Diffamazione, provocazione e ritorsione

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Diffamazione, provocazione e ritorsione

DIFFAMAZIONE, PROVOCAZIONE E RITORSIONE-Giudice di Pace di Amandola, 18 ottobre 2010

L’offesa-ingiuria é quella dichiarazione, verbale, od altrimenti espressa, dolosamente pronunciata con la consapevolezza od il previsto fine di danneggiare la reputazione della parte offesa -offesa che efficacemente e causalmente danneggia il bene protetto, anche col solo far nascere dubbi od ombre circa la credibilità, la correttezza, la buona fede, la rettitudine, la serietà, le virtù morali, la fedeltà e l’integrità del soggetto offeso, causandogli una sensibile deminutio della stima goduta, della positiva reputazione creatasi nell’ambito sociale in cui questi é conosciuto.
Ritorsione e provocazione conoscono campi applicativi distinti in quanto la prima ha riguardo solo al delitto di ingiuria e si riferisce al caso delle offese reciproche, laddove la seconda si riferisce anche al delitto di diffamazione e non definisce il fatto ingiusto induttivo dello stato d'ira

 

Giudice di Pace di Amandola, 18 ottobre 2010
(G. Fedeli)

FATTO E DIRITTO
A seguito di citazione, ex art 20, comma 5, D. L.vo n. 274/2000, (OMISSIS) l’imputato veniva evocato in giudizio per rispondere del reato in rubrica. descritto. All'esito dell'istruttoria dibattimentale, compendiata nella prova testimoniale e nella copiosa produzione documentale, P.M., parte civile e difesa concludevano come in atti.
Alla stregua dei riscontri probatori acquisiti è dato accedere a un verdetto di assoluzione, sia pure con la formula e i moduli di cui all’art. 530 cpv del codice di rito, dell'imputato.
Il reato ascritto in rubrica al S. non è infatti “tout court” integrato vuoi sotto il profilo dell’elemento psicologico, vuoi sotto quello dell’elemento materiale, né questi (pur se, nell’economia del decisum, detta notazione suona ultronea) appaiono legati l’un l’altro da un preciso nesso etiologico, indefettibile per il perfezionarsi della fattispecie criminosa. In altri termini, nel corso dell’iter dibattimentale, e argomentando per tabulas non sono emersi in capo al prevenuto elementi di riscontro univoci e “conferenti” a suffragio della sua penale responsabilità.
Posto e premesso che l’offesa-ingiuria é quella dichiarazione, verbale, od altrimenti espressa, dolosamente pronunciata con la consapevolezza od il previsto fine di danneggiare la reputazione della parte offesa -offesa che efficacemente e causalmente danneggia il bene protetto, anche col solo far nascere dubbi od ombre circa la credibilità, la correttezza, la buona fede, la rettitudine, la serietà, le virtù morali, la fedeltà e l’integrità del soggetto offeso, causandogli una sensibile deminutio della stima goduta, della positiva reputazione creatasi nell’ambito sociale in cui questi é conosciuto-, a fini di dogmatica giuridica, nei suoi riverberi eminentemente “pratici”, va detto che, oltre alle scriminanti previste in via generale dagli artt. 50 e ss del cc, la parte speciale del codice contempla ulteriori fattispecie che, sia pure con diverse qualificazioni giuridiche da parte della dottrina, producono l'analoga conseguenza di escludere la punibilità del fatto penalmente tipico; si tratta, ad esempio, della ritorsione e della provocazione, previste con riferimento ai delitti di ingiuria e di diffamazione, dall'art. 599 cp.
Va altresì rimarcato come ritorsione e provocazione conoscano campi applicativi distinti in quanto la prima ha riguardo solo al delitto di ingiuria e si riferisce al caso delle offese reciproche, laddove la seconda si riferisce anche al delitto di diffamazione e non definisce il fatto ingiusto induttivo dello stato d'ira (che, si ritiene, possa essere integrato anche dal delitto di ingiuria)[1].Con specifico riferimento alla provocazione, deve sottolinearsi come essa possa essere sia una circostanza attenuante applicabile, ex art. 62 n. 2 cp, a chiunque abbia a delinquere nello stato d'ira determinato dall'altrui fatto ingiusto, e concreti una circostanza di esclusione della pena, come nel caso dianzi indicato dell'art. 599 cp, secondo comma. L'art. 599 cp, secondo comma, prevede, come presupposto d'applicazione della scriminante, che l'ingiuria o la diffamazione siano commesse subito dopo il fatto ingiusto ma la giurisprudenza, come più diffusamente si vedrà infra, ha inteso in senso relativo il requisito in esame[2]. Scendendo al merito vero e proprio della querelle, il Dottor S. è stato accusato di diffamazione perché avrebbe, in hypothesis, offeso la reputazione del Dott.S. C. attraverso la redazione di una lettera (come si afferma nel capo di imputazione) “inserita nella procedura disciplinare e contestazione di addebiti al Dott. C. nella quale affermava indirettamente che il C. aveva compiuto <una prevaricazione e prepotenza nei confronti del reparto in cui opera e dei suoi colleghi> aggiungendo inoltre che la falsa affermazione di aver egli avallato la presenza di un estraneo nella sala operatoria <ne qualifica l’assoluta inaffidabilità umana e professionale>”. Sotto il profilo soggettivo (d est: consapevolezza da parte dell’imputato circa l’utilizzo della lettera oggetto del processo) risulta che la missiva sia stata redatta senza alcun indirizzo, priva di intestazione e di numero di protocollo di sorta. La quale circostanza ex se rende “credibile” non solo quanto sostenuto dal Dott. S. in sede di dichiarazioni, ma quanto riferito a dibattimento (ud. del 17.05.2010) dal teste Dott. A. A. ,il quale testualmente, a domanda della difesa prima, e del Pubblico Ministero poi, ribadiva: “Essendo il Dott. S. il mio sostituto primario gli chiesi di farmi una relazione che mi servisse come appunto al fine di scrivere alla predetta Direzione Generale”. “Non gli chiesi di fare una relazione ufficiale tant’è che la lettera non ha nemmeno un indirizzo. La lettera mi venne consegnata a mano dal Dott. S., senza protocollo perché serviva solo per la mia relazione”. Adr del P.M. “Ho chiesto al Dott. S. di redigere quel promemoria in quanto era vice primario e quel giorno era presente in ospedale anche se non era in sala operatoria. Chiesi a lui di redigere in via informale quel documento in quanto volevo sapere se aveva autorizzato l’intervento e la presenza del Dott. S., in quanto l’intervento era stato rinviato dal Venerdì al Sabato ed io il Venerdì ero presente”.“Agli altri operatori presenti all’intervento ho richiesto una relazione ufficiale”. Va soggiuntocome il predetto Dott. A.  non rammentasse se la lettera fosse “inclusa” nel fascicolo disciplinare, anche se egli ha poi ricordato di aver consegnato tutti i documenti, onde non è circostanza da escludersi che abbia erroneamente dato anche l’atto, oggetto del presente processo, verosimilmente (e, comunque sia, oltre ogni ragionevole dubbio) senza che il Dott. S. potesse saperlo né prevederlo al momento delle relative richiesta e redazione.Ciò puntualizzato ai fini dell’elemento psicologico,quanto all’elemento oggettivo del reato è necessario consti la comunicazione con più persone e che questa sia –s’intende di leggieri-  voluta dall’autore del reato, come optima jurisprudentia suffragato: “L’estremo della comunicazione con più persone, nel delitto di diffamazione, sussiste allorché l’agente comunica l’offesa ad una persona perché questa, a sua volta, la comunichi ad altre e ciò si sia verificato, mentre detto estremo va escluso mancando il fatto volontario del soggetto attivo, nel caso in cui la persona alla quale è stata comunicata l’offesa l’abbia propalata ad altri di propria iniziativa, al di fuori cioè di qualsiasi incarico esplicito o implicito da parte dell’agente” (Cass. Sez. V, 21.11.1980 – 27.01.1981 n.° 480, CPMA 82, 247; Cass., 17.05.1983, Gonatti, ivi 84, 1404; Cass. 18.05.1988, Gallo, ivi 89 1463). E ancora: “In tema di diffamazione commessa mediante scritti il requisito della comunicazione con più persone non sussiste qualora la propalazione dell’offesa, contenuta in una lettera diretta ad un determinato soggetto, non sia voluta dall’agente, ma sia dovuta all’esclusiva iniziativa del destinatario” (Cass. Sez. V. 11.02.1999-11.06.1999 n.° 7551, Cass. Pen. 2000 1954).“L’indicato requisito non può ritenersi sussistente nell’ipotesi in cui il reclamo sia diretto personalmente al titolare di un ufficio, giacché in tal caso la comunicazione con più persone non può dirsi voluta dall’agente, neppure sotto il profilo del dolo eventuale, non essendo prevista l’ipotesi colposa della diffamazione” -Cass. Sez. V., 05.11.1998 – 12.02.1999 n. 1794 C.p. 00, 372). Ad corroborandum: La comunicazione diretta in busta chiusa al superiore di un determinato ufficio non integra il delitto di diffamazione perché l’eventuale conoscenza da parte di persona diversa dal destinatario non è voluta dallo scrivente” (Cass. Sez. VI. 88/180419). Anche a voler considerare di natura offensiva le espressioni contenute nello scritto, è, dunque, assente il requisito della comunicazione con più persone, quanto meno dal punto della volizione (elemento soggettivo). Cosa, del resto, confermata dallo stesso Dott. S. in sede d’interrogatorio: “questa lettera era scritta su carta da computer dove in automatico compare la scritta della ASL 13 ed era una lettera privata consegnata a mano al dott. A. e non protocollata”.“Non immaginavo che tale relazione avrebbe avuto gli sviluppi noti”. A chiudere il cerchio, anche il Dott. Pernici aveva, dal canto suo, consegnato un documento scritto a mano (sub all. 13 produzioni della difesa) senza protocollarlo in quanto, come dichiarato a dibattimento, glielo chiese il prefato dott. A., pur non ricordando quegli se questi glielo avesse consegnato brevi manu. Pure a voler ancora considerare offensivo il contenuto della lettera saremmo comunque a cospetto dell’esimente di cui all’art. 599 del c.p., poiché sarebbe la missiva stata scritta, come riferito il Dott. S. nelle dichiarazioni spontanee, “immediatamente” dopo aver preso conoscenza del contenuto della lettera, datata 1.04.2006, del Dott. C. (all. 14 produzioni difensive), in cui si accusa il Dott. S. di avere “intenti torbidi” (testualmente: “nasconda da parte dei colleghi A. e S. intenti torbidi rispetto ad una condotta del tutto solare di chi scrive”). Sussiste dunque rebus ipsis ac factis l’esimente della provocazione di cui al capoverso dell’art. 599 c.p., a tenore della quale “Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli art. 594-595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso”. Ingiustizia ravvisabile nella falsa accusa di covare intenti torbidi. Mette conto “riascoltare” la viva voce del S. (interrogatorio all’ud. del 26.04.2010): “anche perché affermava in una lettera che io avrei avuto degli intenti torbidi nel negare la mia conoscenza della presenza di un estraneo in sala operatoria”. La costante giurisprudenza ha ritenuto“applicabile”, anche in riferimento all’esimente della provocazione, la fattispecie della ritorsione di cui al primo comma dell’art. 599 c.p. –che disciplina l’ipotesi d’ingiuria-,poiché queste possono essere dichiarate non punibili anche quando non risultino immediate e contemporanee, non essendo necessario un rapporto di immediatezza delle accuse, ma, ovviamente, un nesso di dipendenza: “Ai fini del riconoscimento della provocazione nei delitti contro l’onore, non è necessario che la reazione venga attuata nello stesso momento in cui sia ricevuta l’offesa, essendo sufficiente che essa abbia luogo finché duri lo stato d’ira suscitato dal fatto provocatorio, a nulla rilevando che sia trascorso del tempo, ove il ritardo nella reazione sia dipeso unicamente dalla natura e dalle esigenze proprie degli strumenti adoperati per ritorcere l’offesa. (sez. fer. 07/236832; fattispecie avente ad oggetto il riconoscimento della scriminante nel caso di ingiuria realizzata a mezzo di una missiva, spedita quattro giorni dopo la commissione del presunto fatto ingiusto). Ai fini dell’integrazione dell’esimente della provocazione, l’immediatezza della reazione deve essere intesa in senso relativo, avuto riguardo alla situazione concreta e alle stesse modalità di reazione in modo da non esigere una contemporaneità che finirebbe per limitare la sfera di applicazione dell’esimente  in questione e di frustrarne la ratio e tanto più deve considerarsi il tempo necessario alla reazione quando questa assuma la forma della diffamazione; ne deriva che per l’integrazione della provocazione è sufficiente che l’azione reattiva sia condotta a termine persistendo l’accecamento dello stato d’ira provocato dal fatto ingiusto altrui e che tra l’insorgere della reazione e tale fatto sussiste una reale contiguità temporale, senza che occorra che la reazione si esaurisca in una reazione istantanea” (Cass. pen. Sez. V 07/236541). Anche laddove non volesse pervenirsi a pronuncia di assoluzione del prevenuto dal delitto contestatogli perché il fatto non costituisce reato, va comunque sottolineata, ad abundantiam, la circostanza della “forte” probabilità, in punto alla “veridicità” del fatto affermato, vale a dire che il Dott. C. fosse inaffidabile dal punto di vista umano e professionale. Sul quale punto i testi hanno doviziosamente riferito, tutti in particolare sul “dato” che quello fosse il primo ed unico approccio d’intervento in ambito di chirurgia laparoscopica da parte della predetta parte lesa. Inaffidabilità umana evincibile rebus ipsis ac factis, dacché, non rivolgendo, nel frangente e in situazioni contigue dal duplice punto di vista spaziale e temporale, la parte offesa parola agli altri suoi colleghi, e tra questi al Dott. S., affermava, con ciò contraddicendo le più elementari regole della logica, di avere messo l’imputato a conoscenza dell’intervento fatto dal Dott. S.: la qual cosa, ribadiamo, appare a dir poco singolare se inserita nella “dialettica” tra due persone che non interloquiscono fra loro neppure per consigli professionali, né tanto meno partecipando insieme a visite di reparto. Ad avallare quanto testé precisato, la dott.ssa N.(all. sub 12 produzioni difensive):“Dichiaro inoltre che in ospedale era in servizio il Dott. S. S., su direttiva del Dott. A. responsabile dell’organizzazione della sala operatoria che avvertivo dell’accaduto una volta terminato l’intervento. Il dott. S. dichiarava che era all’oscuro della presenza dell’estraneo e che avrebbe chiesto spiegazioni al Dott. A.”[3]. E sempre il Dott. S., sentito a dichiarazioni spontanee: “scaturiscono dalla falsa affermazione del Dott. C. che sosteneva che io sarei stato a conoscenza della presenza di una persona estranea alla equipe operatoria che partecipava all’intervento in questione”“Dopo qualche tempo ed uno scambio di lettere tra A. e C., il primo mi chiese una descrizione scritta dei fatti come erano avvenuti e mi disse che il Dott. C. sosteneva che io ero a conoscenza e in qualche modo avevo avallato la presenza di questo estraneo …”.“La cosa mi indignò molto”. Alla stregua delle deposizioni testimoniali, vi è d’altronde la certezza che il S. prese parte attiva all’intervento de quo. La quale circostanza si coniuga con quella per cui il Dott. C. mentiva sul punto, avendo dichiarato di avere eseguito l’intervento, con ciò dando “corpo”, per l’appunto, alla “accusa” d’inaffidabilità professionale; questo perché si evince dal coacervo probatorio che la parte lesa non era capace di operare da sola, ergo, nell’economia delle circostanze, invero frastagliata e “dubbia”, di scarsa credibilità umana e, per l’ulteriore effetto, all’inattendibilità sotto il profilo squisitamente processuale[4], maxime come testimone ai fini del presente giudizio. Adombrabile, sia pure per incidens, la fenomenologia della scriminante sub specie del diritto di critica (per tutte Cass. Pen. Sez. V, 14.07.2009-30.09.2009 n.° 38348 in guida al diritto 2009 n.° 49, pag 97)[5]. Il che, sempre ad colorandam causam, sarebbe quanto dire che il fatto non costituirebbe reato neppure se il Dott. S., rispetto alla gravità di quanto accaduto, avesse autonomamente deciso d’inviare proprio la lettera oggetto dell’imputazione direttamente all’organo superiore per la procedura disciplinare o all’Ordine dei Medici: assoluzione, dunque, perché il fatto non costituisce reato. La formula di cui al secondo comma s’impone, nondimeno, sulla base di considerazioni e notazioni, sia pure leviores rispetto a quelle su cui s’impernia la decisio, che si compendiano nel dato per cui, riallacciandosi sub specie juris ai rilievi di cui all’incipit della motivazione, l’ipotesi di diffamazione compendiata nella missiva di data 19.06.2006 (redatta, come pacificamente emerso e confermato dall’imputato, per l’appunto dal Dott. S.), poi “finita” nel fascicolo inerente al procedimento disciplinare a carico della parte lesa, astraendo (per le assorbenti suesposte considerazioni) dalla possibilità che giungesse a conoscenza di un numero indefinito di soggetti (tra cui il primario del Reparto, Dott. A.), contengono espressioni che, se pur “scriminate” alla stregua di quanto in motivazione, nondimeno appaiono di portata oggettivamente “pregnante” (pur nel “contesto” in cui sono state scritte e debbono giocoforza includersi, tale per cui esse vengono per così dire “depotenziate”, anche e sopra tutto a fini giuridico-processuali); quanto alla lettera in sé e per sé, fa seguito all’intervento da cui ha preso l’abbrivio la vexata quæstio, avvenuto in data 28 gennaio 2006, per cui sarebbe decorso del tempo perché possa dirsi che la redazione della prefata sia avvenuta “d’impeto”. Ma dette notazioni sono sub specie processus “superate” dai rilievi, in fatto e in diritto, perorati in thesi dalla difesa: in primis in quanto non sussiste, di là da ogni ragionevole dubbio, prova che il documento “incriminato” sarebbe stato trasmesso giocoforza dal primario, indi utilizzato in sede disciplinare: non c’è infatti né protocollazione, né consta prova circa la sua “produzione” in seno al fascicolo del procedimento disciplinare. A chiudere il cerchio in punto alla “affidabilità umana e professionale” del Dott. C., dalle allegazioni (sub 12) e dalle deposizioni rese a dibattimento dalla Dott.ssa N. emerge che di fatto il Dott. S.nel frangente operò lui in persona, il che è stato “negato” (in uno con la circostanza per cui il Dott. S. avrebbe autorizzato il Dott. C. all’intervento de quo), sempre in sede di deposizione, dalla parte offesa. Onde la valenza scriminata delle espressioni.

P.Q.M.

Visto… l’artt. 53° 2° comma c.p.p. assolve l’imputato dal reato in rubrica ascrittogli.
Amandola, lì 18 ottobre 2010                                                      

Il Giudice di Pace

 


[1] Provocazione e ritorsione si distinguono anche per le diverse modalità con le quali esse dispiegano i loro effetti. Mentre, infatti, la provocazione determina la non punibilità dell'autore del fatto penalmente tipico a prescindere da ogni valutazione da parte del giudice, la causa di non punibilità della ritorsione dipende da una valutazione discrezionale del giudice e può essere applicata ad uno o entrambi i soggetti che si siano ritorti l'ingiuria.
[2] Ad es., ammettendo l'operatività dell'art. 599 cp secondo comma anche laddove il fatto ingiusto altrui sia stato cagionato da una diffamazione a mezzo stampa, laddove l'immediatezza della reazione non è neppure astrattamente configurabile. Va soggiunto che Accanto a chi sostiene che il secondo comma dell'art. 599 cp contempli una causa di giustificazione, vi è chi ha individuato la ratio della causa di esclusione della pena di cui all'art. 599 cp, secondo comma, nell'assenza di colpa in capo all'autore del fatto e chi, invece, ha parlato di causa di esclusione della capacità a delinquere.
[3] In Giurisprudenza “Con riferimento alla diffamazione a mezzo stampa quando l’agente ritiene per errore che i fatti narrati siano veri viene a mancare del tutto l’elemento psicologico, e può, quindi, configurarsi a suo favore una causa di esclusione della punibilità purché vi sia la prova dei fatti e delle circostanze che riscontrano la cura da lui posta nella verifica della verità dei fatti narrati per vincere ogni dubbio e incertezza prospettabile in ordine ad essi” (Cass. Sez. Un. 26.03.1983, Dotti e altro, in Cass. Pen. 83, 1942; Cass. Sez. Un. 30.06.1984 n.° 8959, Cass. Sez. Un., Ansaloni, nota Calderone; Cass. 13.05.1987, Argentiero ivi 89, 987).
[4] Lo stesso C., infatti, è arrivato ad affermare che il referto operatorio non recava il nominativo del Dott. S., e al momento in cui venne redatto fu aggiunto non si sa per quale ragione, pur ammettendo che la grafia e la stesura del documento furono scritte di suo pugno e dicendo che all’atto della redazione comparivano solo il nome dell’adfirmans e della N.. Di fatto, quindi, negando la presenza del Dott. S. -peraltro risultata pacifica anche per ammissione dello stesso S.-, il Dott. C. (udienza 18.01.2010): “Il dottor S. durante l’operazione è stato a me vicino ma non ha operato”. Per non parlare poi del fatto che la parte offesa ha confermato a dibattimento (udienza 18.01.2010) di aver sottoscritto di suo pugno la lettera di cui all’allegato 14, ma “per quanto riguarda il contenuto non ricordo che l’abbia scritto io”. Il contenuto è quello appunto, giova rammentarlo, in cui si attribuiscono al Dott. S. “intenti torbidi”.
[5]Non integra il delitto di diffamazione la condotta di colui che indirizzi un esposto all’autorità disciplinare contenente espressioni offensive in quanto in tal caso ricorre la generale causa di giustificazione di cui all’art. 51 del codice penale, sub specie dell’esercizio di un diritto di critica, costituzionalmente tutelato dall’art. 21 della Costituzione da ritenersi prevalente rispetto al bene della dignità personale, pure tutelato dalla Costituzione agli art. 2 e 3, considerato che senza la libertà di espressione e di critica la dialettica democratica non può realizzarsi. (Nell’esposto si era messo in dubbio “l’assetto mentale” del collega. Si trattava infatti di un avvocato accusato di diffamazione per aver inviato un esposto al Consiglio dell’Ordine in cui lamentando un fatto accaduto ad opera di un collega aveva fatto riferimento al suo assetto mentale mettendolo in dubbio). Nella motivazione la Suprema Corte ribadendo l’inesistenza del delitto di diffamazione ha ribadito la ricorrenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 facendo altresì riferimento esplicito ad altre decisioni di legittimità che avevano rilevato sulla stessa linea come qualora si richieda l’intervento di un organo di disciplina forense su un fatto ritenuto contrario alla deontologia professionale anche se nella richiesta venissero usate espressioni oggettivamente aspre e polemiche non sarebbe configurabile il delitto di diffamazione. Nel caso di specie espressi dal ricorrente in forma indubbiamente severa, ma sicuramente funzionale alla doglianza che intendeva sottoporre all’organo di vigilanza a prescindere da ogni considerazione sulla fondatezza della lamentela altrettanto deve dirsi con riferimento alla parte dell’esposto contente censure sull’assetto mentale della controparte come condivisibilmente posto in risalto anche dal procuratore generale in riferimento all’assetto mentale dell’avvocato B. è reso con un’espressione assolutamente vaga e tale da consentire in modo agevole interpretazioni compatibili con la legittima critica. “E’ congruente ritenere – anche soltanto sotto il profilo putativo – che il ricorrente possa aver voluto fare riferimento a condotte della controparte ritenute seriamente errate e come tali capaci di esporre il soggetto difeso a reazioni sul piano legale assolutamente sproporzionate e quindi tali da essere giudicate come il frutto di una grave insipienza in capo al responsabile.
La critica in sostanza, pur forte ben può essere ritenuta, nella specie, tale da aver attinto alla condotta professionale e non immediatamente ed esclusivamente il soggetto destinatario con l’effetto che, essendo stata rivolta ad un organo deputato proprio a valutare la portata sul piano deontologico di condotte del professionista, appare in linea con i canoni della pertinenza e della continenza e nel solco dell’esercizio del diritto di cui all’art. 51 c.p.“

 

Fonte: http://www.paolonesta.it/dottrina_sentenze_archivio/Documenti/2010/Novembre%202010/10-11-2010/DIFFAMAZIONE,%20PROVOCAZIONE%20E%20RITORSIONE-Giu.doc

Sito web da visitare: http://www.paolonesta.it

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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