per esempio, «p o non p» è una legge logica. Più chiara che in Aristotele è anche la distinzione tra ragionamenti conclusivi e conclu¬sioni vere:
Fra i ragionamenti conclusivi alcuni sono veri [nella conclusione], altri falsi. So-no veri quando non solo la proposizione condizionale costituita dalla congiunzione del-le premesse e dalla conclusione è vera (come già detto), ma è vera anche la congiunzio-ne delle premesse, cioè l’antecedente della proposizione condizionale. E la congiunzione vera è quella che ha tutti gli elementi veri (FDS 1064).
2.4 Gli indimostrabili
Come Aristotele aveva costruito la sua sillogistica a partire dai modi della prima figura, ritenuti evidenti, così anche gli stoici stabili¬rono cinque ragionamenti «indimostrabili». Li enumeriamo, indicando con p e q due generiche proposizioni, mentre tra parentesi riportiamo i nomi che saranno assegnati nel Medioevo e che sono ancor oggi talvolta usati:
1. Se p allora q; ma p; dunque q (modus ponendo ponens).
2. Se p allora q; ma non q; dunque non p (modus tollendo tollens).
3. Non (p e q); ma p; dunque non q (modus ponendo tollens).
4. O solo p o solo q; ma p; dunque non q (modus ponendo tollens).
5. O solo p o solo q; ma non p; dunque q (modus tollendo ponens) (SVF II.241 = FDS 1036).
Le idee sul ruolo di questi princìpi erano molto chiare:
Gli indimostrabili sono quelli di cui dicono che non hanno biso¬gno di dimostra-zione per essere sostenuti, ma piuttosto servono a dimostrare che gli altri ragionamenti sono conclusivi. ... Essi ne immaginano molti, ma ne pon¬gono particolarmente cinque, a cui pare che si possano ricondurre tutti gli altri (FDS 1096).
Non sapendo quali regole venissero ammesse per dedurre nuovi «ragionamenti» (a causa della frammentarietà delle fonti), non possiamo giu¬dicare se venne effettivamente costruita una logica proposizionale com-pleta, in cui cioè tutte le proposizioni vere siano dimostrabili. Pare cer¬to pe-rò che venne almeno chiaramente intuìto il concetto di comple¬tezza di un sistema logico. Esso svolgerà un ruolo fondamentale nella logica contem-poranea, quando Kurt Gödel (1906-1978) riuscirà sor¬pren¬den¬te¬mente a dimostrare che nessun sistema logico che raggiunga una certa potenza espressiva può essere completo.
Ci si potrebbe domandare quale sia l’utilità di stabilire indimostrabi-li e regole di deduzione se — come già detto — l’uso delle tavole è suffi-ciente per accertare la verità o falsità di qualsiasi proposizione. In realtà, le tavole di verità diventano inutilizzabili appena si esce dal dominio della lo-gica propo¬sizionale e si entra in quello della logica dei termini. Per esem-pio, i sillogismi di Aristotele non potrebbero essere dimostrati così. Ciò si-gnifica che a partire da un certo livello di complessità non esiste più nessun modo puramente meccanico per dimostrare teoremi.
2.5 Il criterio della verità
Così come nell’analitica di Aristotele, anche nella logica stoica si presenta il problema del criterio di verità da cui poter prendere le mosse: un ragionamento corretto mi assicura infatti solo che a premesse vere se-guiranno conclusioni vere. La risposta stoica a questo problema in realtà risale a Zenone e dunque precede l’elaborazione formale della logica da parte di Crisippo. In essa viene anzitutto respinta la possibilità di indivi-duare il criterio della verità in un «universale», cosa che, seppure in forme molto diverse, era stata fatta sia da Platone sia da Aristotele:
I concetti non sono né qualcosa né qualità, ma immagini (phantásmata) dell’anima che sono quasi-qualcosa e quasi-qualità: queste dagli antichi venivano chiamate «idee». Infatti le idee sono da annoverare tra i concetti, per esempio di uomi-ni, cavalli, e più in generale di di tutti gli animali e le altre cose delle quali diciamo che ci sono idee. I filosofi stoici affermano che sono prive di esistenza: dei concetti parteci-piamo, i termini (i cosiddetti «appellativi») li troviamo (SVF I.65 = FDS 316).
Tale concezione è coerente sia con lo spirito fondamentale della logica stoica che, come abbiamo visto, ha ad oggetto gli eventi (singolari) espressi dalle proposizioni, sia con la concezione fisica che, come vedre-mo, riconosce realtà in senso pieno solo alle cose corporee. Il criterio di verità non andrà dunque cercato in qualche caratteristica dei concetti, ma piuttosto delle percezioni che ci fanno conoscere eventi singolari. Indi-cando con «rappresentazione» (phantasía) l’impronta esercitata nell’a¬nima tramite i sensi da un evento esterno, gli stoici denominarono «com-prensiva» (kataleptiké) quella rappresentazione che porta così evidente-mente i segni della corrispondenza con la realtà da rendere impossibile ri-fiutarle l’«assenso» (synkatáthesis), cioè non riconoscerla come vera:
Delle rappresentazioni vere alcune sono comprensive, altre no. Non compren-sive sono quelle che sopraggiungono ad alcuni a seconda della passione che subiscono. Ad esempio molti, delirando o in preda alla malinconia, hanno una rappresentazione vera che però non è comprensiva: essa proviene dall’esterno e così casualmente, di modo che essi spesso non riescono a convalidarla né a darle il loro assenso. La rappre-sentazione comprensiva, invece, è quella che si ricalca e si imprime a partire da qualco-sa di esistente e in conformità con l’esistente, e non sarebbe com’è se provenisse da qualcosa che non esiste.
Affermando che tale rappresentazione è sommamente capace di riprodurre gli oggetti e che ne ricalca perfettamente tutte le proprietà, affermano che possiede cia-scuna di queste caratteristiche. La prima è di derivare da qualcosa di esistente ... , la se-conda di non solo derivare, ma anche corrispondere all’esistente stesso ... e inoltre di ri-calcare e di imprimere, affinché restituisca perfettamente le proprietà degli oggetti rap-presentati (SVF II.65 = FDS 273, 333).
Il criterio introdotto degli stoici facilmente poteva essere accusato di essere circolare e inutile: se la rappresentazione comprensiva si distingue dalle altre perché corrisponde con la realtà, come usarla come criterio per riconoscere appunto la realtà? Il senso di questo criterio si capisce però meglio quando viene visto sullo sfondo della polemica contro Platone e Aristotele: in essi la questione acuta della teoria della conoscenza consiste in come raggiungere l’universale a partire da un’esperienza che è sempre particolare. Affermare come punto di partenza la rappresentazione com-prensiva significa eliminare questo problema sostenendo il primato del sin-golare.
3. La fisica
3.1 I princìpi
La fisica degli stoici, pur riprendendo numerosi elementi dalle fi-losofie precedenti, li riformula in un insieme notevolmente originale e coe-rente. Caratteristico è il loro richiamo privilegiato ad Eraclito (nei catalo-ghi delle opere risultano titoli dedicati esclusivamente alla sua interpreta-zione); ma è difficile, data la conoscenza molto lacunosa che ne abbiamo, stabilire quando si tratti di effettive riprese e quando invece le sue parole siano state forzate ad esprimere idee che gli erano di fatto estranee.
La struttura complessiva della realtà viene argomentata in questo modo:
Essendo la sostanza (ousía) delle cose che sono, affermano, incapace di darsi da sé movimento e figura, ha bisogno di essere mossa e configurata da una qualche causa. E per questo, come avendo osservato una stupenda statua di bronzo desideria-mo saperne l’artefice perché la materia di per sé è incapace a muoversi, così anche guardando la materia dell’universo che si muove e si trova ad essere in forma e in ordi-ne, è ragionevole che indaghiamo la causa che la muove e la conformi in molte specie. E questa è plausibile che non sia nient’altro che una potenza che si diffonde per essa, come l’anima si diffonde in noi. [...] Questa potenza o moverà dall’eternità o da un cer-to tempo: ma da un certo tempo non potrà muovere: infatti non ci sarà una qualche causa del fatto che essa muova da un certo tempo. Dunque la potenza che muove la materia è eterna e la conduce ordinatamente alle nascite e alle trasformazioni: cosicché sarebbe dio (SVF II.311).
L’argomentazione ha uno schema di tipo aristotelico (si nota l’uso della coppia di concetti «materia» e «forma»), ma essa viene posta a ser-vizio di una concezione molto diversa dell’universo: ciò che appariva ov-vio ad Aristotele, e cioè che la realtà fosse composta di esistenze distinte ognuna con la sua particolare essenza, viene negato in favore di una con-cezione in cui le singole cose non sono altro che trasformazioni di un’unica materia, «animata» dalla presenza di una potenza identificata con il dio. Ciò è connesso anche all’attenzione accordata in logica agli «even¬ti»: la singola cosa è qualcosa che «accade» all’universo.
La particolare concezione del divino pone gli stoici in una linea tenden¬zialmente monoteistica, e l’unico dio che permea l’universo viene identificato con lo Zeus della tradizione greca. Le interpretazioni degli altri dèi sono oscil¬lanti: a volte vengono ritenuti semplicemente nomi diversi per indicare l’unico dio nei suoi diversi aspetti, a volte esseri spirituali di rango inferiore e non dissimili dalle anime degli uomini sapienti. Il carattere co-smico del dio sommo non significa comunque una sua impersonalità: a lui, come vedremo, viene attribuito pensiero e coscienza esattamente come agli uomini.
La funzione del principio motore dell’universo permette agli stoici di introdurre, per la prima volta con un ruolo così centrale, la nozione di logos nel senso di «ragione universale»:
Essi ritengono che i princìpi di tutte le cose siano due: quello attivo e quello passivo. Quello passivo è la sostanza senza qualità (ápoios ousía), la materia; quello attivo è il logos che è in essa, il dio. Questo infatti essendo eterno produce le cose singole diffondendosi in tutta la materia (SVF II.300).
Il parallelo tra logos dell’universo e anima umana è ben più di una semplice analogia. Riecheggiando le considerazioni di Platone sull’«anima del mondo», gli stoici affermano che l’intero universo nel suo complesso dev’essere considerato un essere vivente, la cui anima si identifica con il dio:
Crisippo nel primo libro Sulla provvidenza ... afferma che il cosmo è un ani-male dotato di logos, anima e intelletto: essendo un animale, è una sostanza dotata di anima e della capacità di sentire. Infatti: l’animale è migliore del non animale; ma nulla è migliore del cosmo; dunque il cosmo è un animale. E ha un’anima, come è evidente dalla nostra anima che è una particella che proviene da esso (SVF II.633).
La distinzione tra «corpo» e «anima» dell’universo non coincide però con quella platonica tra «materiale» e «immateriale». Prendendo spunto proprio da un passo platonico in cui «ciò che è» viene definito come ciò che è capace di agire o di patire, cioè di esercitare o di ricevere un effetto (Sofista, 247 d8-e4), gli stoici conclusero che solo ciò che è corporeo gode di queste qualità: l’anima è quindi «corporea» tanto quanto il corpo. Un ulteriore argomento veniva tratto dalla definizione della mor-te: «La morte è separazione dell’anima dal corpo; ma nulla di incorporeo si separa da un corpo, perché l’incorporeo neppure tocca il corpo; ma l’anima sia tocca sia si separa dal corpo; dunque l’anima è corpo» (SVF II.790). Dopo aver negato in logica l’esistenza delle idee, in fisica viene così confutato anche il secondo tratto più caratteristico del pensiero di Platone, l’incorporeità dell’anima.
Una importante conseguenza di questa concezione consiste nella necessità di ammettere la compenetrazione dei corpi (míxis o krásis): in nessun altro modo infatti il logos (ovvero il dio) potrebbe diffondersi nel-la materia passiva e darle movimento e forma. Mentre affermavano la ma-terialità del logos, gli stoici tentarono anche di tradurre tale afferma¬zione nella tradizionale dottrina di Empedocle dei quattro elementi (terra, ac-qua, aria, fuoco), da loro accettata. Le testimonianze in proposito mo-strano un’evoluzione: alcune, che si riferiscono per lo più a Cleante ed evidentemente sviluppano alcuni suggerimenti di Eraclito, identificano il logos senz’altro con il fuoco, concepito come una sorta di «seme» di tutta la realtà; quelle riferentesi a Crisippo individuano invece il logos nella me-scolanza di fuoco e aria (detta «spirito», pnéuma); questi ultimi sareb¬bero dunque i due elementi «attivi»:
Affermano che la terra e l’acqua non tengono insieme né sé stesse né gli altri elementi, ma si mantengono unite per il fatto che partecipano della potenza dello spirito infuocato. L’aria e il fuoco invece sono coesi grazie alla loro tensione, e mescolandosi a quegli altri due dànno loro tensione, permanenza e sostanzialità (SVF II.444).
In tale testimonianza compare anche l’importante concetto di «ten-sione» (tónos). Essa è qui presentata come la caratteristica intrinseca dello spirito, che comunicandosi alle cose dell’universo permette loro di non sfaldarsi e distruggersi. Ma, in linea con l’interpretazione corporea di tutta la realtà, la «tensione» verrà usata anche per interpretare caratteristiche di tipo intellettuale e morale.
3.2 Gli incorporei
Dopo aver identificato «ciò che è» con il corporeo (per sottolinea-re tale forma primaria di essere veniva usato il termine «esistenza» [hýpar-xis]), gli stoici riconobbero tuttavia una forma di realtà anche a cose in-corporee. Per raccogliere sotto un’unica determinazione cose che «so¬no» in senso stretto ed incorporei introdussero come genere sommo il «qualco-sa» (tí): tutto è «qualcosa», anche se non tutto «è». Una realtà incorporea è stata già incontrata nella logica: si tratta dell’«esprimibile», cioè del sen-so di un termine o di una proposizione. Altri tre incorporei hanno invece un legame più diretto con la realtà fisica:
[Gli stoici] affermano che dei «qualcosa» gli uni sono corporei, gli altri incorpo-rei, e degli incorporei si contano quattro specie: l’esprimibile, il vuoto, il luogo e il tempo. Da ciò è evidente che suppongono il tempo incorporeo, e ciononostante lo ritengono qualcosa che può essere concepito per sé stesso (SVF II.331).
Tempo, luogo e vuoto sono evidentemente tre realtà che non pos-sono né agire né patire, quindi non hanno «esistenza»; tuttavia sono con-dizioni necessarie per l’esistenza e per l’azione dei corpi: dunque si può dire che esse hanno «sussistenza» (hypóstasis). Più in particolare, il tempo è definito come «intervallo del movimento del cosmo» (SVF II.509), il luogo come «ciò che è occupato completamente da una cosa che è e la eguaglia in grandezza», il vuoto come «ciò che può essere occupato da una cosa che è, ma non è occupato» (SVF II.505).
Le considerazioni più interessanti riguardano il vuoto: esso va concepito come una infinita estensione che si trova all’esterno del cosmo. La sua sussistenza veniva argomentata in questo modo: «Ammettiamo che un uomo che si trova al confine del cielo tenda una mano in alto: se la tende, c’è qualcosa fuori del cielo verso cui tenderla, se non può tenderla, anche in questo caso ci sarà fuori qualcosa che ne impedisce la disten-sione» (SVF II.535). La realtà del vuoto è insomma necessaria per conce-pire la possibilità di espansione o contrazione del cosmo, che (come si ve-drà) svolge un ruolo importante nella fisica stoica. Per quanto riguarda in-vece l’interno del cosmo, gli stoici, contrariamente ad Epicuro (e d’accordo con Aristotele), negano la possibilità del vuoto:
Per le sue caratteristiche, il vuoto non può assolutamente essere nel cosmo, e ciò è evidente dai fenomeni. Se infatti la sostanza di tutte le cose non fosse nell’universo omogenea, neppure potrebbe ad opera della natura tenere assieme e go-vernare il cosmo, né ci sarebbe una simpatia reciproca delle parti. E se non fosse tenuto assieme da una sola tensione e lo spirito non fosse omogeneo nell’universo, neppure ci sarebbe possibile vedere o ascoltare: infatti se ci fossero dei vuoti frapposti sarebbero impedite le sensazioni da parte nostra (SVF II.546).
Il concetto di «simpatia» (sympátheia) qui introdotto è una delle conseguenze della concezione unitaria dell’universo: se esso è un unico essere vivente, ogni parte deve essere in connessione con le altre e ogni minimo cambiamento deve avere ripercussioni sul tutto (in questo modo risulta anche respinta la tesi di Epicuro sulla pluralità dei mondi). Negare la presenza del vuoto nel cosmo, intenderlo quindi come una massa di ma-teria fluida senza interstizi, significa evidentemente respingere anche l’atomismo; ma questo viene rifiutato, con argomentazioni simili a quelle di Aristotele, pure nella sua pretesa di individuare «parti ultime» della realtà:
Coloro che ci chiedono se abbiamo parti, e quante, e di quali e quante parti es-se siano composte, userebbero una distinzione, da una parte ponendo l’organizzazione complessiva, giacché siamo composti di testa e tronco e arti: questo infatti sarebbe tut-to ciò che viene cercato e chiesto. Ma se conducessero la domanda fino alle «parti ulti-me», nulla di siffatto deve essere supposto, ma bisogna dire che non siano composti di qualcosa, e similmente, non da un certo numero, sia esso infinito o finito (SVF II.483).
3.3 Il fato e la provvidenza
La concezione del logos come anima del mondo da una parte e l’idea di un’assoluta unità dell’universo dall’altra, sono a fondamento del-la concezione del fato (heimarméne) tipica dello stoicismo. Secondo essa tutto ciò che accade è indissolubilmente determinato dalla «catena delle cause» (SVF II.945): contro l’idea epicurea della «deviazione» degli ato-mi, nulla avviene a caso e senza una causa determinante. Tale idea del fa-to ha tuttavia anche una stretta connessione con la concezione logica della «proposizione»:
Se c’è un movimento senza causa, non ogni proposizione (che i dialettici chiamano axíoma) sarà o vera o falsa (infatti ciò che non avrà cause efficienti non sarà né vero né falso). Ma ogni proposizione è o vera o falsa. Dunque nessun movimento è senza causa. E se le cose stanno così, tutte le cose che avvengono, avvengono per cau-se antecedenti. E se le cose stanno così, tutte le cose avvengono per il fato. Dunque qualsiasi cosa avviene, avviene per il fato (SVF II.952).
Insomma: il fatto che il mondo sia descrivibile per mezzo di pro-posizioni, la cui caratteristica essenziale risiede nell’essere o vere o false, implica che ogni evento sia determinato. Tale ragionamento ricava eviden-temente la sua forza in particolare dalla soluzione stoica al problema del valore di verità delle proposizioni al futuro. Legare il concetto del fato all’opera del logos cosmico significa però anche liberarlo dal carattere cie-co e irrazionale che gli veniva spesso associato nella cultura greca: il fato di cui parlano gli stoici è piuttosto una legge intelligente, che orienta nel modo migliore possibile le vicende del mondo. Esso dunque si identifica con la «provvidenza» (prónoia) e lascia anche lo spazio per quelle pratiche religiose di divinazione tramite le quali il dio aiuta gli uomini rendendoli edotti degli eventi futuri.
L’identificazione del fato con l’opera di governo divino fa tutta-via affacciare per la prima volta con tanta forza il problema del male: co-me spiegarne la presenza? Le risposte date dagli stoici sono varie, e ne an-ti¬cipano innumerevoli simili. Una di esse consiste nel notare l’inse¬pa¬rabile connessione tra bene e male:
Certamente niente è più stolto di chi pensa che possano esistere i beni se non ci fossero anche i mali. Ora, siccome i beni sono contrari ai mali, necessariamente devono esserci sia gli uni sia gli altri in reciproca opposizione, e possano sussitere solo grazie ad uno sforzo, oserei dire ad un tempo vicendevole e contrario. In che modo potrebbe es-serci senso della giustizia, se non ci fossero le offese? o che cos’altro è la giustizia se non la privazione di ingiustizia? Allo stesso modo, come potrebbe intendersi la fortezza se non per opposizione alla viltà? come la temperanza, se non dall’intemperanza? ... Con-temporaneamente ci sono beni e mali, felicità e disgrazia, dolore e piacere. Infatti l’uno è legato all’altro, come dice Platone, per i vertici opposti: se togli l’uno, togli anche l’altro (SVF II.1169).
Un mondo con beni ma senza mali sarebbe insomma inconcepibile. Altre risposte al medesimo problema entrano in dettagli e notano come quelli che vengono percepiti come mali sono in realtà l’inevitabile prezzo da pagare per ottenere un bene maggiore, o anche per stimolare a quel be-ne sommo che è la virtù. Il problema della giustificazione del male (che da Leibniz verrà chiamato «teodicea») rimanda così naturalmente al proble-ma etico come al suo necessario completamento.
3.4 La conflagrazione
Uno degli aspetti più caratteristici della fisica stoica, in cui si fon-dono la concezione del mondo come essere vivente e l’idea del fato, con-siste nel concetto di «conflagrazione» (ekpýrosis), che viene desunto da Eraclito ma riceve uno sviluppo originale. Il punto di partenza consiste nel negare l’eternità del mondo, così come la concepiva per esempio Aristote-le. Esistono secondo gli stoici quattro segni che la smentiscono: «l’irregolarità della terra, il riflusso del mare, il consumarsi di ciascuna parte del tutto, la corruzione degli animali terrestri secondo la specie» (SVF I.106). Si tratta di osservazioni naturalistiche notevoli per il loro acume, che dimostrano nel cosmo un processo non soltanto di nascita, ma anche di corruzione.
Utilizzando un’idea che era stata già proposta da Empedocle, tali processi vengono tuttavia considerati come facenti parte di un ciclo eter-no: il cosmo infinite volte si distrugge e infinite volte si riforma. La «di-stru¬zione» va intesa in un senso relativo: essa consiste nel ritorno periodi-co degli elementi al fuoco originario che li riassorbe tutti (da qui il termine «conflagrazione»), in uno stato in cui il logos divino ricomprende in sé ogni cosa. Non può dunque essere considerata una «morte» del cosmo, ma al contrario come il suo momento di maggiore vitalità (SVF II.604). Questa idea di ritorno ciclico viene sostenuta anche con argomenti di tipo astronomico (ricavati dal Timeo di Platone), che dànno alla conflagrazio-ne un peculiare sviluppo:
Gli stoici affermano che i pianeti, ristabilendosi nello stesso punto sia nelle di-mensioni sia nelle estensioni, dove ciascuno era al principio quando per la prima volta il cosmo si costituì, nei detti periodi di tempo determinano la conflagrazione e la distru-zione delle cose che sono. Poi di nuovo il cosmo si ricostituirà così com’era all’origine: dato che gli astri si moveranno di nuovo allo stesso modo, ciascuno si condurrà allo stesso modo che nel precedente periodo. Infatti ci saranno di nuovo Socrate e Platone e ciascun uomo coi suoi stessi amici e concittadini; le medesime cose ci convinceranno e delle medesime cose ci serviremo e ogni città e villaggio e campo si ricostituirà allo stes-so modo.
Ma la ricostituzione del tutto non avverrà una sola volta, ma molte, o meglio, le stesse cose si ricostituiranno all’infinito e senza limite. E gli dèi non soggetti alla di-struzione, in tal modo avendo seguito in un ciclo, grazie a questo conoscono tutto quel-lo che sarà nei cicli successivi, perché non vi sarà nulla di diverso rispetto alle cose av-venute prima, ma tutto sarà uguale, pure fino ai minimi particolari (SVF II.625).
Benché l’idea dell’eterno ritorno abbia presto destato perplessità e venne da alcuni attenuata o abbandonata, essa manifesta molto bene l’esigenza di razionalità che permea lo stoicismo. Una volta che il mondo delle idee platonico o il Primo movente immateriale di Aristotele sono stati abbandonati, la razionalità si esprime nell’infallibilità (e dunque nell’eterno ripetersi) dei processi di causa ed effetto del mondo sensibile. (È interes-sante notare che una funzione simile viene svolta dall’idea dell’eterno ri-torno nell’unico filosofo contemporaneo che la riprese, Friedrich Nie-tzsche.) Tale idea non ebbe però ripercussioni positive nel rapporto con le scienze specialistiche, che rimasero piuttosto estranee agli interessi della prima generazione dello stoicismo, in parte perché urtavano con la pretesa di una conoscenza globale e totale del cosmo da parte del sapiente: una pretesa comprensibile in linea di principio, ma ovviamente sproporzionata rispetto ai mezzi di indagine disponibili.
3.5 L’anima umana
Lo studio delle diverse realtà dell’universo consiste per gli stoici nell’esame del modo in cui i principi e la vita dell’universo si esprimono in ciascuna specie di essere. Il ruolo più importante è ovviamente svolto dal-lo spirito, che può assumere diverse modulazioni:
La coesione è comune anche alle cose inanimate, alle pietre e agli alberi, e di essa partecipano le ossa che in noi sono simili alle pietre. La natura si estende anche alle piante, ma anche in noi ci sono cose simili a piante: unghie e capelli: la natura è coesio-ne in movimento. L’anima è natura alla quale si è aggiunta rappresentazione e impul-so; questa è comune anche agli esseri irrazionali. E anche il nostro intelletto ha qualcosa di analogo all’anima irrazionale. ... La potenza razionale è comune forse anche alle na-ture più divine, ma tra i mortali è propria dell’uomo (SVF II.458).
Coesione (héxis), natura (phýsis: il termine è scelto per il legame etimologico con phytón, «pianta»), anima (psyché), anima razionale (psy-ché logiké) sono quindi in progressione le quattro forme che assume lo spirito divino. Un’attenzione particolare va data ai termini «rappresenta-zione» (phantasía, lat. visus) e «impulso» (hormé, lat. adpetitio) che indi-cano le operazioni specifiche degli animali dotati di anima: il primo indica una «impronta nell’anima» introdotta tramite i sensi, il secondo la «dispo-sizione a sentire proprie o estranee» le cose oggetto di rappresen¬tazione. Mentre la rappresentazione si è già incontrata come criterio di verità in lo-gica, l’impulso, il «primo movimento dell’anima» (SVF II.458) sarà alla base della riflessione etica.
Tra le quattro forme di spirito, l’attenzione maggiore viene eviden-temente dedicata dagli stoici all’anima razionale. Se l’affermazione della sua corporeità suonava polemica nei confronti della concezione platonica e aristotelica, l’analisi che viene condotta tradisce la suggestione esercita-ta dalla tradizione medica, in cui la salute veniva individuata nell’armonia della mescolanza dei diversi princìpi:
Gli stoici vogliono che l’anima sia spirito (come anche la natura), ma più umi-do e più freddo quello della natura, più secco e più caldo quello dell’anima. Dunque questo spirito è la materia propria dell’anima, mentre la specie della natura consiste in una mescolanza armonica della sostanza dell’aria e di quella del fuoco. Infatti non è possibile affermare né che l’anima sia solo aria né che sia solo fuoco, perché il corpo dell’animale non appare essere né del tutto freddo né del tutto caldo, ma neppure do-minato da uno dei due in misura eccessiva, e dove anche per poco diventa più della mi-sura equilibrata, da una parte l’animale ha la febbre negli eccessi sproporzionati di fuo-co, dall’altra si raffredda e diventa livido e torpido o completamente insensibile secon-do le mescolanze dell’aria: infatti questa per quanto è in sé è fredda e diventa tempera-ta per la mescolanza con l’elemento del fuoco. Ora è dunque chiaro che la sostanza dell’anima deriva da una certa mescolanza di aria e di fuoco secondo gli stoici, e lo stesso intelligente Crisippo dalla loro temperata mescolanza (SVF II.787).
A fronte di questa dettagliata analisi di tipo naturalistico, scarsa attenzione era dedicata al problema dell’immortalità dell’anima: la teoria della conflagrazione prevedeva infatti in ogni caso un ciclico riassorbi-mento nell’anima divina del mondo, che rendeva secondario il problema di una sopravvivenza personale (la quale comunque veniva sostenuta da Crisippo per le sole anime dei sapienti). L’orientamento della dottrina stoica dell’anima si rivela invece bene nella discussione sulle «parti» dell’a¬nima. Esse non vengono individuate, come in Platone, sulla base delle differenti tendenze dell’azione umana, ma piuttosto a partire dalle funzioni corporee che vengono esercitate finché c’è vita, cioè finché lo spirito permea il corpo. È così che, sullo sfondo di una concezione sostan-zial¬mente unitaria dell’anima, si giunge tuttavia ad individuarne otto «parti» diverse:
L’anima è lo spirito, connaturale a noi, che giunge in maniera continua in tutto il corpo, finché la respirazione vitale è presente nel corpo. Poiché le parti dell’anima so-no distribuite in ciascun membro, quella sua parte che giunge nell’arteria tracheale di-ciamo che è la voce, quella che giunge negli occhi vista, quella che giunge negli orecchi udito, quella che giunge nel naso olfatto, quella che giunge nella lingua gusto, quella che giunge in tutta la carne tatto, quella che giunge nei genitali avendo un certo altro logos capacità generativa, quella che giunge laddove accadono tutte queste cose, nel cuore, la sua parte direttiva. Stando così le cose, sul resto si è d’accordo, mentre sulla parte di-rettiva dell’anima si è in disaccordo, perché alcuni dicono che sia in un luogo, altri in un altro: infatti alcuni dicono che sia nel petto, altri nella testa (SVF II.885).
Il termine hegemonikón («parte direttiva») resterà tipico dello stoicismo per indicare la parte propriamente razionale dell’anima umana. Ad essa sono affidate le funzioni conoscitive e deliberative, e, più in ge-nerale, la coordinazione di ogni movimento del corpo. L’aspetto più carat-teristico della concezione stoica dell’anima non risiede però nell’ana¬litica distinzione della varie parti, ma piuttosto nel rifiuto di individuare una o più parti responsabili esclusivamente delle tendenze passionali. Anche queste ultime vengono infatti assegnate alla «parte direttiva», con la con-seguenza un po’ paradossale che solo l’uomo è capace di passioni:
Ritengono che la parte passionale e irrazionale dell’anima non sia distinta da quella razionale per una qualche differenza e natura, ma che sia quella stessa parte dell’anima che chiamano «mente» o «parte direttiva», completamente deviato e tra-sformato nelle passioni e nelle trasformazioni dipendenti da abitudini o disposizioni ... . Esso è detto irrazionale quando per l’eccedere dell’impulso, diventato forte e preva-lente, è spinto verso ciò che è assurdo e contro le scelte che fa il logos. Infatti la passio-ne è il logos cattivo e corrotto, proveniente da un giudizio falso ed erroneo che ha rag-giunto vigore e forza (SVF III.459).
Riguardo al «disaccordo» cui si accenna nel testo prima citato, Cri-sippo localizzava l’hegemonikón nel cuore, basandosi principalmente sulla circostanza che le passioni si sentono provenire «dal petto», come testimo-niano anche espressioni del linguaggio corrente. Le contemporanee osser-vazioni mediche che avevano già individuato nel cervello il punto di rac-cordo del sistema nervoso non vengono invece prese in considerazione: si tratta di uno dei casi in cui è evidente un atteggiamento di fondamentale sfiducia nei confronti delle scienze specialistiche, che vengono accusate di formulare ipotesi incerte anziché attenersi ai fenomeni come appaiono.
4. L’etica
4.1 Il primo impulso
L’etica stoica condivide con molte tendenze dell’etica antica sia uno stretto legame con il problema della felicità, sia una fondazione (per lo meno nella formulazione datale da Crisippo) nell’osservazione della realtà naturale. Il punto di partenza consiste infatti nell’osservare quale sia il «primo impulso» (próte hormé) nella natura dell’uomo e dei viventi in generale. Già le testimonianze evidenziano come questo punto di partenza sia determinato in polemica con Epicuro:
Affermano che il primo impulso per l’animale è tendere a conservare sé stesso, perché la natura fa sì che l’animale si appropri di sé fin dal principio (oikeióuses autó tes phýseos ap’archés), come dice Crisippo nel primo libro Sui fini, dove dice che il «primo proprio» (próton oikéion) per ogni animale è la sua costituzione e la coscienza di essa. Infatti non sarebbe verosimile né che la natura facesse alienare un animale da sé, né che dopo averlo fatto non lo facesse né alienare né appropriare. Resta dunque da dire che dopo averlo costituito lo faccia appropriare a sé stesso: così infatti respinge le cose dannose e cerca quelle appropriate.
Ciò che alcuni [gli Epicurei] dicono, che il primo impulso degli animali vada verso il piacere, mostrano che è falso. Affermano infatti che il piacere, se mai esiste, è un prodotto successivo, quando la natura, dopo aver cercato le cose adatte, lo fornisce in sé e per sé alla costituzione: e in questo modo gli animali appaiono lieti e le piante fioriscono.
In nulla, affermano, la natura differisce riguardo alle piante e riguardo agli animali, perché pur senza impulso e sensazione amministra anche le prime, e d’altra parte in noi alcune cose avvengono in modo vegetativo. Ma poiché agli animali in più si aggiunge l’impulso, servendosi di esso vanno verso le cose proprie. Dunque per questi vivere secondo natura corrisponde a farsi guidare dall’impulso, mentre, dato che il logos è dato agli esseri razionali per una più perfetta costituzione, vivere secondo natura di-venta per essi esattamente vivere secondo logos. Infatti questo si aggiunge come artefi-ce dell’impulso (SVF III.178).
Il passo è della massima importanza, perché tratteggia in breve i passaggi fondativi essenziali dell’etica stoica. Il punto di partenza è costi-tuito dall’osservazione che ogni animale prova anzitutto, fin dalla nascita, un istinto di «appropriazione» (oikéiosis, lat. conciliatio). Il signi¬ficato di questo termine (come si è visto nella definizione generale dell’impulso) implica un movimento di accettazione e di desiderio nei confronti di qualcosa che si sente consono a sé. Ma che cos’è che viene anzitutto «ap-propriato»? Gli stoici affermano che l’oggetto dell’appro¬priazione è anzi-tutto il proprio stesso essere, a partire dal corpo: un ani¬male anzitutto si rende conto della struttura del proprio organismo e impara a cercare ciò che gli giova e a fuggire ciò che lo danneggia. In una parola, si tratta dell’istinto di sopravvivenza.
Tale dato però non viene semplicemente osservato, ma anche di-mostrato. Esistono solo tre possibilità: che un vivente si appropri di sé, che si alieni da sé, che né si appropri né si alieni. Le ultime due possibilità sono da escludere perché non si può pensare che la natura (si intenda: una natura intelligente, la provvidenza divina), dopo aver portato alla luce un proprio prodotto sia indifferente od ostile alla sua sorte: in entrambi i casi infatti non avrebbe neppure prodotto quell’essere. Insomma, già la nascita di un vivente mostra che da parte della natura c’è una preoccupazione po-sitiva nei suoi confronti, che si esprime appunto attraverso quell’istintivo amore di sé e della propria vita che lo accompagna fin dalla nascita come prima tendenza. Ciò detto, è anche dimostrato che il piacere di Epicuro non può svolgere questa funzione: esso non è mai un obiettivo primario, ma piuttosto qualcosa che si aggiunge quando la sopravvivenza è assi-curata.
4.2 Dall’impulso al logos
Il passo ulteriore consiste nel notare che la preoccupazione della natura è la stessa ai vari livelli, per esempio anche nei confronti delle pian-te: la presenza dell’impulso negli animali aggiunge un ulteriore tramite della cura della natura, che si esprime appunto attraverso la ricerca delle cose «appropriate». Ma allora, come nell’animale «vivere secondo natura» significa «vivere secondo l’impulso», nell’uomo significherà «vivere se-condo il logos». È solo questo livello successivo che specifica l’istinto di appropriazione dell’uomo. Un’ulteriore testimonianza offre qualche preci-sazione sul significato di tale livello:
Prima di tutto c’è l’appropriazione dell’uomo verso quelle cose che sono se-condo natura. Ma appena l’uomo acquisisce l’intelligenza o piuttosto la nozione (che quelli chiamano énnoia) e vede l’ordine e per così dire la concordia delle cose da fare, la stima molto più di tutte quelle cose che per prime amava, e con la conoscenza e la ragione giunge a concludere che qui è collocato quel sommo bene dell’uomo che va lo-dato e cercato per sé stesso. E questo è posto in ciò che gli stoici chiamano homología [coerenza] (SVF III.188).
Due elementi vanno notati: anzitutto, l’uso della ragione non è nell’uomo dato fin dal primo momento dell’esistenza. È dunque naturale che la sua esperienza concreta prenda le mosse dallo stesso identico istin-to di appropriazione che contraddistingue tutti gli animali. L’uso del lo-gos gli permette però di compiere un passo impossibile agli animali: sco-prire l’ordine che anima l’universo intero, e passare dall’impulso di con-serva¬zione di sé alla «coerenza», cioè alla volontà di conformarsi al logos universale di cui si è parte. In altre parole, si potrebbe dire che l’istinto di autoconservazione viene reso universale: non è più solo la propria vita che va conservata, ma l’armonia e la razionalità del cosmo. La formula in cui gli stoici riassumevano il fine della vita morale, «vivere coerentemente con la natura» (homologouménos te phýsei zén), o anche solo «vivere coe-ren¬temente», implica dunque una spiccata dimensione intellettuale che ne rivela il legame di filiazione con l’etica socratica.
Alcuni esempi possono chiarire come in concreto si realizzi questo passaggio all’universale. Il primo riguarda il caso, molto importante per il pensiero stoico, dei rapporti tra gli uomini. Essi possono essere agevol-mente spiegati quando si prendano le mosse dal sentimento di affetto dei genitori verso i figli, che non è altro che una specificazione dell’originario istinto di autoconservazione:
Credono che sia importante comprendere che avviene per natura che i figli siano amati dai genitori; da questo inizio cerchiamo l’inizio della comune società del genere umano. Ciò che per primo va compreso è la figura e le membra del corpo, che da sé dichiarano che la natura ha avuto una ragione di crearle. Ma queste non potreb-bero neppure andar d’accordo con se stesse se la natura non volesse che fossero create e non si curasse di amare gli esseri creati. E anche negli animali si può osservare la forza della natura: quando osserviamo la sofferenza nel procreare e nell’allevare i piccoli, ci sembra di udire la voce della natura stessa. Dunque, come è evidente che noi per natura fuggiamo il dolore, così appare che siamo spinti dalla natura stessa ad amare quelli che abbiamo generato.
Da ciò nasce che anche la comune preoccupazione degli uomini per gli uomini sia naturale, cosicché è necessario che un uomo non sembri estraneo ad un altro uomo per il fatto stesso che è un uomo (SVF III.340).
Come è evidente, è soltanto l’opera del logos che può trasformare ed estendere un impulso originariamente diretto solo verso la prole in una comune solidarietà verso tutti i propri simili (ciò che secondo gli stoici era impossibile partendo dalla ricerca del piacere). Qui si connette anche l’idea di un «diritto naturale», che gli stoici sostengono con forza propu-gnando anche, seppure in maniera un po’ astratta, un ideale di cosmopoli-tismo: i sapienti sono coloro che riconoscono di essere cittadini dell’unica «città di Zeus», che è governata da un’unica legge che si identifica con il logos universale.
Un secondo esempio mostra come l’opera del logos sul «primo impulso» può condurre anche a risultati apparentemente contrari al dato di partenza. Si tratta in particolare del caso del suicidio, che viene deno-mi¬nato «uscita razionale dalla vita» (éulogos exagogé) e diventa caratteri-stico del sapiente stoico, nella teoria e anche nella prassi. Per esso veniva-no individuati diversi motivi che lo rendevano degno di essere scelto: «Affermano che il sapiente ragionevolmente uscirà dalla vita sia per la pa-tria, sia per gli amici, e anche se cade in dolori troppo acuti o in menoma-zioni [mentali] o in malattie incurabili» (SVF III.757). Insomma, in tutti i casi in cui sia impossibile esercitare la propria esistenza razionale, o quan-do essa dev’essere sacrificata per un bene maggiore della propria vita, il suicidio è coerente. In questo caso l’istinto di sopravvivenza passa in se-condo piano di fronte ad esigenze maggiori o più profonde che solo il lo-gos può scoprire (donde l’affermazione paradossale che solo per il sapien-te, ma non per lo stolto, può essere conforme a natura togliersi la vita).
Il fatto che la vita «coerente con la natura» sia per l’uomo quella «secondo il logos» giustifica il forte accento che viene posto sulla cono-scenza nella definizione della virtù. Se essa in generale viene con¬cepita come una «disposizione coerente» dell’uomo, le singole virtù (delle quali le «principali» sono desunte dalla Repubblica di Platone) vengono intese, in maniera non dissimile dal Socrate presentato da Platone, come «scien-ze» rivolte ai singoli ambiti: «la saggezza (phrónesis) è la scienza delle co-se da fare, da non fare, e né da fare né da non fare .... ; la moderazione (sophrosýne) è la scienza delle cose da scegliere, da fuggire, e né da sce-gliere né da fuggire; la giustizia (dikaiosýne) è la scienza in grado di attri-buire a ciascuno secondo il valore; il coraggio (andréia) è la scienza delle cose temibili, non temibili, e né temibili né non temibili» (SVF III.262). Non meraviglia dunque che, benché avversata dall’orto¬dossia stoica rap-presentata da Crisippo, sia nata in seno alla scuola stoica la teoria secondo cui la virtù fosse unica, solo con differenti campi di applicazione.
Il primato assegnato alla dimensione intellettuale è solo in parte pa-ragonabile con l’analoga tendenza di Platone o di Aristotele. Esso infatti non individua una particolare forma di vita accessibile solo a pochi, ma piuttosto un criterio di vita aperto a tutti e capace di porre nella giusta luce qualsiasi aspetto della vita umana. Gli stoici rifiutavano quindi l’alternativa tra «vita attiva» e «vita contemplativa», sostenendo il primato della «vita razionale», cioè la vita secondo il logos, che le comprende entrambe (SVF III.687). A questa luce si comprende il quadro idealizzato del sapiente: solo egli agisce sempre bene ed è quindi l’autentico esperto di politica, econo-mia, religione, arte e così via. Il problema della partecipazione alla vita po-litica veniva in particolare risolto affermando che il sapiente «è possibile che partecipi alla vita politica seguendo il logos» (SVF III.690).
Una concezione così unitaria e rigorosa della virtù conduceva però a concepire il sapiente come una sorta di caso limite, forse mai esistente in realtà. La situazione veniva ulteriormente aggravata dall’idea secondo cui tutte le azioni cattive, così come quelle buone, si equivalgono fra loro, e chi è poco distante dalla virtù non è meno stolto di chi lo è molto («chi è sotto la superficie del mare di un cubito non affoga meno di chi è sommerso di cinquecento braccia», SVF III.539). Per tentare di bilanciare queste conse-guenze, che rischiavano di far diventare «per nessuno» un ideale origina-ria¬mente «per tutti», Crisippo introdusse l’idea del «progresso» (prokopé): colui che nota progressi nella sua esperienza (maggiore razionalità, vittoria sulle passioni) in realtà ha già varcato i confini della virtù, pur non avendo-ne ancora consapevolezza (SVF III.541). Una vera revisione della posizio-ne tradizionale si ebbe però solo più tardi con Panezio, che abbandonò le speculazioni sul sapiente ideale per concentrarsi sulle azioni «convenienti» effettivamente accessibili ad ogni uomo.
4.3 Le passioni
L’impianto intellettualistico dell’etica stoica conduce ad una im-portante conseguenza, che soprattutto nell’immagine più diffusa del sa-piente stoico rimase la più evidente: l’uomo virtuoso è colui che ha sop-presso ogni passione. Evidentemente tale conseguenza viene resa necessa-ria anche dalla concezione dell’anima, nella quale come abbiamo visto non viene individuata alcuna parte specificamente responsabile dei moti pas-sionali: essi hanno luogo nell’hegemonikón. Ma quando esso è guidato dalla ragione non vi rimane evidentemente più spazio per le passioni:
Bisogna anzitutto osservare che l’animale razionale per natura è capace di se-guire il logos e di agire obbedendo al logos come ad un comandante. Spesso però viene portato anche altrove, attratto o respinto da qualcosa, spinto per lo più a disobbedire al logos. E secondo questo movimento ci sono entrambe le definizioni [della passione]: «movimento contro natura che avviene irrazionalmente» ed «eccesso negli impulsi». In-fatti questo «irrazionale» va inteso come «disobbediente al logos» e «allontananto dal logos», e secondo questo movimento ed abitualmente diciamo che qualcuno è spinto e si muove irrazionalmente senza un giudizio del logos. Non diamo queste connotazioni se uno si muove erroneamente trascurando qualcosa secondo il logos, ma soprattutto secondo il movimento che traccia, non essendo nella natura dell’animale razionale muoversi così secondo l’anima, ma secondo il logos (SVF II.462).
Proprio la necessità dell’annullamento delle passioni diede tuttavia origine ad una loro analisi psicologica molto dettagliata. Di esse quattro specie primarie venivano individuate: «desiderio (epithymía) e paura (phóbos) anticipano, l’uno ciò che appare buono, l’altra ciò che appare cattivo; ad esse si aggiungono piacere (hedoné) e dolore (lýpe), il piacere quando otteniamo ciò che desideriamo o sfuggiamo a ciò che temiamo, il dolore quando manchiamo ciò che desideriamo o incappiamo in ciò che temiamo» (SVF III.378). Tutte queste forme vengono ricondotte a giudi-zi precipitosi riguardo a ciò che è buono e cattivo, e sono quindi destinate a scomparire nel sapiente.
Ciò però ovviamente non significa che nel sapiente scompaia anche l’impulso. In riconoscimento di ciò, si trova in Panezio la tesi che in con-nessione con giudizi equilibrati nel saggio sono presenti «buoni sentimenti» (eupátheiai, lat. constantiae), che sono la controparte positiva delle passio-ni: al desiderio corrisponde la volontà (bóulesis), alla paura la cautela (eulábeia), al piacere la gioia (chará). Solo al dolore non corrisponde evi-dentemente nulla, perché il sapiente è colui che si adegua al logos universa-le e dunque non può fallire nella sua volontà (SVF III.438). In questo mo-do si comprende anche che le passioni, eccezion fatta per il dolore, non necessariamente sono fondate su giudizi oggettivamente errati (si può per esempio provare piacere di una cosa buona): è solo la loro intensità che è sempre da respingere, proprio perché impedisce di distinguere il vero dal falso (e infatti è possibile provare piacere anche di una cosa cattiva, mentre di essa è impossibile provare gioia). Tale riflessione, pure se coerente con le premesse dello stoicismo antico, facilmente poteva essere accusata di ri-cadere, dopo averla formalmente respinta, nella prescrizione aristotelica di moderare piuttosto che sopprimere le passioni.
4.4 Fato e libertà
Il fatto che nell’uomo la vita secondo natura si identifichi con una vita secondo il logos permette di riformulare il fine della vita umana an-che come una «obbedienza» al fato. Si tratta ovviamente di una obbe-dienza di tipo formale, perché l’uomo, anche se non virtuoso, è comunque soggetto alla legge del cosmo. La virtù consiste tuttavia nell’adeguarvisi spontanea¬mente e volentieri, così da raggiungere il «buon scorrimento della vita» (éuroia bíou) identificato con la felicità. Questo aspetto dell’etica stoica, che mette in primo piano le intenzioni piuttosto che l’effettivo contenuto delle proprie azioni, viene bene espresso da alcuni celebri versi di Cleante:
Conducimi, o Zeus e tu, destino,
là dove da voi è stabilito,
perché vi seguirò senza esitazione; e se non volessi,
diventato malvagio, nondimeno vi seguirò.
I fati conducono chi vuole, trascinano chi non vuole.
[Ducunt volentem fata, nolentem trahunt] (SVF I.527).
Questa riformulazione dell’essenza della moralità solleva un gra-vissimo problema: se ogni cosa è predeterminata dal fato, c’è ancora uno spazio per il libero arbitrio? e senza quest’ultimo, che senso ha condurre un discorso etico, in cui certe azioni vengono lodate o biasimate? La ri-sposta degli stoici non può che essere complessa. Da una parte, il libero arbitrio nel senso in cui lo intendeva Aristotele, cioè capacità di scegliere tra due opzioni opposte, viene negato: esso introdurrebbe infatti nel co-smo un principio di indeterminazione che si opporrebbe alla sua struttura razionale. Ciò però non significa negare che esistono azioni che dipendono dall’uomo, e che quindi possono essere oggetto di lode e di biasimo (SVF II.1002). Ecco una testimonianza che analizza abbastanza dettagliatamen-te la questione:
Tolto all’uomo il potere di scegliere e di agire fra due opposti, ammettono co-munque che dipende da noi ciò che avviene secondo il nostro impulso. Poiché, affer-mano, le nature delle cose che sono e divengono sono varie e differenti ..., da ciascuna di esse seguono eventi secondo la propria natura: dalla pietra effetti secondo la natura della pietra, dal fuoco secondo quella del fuoco, dall’animale secondo quella dell’animale, e nessun effetto che segue dalla natura propria di ciascun ente può, af-fermano, essere diverso, bensì ciascuno avviene obbligatoriamente, secondo una ne-cessità non coercitiva, ma dipendente dal fatto che ciò che ha una certa natura non può, date delle circostanze che è impossibile che non gli accadano, avere altro movi-mento da quello che ha. E infatti la pietra, se viene gettata da una rupe, non può non cadere in basso, se nulla glielo impedisca. ... Affermano poi che quello che vale per gli esseri inanimati vale anche per gli animali. In effetti, per gli animali c’è un certo movi-mento secondo natura, ed è quello secondo l’impulso: infatti ogni animale, in quanto animale dotato di movimento, attua il movimento secondo l’impulso, il quale dunque avviene ad opera del fato tramite l’animale (SVF II.979).
L’idea fondamentale consiste quindi nel precisare che il fato non è una forza che costringe il comportamento umano dall’esterno, ma piutto-sto una legge universale che si esprime anche attraverso la natura propria dell’uomo, che è fatta di impulsi e razionalità. Il fatto che l’uomo possie-da il logos (così come l’animale in genere possiede l’impulso) non toglie poi che questo logos sia parte della legge universale del cosmo che è ap-punto il fato. Ciò chiarisce meglio perché è veramente libero solo l’uomo virtuoso: solo lui è in sintonia con quella stessa legge che infallibil¬mente avviene, e dunque non si sente mai costretto da essa (diver¬samente da ciò che avviene ad un animale o ad uno stolto, il cui impulso può andare fru-strato).
Due celebri obiezioni stimolarono ulteriormente lo stoicismo ad affrontare il problema della compatibilità tra fato e impegno etico. La prima obiezione va sotto il nome di «ragionamento pigro» (lógos argós, lat. ratio ignava) e suona così:
Se è deciso dal fato che tu guarisca dalla malattia, sia che tu vada dal medico, sia che tu non vada, guarirai. Ma anche se è deciso dal fato che tu non guarisca dalla malattia, sia che tu vada dal medico, sia che non vada, non guarirai. Ma o è deciso dal fato che tu guarisca dalla malattia o è deciso dal fato che tu non guarisca. Dunque è inutile che tu vada dal medico (SVF II.957).
Insomma, ogni azione sarebbe inutile visto che l’esito è in ogni ca-so predeterminato dal fato. Alcune altre formulazioni del «ragionamento pigro» si ispirano alla mitologia greca, dove in effetti il fato compare co-me una forza che porta a compimento il suo intento benché l’uomo tenti di sfuggirle (si pensi ad Edipo che uccide involontariamente il padre mal-grado si sia fatto di tutto per evitare tale destino che era stato rivela-to.) A questa obiezione Crisippo rispose con la teoria dei «confatali» (synheimarména, lat. confatalia):
Che il mio mantello non vada distrutto non è deciso dal fato in assoluto, ma insieme con il fatto che sia conservato, e che quel tale si salvi dai nemici insieme con il fatto che egli fugga i nemici, e il generare figli insieme con il fatto che si voglia andare con una donna. ... Molte cose infatti non possono avvenire senza che anche noi vo-gliamo ed esercitiamo in esse impegno e cura, poiché insieme con questo è deciso dal fato che avvengano (SVF II.998).
Insomma, il «ragionamento pigro» dimentica che il fato non è una forza che determina in assoluto gli esiti delle azioni, ma che determina tramite l’uomo agente l’esito dell’azione. Ogni atto è quindi «confatale» al suo risultato.
Una seconda obiezione è molto più complessa. Essa riguarda la fondazione logica dell’idea di fato e venne espressa da un logico della scuola megarica, Diodoro Crono, sotto forma del cosiddetto «ragiona-mento dominatore» (kyriéuon lógos), così chiamato evidentemente perché ritenuto inoppugnabile. In esso si parte dalla costatazione che tre propo-sizioni sono incompatibili:
Il «ragionamento dominatore» sembra che sia stato investigato partendo da alcuni presupposti. C’è infatti conflitto reciproco tra queste tre proposizioni: (a) «tutto ciò che è veramente avvenuto è necessario», (b) «al possibile non segue l’impossibile», (c) «c’è del possibile che né è vero né lo sarà». Osservando questo conflitto, Diodoro si servì della credibilità delle prime due per stabilire che «non c’è nulla di possibile che né è vero né lo sarà» (SVF II.283).
L’esatto motivo della incompatibilità delle tre proposizioni non viene esplicitamente indicato, ma può essere ricostruito così: immaginia-mo che lunedì è possibile che il giorno dopo piova, e martedì di fatto non piova (proposizione c); mercoledì si potrà affermare che martedì ha neces-sariamente piovuto, in quanto il passato non può essere cambiato (propo-sizione a); ma allora lunedì era possibile che martedì accadesse una cosa impossibile: e questa conclusione è contro la proposizione b. Come riferi-sce la testimonianza, Diodoro risolse la contraddizione negando la propo-sizione c, affermando cioè che solo ciò che poi effettivamente avviene è «possibile». Ma in questo modo il concetto di possibilità viene di fatto vanificato, negando contemporaneamente uno dei presupposti dell’e¬tica: il fatto che l’uomo abbia la capacità, tramite il logos, di non assentire ad impulsi che giudica irrazionali, ma ai quali potrebbe assentire.
La medesima testimonianza che riferisce il «discorso dominatore» ci informa anche sul modo in cui gli stoici lo respinsero. In perfetto ac-cordo con le premesse di Diodoro, per reintrodurre l’idea di possibilità era sufficiente negare l’una o l’altra delle due premesse:
Del resto uno potrebbe conservare le due affermazioni: «c’è del possibile che né è vero né lo sarà», «al possibile non segue l’impossibile», ma: «non tutto ciò che è ve-ramente avvenuto è necessario», così come sembrano aver ritenuto Cleante e i suoi di-scepoli, coi quali per lo più concordò Antipatro. Ma altri [Crisippo e i suoi discepoli] conserveranno le altre due: «c’è del possibile che né è vero né lo sarà», «tutto ciò che è veramente avvenuto è necessario», ma: «al possibile segue l’impossibile». Ma non c’è modo di conservare tutte e tre le proposizioni, perché prese assieme si contraddicono (SVF II.283).
La soluzione di Cleante è più facile da intendere: essa sostiene che il fatto che qualcosa sia avvenuto non la rende affatto più necessaria di quanto fosse prima (curiosamente, si tratta di un argomento sviluppato in questi identici termini da Kierkegaard nelle sue Briciole di filosofia). La so-luzione di Crisippo suppone osservazioni più complesse: essa può proba-bilmente essere interpretata nel senso che la catena delle cause effettua tra-sformazioni tali da rendere effettivamente non possibile qualcosa che pri-ma non lo era. L’esempio di Crisippo era l’implicazione «Se Dione è mor-to, egli è morto»: essa è evidentemente corretta, ma mentre la premessa è possibile, la conseguenza non lo è perché in caso di morte non ci sarà più un «egli» di cui dire che è morto (SVF II.202).
4.5 Preferiti e convenienti
Dopo che il logos è intervenuto ad universalizzare l’originario istin¬to di conservazione, continua quest’ultimo a svolgere un qualche ruo-lo nella moralità? Si tratta di una questione molto delicata nel sistema stoico, soprattutto perché essa viene a toccare aspetti molto rilevanti della vita quotidiana, che sono per lo più determinati non da esplicite scelte ra-zionali, ma piuttosto da tendenze innate. La soluzione stoica consiste da una parte nel considerare moralmente «indifferenti» (adiáphora) tutte le cose che sono oggetto di impulso naturale, dall’altra nel riconoscere che di esse alcune sono «preferibili» (proegména):
Dicono indifferente ciò che non incide né sulla felicità né sull’infelicità. Secon-do questo significato dicono indifferenti salute e malattia e tutte le cose corporee e la maggior parte delle cose esterne, perché non contribuiscono né alla felicità né all’infe-licità. Ciò di cui è possibile servirsi sia bene sia male sarebbe infatti indifferente: e della virtù ci si serve sempre bene, del vizio male, ma della salute e delle cose che riguardano il corpo è possibile servirsi ora bene ora male, e per questo sarebbero indifferenti.
Degli indifferenti dicono poi che alcuni sono preferiti, altri respinti, altri ancora né preferiti né respinti: e preferiti sono quelli che hanno sufficiente valore (axía), respinti quelli che hanno un sufficiente disvalore, mentre né da preferire né da respingere cose come lo stendere o piegare un dito e tutto ciò che vi somiglia. E vengono classificati tra i preferiti la salute, la forza, la bellezza, la ricchezza, la fama e simili, tra i respinti malat-tia, povertà, sofferenza e cose analoghe (SVF III.122).
Il «valore» dei preferiti consiste, come precisano altri testi, nell’essere conformi alla propria natura, come è rivelata nel primo impulso. Ciò non toglie che di essi è possibile un uso anche cattivo e che quindi non sono mai «beni». In caso di contrasto quindi tra un bene e un preferi-to, il sapiente non esiterà a scegliere il primo. Che cosa accade tuttavia quando si deve scegliere tra cose indif¬ferenti senza sapere quale di essa in futuro si riveli «buona», ovvero conforme al logos e al fato? Per risolvere tale problema, gli stoici intro¬dussero l’idea di una «scelta con riserva»:
Finché le cose avvenire mi sono ignote, di volta in volta sceglierò i mezzi più adatti per ottenere le cose conformi a natura: infatti lo stesso dio mi ha fatto capace di scegliere tali cose. Ma se ora sapessi che è stabilito dal fato che io mi ammali, dirigerei pure il mio impulso su ciò. E infatti il piede, se avesse la mente, avrebbe l’impulso ad in-fangarsi (SVF III.191).
Il senso dell’ultima osservazione è: se il piede potesse riflettere al-la sua funzione all’interno del corpo, capirebbe che può adempierla solo accettando di sporcarsi di fango; allo stesso modo, se ogni uomo cono-scesse perfettamente la sua funzione all’interno dell’universo, vor¬rebbe quelle cose, anche contrarie alla sua natura individuale (come la malattia), che tuttavia svolgono una funzione complessivamente positiva nell’uni-verso. In mancanza di una conoscenza perfetta del fato, l’uomo dunque non può fare altro che scegliere provvisoriamente le cose che la natura gli suggerisce, essendo però pronto ad accogliere come «bene» ciò che la provvidenza gli assegna. Da qui si comprende anche il ruolo che (special-mente nello stoicismo più tardo) svolgerà la riflessione sulla morte, l’unico evento futuro del quale si possa essere certi e quindi infallibilmente voluto dal fato.
In corrispondenza della divisione degli oggetti in «preferibili» e «buoni», un’analoga distinzione può essere tracciata tra le azioni:
Il tema del conveniente (kathékon) è conseguente al discorso sui preferiti. Il conveniente è definito «ciò che è conseguente alla vita e che una volta compiuto ha una giustificazione logica», il non conveniente in maniera opposta. Questo si estende anche agli animali privi di ragione, perché anch’essi compiono qualcosa conseguente alla propria natura; ma negli animali razionali così si specifica: «ciò che è conseguente alla condotta di vita». Dei convenienti alcuni li dicono «perfetti», e sono chiamati anche «azioni rette» (katorthómata). Azioni rette sono gli atti conformi a virtù, come essere saggi e agire giustamente. Ma non sono azioni rette quelle che non sono tali, che dun-que non vengono chiamate neppure convenienti perfetti, ma «medi», come sposarsi, fa-re ambasciate, dialogare e cose simili (SVF III.494).
Le parole per indicare le diverse azioni furono entrambe coniate dagli stoici. Il termine «conveniente» (kathékon) significa letteralmente «ciò che tocca» e venne usato per primo da Zenone; la traduzione latina officium, più vicina all’italiano «dovere», evidenzia il fatto che in questa categoria rientrano tutti i comportamenti che sono appropriati al proprio stato (di persona, di padre, di marito, di cittadino ecc.), e che quindi è giusto compiere finché non confliggano con un bene. Il termine «azione retta» (katórthoma, lat. actio recta) venne creato da Crisippo e significa «ciò che è perfettamente riuscito»: solo i sapienti possono dunque com-pierla, perché consapevoli del bene. La distinzione tra azioni convenienti e rette non risiede quindi necessariamente nel loro contenuto esterno, per-ché la rettitudine può essere conferita o tolta anche solo da una conside-razione razionale:
Spesso il dovere non viene compiuto conformemente al dovere e ciò che non è conveniente talvolta viene operato convenientemente. Per esempio, la restituzione di un deposito, quando non avviene in base ad un sano giudizio, ma per danneggiare chi ri-ceve o per evitare il rifiuto di un credito maggiore, è un’azione conveniente che non vie-ne compiuta in modo conforme al dovere. Ma che il medico non dica la verità al mala-to, quando abbia deciso di salassare o amputare o cauterizzare per il vantaggio del ma-lato, affinché prevedendo il dolore non fugga la cura o per la debolezza non vi rinun¬ci; oppure che il sapiente menta ai nemici per la salvezza della patria, nel timore che la ve-rità rafforzi le posizioni nemiche, è un’azione non conveniente che viene compiuta in modo doveroso (SVF III.513).
Tali considerazioni, se da una parte aprono la strada al concetto di «intenzione» che tanta parte avrà nelle storia dell’etica, dall’altra dànno an-che ragione dello spirito con il quale lo stoicismo riprese alcuni aspetti del cinismo che tanto scandalo dovevano suscitare presso i contemporanei e i posteri. I più citati e contestati sono l’«approvazione» dell’incesto e dell’antropofagia: gli stoici intendevano dire che in un contesto di assoluta sapienza (dunque in un’ipotetica «città dei saggi») anche atti naturalmente ripugnanti possono, almeno in alcune circostanze, avere la loro giustifica-zione razionale.
D’altra parte, non meraviglia che più tardi, soprattutto ad opera di Panezio, l’attenzione si concentrò proprio sulla dottrina dei convenienti, che è in grado di dare realistiche indicazioni di comportamento lasciando sullo sfondo l’ideale della perfetta e forse irraggiungibile razionalità. Fu questo stoicismo mitigato, coniugato con le esigenze della humanitas, che ebbe la maggiore influenza nella storia della cultura europea grazie alla dif-fusione operata da Cicerone e da Seneca.
Giovanni Salmeri
Una versione ipertestuale di questo documento è disponibile all’indirizzo http://mondodomani.org/mneme/s1st0.htm
Fonte: http://www.uniroma2.it/didattica/fi_mo/deposito/stoicismo
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Autore del testo: Giovanni Salmeri
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