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L'indipendenza improvvisa delle cinque repubbliche centrasiatiche (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan) in seguito allo scioglimento dell’Unione Sovietica ha significato un completo sconvolgimento della situazione geopolitica in Asia centrale.
L’Asia centrale è forse la parte del continente eurasiatico meno conosciuta ed è una parte di Asia che trova la sua identità nell’incrocio e nell’intersezione di due grandi civiltà: la civiltà nomade turco-mongola e la civiltà urbana persiana delle oasi, l’Asia Centrale rappresenta tuttora questa unione, il punto di contatto tra queste due realtà.
La cerniera geopolitica che collega perfettamente questi due mondi è l’attuale Repubblica dell’Uzbekistan. Vero e proprio cuore non solo geopolitico, ma anche economico, culturale e storico di tutta l’area centrasiatica, l’Uzbekistan, nella figura autoritaria e carismatica del suo presidente Islam Karimov, esercita il ruolo di vero e proprio leader dell’area.
In particolare, la regione della grande area centrasiatica che rappresenta, la zona geopoliticamente più calda è la valle del Fergana. Attualmente divisa tra Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan, questa valle costituisce, in un certo modo, il fulcro della geopolitica centrasiatica.
La grande fertilità della sua terra, la grande prosperità del suo sottosuolo, caratteristiche estremamente insolite per il paesaggio centrasiatico, e il grande senso identitario e religioso, hanno reso la valle zona di antiche lotte per la gestione del territorio, portando questa Macedonia Centrasiatica ed il suo Regionalismo culturale a diventare, nel corso del XX secolo, il centro della rivalità geopolitica tra l’ideologia sovietica e l’identità islamica centrasiatica.
Attraverso questo seminario si vuole presentare un’analisi dell’evoluzione dei fatti che hanno portato l’attuale situazione geopolitica dell’area.
Partiremo, nelle lezioni introduttive, con una breve presentazione dell’area dal punto di vista fisico-geografico, con un breve accenno alla storia della regione. Affronteremo il tema della spartizione territoriale degli anni ’20 dell’area centrasiatica, con uno sguardo in particolare alle divisioni della valle del Fergana, parleremo della diversità dei territori centrasiatici e del significato di confine in Asia centrale, fino ad arrivare alla nascita dell’attuale situazione geopolitica delle cinque repubbliche centrasiatiche.
Nella seconda parte del seminario ci concentreremo sul fenomeno Fergana, ripartendo dalle divisioni territoriali che la valle ha subito dalla politica staliniana, con una particolare attenzione alle enclave della valle, passando alle problematiche ideologiche degli anni ’50 legate al dualismo sovietizzazione/islamizzazione, arrivando all’attuale situazione della valle, dove il forte senso geo-identitario della valle continua a scontrarsi con le autoritarie politiche nazionalistiche dei tre stati che se la spartiscono, in particolar modo con il governo uzbeco.
GEOGRAFIA FISICA
La regione conosciuta come Asia Centrale o “Turkestan” occidentale , oltre ad essere il cuore del continente eurasiatico, è anche una vasta area costituita da steppe, deserti e da un intreccio di catene montuose che caratterizza il confine orientale della regione: partendo dalla Siberia, si passa per le catene montuose del Tjan Shan e del Pamir, fino ad arrivare all’Hindu Kush, che costituisce il suo limite sud-orientale.
Gli elementi geografici più importanti dell’area, oltre alle catene montuose, sono: il Mar Caspio, vasto bacino chiuso che si allunga da nord a sud costituendo un importante confine naturale tra Europa e Asia, le cui acque sono toccate a est da Kazakistan e Turkmenistan, e il Lago d’Aral, bacino lacustre salato, diviso tra il Kazakistan a nord e l’Uzbekistan a sud, scenario di uno dei disastri ambientali più gravi dell’ultimo secolo. I due deserti più importanti sono il Kyzylkum, “delle sabbie rosse”, che si estende soprattutto nel territorio dell’Uzbekistan, e il Karakum, “delle sabbie nere”, che invece occupa la maggior parte del Turkmenistan.
La valle del Fergana è sicuramente una delle zone più suggestive della regione: divisa tra Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan, rappresenta la “culla” delle civiltà centrasiatica. Per la sua favorevole struttura morfologica e l’abbondanza di acque la valle è stata scenario di antica colonizzazione: progressivamente vi hanno avuto il sopravvento popoli di stirpe turca, persiana, araba, cinese, mongola ed altaica e tutt’oggi rappresenta la zona più etnicamente composita dell’intera regione.
Carta fisico-politica dell’Asia Centrale
La valle del Fergana
Gli ultimi due elementi geografici importanti dell’area sono le “arterie” dell’Asia Centrale, i fiumi Amu-Darya e Syr-Darya. Il primo, anticamente chiamato Oxus, da cui deriva l’antico nome della parte sud-orientale della regione Transoxiana, ha origine nell’altopiano del Pamir, segna il confine tra Tagikistan ed Afghanistan, quindi piega verso nord-ovest segnando il confine tra Turkmenistan ed Uzbekistan ed infine sfocia nel Lago d’Aral. Il Syr-Darya invece, meno lungo e con un bacino idrografico più ridotto, nasce nella valle del Fergana e dopo un breve tratto in Uzbekistan e Tagikistan, entra in Kazakistan attraversandolo da est ad ovest fino a sfociare anch’esso nel Lago d’Aral.
CENNI STORICI
L’Asia Centrale abbraccia cinque delle quindici repubbliche ex sovietiche: Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan.
Solo fino a qualche anno fa questa regione, a causa della politica isolazionista dell’Unione Sovietica, era pressoché sconosciuta al mondo esterno e ancora oggi, la maggior parte degli occidentali ignora la sua importanza storico-politica.
La ragione della ricchezza storica dell’Asia Centrale è di natura geografica: il suo immenso territorio si trova nel cuore del continente eurasiatico e sin dai tempi antichi era considerato il centro del mondo, poiché collegava l’Europa alla Cina per mezzo delle rotte commerciali conosciute con il nome collettivo di Via della Seta.
La storia a noi pervenuta dell’Asia Centrale inizia subito con la rivalità tra popoli persiani a sud e tribù altaiche a nord, che si contendevano la regione. Nel 500 A.C. circa Dario I aggiunse all’impero persiano il territorio della Transoxania (gli odierni Uzbekistan e Turkmenistan), ma venne cacciato dalle popolazioni altaiche della Mongolia, che vennero chiamate “turciche” dai cinesi e che in seguito diedero il nome di Turkestan, “terra dei turchini”, alla regione.
Impero Persiano ai tempi di Dario I, nel V secolo A.C.
I persiani ripresero il potere, ma nel III secolo A.C. caddero vittime di Alessandro Magno che conquistò la Bactriana e la Sogdiana (odierni Uzbekistan, Tagikistan ed Afghanistan).
Impero di Alessandro Magno nel III secolo A.C.
Nei secoli successivi la regione fu vittima di ripetute incursioni di tribù altaiche provenienti dalla Mongolia e dalla Siberia fino al 650 D.C. circa, quando arrivarono gli arabi portando con sé una nuova fede: l’Islam.
Gli arabi riuscirono a consolidare la loro religione in questa regione ma non posero basi politiche rilevanti, creando solo regni musulmani confinati in città-oasi come Buchara o Samarcanda (oggi tra le maggiori città uzbeche).
Il XIII secolo D.C. vide la nascita di quello che all’epoca fu l’impero più grande del mondo e che nella storia rimase secondo solo a quello britannico: l’impero mongolo, di cui l’Asia Centrale faceva parte. Nel 1206 Temujin, che aveva conquistato gran parte del territorio della Mongolia ed era riuscito a riunire sotto il suo comando tutte le tribù nomadi della zona, fu proclamato Gran Khan dei mongoli con il nome di Gengis Khan, “Signore dell’Oceano”.
Stabilita a Karakorum la capitale del regno e potenziato l’esercito, egli mosse alla conquista dell’Asia, sottomettendo rapidamente gli stati dell'Asia centrale, frammentati e poco organizzati militarmente, invadendo gran parte dell'impero cinese dei Ch'in; conquistò poi i sultanati arabi e turchi del Medio Oriente, costituendo così un vasto impero che andava dal mar della Cina al fiume Dnepr, dal golfo Persico sin quasi al Mar Glaciale Artico.
Riunita tutta l’Asia continentale, Gengis Khan consolidò il suo ruolo di "re per diritto divino" imponendo a tutti i sudditi il Grande Yasa, un codice di leggi che costituì la base sulla quale venne costruito il solido edificio dell'impero mongolo, sviluppò la Via della Seta che negli anni era stata devastata dalle varie invasioni, creò i caravanserragli, stazioni di servizio lungo le vie commerciali, e anche il primo servizio postale moderno dell’Asia continentale.
Nell’impero di Temujin c’era la piena libertà di espressione religiosa e iniziò quella che fu definita la Pax Mongolica, grazie alla quale, come diceva la leggenda, una vergine poteva viaggiare da Istanbul a Pechino su di un carro pieno d’oro e non essere neanche sfiorata. Alla morte di Gengis Khan, nel 1227, l'impero venne diviso tra i figli maschi; il titolo di Gran Khan fu assegnato al terzogenito, Ogodai Khan, cui spettò anche il dominio diretto su Mongolia, Manciuria, Corea, Tibet, parte della Cina e dell’Indocina; l’Asia Centrale fu assegnata al secondogenito Chagatai Khan i cui discendenti divisero la regione in due Khanati: la Transoxania a Ponente e il Turkistan a Levante.
Impero mongolo al massimo della sua espansione, metà del XIII secolo D.C.
Altro grande personaggio storico della regione è stato Timur lo zoppo, detto Tamerlano, militare turco originario di Sachri Sabz, un piccolo villaggio nei pressi di Samarcanda, nella Transoxania, che tra il 1364 e il 1370 conquistò l’intera sua regione natale creando il primo impero indigeno dell’Asia Centrale, dando vita alla dinastia dei Timuridi.
Impero di Tamerlano alla metà del XIV secolo
Nel 1500 D.C. ebbe inizio l’ultimo grande impero nomade dell’Asia Centrale, quello della tribù degli Shaybani che, facendo risalire la loro genealogia a Uzbek Khan, nipote di Gengis Khan, sconfissero i Timuridi e spostarono la capitale da Samarcanda a Buchara. Sotto la dinastia degli Shaybani fiorì la letteratura altaica, che si sovrappose a quella persiana, creando quegli idiomi e quelle culture che in seguito verranno dette uralo-altaiche o turco-mongole, perfetta commistione delle eredità lasciate dai mongoli di Gengis Khan e dai turchi indigeni riportati in auge da Tamerlano.
Nel XVI secolo, con l’apertura di rotte commerciali marittime alternative alla Via della Seta che collegavano l’Europa all’Asia, l’impero shaybani e l’intera regione cominciarono a decadere. L’impero andò via via frammentandosi in piccoli feudi a base cittadina.
Nel XVII e XVIII secolo i feudi che emersero come i tre più importanti furono i Khanati di Khiva, Kokand e Buchara.
I tre Khanati di Khiva, Buchara e Kokand nel XVII secolo D.C.
In questa situazione di estrema instabilità politica era inevitabile che lo zar Pietro il Grande, mirando ad espandere il suo impero, mettesse gli occhi sull’Asia Centrale: nel 1715 invase la steppa kazaka. Quando, in seguito, i russi scoprirono le potenziali risorse della regione, principalmente minerarie e legate alla coltivazione del cotone, la spinta a conquistare l’area diventò irresistibile.
Espansione russa nell’Asia Centrale, XIX secolo.
Al tempo stesso la Russia osservava con apprensione la costante espansione dell’impero britannico nell’asia meridionale. Fu questa l’epoca del “Grande Gioco”, la formidabile lotta di potere tra Gran Bretagna e Russia per il controllo dell’Asia. L’Asia Centrale e l’Afghanistan divennero pedine per Russia e Gran Bretagna, nell’ambito di questo gioco strategico che aveva come posta il potenziamento dell’influenza dei due imperi sull’Asia. Alla fine del XIX secolo, per alleviare le tensioni, l’Afghanistan venne trasformato in stato-cuscinetto indipendente dai due contendenti.
I russi, dopo aver conquistato l’intera regione dell’Asia Centrale, intorno alla metà del XIX secolo formarono la provincia del Turkestan, con capitale Tashkent, che comprendeva le odierne cinque repubbliche ex-sovietiche ed era amministrata da un governatore nominato da Mosca.
Per controllare e prevenire eventuali rivolte locali particolarmente pericolose per l’impero, i russi attuarono la politica della “russificazione”, cominciarono cioè a colonizzare i territori del Turkestan con popolazioni di etnia russa e cosacca dedite soprattutto allo sviluppo delle piantagioni di cotone, piantagioni che hanno causato, con il passare degli anni, uno dei disastri ecologici più gravi del XX secolo: la lenta scomparsa del Lago d’Aral. I sovietici, scoperto il potenziale delle piantagioni di cotone, principalmente uzbeche, deviarono i corsi dei fiumi, soprattutto dell’Amu-Darja, per creare canali di irrigazione per le piantagioni, riducendo a meno della metà il bacino idrografico del fiume che arrivava al lago praticamente dimezzato. Col passare degli anni la diminuzione del flusso dell’acqua ha condotto ad un radicale prosciugamento del lago: tra il 1966 e il 1993 il suo livello si è abbassato di oltre 16 metri e le sue spiagge si sono ritirate di oltre 80 km, provocando uno squilibrio nel micro-clima dell’area.
Allo scoppio della Rivoluzione Russa nel 1917, le popolazioni centrasiatiche non mostrarono alcun interesse a far parte della nuova grande conformazione statale dell’Unione Sovietica, resisterono anzi con maggiore foga di altre regioni colonizzate dai russi alla sovietizzazione, grazie soprattutto ai Basmaci, “banditi”, i capi musulmani della lotta di resistenza.
All’inizio degli anni ‘20, i Basmaci perdevano lentamente terreno e la carta dell’Asia Centrale venne piano piano ridisegnata in maniera del tutto arbitraria: la regione fu suddivisa in cinque repubbliche, non dimostrando alcuna sensibilità ai confini etnici che la dividevano. Osh, per esempio, pur essendo una città di etnia uzbeca fu assegnata al Kirghizistan, e l’interesse esclusivo rispetto alla collocazione strategica di città importanti, condusse le città di Buchara e Samarcanda, importanti centri tagichi, ad essere assegnate all’Uzbekistan, in quanto stato dal potenziale maggiore rispetto a quello praticamente inesistente del Tagikistan.
Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (U.R.S.S.), in verde le cinque repubbliche centrasiatiche
L’ultimo cambiamento epocale nella storia politica di questa regione, dopo 62 anni di continuità istituzionale, avvenne nel dicembre del 1991, quando i presidenti delle cinque repubbliche centrasiatiche, dopo aver saputo che il presidente russo, quello ucraino e quello bielorusso si erano riuniti per porre fine all’Unione Sovietica e sostituirla con la Comunità di Stati Indipendenti (CSI), si incontrarono a loro volta ad Ashgabat, capitale del Turkmenistan. Essi decisero di trasformare i loro stati da repubbliche sovietiche a repubbliche indipendenti, e chiesero al presidente Eltsin di poter entrare a far parte anch’essi della Comunità.
I presidenti centrasiatici erano terrorizzati all’idea dell’indipendenza, visto che la loro sicurezza, la loro economia e i loro servizi sociali erano ormai da oltre un secolo intrecciati con quelli della Russia e non si ritenevano in grado di poter affrontare da soli le sfide del nuovo ordine mondiale e, soprattutto, le problematiche interne dei loro stati.
ISABELLA DAMIANI
IDENTITA’, CONFINI E NASCITA DI NAZIONI:
I TERRITORI DELL’ASIA CENTRALE
(in I Quaderni di Geografia, Università di Roma “Tor Vergata”, Marzo 2009)
L’obiettivo di questo articolo è spiegare il significato di alcuni termini, come territorio e confine, in riferimento a una delle aree geografiche forse meno conosciute: l’Asia centrale. Per comprendere meglio i territori ed i confini di questa parte di mondo, occorre però prima comprendere il significato stesso di questa espressione: Asia centrale.
Soggettività dell’aggettivo “centrale”. - Una delle domande più frequenti che divide e fa discutere gli studiosi dell’area è: “Quali sono i confini dell’Asia centrale? Che cosa è Asia Centrale?”
Si tratta di un concetto, proprio a causa dell’aggettivo centrale, facilmente adattabile a molte situazioni e territori, e per questo motivo ogni disciplina che si cimenta in questa area geografica, la geografia, l’antropologia, l’archeologia o la storia, utilizza questo termine in maniera soggettiva.
Ogni disciplina, dunque, assegna a questa espressione un significato differente. Per la geografia fisica, l’Asia centrale è una parte di Asia che ha limiti e confini ben definiti: Mar Caspio ad ovest, taiga siberiana a nord e catene montuose di Tjan Shan, Pamir e Hindu Kush a sudest (Annunziata, 1999). Per l’antropologia, che delimita l’area in maniera meno rigida, l’Asia centrale rappresenta quell’insieme di usi, costumi e culture che si possono ritrovare nelle sue popolazioni (Fathi, 2005). Indipendentemente dalla loro lontananza o da ostacoli fisici o politici, l’Asia centrale antropologica non guarda le carte o la storia o, meglio, guarda come le carte e la storia hanno influenzato le popolazioni, il loro modo di vivere; accomuna e studia bagagli culturali che per varie motivazioni hanno portato le popolazioni a dividersi politicamente o geograficamente, ma non culturalmente (Boria, 2007). L’Asia centrale è ancor più priva di confini per gli archeologi che, indistintamente, associano l’età del bronzo in uno scavo in Uzbekistan e in uno scavo in Iran, l’origine è la stessa, le pratiche e i riti sono i medesimi, l’Asia centrale parte da dove vengono ritrovate somiglianze al carbonio, non importano le montagne, i deserti o le evoluzioni politiche o culturali che li possano dividere: il sistema urbanistico dell’età del bronzo è lo stesso in Iran e nella valle dell’Amu-darya ed è questo che è Asia centrale, per gli archeologi. (Luneau, 2008).
Per gli storici Asia centrale è quello che viene accomunato dallo stesso passato, da qui la tendenza a parlare di Asia centrale storica riferendosi solamente alle odierne cinque repubbliche ex socialiste: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan.
Loro hanno una storia ed un passato comune, non hanno importanza le differenze linguistiche che ci possono essere tra le quattro repubbliche a maggioranza turcofona (Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan ed Uzbekistan) e l’unica con la maggioranza di origine indo-europea (il Tagikistan). Il passato prima zarista e poi sovietico è comune, ed è ciò che fa la differenza: il passato le rende Asia Centrale (Roy, 1997).
In realtà, Asia Centrale è un concetto che nasce da un insieme di fattori.
L’Asia Centrale è quel luogo fisico che trova i suoi confini e la sua omogeneità territoriale latitudinalmente tra il Caucaso e la Cina propriamente detta, longitudinalmente tra le steppe kazake e la catena montuosa dell’Hindu Kush (Jelen 2004); ed è l’incrocio tra due culture asiatiche completamente differenti. La prima è quella delle popolazioni di origine turco-mongola provenienti dalla regione del lago Bajkal, a nord dell’attuale Mongolia, popolazioni principalmente nomadi, caratteristiche ritrovabili oggi nelle popolazioni kazake, kirghize e turkmene. In realtà anche quelli che oggi chiamiamo uzbechi hanno origini turco-mongole, ma, con la crescita dell’urbanizzazione nelle zone meridionali, avendo trovato ricche oasi favorevoli alla sedentarizzazione nelle mesopotamiche terre tra il Syr-Darya e l’Amu-Darya, decisero di lasciare il nomadismo, costruendo società e culture sedentarie ed avvicinandosi di più alla seconda cultura centrasiatica (Allworth, 1998).
La seconda cultura è quella delle popolazioni sedentarie, di lingua e cultura indo-europea, eredità della presenza persiana nella regione, stanziate soprattutto nella zona sud-est dell’area centrasiatica: i tagichi. Il popolo che noi oggi chiamiamo tagichi, non è altro che il risultato etnico di secoli e secoli di colonizzazione. La prima fu da parte persiana: Dario I, nel V secolo A.C. estese il suo impero nella Transoxania (che vuol dire al di là dell’Oxus, antico nome dell’Amu-Darya) creando le province di Bactria (oggi regione afgana) e di Sogdiana (oggi regione divisa tra Tagikistan ed Uzbekistan); era la prima volta che un impero stanziale e “civile” occupava quelle terre da sempre considerate terre di nessuno. La seconda colonizzazione avvenne da parte macedone: Alessandro Magno, nel III secolo A.C., tolse ai persiani gran parte del loro territorio tra cui le due regioni centrasiatiche, sviluppando le loro potenzialità, soprattutto commerciali, ampliando quell’insieme di rotte carovaniere che sono passate alla storia col nome di Via della Seta di cui tutt’ora i tagichi rappresentano gli attori principali. Alessandro, inoltre, fondò in Asia centrale la sua ultima Alessandria, detta appunto l’Eskhate, l’ultima, oggi chiamata Khujand, importante città del Fergana tagico (Mohabatov, 1999).
L’Asia centrale rappresenta letteralmente l’incrocio di queste due culture asiatiche, la nomade dal nord e la sedentaria dal sud, l’espressione Asia centrale rappresenta, quindi, il risultato di questa unione.
Uzbekistan, il centro. - Come tutti gli incroci, anche questo ha un suo cuore, un centro nevralgico: il luogo che rappresenta più di qualunque altro questo mélange culturale è il territorio della Repubblica dell’Uzbekistan.
L’Uzbekistan, vera e propria cerniera geopolitica centrasiatica, è collocato al centro dell’area, è l’unico stato che confina con gli altri quattro ed è l’unico paese che ha solidi rapporti politico-commerciali con tutti e quattro i vicini. Rappresenta, inoltre, il paese più etnicamente e culturalmente variegato, all’interno del quale, oltre alla fiera e numerosa maggioranza uzbeca, troviamo numerose minoranze, come le popolazioni karakalpake e kazake ad ovest, che rappresentano la componente nomade, le oasi persiano-tagiche di Buchara e Samarcanda, la capitale Tashkent ancora molto legata all’eredità culturale russa e la valle del Fergana, cuore indiscusso dell’Uzbekistan e della cultura centrasiatica, perfetto risultato dell’unione di queste minoranze.
L’Uzbekistan rappresenta la perfetta unione di queste peculiarità centrasiatiche, il collante che permette di parlare di cultura centrasiatica, amalgamando al suo interno le sue diverse componenti (Bensi, 2002).
Territori e confini centrasiatici. - Di conseguenza, il termine territorio assume valenze differenti in Asia Centrale.
Nelle aree desertiche e semi-desertiche nel nord e nel sud-ovest della regione, le organizzazioni umane non possono assumere forme stabili; è impossibile coltivare e costruire, per cui l’organizzazione dei gruppi resta alla forma tribale-nomade.
In questo tipo di ambiente, i gruppi non possono che elaborare un genere di vita nomade, basato sulla tecnologia della mobilità: si tratta principalmente di allevatori che si muovono continuamente alla ricerca di acqua e di pascoli o semplicemente per sfuggire ad altre tribù. La lotta con altre tribù sia nomadi che sedentarie è una necessità ricorrente; gli allevatori nomadi devono necessariamente essere anche guerrieri e predoni in grado di difendersi e di sopravvivere, e tutto ciò dipende in buona parte dall’abilità con cui si muovono a cavallo. Il loro territorio e il loro ambiente sono queste aree semi-desertiche in cui gli eserciti dei sedentari non possono addentrarsi, non avendo nessuna abilità nell’orientamento in questo tipo di paesaggio, mentre i nomadi ci adattano il loro stile di vita, sviluppando tecniche appropriate, elaborando codici e riferimenti topografici con i quali possono riconoscere gli itinerari e si configurano una mappa dell’ambiente in cui svolgono la loro vita di gruppo (Van Leeuwen).
Il territorio viene classificato in luoghi utili, e cioè pascoli stagionali, boschi o corsi d'acqua, oppure in luoghi da evitare, perché privi di risorse, perché frequentati da altre tribù oppure perché oggetto di superstizioni. In questo modo il movimento dei nomadi assume un andamento meno irregolare e spesso stagionale e paradossalmente il territorio diventa di loro proprietà, inviolabile da parte di altre tribù o da parte di popolazioni sedentarie. Un insieme di codici permettono l’identificazione del territorio da parte della tribù: elenchi di toponimi, pratiche religiose. La cultura del nomade prevede, infatti, tecniche per il riconoscimento territoriale che consistono in un sistema di segnali: le tribù, infatti, segnano il territorio con i kurgani .
Si sviluppa una sorta di geografia sacra, ove questi segni rappresentano l’unico riferimento nella piattezza dell’orizzonte; si tratta di segnali che, posti sui crocevia della steppa, soltanto i nomadi possono riconoscere e che diventano i riferimenti per trasferimenti e migrazioni. In questo modo, la rielaborazione pratica della religione crea il presupposto per lo sviluppo di forme sociali e politiche legate al territorio (Jelen, 2004).
L’ambiente delle steppe ha fatto da sfondo alla formazione delle prime forme di cultura politica nomade eurasiatica identificata come feudalesimo tribale. Le tribù si sono riunite in orde, cioè in confederazioni, unione consolidata da leggende sulla comune discendenza o da una certa interpretazione genealogica atta a legittimare quella confederazione. Si sono formati così gli imperi nomadi, oppure imperi delle steppe, imperi che però hanno assunto identità e hanno occupato il territorio non in maniera duratura, ma solamente durante l’arco di vita del condottiero a capo dell’orda (Van Leeuwen).
A sud della grande distesa centrasiatica, nelle oasi, prevale invece la cultura della stabilità e della tecnologia agraria. In queste aree si sono formate città-stato, come strutture di stato territoriale, che hanno dato origine a centri di potere e di accumulazione economica, ovvero a dinamiche culturali che non potevano realizzarsi tra gli insediamenti dispersi della steppa. In queste circostanze si sono sviluppate civiltà urbane classificate tra le più antiche del mondo, come Buchara e Samarcanda, e città che diventeranno grandi potenze come Merv e Kashgar. Queste città costituivano punti di scambio lungo le rotte carovaniere, centri in cui si sviluppavano attività artigianali; in questi luoghi la cultura e gli scambi economico-culturali potevano riprodursi liberamente nonostante un’organizzazione politica autocratica, secondo la classica definizione di dispotismo orientale (Roux, 1997).
Il mercante, ad ogni modo, poteva muoversi in sicurezza a prescindere dalle sue idee, dalla sua religione e dall’appartenenza etnica. Per questo motivo, sin dall’antichità, le città centrasiatiche hanno sviluppato un quadro culturale diversificato, cioè composto da una pluralità di culti, linguaggi e tecnologie; proprio questa pluralità sembra essere il presupposto di una grande ricchezza: le rotte commerciali funzionavano come strumenti di integrazione e la via della seta, il principale di questi itinerari, divenne la metafora stessa del movimento e dello scambio, ovvero l’essenza della civiltà (Drège, 1992).
Da qui la paradossale situazione centrasiatica: il feudalesimo tribale, nonostante la sua componente nomade, si lega al territorio, anche se solo stagionalmente, e non permette la violazione di esso da parte di nessuno; i grandi emirati del sud, invece, nonostante la struttura statale fortemente territorializzata, sviluppano un sistema sociale aperto ad ogni tipo di scambio culturale, il territorio diventa di tutti e tutti gli avventori diventano del territorio, il forestiero non è considerato tale ed anche il nomade che saltuariamente viene dal nord per fare provviste, è bene accetto e riesce perfettamente ad integrarsi nel sistema sociale.
La struttura socio-politico-territoriale dell’Asia Centrale è rimasta praticamente immutata fino all’età contemporanea quando, verso la metà del XIX secolo, l’impero russo ha cominciato ad invadere il territorio centrasiatico nomade e sedentario.
Il mondo centrasiatico venne inglobato in maniera graduale dal nuovo sistema socio-politico russo: all’inizio gli stati territoriali del sud rimasero in piedi all’interno del grande sistema zarista, in seguito furono smembrati e il territorio centrasiatico venne diviso in quattro governatorati, tutti dipendenti esclusivamente da Mosca. La nascita dei governatorati ebbe un fortissimo impatto soprattutto nel nord, nelle terre dei nomadi: per la prima volta l’Impero delle steppe (Grousset, 1938) era stato delineato ed incardinato in un’istituzione politica riferita ad un territorio preciso (Carrère D’Encausse, 1991).
Questo fenomeno portò numerose rivolte e assalti da parte delle varie tribù nomadi nei confronti degli avamposti russi e delle nuove sedi istituzionali del potere zarista: qualcuno stava cambiando il loro mondo, stava stravolgendo la loro identità, producendo un nuovo apparato socio-politico ulteriormente destinato a modificarsi.
Negli anni ’20 del XX secolo, con la rivoluzione russa e lo stravolgimento del sistema politico imperiale, mutò anche la già nuova struttura politico-territoriale dell’Asia centrale ove, per la prima volta, sorsero degli stati e per la prima volta in queste terre vennero tracciati dei confini.
Tra il 1920 ed il 1936, secondo il principio del Divide et Impera, il territorio centrasiatico venne diviso in cinque Repubbliche Socialiste Sovietiche, ma l’istituzione dei confini di stato e di cinque patrie territoriali divenne esclusivamente una manovra finalizzata al maggior controllo di quella distesa sconfinata.Il territorio centrasiatico non esisteva più, era stato smembrato in unità statali costituite in modo funzionale alle esigenze del potere. Queste popolazioni che avevano sempre vissuto armonicamente insieme, senza alcuna forma di confine, differenziandosi semplicemente per la lingua o per il fatto che fossero nomadi o sedentarie, si ritrovarono suddivise ed inscatolate in stati fittizi con nomi ed identità creati ad hoc per loro dagli ingegneri etnici sovietici (Foucher, 1992).
I nomi ed i confini che vennero assegnati alle cinque repubbliche non avevano alcuna valenza storica, i nomi erano stati presi dai gruppi etnici di maggioranza delle varie aree ed i confini erano stati tracciati nella maggior parte dei casi in modo assolutamente casuale (si veda per esempio il confine occidentale uzbeco-kazako). L’obiettivo primo di questi confini era la differenziazione di popolazioni che prima non si erano mai diversificate, dove l’uso della lingua o il sistema sociale non avevano mai rappresentato un fattore discriminante e dunque un fattore di identità nazionale (Bensi, 2002).
Quello che prima era il turco di città, divenne l’Uzbeco, uzbeco, termine che è sempre esistito, acquistò una valenza nazionalistica, distintiva; quello che invece era il persiano di città divenne il Tagico, colui che parla una lingua differente, l’Altro. Vennero poste etichette che per la prima volta fecero apparire il prossimo come diverso (Allworth, 1998).
Etichette che il più delle volte accomunano gruppi differenti per lingua o modo di vivere e differenziano gruppi perfettamente uguali. Ricordiamo a questo proposito la sopraccitata formazione etnico-territoriale dell’Uzbekistan. All’interno di questo grande calderone statale possiamo trovare la popolazione turca sedentaria, uzbeca, concentrata soprattutto nelle regioni orientali del Fergana, le popolazioni turco-nomadi karacalpache e kazake nelle steppe a nord-ovest, le oasi persiano-tagiche di Buchara e Samarcanda a sud e la capitale, Tashkent, ancora molto legata all’eredità culturale russa.
Ma in fondo l’unità culturale centrasiatica era ancora viva, anche se fortemente ostacolata dall’indottrinamento sovietico. Essa continuava a sopravvivere nel substrato sociale, e anzi la distanza culturale da Mosca slava ed atea avvicinava ed accomunava ancor di più le identità turche e persiane, entrambe islamiche, dell’area centrasiatica.
L’universalismo musulmano e il tribalismo erano i riferimenti dell’identità per le popolazioni centrasiatiche; come lingua si erano periodicamente diffuse alcune lingue franche, come il farsi, lingua persiana, l’arabo per la religione e il turco ciagataico, che svolgeva una funzione di lingua veicolare interetnica, lingue che in qualche modo restarono anche dopo l’avvento sovietico (Roux, 1997).
Con il crollo del sistema sovietico tra il 1991 e il 1992, ai cinque stati centrasiatici si aggiunsero le cinque nazioni centrasiatiche.
Un’ondata di nazionalismo e la voglia di uno stato-nazione con una propria storia e una propria origine invase il territorio centrasiatico. Le sorti delle cinque repubbliche furono affidate ai segretari dei vari partiti comunisti nazionali, che divennero le guide e i successori di antiche tradizioni nazionali. Sorsero dal nulla cinque storie nazionali differenti, cinque eroi a cui dare la paternità della nazione, cinque inni nazionali tutti con tematiche come l’esaltazione dell’amor di patria e del sentimento nazionale ed addirittura cinque lingue, accuratamente differenziate con termini “nazionali” e con alfabeti modificati (Hobsbawm, 1990).
Nacquero così le attuali repubbliche di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan ed Uzbekistan. I confini diventarono sempre più alti ed insormontabili, quelle delimitazioni che fino a sessant’anni prima non erano neanche state pensate, ora sono un limite invalicabile, un limite che ha reso la gente diversa; mentre prima i confini erano comunque all’interno del sistema sovietico, ora invece, sono veri e propri confini internazionali (Damiani, 2008).
Nazionalismo o localismo? - Dal binomio imperiale/locale, ora il territorio centrasiatico è stato completamente catapultato nella dimensione nazionale. Fino al 1991, seppur già divisa nelle cinque repubbliche sovietiche, l’Asia centrale era parte del grande calderone sovietico, riconosciuto dalla società autoctona solo dal punto di vista politico-burocratico, ma la dimensione che più contava, durante il periodo sovietico era quella locale, dove il centrasiatico continuava ad esercitare una visione prettamente territoriale della società, seguitando a vivere secondo i criteri città/campagna o deserto/montagna. Con la caduta dell’URSS e la nascita dei cinque stati-nazione, invece, il mondo centrasiatico è stato privato totalmente della dimensione imperiale-multietnica, super partes, è stato in qualche modo privato anche della dimensione locale, concentrando tutte aspettative sulla nuova dimensione nazionale, assolutamente fittizia, che doveva sopperire alle modalità burocratico-politiche dell’ex impero e doveva ricreare un’unità culturale ed identitaria da sostituire alla dimensione locale considerata anti-nazionale (Gellner, 1997), (Anderson, 1996).
Se da una parte l’Asia centrale ha riacquisito l’indipendenza culturale dal giogo sovietico e si è riappropriata della sua cultura e della sua identità, dall’altra parte questa indipendenza ha portato una totale frammentazione geografico-culturale, ognuna delle cinque repubbliche si è reinventata la sua storia e la sua identità autonoma, distaccandosi dal resto del grande territorio centrasiatico e cancellando secoli di vita in comune (Banuazizi, 1994).
Nonostante questo, oggi si riscontrano alcune spinte predicatrici di uguaglianza e fraternità culturale, legate o al Panturchismo o all’universalismo islamico.
La prima di queste correnti, il Panturchismo, nasce alla fine del XIX secolo in Ungheria, ma il suo massimo splendore in terra centrasiatica lo ha quando, dopo la caduta del sistema sovietico, la Turchia comincia ad avere rivendicazioni socio-culturali sulle neorepubbliche centrasiatiche (Djalili, Kellner, 2006). Essa comincia a proporsi come nuovo filtro di comunicazione tra le nuove repubbliche e il mondo, comincia ad investire culturalmente nelle nuove repubbliche (numerosi giovani centrasiatici inizieranno a studiare nelle occidentali Istanbul e Ankara) e cominceranno ad investire capitale turco per finanziare progetti di ammodernamento industriale nelle ex repubbliche sovietiche, tutto in nome della fratellanza turca (Balci, 2003).
La seconda corrente è legata al fattore religioso. Con la salita al potere di Michail Gorbaciov nel 1985 e con l’allentamento della morsa repressiva sovietica nei confronti delle diversità culturali all’interno della Unione, cominciano a nascere in tutta l’Asia centrale, ma soprattutto nella valle del Fergana, movimenti religiosi integralisti che spinti dall’ondata liberale cominciano a predicare una vera e propria indipendenza del territorio dell’Unione Sovietica islamica e la nascita di uno Stato Islamico (Buttino, 1997).
Questi movimenti, di cui ricordiamo solo il più famoso, lo storico MIU , che con il suo capo carismatico Jumaboi Ahmadzhanovitch Khojaev detto Namangani portò avanti una guerra privata con il governo uzbeco e contro il suo presidente Islam Karimov per ben tre anni (dal 1999 al 2001), in nome della liberazione del territorio uzbeco dalla nuova dittatura, per instaurare finalmente uno Stato Islamico. Namangani, così come gli altri movimenti islamici che hanno trovato terreno fertile in Asia centrale, erano appoggiati una volta da fondazioni wahabbite saudite, un’altra da movimenti integralisti pakistani e un’altra ancora dai talebani afgani. Questo tipo di corrente identitaria è andata scemando, soprattutto negli ultimi anni, perché questi movimenti erano troppo violenti e perché predicavano un islam di corrente wahabbita , quindi molto integralista e rigido rispetto all’islam sufi moderato da sempre diffuso in Asia centrale (Rashid, 2002).
Conclusioni. - Queste correnti sono tuttora presenti in Asia centrale, non è possibile oggi identificare un unico pensiero culturale centrasiatico e non è possibile dunque etichettare genericamente tutta la popolazione dell’area.
Il retaggio sovietico è ancora presente nei nostalgici del totalitarismo e nella minoranza russa, ancora molto diffusa soprattutto in Uzbekistan, Kazakistan e Kirghizistan. L’identità nazionale, fortemente sponsorizzata da tutti e cinque i governi, è presente soprattutto nelle maggioranze etniche delle capitali. L’appartenenza locale-territoriale, è un’idea diffusa soprattutto nella valle del Fergana, oramai da decenni divisa tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan, ma che culturalmente continua ad essere una realtà omogenea anche grazie alla forte tradizione religiosa. Il sentimento religioso, quello islamico, è diffuso maggiormente tra le popolazioni stanziali del sud (Uzbekistan e Tagikistan), rispetto a quelle nomadi del nord. L’essere turco è invece un valore identitario che, soprattutto negli ultimi anni, si sta sviluppando nelle quattro repubbliche a maggioranza turcofona. Ognuno, dunque, si avvicina e si lega maggiormente all’identità in cui si riconosce di più e ognuno, quindi, dà al termine centrasiatico il significato che più lo rappresenta.
L’Asia centrale si conferma così confluenza ed incrocio di identità e di culture e, di conseguenza, territorio, per definizione, privo di confini.
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L’ASIA CENTRALE DOPO L’INDIPENDENZA
Con il dissolvimento dell’Unione Sovietica si venne a creare una situazione particolare, abbastanza comune a tutte e cinque le repubbliche centrasiatiche: la mancata corrispondenza tra i desideri dei popoli e le iniziative dei governi.
Gli uomini scelti per amministrare queste nuove repubbliche erano comunisti profondamente conservatori, la cui visione del mondo esterno era sempre stata influenzata da quella di Mosca. Cresciuti ed allevati nel sistema sovietico, molti di loro non parlavano neppure la lingua del loro paese di origine. La loro idea di sicurezza nazionale si basava sulla presenza nella regione dell’esercito sovietico che con la caduta dell’URSS cominciò a ritirarsi. Il sistema sociale, quello economico, le strutture sanitarie e scolastiche, erano dipendenti da Mosca e naturalmente queste repubbliche erano sopravvissute anche grazie a cospicui aiuti finanziari russi. Con l’indipendenza ognuno di loro si ritrovò a fronteggiare i problemi dell’inflazione, dei posti di lavoro, della politica estera e fiscale, in completa autonomia; e la situazione era resa ancora più complessa dal rimpatrio della burocrazia russa.
Il problema fondamentale era che i leader centrasiatici avevano paura dell’indipendenza da Mosca, tanto quanto i loro popoli la desideravano da anni. La cosa che più terrorizzava i leader di questi paesi, infatti, era affrontare le aspettative pubbliche riguardo alla libertà politica, di espressione e soprattutto religiosa: si rendeva necessario affrontare il “problema Islam” soprattutto in zone dove la religione era l’elemento più importante della vita socio-culturale della popolazione: la valle del Fergana.
Durante gli oltre 60 anni di comunismo la loro fede, come tutte, era stata duramente repressa da Mosca: le moschee vennero decimate, gli imam ribelli perseguitati e le cinque repubbliche subirono un forzato ateismo comunista. Questo portò alla nascita di un islam “sotterraneo”: la gente non abbandonava la fede ma la esercitava di nascosto nelle case e nei capannoni, sorsero delle moschee clandestine e vennero istruiti imam che avevano altri lavori di copertura, venivano addirittura celebrati matrimoni di ”facciata” nei comuni per poi di notte celebrare e festeggiare i matrimoni religiosi. Grazie a ciò le popolazioni centrasiatiche non persero la fede e il crollo dell’Unione Sovietica scoprì un vaso di Pandora che era rimasto chiuso per molti anni.
La cosa avrebbe dovuto saltare agli occhi dei russi già da quando nel 1979, durante l’invasione russa dell’Afghanistan, migliaia di soldati sovietici centrasiatici, ritrovandosi a combattere contro i loro correligionari afgani, passarono dall’altra parte diventando anch’essi mujaheddin, combattenti che intraprendono la jihad (guerra santa) per l’Islam, contro l’URSS.
Molti giovani centrasiatici guardarono agli altri stati islamici come ispirazione ideologica: alla Turchia, con cui condividono l’origine etnica, all’Arabia Saudita, culla dell’Islam, all’Iran, guardato soprattutto dai tagiki di origine persiana. Questi paesi vedevano le popolazioni dell’Asia Centrale come fratelli liberati dal giogo dell’ateismo e cercavano di avvicinarli ancora di più inviando copie gratuite del Corano e finanziando la ricostruzione delle Moschee.
In un primo momento la leadership centrasiatica tentò di adattarsi alla nuova situazione adottando atteggiamenti di facciata spacciandosi per musulmani rinati, ma in realtà non fece niente per incoraggiare la rinascita dell’islam a livello ufficiale, non riconobbe le festività religiose come giorni non lavorativi e lasciò al bando tutti i partiti che promuovevano ideologie islamiche.
Nel 1992 le misure repressive dei regimi cominciarono ad incoraggiare le idee di radicalismo islamico e i movimenti locali optarono per la clandestinità. I governi incapaci di mantenere la situazione sotto controllo non seppero far altro che imbavagliare i media e ogni forma di libertà di espressione.
L’Unione Sovietica si era sciolta, ma la democrazia in Asia Centrale continuava a non decollare.
Tra i vari gruppi di militanti islamici che nacquero in Asia Centrale si possono ricordare:
Il Partito della Rinascita Islamica (Pri), unico organo legalizzato dal regime tagico nel tentativo di evitare aggravamenti della crisi politico-sociale. Tentativo vano, visto lo scoppio di una guerra civile durata cinque anni (1992-1997) tra forze democratiche, islamiche e residui sovietici; cinque sanguinosi anni che hanno condotto il paese ad un governo di coalizione democraticamente eletto con la presenza al suo interno di partiti laici e religiosi.
Il Movimento islamico dell’Uzbekistan (Miu), fondato a Namangani, nel Fergana, nel 1998 da estremisti insoddisfatti dalla spinta moderata del Pri e decisi a rovesciare il “padre-padrone” dello stato, Islam Karimov, presidente dello stato con il più grande potenziale dell’area, l’Uzbekistan, politico corrotto e senza scrupoli, capace di fare di tutto pur di mantenere il potere accentrato nelle sue mani.
Il Miu rappresenta il movimento più forte e più estremista, protagonista di operazioni di guerriglia contro i regimi, si è diffuso a macchia d’olio reclutando adepti in tutte le repubbliche e moltiplicando le sue basi. Il suo fondatore fu Juma Namangani, uomo carismatico e intimo amico di Osama Bin Laden. Le tematiche riguardanti il Miu le affronteremo meglio più avanti.
Il Partito della liberazione islamica (Hizb ut-Tahrir al-Islami) (Ht), altro grande movimento che contrariamente al Miu divulga sul web il suo programma, ossia riunificare politicamente tutta la Umma islamica, con anche le nazioni centrasiatiche, in un grande Califfato analogo a quello fondato da Maometto nell’Arabia del VI secolo, servendosi di mezzi non violenti. Ma il problema del Ht così come quello del Miu è una mancanza assoluta di programma socio-economico che spieghi come risollevare le sorti del presunto Califfato.
Anche dal punto di vista economico, il distacco dalla Russia è stato infatti un trauma: i sovietici in maniera autoritaria avevano operato la collettivizzazione agricola forzata e sviluppato la coltivazione coatta del cotone; ma i governi centrasiatici non erano stati abituati a gestire da soli le loro risorse, soprattutto le riserve naturali di gas, minerali e petrolio. L’Asia Centrale era l’unica riserva naturale al mondo ancora vergine in quanto i russi avevano preferito sfruttare le risorse siberiane. Con la caduta del comunismo la regione diventò quindi un grande richiamo per gli investitori internazionali, vantaggio sfruttato però solo in parte dai governi neo-indipendenti.
Geografia socio-politica: il Regionalismo culturale
della valle del Fergana
di Isabella Damiani
(in Seminario di Geografia sociale del prof. Josef Langer, Gorizia 2008)
La cerniera geopolitica che collega perfettamente le due civiltà centrasiatiche: quella nomade turco-mongola e quella sedentaria persiana è l’attuale Repubblica dell’Uzbekistan. Vero e proprio cuore non solo geopolitico, ma anche economico, culturale e storico di tutta l’area centrasiatica, l’Uzbekistan, è diventata repubblica indipendente dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1992. Da allora, il presidente della repubblica, è sempre e solo stato Islam Karimov. Già segretario del Partito Comunista Uzbeco negli anni ‘80, Karimov ha incrementato enormemente il suo potere dopo l’indipendenza della ex repubblica sovietica. Attraverso una figura autoritaria e carismatica, Karimov ha messo su una vera e propria dittatura placidamente appoggiata da Russia e Stati Uniti, che gli permette di esercitare anche il ruolo di leader di tutta l’area centrasiatica.
In particolare, la regione della grande area centrasiatica che rappresenta, la zona geopoliticamente più calda è la valle del Fergana. Attualmente divisa tra Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan, questa valle costituisce, in un certo modo, il fulcro della geopolitica centrasiatica.
Per osservare la situazione geopolitica della valle del Fergana è possibile applicare tranquillamente il modello di analisi lacostiano con i suoi tre elementi: il territorio (la posta in gioco) rappresentata dalla valle stessa, dalle sue risorse e dalla sue peculiarità, gli attori politici rappresentati dai tre governi nazionali e dai movimenti fondamentalisti che si contendono la valle e la popolazione che viene tirata in ballo attraverso i media dagli attori politici, popolazione che viene rappresentata non solo da una o dall’altra tipologia di attore politico, ma anche da una terza variante, più autonoma, quella del Regionalismo culturale.
La grande fertilità della sua terra, la grande prosperità del suo sottosuolo, caratteristiche estremamente insolite per il paesaggio centrasiatico, e il grande senso identitario e religioso, hanno reso la valle zona di antiche lotte per la gestione del territorio, portando questa Macedonia Centrasiatica ed il suo Regionalismo culturale a diventare, nel corso del XX secolo, il centro della rivalità geopolitica tra l’ideologia sovietica e l’identità islamica centrasiatica.
Questa rivalità si è perpetuata nel tempo, e anche oggi che l’ideologia sovietica non è più presente, si è rinnovata in una sorta di lotta al terrorismo religioso da parte delle “nuove democratiche” repubbliche che vengono sostenute in questa lotta da Russia e Cina attraverso un’organizzazione internazionale, la SCO (Shangai Cooperation Organization) e dagli Stati Uniti che con i loro grandi investimenti e con le loro basi militari usano il territorio ufficialmente per aiutare la lotta al terrorismo islamico, ufficiosamente per avere basi d’appoggio molto prossime al territorio afgano.
Il presidente centrasiatico che ha preso più a cuore la lotta al terrorismo è Karimov, che controlla costantemente e militarmente il territorio uzbeco, soprattutto la parte della valle del Fergana che è sotto la sua sovranità.
Proprio per questo suo grande senso identitario-religioso e anche perché in passato i ferganiani hanno dimostrato di avere tempra e voglia di autonomia nei confronti di tutti i vari invasori, Karimov teme tutto ciò e teme che tutto quello che possa riguardare questa valle e tutti quelli che parlano di questa valle, in altre parole, in Uzbekistan, la valle del Fergana è praticamente un tabù.
Il forte senso di autonomia della valle si era già fatto sentire durante l’invasione zarista dell’Asia centrale tra la metà del XIX secolo e i primi decenni del XX. La valle, allora Gran Khanato di Kokand, regno che diede i natali a Babur, colui che creò la dinastia Mogul in India, fu invasa dall’esercito zarista nel 1876. Sin dall’inizio, la grande disparità culturale tra la cristiana e fervente Madre Russia e l’islamico dispotismo orientale del Khanato portò tensioni e reazioni negative da parte della popolazione ferganiana, ma il primo vero atto di ribellione contro il potere ci fu quando nel 1916 viene avviata in Asia Centrale una campagna di reclutamento forzato della popolazione. Il reclutamento avvenne con modalità che vennero ritenute intollerabili. I ribelli si opposero al reclutamento non tanto a causa della costrizione, quanto perchè i lavori cui sarebbero stati destinati, essenzialmente lavori di tipo pesante e manuali, venivano considerati indegni: come è tipico dell’Asia Centrale, sia per la cultura del dispotismo orientale che per la democrazia guerriera, i lavori pesanti e manuali vengono considerati come un’attività infamante.
Questa idea del lavoro, in realtà, evidenzia l’incongruenza che caratterizza da sempre il dialogo tra i due mondi: mentre per i contadini russi ed europei il lavoro agricolo è la base per una vita indipendente e libera, per i centrasiatici, sia che fossero allevatori nomadi, sia che fossero contadini-servi o proprietari, il lavoro manuale è il lavoro degli schiavi, cioè un lavoro cui vengono costrette le popolazioni sottomesse o le categorie deboli della società. Per questo motivo la campagna di arruolamento viene considerata come un gesto che rompe il modus vivendi tra amministrazione e società locale; questo malessere diede alle popolazioni musulmane quel senso di unità e di identità che stavano perdendo e collaborò prima alla nascita del primo pacifico tentativo di rivendicazione della propria autonomia con il Governo Autonomo Musulmano di Kokand e dopo con alla nascita di uno dei più grandi movimenti di resistenza contro le istituzioni russe che passò alla storia come la rivolta dei Basmaci. I Basmaci, che nelle lingue turche centrasiatiche vuol dire Banditi, erano dei gruppi armati di ribelli che soprattutto nei territorio del Khanato di Kokand assalivano i posti di blocco russi nel nome della libertà delle popolazioni musulmane del Fergana oppresse dal colonizzatore. Con la rivoluzione bolscevica del 1917 le cose non cambiarono, la valle del Fergana continuava a mostrare la sua intransigenza nella integrazione con il nuovo impero che stava nascendo. Per placare definitivamente gli animi rivoluzionarti della valle, e per mettere a tacere ogni forma di autodeterminazione proclamata dai Basmaci, Stalin all’inizio degli anni 20 del XX secolo decise non solo di portare il concetto di nazione e di patria territoriale, assolutamente nuovo nella regione centrasiatica abituata a ragionare come un’unità culturale semplicemente divisa tra nomadi e sedentari, ma alimentò il sentimento di autonomia e di vendetta del Fergana, perché secondo il classico concetto del Divide et Impera, gli ingegneri etnici di Stalin, divisero la valle in tre parti, assegnandone ognuna a 3 delle 5 nuove repubbliche socialiste sovietiche. L'istituzione dei confini, nuovo concetto per i centrasiatici, divenne una manovra esclusivamente finalizzata al controllo. Per questo motivo, e per mantenersi buona l’etnia più influente della valle, gli uzbechi, che rappresentano il 64% di tutta la popolazione ferganiana e quindi quella che potrebbe causare più problemi nella regione, gli scienziati sovietici attribuirono, nel 1924, buona parte della valle alla nascente Repubblica Socialista Sovietica dell’Uzbekistan. La parte prettamente montana della valle andò alla neo repubblica sovietica del Kirghizistan e la parte più occidentale della valle, la regione di Khujand, l’ultima Alessandria (Eskhate) fondata da Alessandro Magno, lì dove il fiume Sir-Darya continua il suo corso verso il lago d’Aral fu assegnata alla nuova repubblica del Tagikistan. Inoltre per frammentare ancora di più l’unità territoriale ferganiana, Stalin decise di creare ben otto enclave: due enclave tagiche in territorio kirghizo, quattro enclave uzbeche in territorio kirghizo, una enclave tagica in territorio uzbeco e una enclave kirghiza in territorio uzbeco.
Nonostante, però, siano oramai passati 80 anni dalla divisione politica della valle, i sentimenti fortemente autonomisti ed identitari, non si sono mai affievoliti. Tutt’ora gli abitanti della valle sono legati alla loro territorialità più che alle loro nazionalità. Un uzbeco del Fergana si sente molto più vicino ad un Tagico del Fergana più che ad un Uzbeco di Nukus, nell’Uzbekistan occidentale.
Nel periodo tra gli anni 40 e gli 50 anni, negli anni più duri della repressione sovietica, prima della morte di Stalin nel ’53, tutta l’Asia centrale ed in particolar modo la valle subì un ulteriore giro di vite, che vietava completamente ogni tipo di funzione religiosa, obbligava al totale ateismo tutte le popolazione dell’Unione, anche i più religiosi ferganiani. Questo portò non solo un accrescimento dei sentimenti di ostilità nei confronti dei russi, ma portò anche la nascita del cosiddetto islam clandestino, cioè quella forma di religiosità nascosta all’interno della società ferganiana, aiutato dalla nascita delle Tariqa società segrete che avevano come obiettivo la sopravvivenza dell’islam centrasiatico. Il venerdì, visto che tutte le moschee erano state chiuse, ci si recava in case private improvvisate come moschee clandestine, i matrimoni religiosi venivano praticati di notte lontani dagli occhi degli funzionari russi e i ragazzi della valle studiavano l’islam nella scuole coraniche clandestine. Tutto ciò portò il sentimento non solo religioso, ma anche il sentimento identitario e culturale della valle a sopravvivere nel tempo fino a quando questa voglia di sopravvivere e questa ostilità nei confronti degli invasori mutarono la loro natura trasformandosi in vero e proprio fondamentalismo.
Dopo alcuni anni di distensione nei confronti delle minoranze all’interno dell’Unione, ci fu un nuovo periodo di psicosi ateista, incrementato anche dal lento disgregarsi del sistema sovietico, siamo agli inizi degli anni ’80 e Rano Abdullaev, segretario del Komsomol (la Lega dei Giovani Comunisti) cominciò una politica antireligiosa durissima: molti abitanti del Fergana, ricordano ancora oggi la famosa Era di Abdullaev: i soldati strappavano i foulard con forza dalle teste delle donne nei villaggi della valle, distruggevano tutti gli edifici che potessero avere funzioni religiose e arrestavano indiscriminatamente chiunque potesse essere sospettato di essere un mullah. Verso la metà degli anni ’80, una nuova tendenza cominciò a diffondersi: la Perestroika di Gorbaciov portò cambiamenti epocali alla società sovietica. Tra i nuovi propositi liberali della politica di Gorbaciov non c’era l’eliminazione delle restrizioni contro le pratiche religiose, ma la gente in tutta l’Unione interpretò la cosa diversamente, e si assistette a un’immediata rinascita di tutte le religioni. In particolare, nel Fergana, l’islam clandestino uscì alla luce del sole: migliaia di moschee vennero costruite, milioni di testi coranici cominciarono ad arrivare dall’Arabia Saudita e dal Pakistan e i mullah cominciarono ad esercitare alla luce del sole nei vari villaggi.
Questo fenomeno fu solo uno degli eventi che creò quello che oggi noi chiamiamo militanza islamica, infatti, altri avvenimenti accaddero in quel periodo, e accrebbero i sentimenti estremisti religiosi in Asia centrale: il contatto tra i giovani soldati sovietici centrasiatici mandati in Afghanistan durante l’occupazione del 1979 con i mujaheddin afgani, loro correligionari, ma nemici da combattere. Molti centrasiatici rimasero colpiti dalla grandezza della Umma musulmana che si estendeva al di fuori dei confini sovietici e affascinati dalla dedizione religiosa di questi combattenti abbracciarono la causa afgana, e cominciarono ad inviare in patria informazioni e materiale sovversivo e antisovietico. Questo portò numerosi ragazzi centrasiatici a uscire dai confini sovietici e recarsi in Afghanistan, Pakistan o Arabia Saudita per studiare nelle scuole coraniche, qui divenire mullah, apprendendo però un islam diverso dal sufismo moderato centrasiatico, l’islam wahabbita, corrente ultra ortodossa praticata in Arabia Saudita, e l’islam deobandista, corrente ultra ortodossa praticata in Afghanistan e Pakistan, riportando, con il nome degli Adepti della nuova era, nuovi reazionari ideali in Asia centrale. La jihad in Afghanistan diventò un modello di liberazione per tutte le popolazioni islamiche oppresse e, di conseguenza, anche per l’Asia centrale; migliaia di giovani radicali uzbechi e tagichi, soprattutto nel Fergana, erano convinti che la vittoria afgana avrebbe dato l’avvio ad una rivoluzione islamica in tutta l’Asia centrale.
Il Fergana, così, anche in questo caso, grazie a questi nuovi fervori culturali provenienti fin qui da ogni parte del mondo musulmano, assunse un ruolo centrale nella rinascita islamica fondamentalista centrasiatica, grazie alle idee wahabbite e deobandiste assimilate soprattutto dai mujaheddin uzbechi che porteranno alla nascita di organizzazioni come il Movimento islamico dell’Uzbekistan (Miu) per mano di Tohir Yuldashev e Jumaboi Khojaev, detto Namangani dal nome della sua città natale Namangan, e della rinascita islamica moderata centrasiatica, grazie alle idee indigene sufiste moderate nazionaliste portate avanti dai mujaheddin tagichi che condurranno alla nascita del moderato Partito della Rinascita Islamica (Pri).
Con la caduta dell’URSS alla fine del 1991 e con la nascita delle cinque repubbliche centrasiatiche indipendenti, tutti, cittadini, fondamentalisti, religiosi, atei, pensarono che, dopo più di ottant’anni di dominazione straniera, la tirannia e le limitazioni alla cultura e alle tradizioni centrasiatiche andavano scomparendo, potendo riacquistare così l’indipendenza politica, territoriale e culturale che da tempo sognavano, ma non fu proprio così.
I cinque nuovi presidenti ebbero subito timore che la situazione precipitasse e che i paesi potessero cadere nelle mani dei fondamentalisti e cominciarono da subito a limitare e punire ogni forma sospetta di pratica religiosa, accusando chiunque si recasse in moschea e chiunque professasse con dedizione le pratiche islamiche, di fondamentalismo.
Questo portò una reazione e un risultato contrari a quelli sperati: la popolazione, oltre a vedere nei nuovi presidenti dei nuovi tiranni, si rese conto che essi non facevano assolutamente niente per risollevare le sorti economiche e finanziarie delle cinque repubbliche lasciate economicamente allo sbando dalla dissoluzione sovietica, e tutto questo portò un grande malessere generale che non fece altro che avvicinare sempre più la popolazione centrasiatica alla causa fondamentalista, che iniziò a vederla come unica possibilità di vero benessere e indipendenza.
Tutti i fedeli dal regime venivano definiti wahabbiti: dal nonno che accompagnava il nipote in moschea il venerdì, al ragazzo che si sottraeva alla bevuta serale di vodka, soprattutto nel Fergana, dove la tradizione islamica non si era mai spenta e dove la maggior parte delle vere cellule fondamentaliste avevano la sua sede.
Queste cellule ora avevano un nuovo nemico, non più il potere sovietico potente ma lontano, ora da combattere erano i nuovi governi indipendenti che, per mantenere il potere nelle loro mani, avevano continuato ad esercitare sulla popolazione le coercizioni e le repressioni sovietiche.
Con il tempo, gli Adepti delle nuova era compresero che la lotta da ideologica e religiosa doveva diventare politica; ai sovietici avevano chiesto più libertà di espressione religiosa, dai nuovi governi, nuovi abiti della vecchia e corrotta intellighenzia comunista locale, volevano il potere, volevano la creazione di quello che il Turkestan avrebbe sempre dovuto essere: un grande unico stato islamico. Nello stesso momento, le cellule continuavano a ingraziarsi la popolazione con opere di grande valore simbolico come, ad esempio, la restaurazione della moschea di Ota-Valikhan a Namangan, moschea che i sovietici avevano ridotto, con disprezzo, a fabbrica di vino.
Va da sé che questi gesti portavano la popolazione a lasciarsi andare completamente nelle mani dei fondamentalisti, a pendere dalle loro labbra e ad arruolarsi contro i nuovi tiranni.
Il nemico per eccellenza delle crescenti cellule fondamentaliste, situate soprattutto nella valle del Fergana, era il governo uzbeco di Islam Karimov. Karimov sapeva benissimo che il centro della rinascita fondamentalista era il Fergana, quel Fergana che al suo paese era toccato per circa il 70% nella spartizione territoriale degli anni ’20 e da subito, sin dal 1992, capì che doveva tenerlo sotto controllo perchè qualunque problema e qualsiasi rivolta sarebbe provenuta da lì.
I sovietici hanno pensato bene di dividere la valle, il più possibile, affinché creasse meno problemi possibile, ma la divisione non ha portato i frutti desiderati anzi: con l’inasprirsi del regime sovietico e di conseguenza le limitazioni religiose e, soprattutto, con l’indipendenza delle tre repubbliche e l’esaltazione di un fittizio nazionalismo, è rinato nei tagichi, negli uzbechi e nei kirghizi l’animo ferganiano, moderato o fondamentalista che sia.
Ora però, a reprimere gli spiriti unitari e libertari non ci sono più i sovietici, ma quella eredità locale che ha preso il potere agli inizi degli anni ’90; ora i nemici non sono più stranieri, sono fratelli, conterranei e correligionari, che per smanie di potere e per mantenere l’autorità nelle proprie mani, hanno cominciato a perseguitare e a soffocare le identità culturali che stavano tornando alla luce del sole dopo quasi cento anni di repressione.
I nuovi padroni avevano cominciato a vedere qualunque avvenimento e manifestazione provenisse dalla valle come una minaccia, minaccia che andava a tutti i costi soffocata. La guerra tra i tre governi nazionali da una parte e i fondamentalisti islamici dall’altra ebbe luogo nella valle del Fergana, sia nel territorio uzbeco, sia in quello tagico e sia in quello kirghizo. Gli anni più caldi furono quelli a cavallo tra gli anni 90 e il nuovo millennio. Con il 2001 e la morte di Namangani, il Miu ha perso il suo potere nella valle che è stato ereditato da un nuovo movimento Hizb ut-Tahrir. Movimento di origine mediorientale lontano dall’islam mistico sufista del Fergana, ma che ha sostituito il Miu nella valle grazie ai suoi metodi pacifisti e alla volontà di creare un unico Califfato Islamico, un po’ anacronistica come idea, ma di effetto sui religiosi contadini della valle.
Conclusione
Oggi la vita nella valle continua così, alternando momenti di distensione a momenti di repressione acuta da parte del Governo con retate nelle città più grandi della valle a caccia di fondamentalisti da giustiziare. L’ultima grande repressione ci fu nel maggio del 2005 ad Andijan nella provincia più orientale del Fergana uzbeco. Un contingente di circa 100 uomini armati si è impadronito della prigione, di diversi commissariati di polizia, di due guarnigioni militari e di edifici amministrativi e ha assunto il controllo della città per un'intera giornata. Riuniti nel centro della città con diverse persone in ostaggio, ai guerriglieri si sono uniti alcuni sostenitori e semplici curiosi che volevano ascoltare i discorsi contro il regime. Il governo ha sospeso le trasmissioni di tutte le emittenti televisive e radiofoniche e ha inviato ad Andijan l’esercito che, dopo aver circondato la città chiudendo tutte le strade d’accesso, è entrato nella zona del centro per riprendere il controllo del palazzo del governo che i rivoltosi armati avevano occupato nella notte. I soldati hanno aperto il fuoco contro l'edificio, da cui sono partiti colpi di risposta. La situazione era estremamente confusa. Testimoni hanno riferito di un prosieguo di sparatorie e di auto ed edifici dati alle fiamme.
Ma ben presto le truppe governative hanno preso posizione intorno alla piazza centrale. Secondo alcuni testimoni, i soldati avrebbero aperto il fuoco sulla folla facendo 500 morti. Le cifre ufficiali parlano di 176 vittime, di cui metà costituita da insorti. Nel frattempo diverse centinaia di uzbechi hanno varcato la frontiera e sono stati riuniti in campi profughi in Kirghizistan. Il presidente Karimov si è difeso in una conferenza stampa dichiarando che: « gli incidenti sono stati causati dall’Akramiya, una nuova corrente del movimento fondamentalista Hizb ut-Tahrir, che vuole diffondere l'odio e il rifiuto del laicismo. Non ho mai dato ordine di aprire il fuoco sui civili, ma ci sono state delle vittime: almeno 10 militari e un numero molto maggiore di civili. » Karimov aveva parlato in un primo momento di 9 vittime civili, ma dopo un po’ é parso che anche il numero ufficiale delle vittime fosse destinato a salire.
Il numero non ufficiale delle vittime di quel giorno è arrivato a 750.
Questo è solo uno degli ultimi eventi più dibattuti dai giornali di tutto il mondo, per quanto si possa parlare di diffusione di notizie che coinvolgano la valle del Fergana. Il Governo cerca in tutti i modi di mettere a tacere e di nascondere ogni tipo di notizia che riguardi il regime o le agitazioni nella valle e uno dei modi più semplici per farlo è il controllo dei media. Dal 2005, l’Uzbekistan è diventato uno dei pochi paesi al mondo con la censura totale, insieme a Cuba, Vietnam, Corea del Nord, Cina, Tunisia, e Myanmar.
Mentre le identità in Asia centrale restano comunque molte e complesse: il retaggio sovietico, l’identità nazionale, l’appartenenza prettamente locale-territoriale, l’essere turco, la religione, nella Macedonia centrasiatica, invece, nonostante i tentativi di semplificazione nazionalistica che i vari governi cercano di applicare, persiste nel tempo l’identità ferganiana, con le due varianti moderata ed estremista. Il Regionalismo culturale di questa valle continua ad identificarsi nel proprio territorio, indipendentemente dalle etnie o dalle lingue che lo abitano.
Bibliografia
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Le enclave della valle del Fergana
di Isabella Damiani
(in Eurasia, Rivista di studi geopolitici n.2/2008)
L'indipendenza improvvisa delle cinque repubbliche centrasiatiche (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan) in seguito allo scioglimento dell’Unione Sovietica ha significato un completo sconvolgimento della situazione geopolitica in Asia centrale.
L’Asia centrale è forse la parte del continente eurasiatico meno conosciuta, una parte di Asia che trova la sua identità nell’incrocio e nell’intersezione di due grandi civiltà: la civiltà nomade turco-mongola dal nord e la civiltà delle oasi del sud che, sin dal V secolo A.C., sono state abitate da popolazioni sedentarie e hanno permesso la nascita di città come Samarcanda, Buchara o Kokand. Città un tempo facenti parte di grandi imperi come quello persiano o macedone che hanno contribuito a rafforzare il carattere stanziale della parte meridionale dell’area. La nascita e lo sviluppo di esse, la vitalità dei loro bazar si contrappone alla solitaria vita nomade dei turco-mongoli .
L’Asia Centrale rappresenta questa unione, il punto di contatto tra queste due realtà, tra questi due modelli di vita asiatici.
In particolare, la regione della grande area centrasiatica che rappresenta, in grande scala, questo fenomeno, è la valle del Fergana.
Incrocio per civiltà millenarie, passaggio lungo la Via della seta, discusso cuore storico e culturale dell’Asia Centrale, attualmente la valle del Fergana è divisa tra Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan.
La fertilità della sua terra e la grande prosperità del suo sottosuolo, caratteristiche estremamente insolite per il paesaggio centrasiatico, hanno reso la valle una zona di antiche lotte per la gestione del territorio e di antica colonizzazione, dove si sono avvicendate progressivamente sin da tempi antichi svariate popolazioni e civiltà creando una sorta di Macedonia centrasiatica e rendendo la valle una delle zone più popolose di tutta l’Asia centrale.
La sua struttura morfologica, particolarmente raccolta, l’ha resa un’unità naturale che si estende per circa 300 chilometri di lunghezza e 100 km di larghezza nel cuore del massiccio del Tian Shan. Essa è perfettamente tagliata in due dal fiume Syr Darya, seconda risorsa idrica di tutta l’area centrasiatica, unica via di accesso e di uscita dalla valle.
Le caratteristiche morfologiche della valle le hanno permesso di incamerare nel tempo le varietà socio-culturali delle popolazioni e delle civiltà che l’hanno abitata e nello stesso tempo di creare e di conservare nei secoli le sue peculiarità culturali, creando un forte senso identitario e di appartenenza alla valle, correlato anche a una fervente tradizione religiosa che ha portato, sin dagli albori della diffusione della religione islamica, a far sì che essa fungesse da protagonista dell’islamizzazione dell’Asia Centrale, creando un acceso culto religioso sufi e un grande rispetto per le proprie tradizioni, tuttora molto viva nei suoi abitanti.
Con il tempo è nato una sorta di Regionalismo Culturale della valle che nell’ultimo secolo ha creato problemi e opposizioni con le nuove identità nazionali nate in Asia centrale agli inizi del XX secolo.
Negli anni ’20 del XX secolo, con l’arrivo della rivoluzione bolscevica nelle terre centrasiatiche, arrivarono anche grandi mutazioni dei confini politico-territoriali.
Una delle regioni maggiormente colpite dalle attività degli antropologi staliniani fu proprio la valle del Fergana. Seguendo la pianificazione territoriale definita Geopolitica del cotone , ossia l’insieme di motivazioni economiche e la volontà di smembrare il Fergana e la sua enorme produzione di cotone altrimenti completamente in mani uzbeche, la regione si ritrovò nel giro di pochi anni frazionata e affidata a tre nuove sovranità nazionali: Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan e si ritrovò all’interno di quel nuovo sistema politico eurasiatico che stava nascendo: l’Unione Sovietica.
Ma la divisione geopolitica della valle non venne limitata a questa tripartizione, il suo territorio, tra gli anni 1924 e 1929, fu cosparso di ben otto enclave di differenti grandezze e con differenti collocazioni, raggruppanti circa 80 mila abitanti , disseminate certosinamente in tutta la regione.
Quattro sono le enclave uzbeche in territorio kirghizo: Sokh (Сох), Khamzaabad (Хамзаабад) (detta anche Chakhimardan (Шахимардан), Qalacha (Калача) e Khalmion (Халмуон) . Le prime due sono tra le enclave più grandi di tutta la valle.
Sokh è la più grande e popolosa di tutte: con i suoi 325 chilometri quadrati di grandezza e 42 mila abitanti rappresenta un rajon autonomo all’interno dell’oblast’ di Fergana . L’attribuzione di Sokh all’Uzbekistan non è proprio legata ad un’equa divisione etnico-linguistica della regione perché si tratta di un’enclave uzbeca in territorio kirghizo, ma la stragrande maggioranza della sua popolazione, circa il 99%, è di etnia tagica, lo 0,7% è kirghiza e la popolazione uzbeca è rappresentata esclusivamente dai funzionari nominati da Tashkent .
Il motivo per cui Sokh è stata assegnata all’Uzbekistan è prettamente simbolico: si tratta infatti di un’oasi che rappresenta la foce del fiume Sokh, che con le sue acque ha dato vita alla rigogliosa regione di Kokand, zona importante non solo per la prosperità e la fertilità delle sue terre, ma anche per il valore storico che la città di Kokand e la sua regione hanno rappresentato per l’identità culturale della valle.
La presenza del fiume Sokh crea inoltre una delle poche aree coltivabili della zona, prevalentemente montana e stepposa, e la sua attribuzione alla sovranità uzbeca a scapito di quella kirghiza è dovuta al carattere prevalentemente nomade e montanaro del popolo kirghizo, poco propenso all’agricoltura sedentaria tipica invece, delle popolazioni uzbeche .
Tra l’oasi di Sokh e lo stato uzbeco c’è l’enclave di Qalacha, minuscolo territorio pressoché montagnoso, corridoio tra la grande oasi e il territorio uzbeco, la cui nascita è dovuta alla sorveglianza del corso del Sokh nei 20 chilometri circa che separano l’oasi dall’Uzbekistan e alla necessità di gestire il transito del canale Biursionbiunski (Бюрзёнбюнску канал) da parte degli uzbechi, canale che rifornisce d’acqua le città uzbeche di Fergana e Margilan.
L’altra grande enclave uzbeca in territorio kirghizo è Khamzaabad, fazzoletto di terra situato lungo le rive del fiume Aksu, così piccola da non creare territorio autonomo come Sokh, ma facente parte del rajon e dell’oblast’ di Fergana.
Anche se la popolazione di Khamzaabad, (questo è il nome dato dai sovietici al territorio) è a maggioranza uzbeca, la ragione per cui questo piccolissimo spazio sia stato affidato all’Uzbekistan ha motivazioni culturali-religiose: in questa piccola enclave che ha nel turismo la sua maggior risorsa, si trova Chakhimardan, toponimo precedente Khamzaabad e antico luogo di pellegrinaggio molto caro agli uzbechi, l’abitazione di un eremita che la legenda vuole che sia ricordata come Hazrat Ali, cioè dimora e sacrario di Alì, cugino e genero di Maometto, marito di Fatima, fondatore del movimento Sufi ed evangelizzatore del Turkestan. Durante il periodo sovietico una leggenda raccontava che Chakhimardan fosse stata persa al gioco da un funzionario kirghizo nei confronti di uno uzbeco, forse, però, il valore simbolico di questa storia serve soltanto a sminuire il carattere religioso di questa spartizione.
Con la caduta dell’URSS e la nascita degli stati-nazione Chakhimardan fu restaurata e rivalutata dal governo uzbeco, diventando un vero e proprio simbolo nazionale .
Ma le relazioni internazionali tra Uzbekistan e Kirghizistan riguardanti i possedimenti enclavés, oggi sono ancora più complicate a causa di un’ulteriore spartizione territoriale: le elite sovietiche crearono anche un’enclave kirghiza in territorio uzbeco: Barak (Барак).
Si tratta di un villaggio di 700 abitanti situato a 4 chilometri dalla frontiera uzbeco-kirghiza, collegato al distretto di Kara-Suu, nell’oblast’ di Osh.
Gli abitanti di questo centro urbano vivono una grandissima situazione di disagio: a causa del loro numero ridotto, i servizi e le infrastrutture sono scarsi, non facilitando assolutamente i contatti ed i rapporti con il territorio kirghizo .
La situazione di questa parte del Fergana si è complicata ulteriormente a causa dalla separazione in due della città di Kara-Suu, la quale, con la creazione dei confini statali degli anni ’20, è stata divisa nella Karasu uzbeca e nella Kara-Suu kirghiza, creando ai suoi abitanti, come si può immaginare, numerosi problemi sociali e amministrativi.
Anche il Tagikistan, nato nel 1929, vede all’esterno del suo territorio sovrano ben tre enclave, dislocate due in territorio kirghizo e una in territorio uzbeco.
Kairagach (Каирагах) e Vorukh (Ворух), sono le due enclave tagiche in territorio kirghizo, la prima é solo un piccolo villaggio uzbeco che sorge nei pressi di una stazione ferroviaria vicino il confine tagico-kirghizo ; la seconda è ben più grande (circa 130 chilometri quadrati), ed è un’oasi situata sul bacino di confluenza dei fiumi Isfara e Karavsin, è la più grande di esse, ed è amministrativamente parte del rajon di Isfara e dell’oblast’ di Sogd .
Si tratta di un’enclave molto vicina al territorio tagico e la maggioranza della sua popolazione è tagica. Non c’è inoltre alcuna forma di frontiera tra Vorukh e il territorio tagico, l’unica strada dell’enclave la collega infatti direttamente alla madrepatria anziché al territorio kirghizo, rendendo Vorukh un’enclave solo dal punto di vista cartografico e non una vera realtà geografica.
Vorukh deve il suo stato di enclave al fatto di essere situata alla confluenza dell’Isfara con il suo maggior affluente, fiume che ha permesso la nascita a valle della città omonima divenuta, nel tempo, grande centro religioso e culturale tagico .
Sarvak o Saravaksoi (Сарваксоу), enclave tagica in territorio uzbeco è l’ultima enclave della valle.
Si tratta di una lingua di terra situata nel versante sud dei monti Kurama, nel cuore dalla provincia di Namangan, un piccolo territorio lungo 14 chilometri e largo solamente 500 metri, collegato amministrativamente al rajon di Pop e all’oblast’ di Sogd. La popolazione di Sarvak è quasi completamente uzbeca: la decisione di creare questa enclave viene dalla ricchezza del suo sottosuolo, molto ricco di giacimenti di rame e nella sua creazione si può leggere, da una parte, la volontà di aiutare il Tagikistan ad avere più possibilità di risorse e, dall’altra, la volontà di limitazione del già ricco Uzbekistan.
Nella tabella seguente è possibile confrontare alcune caratteristiche delle enclave del Fergana:
Enclave |
Sokh |
Qalacha |
Khamzaabad |
Khalmion |
Vorukh |
Kairagach |
Sarvak |
Barak |
Superficie (km²) |
325 |
2 |
90 |
2 |
130 |
1,5 |
7 |
1 |
Popolazione |
42.000 |
1.000 |
5.000 |
1.000 |
25.000 |
200 |
200 |
700 |
Maggioranza etnica |
99% TAG |
99% |
91% |
UZ/TAG |
95% |
99% |
99% |
KIRG/UZ |
Risorsa: Gonon E., Lasserre F., Une critique de la notion de frontières artificielles à travers le cas de l’Asie Centrale, Cahiers de Géographie du Québec, n.47-132, 2003.
Ma oggi? Qual è la situazione attuale delle enclave del Fergana? Come si vive in questi minuscoli fazzoletti di terra?
Durante il periodo sovietico la presenza di barriere tra le enclave e le terre che le circondavano era praticamente irrilevante, i territori erano completamente integrati e gli abitanti delle enclave potevano comodamente muoversi e raggiungere i centri vicini: erano tutti sovietici, non c’erano veri confini, l’unica differenza era di tipo etnico: uzbechi, kirghizi o tagichi, lingue e usanze differenti ma avvicinate dal loro essere tutti abitanti del Fergana, unione che portò una secolare convivenza pacifica.
I problemi arrivarono con l’indipendenza. I confini tra quelle che fino ad allora erano Repubbliche Socialiste Sovietiche all’interno dell’Unione, divennero confini tra stati sovrani indipendenti che diedero il via ad una forte politica di propaganda della nuova cultura nazionalista. Il vicino divenne nemico, diverso, e Sokh, ad esempio, anche se a maggioranza tagica, divenne il baluardo della Patria Uzbeca, mentre Sarvak, a maggioranza uzbeca, venne completamente dimenticata dal governo uzbeco, fino ad arrivare al divieto, per i suoi abitanti, di entrare in territorio uzbeco .
Le barriere divennero sempre più alte e insormontabili, attraversare un’enclave è ormai impossibile: occorre superare almeno un mezza dozzina di controlli ed avere visti speciali.
Anche per gli abitanti delle enclave la vita è difficile: le famiglie non solo sono spesso irrimediabilmente divise, ma hanno anche spesso problemi di sopravvivenza: essendo le enclave minuscoli fazzoletti di terra non autosufficienti, hanno bisogno di aiuti alimentari dalla madre patria che non sempre arrivano.
Con la fine degli anni novanta un altro grande ostacolo complicò la vita degli abitanti delle enclave: la guerra tra i fondamentalisti islamici e i governi nazionali. Dall’estate del 1999 la provincia di Batken nel Kirghizistan meridionale e le enclave di Sokh e Vorukh divennero campo di battaglia tra le milizie armate del Movimento Islamico dell’Uzbekistan (MIU) comandato da uno dei suoi padri fondatori Jumaboi Ahmadzhanovitch Khojaev, detto Juma Namangani, e l’esercito kirghizo.
Durante i famosi “Tre anni di fuoco: 1999, 2000 e 2001” di lotta del MIU contro i governi nazionali per la liberazione del Fergana dalle “tirannie” al potere e per l’instaurazione di uno Stato religioso, le enclave uzbeche come Sokh e Qalacha erano i bersagli preferiti da Namangani, essendo il suo obiettivo primo colpire Karimov: con una occupazione di Sokh, avrebbe portato l’esercito uzbeco ad invadere il territorio kirghizo per cacciare i fondamentalisti, provocando così una crisi diplomatica tra i due stati sovrani . Ciò portò ad un inasprimento dei controlli alle frontiere delle enclave, con l’aggiunta di filo spinato elettrico e mine anti-uomo, che resero la vita degli abitanti ancora più difficile.
I confini e le enclave diventarono così terreno di sfida, attraverso atti di forza e provocazioni, tra i governi che si spartivano il Fergana; un esempio ne è la notizia che il 26 febbraio 2001 il primo ministro kirghizo Kurmanbek Bakiev aveva firmato con il primo ministro uzbeco Otkir Sultonov un accordo preliminare segreto che cedeva finalmente all’Uzbekistan un piccolo tratto di territorio kirghizo così che l’Uzbekistan potesse avere un corridoio di accesso a Sokh: questo avvenimento comportò un’accesa controversia politica e un uragano di proteste si scatenò a Bishkek, portando il governo ad annullare ogni accordo e a dichiarare che era stata solo una dichiarazione di intenti .
Un altro esempio: settembre 2004, quando il governo kirghizo annunciò ufficialmente di volere l’annessione dell’enclave di Chakhimardan, dichiarandolo a tutti gli effetti territorio kirghizo, ma la cosa si spense su “vivo consiglio” del più potente vicino .
Tashkent, Bishkek e Dushambe hanno visto e continuano a vedere nelle enclave della valle un mezzo attraverso il quale ottenere vittorie diplomatiche sui vicini e dunque, in qualche modo, prestigio internazionale, forse agli occhi dell’ex padrone russo o del amico/nemico americano o probabilmente agli occhi del vicino cinese, nuovo potere economico. Tutto questo mentre gli abitanti delle enclave vivono ogni giorno le difficoltà di questi territori e li percepiscono solo come barriere fisiche, degli ostacoli che li hanno resi diversi tra loro e che continuano ad impedire loro di vivere serenamente la loro valle.
Bibliografia Dispensa
Il Turkestan orientale è quella regione autonoma della Cina che porta il nome di Xinjiang in quanto abitata da una popolazione a maggioranza turcofona musulmana, gli Uiguri.
Tumuli funerari che caratterizzano il paesaggio di tutta la steppa eurasiatica.
Popolazione turco-tatara, di cultura nomade, abitante l’Uzbekistan occidentale, nei pressi del Lago d’Aral. I Karacalpachi gestiscono la loro Repubblica dei Karacalpachi, regione autonoma presente sin dai tempi del sistema sovietico.
Il turco ciagataico è una lingua letteraria dell'Asia Centrale sviluppatasi nei secoli XIV-XV per evoluzione del linguaggio turco del IX-X secolo.
Movimento Islamico dell’Uzbekistan.
Movimento islamico nato in Arabia Saudita nel XVIII secolo e diventato pensiero ispiratore di numerosi movimenti fondamentalisti a causa della sua dottrina sulla purezza e sul rigore originale.
Il Sufismo è un movimento religioso islamico moderato sviluppatosi a partire dall’IX secolo e molto diffuso in Asia centrale. Esso pone al centro del suo pensiero la riflessione filosofica, il misticismo e la pietas individuale.
Cfr. Naumkin V., State Religion and Society in Central Asia, 1999, Yale University Press.
Il Sufismo è un movimento religioso islamico diffusosi a partire dall’IX secolo e molto diffuso in Asia centrale.
Cfr. Kocaoglu T., Reform movements and revolutions in Turkestan 1900-1924, Research Centre of Turkestan and Azerbaijan.
Cfr. Ferrando O., Du concept de minorité en Asie centrale : l’exemple de la vallée du Ferghana, Cemoti, n.39-40, 2005, Paris.
Il rajon è un’entità amministrativa molto simile al comune italiano, mentre l’oblast’ è l’entità amministrativa paragonabile alla provincia, sono terminologie ereditate dal sistema sovietico.
Cfr. Thorez J., Enclaves et enclavement dans le Ferghana post-soviétique, Cemoti, n.35, 2003, Paris.
Cfr. Kislov D., Enclave Shakhimardan: big problems of a small township, Ferghana.ru information Agency, 2005, Mosca.
Cfr. Kudryashov A., A Russian woman from Shakhimardan enclave does not want a place in the Red Book, Ferghana.ru information Agency, 2004, Mosca
Cfr. Thorez J., op.cit., Cemoti, 2003, Paris.
Cfr. Gonon E., Lasserre F., Une critique de la notion de frontières artificielles à travers le cas de l’Asie Centrale, Cahiers de Géographie du Québec, n.47-132, 2003.
Sogd è il nuovo nome della provincia di Khujand ex-Leninabad.
Cfr. Balland D., Diviser l’indivisible: les frontières introuvables des Etats centrasiatiques, Hérodote, n.84, 1997.
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Cfr. Rashid A., Jihad, the rise of militant islam in Central Asia, 2002, Yale University Press.
Cfr., Rashid A., op.cit., 2002.
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Fonte: http://www.uniroma2.it/didattica/geopol/deposito/dispensa_Damiani.doc
Sito web da visitare: http://www.uniroma2.it/
Autore del testo: Isabella Damiani
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