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ELEMENTI DI ELETTROSTATICA
Introduzione
Tra tutti i tipi di forza che abbiamo incontrato in meccanica, solo la forza peso e quella di gravitazione universale derivano dalla proprietà delle masse di attirare altre masse. Tutte le altre forze, quella elastica, le reazioni vincolari, le forze di attrito, la tensione nelle funi, ecc., altro non sono che manifestazioni dell’interazione elettromagnetica.
Nella vita di tutti i giorni è però la forza peso quella di cui ci accorgiamo di più, non fosse altro per la fatica che bisogna fare per sollevare pesi, salire e scendere scale, ecc. Anche nell’antichità, del resto, l’esistenza di una proprietà non spiegabile in termini di forza gravitazionale era stata notata solo per il fatto che pezzi di ambra (electron in greco, da cui poi il nome di elettricità), strofinati con un panno, erano in grado di attirare minuscole particelle di foglie secche o di polvere. La forza di interazione tra l’ambra e le particelle attirate era sorprendentemente intensa, riusciva, infatti, a vincere la forza peso e ad accelerare verso l’alto le particelle di polvere.
La carica elettrica
Il fatto che le interazioni elettromagnetiche, pur essendo molto più intense delle forze di interazione gravitazionali, si pensi che la forza elettrostatica tra due protoni è 1040 volte più grande della loro interazione gravitazionale, siano rimaste nascoste, direi quasi soffocate, dalla forza peso, dipende da una misteriosa simmetria della natura: la carica esiste in due tipi diversi a cui convenzionalmente è stato attribuito il nome di positiva e negativa.
Al contrario quindi della massa, che è tutta dello stesso tipo e, per questo motivo, tutti i corpi che possiedono una massa si attirano l’uno con l’altro, la carica elettrica esiste in due forme diverse:
cariche dello stesso tipo si respingono, cariche di tipo diverso si attraggono. I corpi che contengono un’eguale quantità di carica dei due tipi, si dicono neutri, hanno una carica complessiva nulla e non subiscono, né esercitano, forze elettriche. Questa è la condizione normale dei corpi che ci circondano: essi contengono tanta carica positiva quanta negativa. È questa perfetta simmetria che nasconde i fenomeni elettrici.
La carica elettrica è una proprietà delle particelle che costituiscono gli atomi.
Con questo termine, si identificano i mattoni che costituiscono le molecole. Queste ultime rappresentano l’elemento indivisibile che conserva ancora tutte le proprietà della sostanza in esame. Molte sostanze hanno molecole costituite da singoli atomi. Come abbiamo già discusso, nel caso di alcune sostanze che alla temperatura ambiente sono solide, gli atomi sono organizzati in una struttura ordinata che costituisce il reticolo cristallino.
Dalla discussione sulla struttura atomica risulta che la carica elettrica è trasportata dalle particelle che costituiscono gli atomi in particolare dai protoni e dagli elettroni. Abbiamo anche visto che sia i protoni che gli elettroni trasportano la stessa carica ma di segno opposto:
carica elettrica elementare: e = 1.6·10-19C
Non è stata trovata finora alcuna particella avente una carica più piccola della carica dell’elettrone.
Quindi la carica elettrica è quantizzata, cioè ogni altra carica elettrica sarà un multiplo intero della carica dell’elettrone.
In un sistema isolato, la somma delle cariche positive e negative si mantiene costante. Tale enunciato esprime la legge di conservazione della carica elettrica
Fenomeni di elettrizzazione
Se gli atomi di un corpo acquistano o perdono elettroni, il corpo stesso risulta possedere rispettivamente un eccesso di cariche negative o di cariche positive e quindi risulta elettrizzato.
Un corpo si dice elettrizzato se al suo interno viene a mancare l'equilibrio tra elettroni e protoni, cioè tra cariche negative e cariche positive.
Un corpo può essere elettrizzato in vari modi:per strofinio, per contatto e per induzione.
Elettrizzazione per strofinio:
Certi corpi hanno la proprietà di elettrizzarsi se vengono strofinati con un panno di lana.
Questo metodo viene detto elettrizzazione per strofinio.
Strofinando con un panno di lana il vetro o materiale simile al vetro, in essi si manifesta elettricità positiva: durante lo strofinio si ha un trasferimento di elettroni dal vetro alla lana, perciò il vetro risulta elettrizzato positivamente mentre la lana negativamente.
Strofinando con un panno di lana l' ebanite o sostanze simili, in esse si manifesta elettricità negativa: in questo caso avviene il trasferimento di elettroni dalla lana all' ebanite, perciò quest’ultima risulta elettrizzata negativamente, mentre la lana positivamente
Elettrizzazione per contatto:
L' elettrizzazione per contatto consiste nell' elettrizzare un corpo neutro ponendolo a contatto con uno carico.
Se disponiamo di un oggetto elettricamente carico e lo portiamo a contatto con un corpo neutro attraverso la zona di contatto avviene il trasferimento di un certo numero di cariche elettriche dal primo corpo al secondo.
Poichè subito dopo il passaggio i due corpi presentano elettricità dello stesso segno, essi tenderanno a respingersi.
Elettrizzazione per induzione:
L'elettrizzazione per induzione consiste nel produrre una separazione di cariche in un corpo neutro avvicinando ad esso un corpo carico.
Se accostiamo una bacchetta di vetro, oppure una bacchetta di ebanite elettrizzate a dei pezzetti di carta, questi in entrambi i casi vengono attratti dalla bacchetta.
Questo fenomeno avviene perchè un corpo carico, cioè elettrizzato, è in grado di elettrizzare un corpo neutro, cioè di provocare in quest’ultimo una separazione di cariche per semplice avvicinamento, cioè senza che vi sia stato passaggio diretto di cariche nei due corpi.
Conduttori e isolanti
Rispetto alla capacità di trasportare le cariche elettriche, i materiali possono essere classificati in conduttori e isolanti.
Si chiamano conduttori le sostanze in cui le cariche si possono muovere liberamente, mentre si chiamano isolanti tutte le sostanze in cui le cariche non si possono muovere o si muovono con grande difficoltà.
Sono conduttori tutti i metalli, gli organismi viventi e la grafite; sono isolanti la plastica, il vetro e il legno. I conduttori non possono essere elettrizzati per strofinìo.
Ripetendo l' esperimento d' elettrizzazione per strofinìo con una forchetta metallica, invece che con l' ebanite, si osserva che i pezzettini di carta non vengono attratti.
Possiamo strofinare il metallo della forchetta con la lana quanto vogliamo, ma non sarà possibile esercitare nessuna forza verso la carta.
Questo accade perchè i metalli disperdono velocemente le cariche elettriche acquisite con lo strofinìo. Le cariche infatti si disperdono nel terreno, passando attraverso la mano, il braccio e il corpo di chi l'impugna. Si può ovviare a questo isolando il metallo con un manico di plastica, in questo caso sarà possibile elettrizzare per strofinio anche un metallo.
Nei conduttori gli elettroni sono liberi di muoversi. La causa del comportamento dei conduttori risiede nella struttura dei loro atomi. Gli elettroni non sono fortemente legati ai loro nuclei ma possono muoversi da un atomo all' altro. E' proprio il movimento libero degli elettroni a conferire ai conduttori la proprietà di trasportare l' elettricità.
Negli isolanti gli elettroni sono legati al loro nucleo e difficilmente possono spostarsi da un punto all' altro.
La legge di Coulomb
La forza di attrazione o di repulsione tra due corpi puntiformi carichi elettricamente è direttamente proporzionale al prodotto delle cariche possedute dai due corpi e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza.
k0 = 9·109 N·m2/C2 Calcolata ne vuoto.
In generale si è portati ad utilizzare un’altra costante, detta costante dielettrica del mezzo considerato: e = 1/4·p·k
mentre con e0 = 1/4·p·k0 si indica la costante dielettrica nel vuoto
er = e / e0 si indica la costante dielettrica relativa ed è sempre maggiore di 1.
e0= 8,85·10-12 C2/N·m2
e = e0·er
Campo elettrico
La forza di Coulomb è una forza che agisce a distanza: non è richiesto il contatto tra le due cariche perché esse interagiscano.
Il fatto che la forza di Coulomb debba soddisfare la terza legge di Newton anche quando le distanze tra le cariche sono grandi, porta al seguente interrogativo: come è possibile che le due forze di azione e reazione siano, nello stesso istante, uguali ed opposte, se noi sappiamo che la massima velocità con cui si riesce a far viaggiare l’informazione da un punto ad un altro dello spazio è la velocità della luce, che è una velocità molto grande ma comunque finita?
Si supera questa difficoltà concettuale introducendo il concetto di campo.
Supponiamo sempre di avere la carica q1 nell’origine del sistema di riferimento. La sua presenza assegnerà a tutti i punti dello spazio (vuoto) una proprietà: ogni punto è caratterizzato dalla forza che risente la carica unitaria posta in quel punto. Così quando ad un certo istante noi andiamo a mettere la carica q nella posizione individuata dal vettore posizione r, non sarà necessario sapere, per valutare la forza che agisce sulla carica q, se in quello stesso istante la carica q1 si trovi ancora nell’origine, ma basterà conoscere il valore del campo elettrico in quell’istante nella posizione in cui andiamo a mettere la carica q, e moltiplicare il suo valore per quello della carica q. La forza dipenderà quindi dalle proprietà locali del campo e non già dall’effettiva posizione in
quell’istante della carica q1.
L’introduzione del concetto di campo aiuta anche ad inquadrare correttamente la terza legge di Newton con la velocità finita della luce.
Supponiamo infatti che la carica q1 si sia spostata molto rapidamente dall’origine in una nuova posizione. A seguito di questo spostamento occorrerà correggere tutti i valori del campo
elettrico in tutti i punti dello spazio, in quanto sono cambiati, a causa dello spostamento della carica, sia la direzione sia il modulo del campo elettrico in tutti i punti dello spazio. Questa correzione
non viene effettuata nello stesso istante per tutti i punti dello spazio, ma gradatamente.
Infatti, nel momento in cui è avvenuto lo spostamento della carica q1, parte l’informazione che si diffonderà in tutte le direzioni con velocità della luce c. Una volta trascorso un intervallo di tempo Dt, l’informazione avrà raggiunto una distanza dalla nuova posizione della carica q1 pari a cDt.
Tutti i punti che si trovano ad una distanza più piccola di cDt, saranno stati raggiunti dall’informazione e, quindi, il valore del campo elettrico sarà stato aggiornato per tener conto della nuova posizione della carica, mentre i punti più distanti, non ancora raggiunti dall’informazione, si comporteranno come se la carica q1 fosse ancora nell’origine del sistema di riferimento. Naturalmente l’effetto sulla carica q, quando occupa una ben determinata posizione dello spazio, dipenderà dal valore locale del campo elettrico. Si intuisce da questo esempio che il campo elettrico acquista una sua personalità e, si può aggiungere, quasi una indipendenza dalle cariche che lo hanno
generato. Quello che a noi interessa è sapere qual è il valore del campo elettrico in una certa posizione e non la distribuzione delle cariche che lo ha generato: questo è sufficiente per determinare gli effetti su una qualsiasi carica che andiamo a mettere in quella posizione.
Il vettore campo elettrico E, generato da una carica Q, in un punto P, è uguale al rapporto tra la forza elettrica che agisce su una carica di prova q, positiva, posta nel punto P, e la carica di prova stessa.
=
Condensatori
Differenza di potenziale
Supponiamo di avere un campo elettrico uniforme. In tal caso la forza elettrica F = q · E è la stessa in tutti i punti del campo. Di conseguenza, se vogliamo calcolare il lavoro necessario per spostare una carica elettrica da un punto all'altro del campo dobbiamo applicare la formula del lavoro di una forza costante: L = F · s = q E s, dove E è l'intensità del campo elettrico uniforme, q la carica che vogliamo spostare ed s il suo spostamento.
Se il campo elettrico è creato da una carica puntiforme il campo elettrico non è uniforme, ciò nonostante possiamo definire il concetto di lavoro L necessario per spostare una carica tra due punti del campo. Si può poi definire un'altra grandezza fisica che gioca un ruolo importantissimo in elettromagnetismo e che va sotto il nome di differenza di potenziale. La differenza di potenziale (d.d.p.) VA - VB fra due punti A e B si definisce come il rapporto tra il lavoro LAB necessario per spostare la carica tra i due punti A e B e la carica stessa q. Dunque VA - VB = LAB / q. L'unità di misura della d.d.p. nel Sistema Internazionale prende il nome di volt (simbolo V). Dal momento che nel Sistema Internazionale il lavoro si misura in joule (J) e la carica elettrica in coulomb (C) avremo: 1 V = 1 J / 1 C.
Ora, ricordiamoci che il lavoro che bisognava fare su una massa m per vincere il campo gravitazionale e portarla ad una certa altezza h rimaneva immagazzinato nella carica sotto forma di energia potenziale gravitazionale Ep = m · g · h. Qualcosa di analogo avviene nel caso del campo elettrico. Supponiamo di considerare due piastre, una carica positivamente e l'altra carica negativamente. Tra le due piastre si crea un campo elettrico uniforme.
Per portare una carica positiva a una certa distanza dalla piastra negativa è necessario compiere un lavoro per vincere la forza elettrica L = q · E · s. Questo lavoro rimane immagazzinato sotto forma di energia potenziale elettrica. Se lasciamo la carica libera di muoversi, essa comincia a muoversi verso la piastra negativa convertendo progressivamente la sua energia potenziale elettrica in energia cinetica. In questo caso particolare la differenza di potenziale tra il punto in cui si trova la carica q e la piastra carica negativamente è data da: VA - VB = LAB / q = q E s / q = E s.
La differenza di potenziale consente di introdurre anche un'altra unità di misura per l'energia che viene spesso utilizzata dai fisici: l'elettronvolt (simbolo eV). Siccome dalla definizione di potenziale abbiamo che LAB = q (VA -VB) definiremo 1 eV come l'energia necessaria per spostare la carica di un elettrone tra due punti fra i quali vi è una d.d.p. di 1 V. Siccome la carica di un elettrone vale q = - 1.6 · 10-19 C avremo che 1 eV = 1.6 · 10-19 J.
Nei metalli sono presenti uno o due elettroni per atomo nei livelli più esterni. Questi elettroni sono poco legati ai rispettivi atomi e pertanto sono dotati di una grande mobilità. Quando inseriamo un filo di materiale conduttore in un circuito elettrico, ossia quando colleghiamo il filo ai due capi di un generatore, ad esempio una pila, gli elettroni più esterni, carichi negativamente, si dirigono verso il polo positivo generando in questo modo una grande quantità di cariche in movimento: ha così origine una corrente elettrica.
In particolare, si definisce corrente i il rapporto tra la quantità di carica elettrica Q che passa attraverso una sezione unitaria del circuito, e l'intervallo di tempo Δt in cui questo passaggio avviene: i = Q / Δt. L'unità di misura della corrente nel Sistema Internazionale è l'ampere. Dal momento che la carica Q si misura in coulomb e il tempo in secondi avremo che 1 A = 1 C / 1 s. Per convenzione il verso della corrente coincide con quello in cui si muovono le cariche positive, quindi dal polo positivo al polo negativo del generatore. Quindi il verso della corrente non coincide con il verso del moto degli elettroni.
Per misurare la corrente si usa uno strumento detto amperometro che va inserito in serie con l'utilizzatore X come nella figura di sinistra. Per misurare la differenza di potenziale presente tra due punti, ad esempio ai capi dell'utilizzatore X, dobbiamo usare uno strumento detto voltmetro e inserirlo in parallelo all'utilizzatore X come nella figura di destra:
In generale, il ruolo del generatore è quello di mantenere in moto le cariche elettriche all'interno del circuito elettrico fornendo loro l'energia necessaria. Ai capi di ogni utilizzatore ci ritroviamo poi parte di questa differenza di potenziale.
Abbiamo visto nella precedente sezione che la differenza di potenziale ΔV fornita dal generatore mette in movimento le cariche elettriche in un circuito dando origine a una corrente elettrica i. A parità di differenza di potenziale applicata, la corrente i che passa in un circuito dipende dalle caratteristiche del materiale conduttore che si è utilizzato. Ogni conduttore manifesta infatti una certa resistenza al passaggio della corrente, dovuta agli urti tra le cariche degli elettroni in movimento all'interno del conduttore e gli atomi delle impurità presenti nel circuito.
In termini matematici si definisce resistenza R di un conduttore il rapporto tra la differenza di potenziale ΔV applicata e l'intensità di corrente i, ossia R = ΔV / i. Dal momento che la corrente i compare al denominatore abbiamo che in un conduttore con grande resistenza R circola una piccola corrente i, viceversa un conduttore con piccola resistenza R è caratterizzato da elevate correnti i. L'unità di misura della resistenza è l'ohm (simbolo Ω, omega maiuscola): 1 Ω = 1 V / 1 A.
In generale, all'aumentare della differenza di potenziale ΔV aumenta anche la corrente i ma ci sono varie possibili relazioni tra i e ΔV a seconda del conduttore che prendiamo in considerazione. C'è però una categoria importante, costituita dai conduttori metallici, per i quali possiamo dire qualcosa di più. Infatti per i conduttori metallici vale la prima legge di Ohm, ossia la differenza di potenziale ΔV ai capi di un conduttore e la corrente i che vi circola sono direttamente proporzionali: ΔV = R · i e la resistenza R è la costante di proporzionalità. La curva caratteristica risulta pertanto una semiretta passante per l'origine:
Dunque se misuriamo con un voltmetro la differenza di potenziale ΔV e con un amperometro la corrente i scopriamo che in un metallo il rapporto R = ΔV / i è costante. Nei conduttori metallici la resistenza non dipende dalla differenza di potenziale ΔV che applichiamo al conduttore.
Da cosa dipende allora la resistenza in un conduttore metallico? La risposta è data dalla seconda legge di Ohm. La resistenza R in un conduttore metallico dipende dal materiale di cui è fatto il filo, dalla sua lunghezza l e dalla sua sezione A. Più precisamente, R = ρ l / A, ossia la resistenza è direttamente proporzionale alla lunghezza l del filo e inversamente proporzionale all'area A della sezione. La costante di proporzionalità ρ (simbolo che corrisponde alla lettera greca ro) dipende dal tipo di metallo che prendiamo in considerazione e va sotto il nome di resistività. Nella seguente tabella riportiamo la resistività di alcuni metalli comuni:
Metallo |
Rame |
Argento |
Acciaio |
Alluminio |
ρ (Ω · m) |
1.7 · 10-8 |
1.6 · 10-8 |
2 · 10-7 |
2.8 · 10-8 |
Resistività piccola vuol dire piccola resistenza, ossia buona capacità di condurre elettricità. Dal momento che ρ = R · A / l, l'unità di misura della resistività nel Sistema Internazionale è l'ohm per metro (&Omega · m).
Ricordiamo che la potenza assorbita da un utilizzatore è data dalla formula P = ΔV · i. Se il conduttore soddisfa la prima legge di Ohm ΔV = R · i con R costante. In questo caso possiamo perciò riscrivere la potenza assorbita dal conduttore come P = R · i2. Questa formula gioca un ruolo importante nell'effetto Joule che andremo ora a illustrare.
Nel corso delle nostre lezioni di fisica abbiamo più volte parlato di energia. Finora abbiamo introdotto tre diverse forme di energia: l'energia meccanica o lavoro che può a sua volta essere presente sotto forma di energia cinetica, energia potenziale gravitazionale ed energia potenziale elastica. Abbiamo poi introdotto l'energia termica o calore e infine l'energia elettrica. Abbiamo più volte detto che l'energia non si crea e non si distrugge ma si può trasformare da una forma all'altra. L'effetto Joule descrive la trasformazione di energia elettrica in energia termica, ossia in calore.
Se avviciniamo una mano a una lampadina accesa sentiamo del calore, perché la corrente elettrica passando attraverso il filo di tungsteno incontra una certa resistenza R al suo passaggio. La resistenza gioca nei fenomeni elettrici il ruolo dell'attrito, nel senso che ostacola il passaggio delle cariche elettriche. L'energia elettrica che viene convertita in calore per effetto Joule è data dalla seguente formula: Q = P · Δt = ΔV · i · Δt = R · i2 · Δt. Questa legge prende anche il nome di legge di Joule.
Moltissimi sono gli elettrodomestici che si basano sull'applicazione dell'effetto Joule: dalla lavatrice allo scaldabagno, dalla stufa elettrica alla piastra metallica, dal fornelletto all'asciugacapelli al tostapane. Tutti questi elettrodomestici assorbono energia elettrica per convertirla in calore tramite l'effetto Joule. Ricordiamo ora che il calore che forniamo a una certa sostanza di calore specifico c comporta un aumento di temperatura ΔT regolato dalla legge fondamentale della termologia: Q = c m ΔT. Uguagliando questa espressione al calore prodotto per effetto Joule: c m ΔT = R i2 Δt possiamo ad esempio ricavarci l'aumento di temperatura ΔT dell'acqua dello scaldabagno.
Nella precedente sezione abbiamo visto che ogni conduttore è caratterizzato da una sua resistenza R. Le resistenze (o, più precisamente, i resistori) sono il secondo utilizzatore che entra nei circuiti elettrici, a fianco dei condensatori. Il simbolo con cui si indica una resistenza in un circuito è . Come i condensatori, anche le resistenze possono essere collegate tra loro in serie o in parallelo. In questa sezione cominciamo ad analizzare il collegamento di due resistenze in parallelo.
Per poter analizzare il collegamento di resistenze in parallelo dobbiamo preliminarmente enunciare il primo principio di Kirchoff. Consideriamo un nodo di un circuito, ossia un punto nel quale convergono più conduttori, come nella figura sottostante.
Il primo principio di Kirchoff afferma che la somma delle correnti che entrano in un nodo è uguale alla somma delle correnti che escono dal nodo: i1 + i2 = i3 + i4 + i5. Il primo principio di Kirchoff è una diretta conseguenza del principio di conservazione della carica elettrica, in base al quale in un certo intervallo di tempo la carica elettrica che entra in un nodo del circuito deve essere uguale alla carica elettrica che esce.
Abbiamo ora tutti gli elementi per studiare il collegamento dei conduttori in parallelo. Supponiamo di avere due resistenze collegate in parallelo come nella figura seguente:
Applicando il primo principio di Kirchoff abbiamo che la corrente i che entra nel nodo è uguale alla somma delle correnti che ne escono: i = i1 + i2. Si definisce resistenza equivalente quella resistenza che, sostituita al posto delle due resistenze in parallelo, produce nel circuito elettrico lo stesso effetto. Per trovare la resistenza equivalente è importante notare come la differenza di potenziale ai capi delle due resistenze in parallelo è la stessa ed è uguale alla differenza di potenziale ΔV fornita dal generatore. Applicando il primo principio di Kirchoff possiamo andare a calcolarci l'inverso della resistenza equivalente: 1 / Re = i / ΔV = (i1 + i2) / ΔV = i1 / ΔV + i2 / ΔV = 1 / R1 + 1 / R2. Dunque se le resistenze sono collegate in parallelo si sommano gli inversi delle resistenze. La potenza assorbita è invece uguale alla somma delle potenze assorbite: P = i · ΔV = (i1 + i2) ΔV = P1 + P2.
L'importanza del collegamento in parallelo sta nel fatto che il circuito elettrico presente nelle nostre case è un circuito in parallelo: quando accendiamo un elettrodomestico andiamo ad aggiungere una resistenza in parallelo, la resistenza equivalente del circuito diminuisce e in questo modo viene assorbita una quantità maggiore di corrente.
In questa sezione vogliamo trovare la resistenza equivalente nel caso di due conduttori collegati in serie, come nella figura seguente
Se colleghiamo due resistenze in serie è l'intensità di corrente ad essere la stessa in tutte le resistenze. La differenza di potenziale (o tensione) fornita dal generatore ΔV si ritrova invece in parte ai capi della prima resistenza ΔV1 e in parte ai capi della seconda resistenza ΔV2. Avremo perciò: ΔV = ΔV1 + ΔV2. La resistenza equivalente Re è data da: Re = ΔV / i = ΔV1 / i + ΔV2 / i = R1 + R2. Dunque nel collegamento in serie le resistenze si sommano.
Anche le potenze assorbite si sommano nel collegamento di resistenze in serie. Infatti la potenza assorbita è data da: P = i · ΔV = i · (ΔV1 + ΔV2) = P1 + P2.
Ora che abbiamo introdotto il collegamento in serie e in parallelo delle resistenze possiamo spendere qualche parola in più sugli amperometri e i voltmetri. Abbiamo già detto che gli amperometri vanno inseriti in serie mentre i voltmetri vanno inseriti in parallelo, come nella figura seguente:
Ora sia l'amperometro che il voltmetro sono dotati di una loro resistenza interna. Cerchiamo di capire come devono essere tali resistenze interne per non interferire con la misura. Cominciamo dal caso dell'amperometro: essendo inserito in serie, la resistenza equivalente è Re = R + r. Affinché la resistenza equivalente non si discosti di molto dalla resistenza R è necessario che la resistenza interna dell'amperometro risulti essere piccola, in modo che Re ≈ R.
Diverso è invece il discorso relativo al voltmetro. Infatti affinché il voltmetro non assorba troppa corrente del circuito è necessario che la resistenza interna del voltmetro sia il più grande possibile. Un altro modo per rendersi conto di ciò è quello di considerare la formula per la resistenza equivalente quando il collegamento è in parallelo: 1 / Re = 1 / R + 1 / r. Affinché la resistenza interna del voltmetro contribuisca il meno possibile alla resistenza equivalente bisogna fare in modo che 1 / r ≈ 0. L'inverso di r è prossimo a zero solo quando la resistenza interna r, che compare al denominatore, è un numero molto grande.
Fonte: http://digilander.libero.it/quantum2008/APPUNTI/Nuova_cartella/Elettrostatica_e_corrente_elettrica.doc
Sito web da visitare: http://digilander.libero.it/quantum2008
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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