Diligenza obbedienza fedeltà luogo e durata del lavoro

Diligenza obbedienza fedeltà luogo e durata del lavoro

 

 

 

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Diligenza obbedienza fedeltà luogo e durata del lavoro

DILIGENZA, OBBEDIENZA,  FEDELTA', LUOGO E DURATA DEL LAVORO.
1. La diligenza come misura della prestazione
Diligenza ed obbedienza sono specificazioni della stessa obbligazione lavorativa e concorrano ad individuare il contenuto della prestazione di lavoro, cioè i doveri del lavoratore subordinato.
La diligenza richiesta al prestatore di lavoro dall’art. 2104 rappresenta il criterio di misura della prestazione dovuta; oggetto dell’obbligazione lavorativa è la prestazione diligente. Per indicare la diligenza richiesta al lavoratore, l’art. 2104 la rapporta a diversi parametri.
Il primo parametro utilizzato dall’art. 2104 è la natura della prestazione dovuta. Il rinvio alla natura della prestazione (che costituisce una sorta di specificazione del principio generale fissato dall’art. 1176 relativo alle obbligazioni in generale) impone il riferimento alla qualità del lavoro prestato, risultante dalle mansioni, dalle qualifiche o dai profili professionali che la definiscono. Si abbandona il riferimento al criterio della diligenza del buon padre di famiglia (la diligenza media di cui all’art. 1176) per adottare il modello ben più pregnante del soggetto in possesso delle esperienze e competenze richieste per fornire una prestazione di normale qualità.
La diligenza richiesta al lavoratore viene poi rapportata all’interesse dell’impresa. Sotto questo profilo la prestazione del lavoratore si deve inserire nell’organizzazione aziendale. La prestazione del singolo lavoratore deve essere quindi integrabile e coordinabile con quella degli altri lavoratori, in una concreta organizzazione e con riguardo al concreto interesse del creditore (ovvero del datore di lavoro).
Infine è presente un terzo riferimento, all’interesse superiore della produzione nazionale, che deve tuttavia ritenersi abrogato con la caduta del regime corporativo e non può ritenersi sostituito dal criterio dell'utilità sociale di cui all'art. 41 Cost. 
2. Il dovere di obbedienza.
L’art. 2104 poi fa riferimento al dovere di obbedienza del lavoratore. Non si tratta di un vero e proprio obbligo a sé, ma piuttosto della posizione (di soggezione giuridica) del lavoratore corrispondente al potere direttivo del datore di lavoro.
In pratica, l’obbedienza implica l’osservanza delle disposizioni impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali il lavoratore dipende, per l’esecuzione della prestazione di lavoro. L’effetto che si produce in capo al lavoratore è l’obbligo di eseguire tali disposizioni, ossia di eseguire la prestazione lavorativa, così come specificata dal datore e dai suoi collaboratori nell’esercizio del potere direttivo. Tale obbligo comprende tutti i comportamenti necessari a rendere la prestazione lavorativa ragionevolmente integrabile nell’organizzazione dell’impresa.
Il dovere di obbedienza, data la sua stretta correlazione al potere direttivo datoriale, risente direttamente dei limiti legali e contrattuali posti all’esercizio di quest’ultimo. Ed in tale ottica un rilevo particolare assume la disciplina introdotta dallo St. lav., che ha avviato un processo di spersonalizzazione del rapporto di lavoro tale da ridimensionare notevolmente gli aspetti di soggezione giuridica del prestatore (l’inserimento del lavoratore nell’impresa, pur mantenendo rilievo, non può implicare un allargamento della sua  posizione debitoria a comportamenti che non siano ragionevolmente richiesti da esigenze organizzative).
Anche la giurisprudenza ha più volte sottolineato la necessità di ridimensionare il dovere di obbedienza, tenendo conto dei limiti legali e contrattuali; così che il prestatore di lavoro potrà legittimamente rifiutare (cd. Autotutela) l'esecuzione di disposizioni datoriali, se illegittime e contrastanti con i suddetti limiti.
Oltre ai limiti specifici si assiste ad una “razionalizzazione” dell'esercizio discrezionale dei poteri, di un allentamento della concezione esclusivamente gerarchica dell'organizzazione aziendale. Tutti questi elementi circoscrivono l'area di mera soggezione del lavoratore e introducono elementi di iniziativa e/o di autoregolazione del lavoratore.
3. L'obbligo di fedeltà: concorrenza e riservatezza.
Nonostante l’ambiziosa rubrica “obbligo di fedeltà”, è opinione comune che l’art. 2105 non imponga al lavoratore un obbligo di fedeltà in senso proprio, bensì configuri, a carico del medesimo, semplici comportamenti omissivi, integrativi della prestazione principale di lavorare.
Un dovere di fedeltà in senso ampio neppure è ravvisabile nel settore pubblico, ove gli obblighi del dipendente non si differenziano da quelli del dipendente privato.
Da ciò deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa o crei situazioni di conflitto con gli interessi della stessa impresa.
Il dovere di fedeltà si sostanzia nell’obbligo di tenere un comportamento leale verso il datore e di tutelarne gli interessi (principi di correttezza e buona fede). Esso si configura come un obbligo accessorio a quello principale di prestare la propria attività lavorativa (e proprio in virtù dell’autonomia di tale dovere, esso sussiste anche in assenza di prestazione lavorativa, come ad esempio in periodi di malattia o di sciopero).
L’art. 2105 articola l’obbligo di fedeltà in 2 distinti doveri, ambedue di contenuto negativo (obbligo di non fare): il divieto di concorrenza e l’obbligo di riservatezza.
Il divieto di concorrenza comporta l’obbligo di astenersi dal trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore. Esso va tenuto distinto dal divieto di concorrenza sleale ex art. 2598 e dal patto di non concorrenza.
Il divieto di concorrenza sleale ex art. 2598 individua una serie di comportamenti posti in essere da chiunque e prescinde da un rapporto contrattuale tra danneggiante e danneggiato. Da ciò consegue che la responsabilità derivante da violazione dell’art. 2598 ha natura extracontrattuale, mentre la responsabilità derivante da violazione del divieto di concorrenza ex art. 2105 ha natura contrattuale, con tute le conseguenze giuridiche che ne conseguono.
Il patto di non concorrenza invece, consiste in un accordo tra datore e lavoratore, avente ad oggetto il divieto di svolgere attività concorrenziali con quelle dell’imprenditore, anche nel periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro (mentre il divieto di concorrenza ex art. 2105 ha vigore solo per la durata del rapporto di lavoro, dato il suo fondamento contrattuale). Affinché il patto di non concorrenza sia legittimo, si devono rispettare determinate condizioni (il patto deve essere redatto per iscritto e deve essere limitato sotto il profilo del tipo di attività vietate e sotto il profilo temporale).
L’altro obbligo sancito dall’art. 2105 è quello di riservatezza. La norma pone sotto la tutela del c.d. segreto aziendale tutte le notizie di carattere organizzativo e produttivo conosciute dal dipendente in ragione del suo inserimento nell’impresa, vietandone, così: a) la divulgazione, in via assoluta (cioè indipendentemente dal verificarsi di un danno); b) e l’utilizzazione, ma solo in caso di potenziale pregiudizio per l’impresa stessa.
Escluse dal divieto sono invece quelle competenze e conoscenze professionali acquisite dal lavoratore nello svolgimento della propria prestazione lavorativa e dunque, facenti parte del patrimonio professionale dello stesso.
Data la natura dell’interesse protetto, l’opinione prevalente ritiene che l’obbligo di riservatezza perduri in capo al lavoratore finché persista l’esistenza cui è finalizzato, e quindi anche dopo la cessazione del rapporto.
4. Le invenzioni del lavoratore.
L'art. 2590 c.c. attribuisce al lavoratore il diritto ad essere riconosciuto “autore” dell'invenzione industriale realizzata nello svolgimento del rapporto di lavoro.
In tema di brevetti industriali la disciplina è contenuta nel R.D. 29 giugno 1939, n. 1127 e regola i doveri e diritti delle parti sulla base di una triplice tipologia: a seconda a) che l'attività inventiva sia quella specificatamente dedotta nel contratto (invenzioni cd. di servizio); b) che sia comunque svolta “nell'esecuzione e nell'adempimento” del contratto, attuata, cioè, in orario di lavoro, utilizzando le occasioni e le possibilità offerte dalla propria posizione nell'impresa (invenzioni cd. aziendali); c)che rientri nell'ambito dell'attività dell'impresa, ma sia realizzata indipendentemente dal rapporto, fuori dall'orario di lavoro e con mezzi propri del lavoratore (invenzioni cd. occasionali).
Nel primo caso tutti i diritti patrimoniali derivanti dall'invenzione appartengono al datore di lavoro; nel secondo caso il datore mantiene tali diritti, ma il lavoratore ha diritto ad un equo premio; nella terza ipotesi i diritti patrimoniali spettano al lavoratore, ma il datore ha diritto di prelazione da esercitarsi entro 3 mesi per l'uso della stessa o per l'acquisto del brevetto.
Luogo della prestazione di lavoro
1. La disciplina del trasferimento del lavoratore.
Dai principi generali in tema di obbligazioni apprendiamo che il luogo di adempimento della prestazione, se non è determinato contrattualmente, deve desumersi dagli usi o da altre circostanze, prima tra tutte la natura della prestazione (art. 1182 c.c.). Da ciò si deduce che la determinazione del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, così come l’eventuale successiva modifica dello stesso, sono entrambe affidate al potere direttivo del datore.
L’art. 13 St. lav., nel novellare l’art. 2103, conferma tale potere unilaterale di modifica del luogo di lavoro del datore, assoggettandone l’esercizio a limiti interni e prevedendo la nullità dei patti contrari. Inoltre il D.lgs. n. 152/1997 ha posto in capo al datore degli obblighi di informazione scritta circa il luogo della prestazione lavorativa.
L’art. 13 non prende in considerazione qualsiasi spostamento spaziale del lavoratore ma solo quello da un’unità produttiva ad un’altra (trasferimento esterno); mentre non considera i c.d. trasferimenti interni, cioè i passaggi del lavoratore all’interno della medesima articolazione produttiva (per i trasferimenti interni dunque non operano i limiti dell’art. 13).
L’art. 13 subordina l’esercizio del potere di trasferimento all’esistenza di “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”. Tale limite tuttavia è alquanto debole; il datore avrebbe si l’onere di comunicare (anche solo oralmente) tali ragioni al proprio dipendente, ma solo su sua esplicita richiesta.
Quanto alle ragioni tecniche, organizzative e produttive, poi, la tesi prevalente è nel senso di escludere un controllo di merito sulle scelte datoriali. Il giudice dovrà quindi limitarsi ad accertare l’effettiva presenza di tali ragioni, e l’esistenza di un nesso di causalità tra queste ed il provvedimento di trasferimento preso (senza richiedere la prova dell’inevitabilità del trasferimento).
Anche i comportamenti del lavoratore, qualora determinino situazioni di “incompatibilità ambientale” (es. rapporti difficili con i colleghi o con la clientela), in quanto causa di disorganizzazione e disfunzione aziendale, integrano una ragione oggettiva che legittima il trasferimento del lavoratore. Per questa via passa talvolta il tentativo di legittimare il trasferimento per motivi disciplinari.
Sono poi previsti dei limiti più intensi al potere di trasferimenti di determinate figure di lavoratori; ad esempio per il dirigente sindacale aziendale è richiesto il previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza; per il lavoratore che fruisce di congedi di maternità o paternità è previsto il diritto al rientro nella stessa unità produttiva o in altra nel medesimo comune e per il lavoratore handicappato grave e per i suoi congiunti che lo assistono con continuità, anche non conviventi, è previsto il consenso e il diritto di scegliere, ove possibile, la sede più vicina al proprio domicilio.
2. Trasferta e trasfertismo.
Secondo l’orientamento prevalente, l’art. 13 sarebbe chiamato a disciplinare, non ogni vicenda modificativa del luogo della prestazione, bensì solo il trasferimento definitivo del lavoratore. Resterebbero così escluse dalla disciplina di tutela altre fattispecie, quali il distacco, la trasferta ed il trasfertismo, figure trattate prevalentemente dalla contrattazione collettiva, che vi ricollega solo uno speciale trattamento economico (indennità di trasferta o di trasfertismo).
La trasferta (o missione) si distingue dal trasfertismo per il suo carattere di provvisorietà. Si tratta di una modifica del luogo di lavoro, che, essendo solo temporanea, non incide irrimediabilmente sull’interesse del lavoratore alla stabile dimora e alla vita di relazione connessa.
Con il termine trasfertismo, invece, si fa riferimento allo spostamento di quei lavoratori obbligati per contratto a rendere sistematicamente la propria prestazione in luoghi sempre diversi e provvisori e le cui mansioni sono caratterizzate dall’essere di per se stesse itineranti (viaggiatori, piazzisti). Sicché in queste ipotesi la trasferta appare una modalità normale anziché eccezionale della prestazione lavorativa concordata.
Durata della prestazione di lavoro.
1. La durata della prestazione: orario e pause.
La durata del rapporto di lavoro costituisce la misura della prestazione dovuta dal lavoratore e si riferisce all’obbligazione di lavoro stessa, nonché agli obblighi integrativi ed accessori. Esso implica che la durata costituisce la misura della prestazione dovuta dal lavoratore.
La quantità effettiva di prestazione normalmente dovuta è indicata dalla disciplina dell’orario di lavoro, inteso in senso ampio, cioè non solo come orario giornaliero, ma come tempo complessivo di lavoro nella settimana e nell’anno; quindi con esclusione delle c.d. pause periodiche (riposi giornalieri, settimanali, ferie), durante le quali il rapporto continua nonostante la sospensione dell’obbligo di lavoro e permangono gli obblighi accessori o strumentali (come quello di fedeltà). L’orario di lavoro è altresì criterio essenziale di commisurazione dell’obbligo retributivo del datore.
La disciplina legislativa e contrattuale del tempo di lavoro è storicamente rivolta a limitarne la durata massima, a tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore. In Italia la legge base in materia di orario massimo giornaliero è stata a lungo rappresentata dal R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692. i successivi art. 2107 e 2108 e il 2° comma dell'art. 36 Costituzione non hanno alterato l'originaria impostazione vincolistica della disciplina.
Peraltro, le crisi economiche e le innovazioni tecnologiche hanno fatto emergere l’esigenza di riduzioni di orario e di nuovi regimi di orario, non più a fini protettivi della salute del lavoratore, ma come misura per fronteggiare la crescente disoccupazione.
Sul finire del XX sec. Il legislatore dando impulso ad un impegno delle parti sociali (accordi del 23 luglio 1993 e del 24 settembre 1996), ha proceduto ad una prima modernizzazione della normativa sui regimi di orario (art. 13 L. n. 196/1997).
Nel frattempo, l'emanazione della Direttiva Ce n. 104 del 1993 sui tempi di lavoro e di riposo ha sollecitato un intervento legislativo su taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro. Intervento a cui si è giunti soltanto dopo una condanna dell'Italia da parte della Corte di Giustizia Europea, con il D.lgs. 8 aprile 2003, n.66 (subito corretto dal D.lgs. 19 luglio 2004, n. 213).
Nonostante la direttiva fosse ufficialmente finalizzata a garantire un più elevato livello di protezione dei lavoratori, l’intervento del legislatore italiano ha invece per obiettivo la flessibilità nella gestione degli orari di lavoro in relazione alle mutevoli esigenze produttive e organizzative.
2. L'orario di lavoro: disciplina legale e contrattuale.
La disciplina originaria sulla durata massima del lavoro (R.D.L. 692/1923) prevedeva (per le aziende industriali e commerciali) che l’orario massimo non potesse superare le 8 ore giornaliere o le 48 ore settimanali. Tale disciplina venne sostituita in toto dalla normativa contrattuale, che aveva generalizzato, a partire dal 1973, la settimana di 40 ore distribuite su 5 giorni.
In seguito, la L. 196/1997 (legge Treu) ha dato conferma legislativa alla generalizzazione per via contrattuale della settimana lavorativa di 40 ore, limite che andava ad aggiungersi a quello giornaliero di 8 ore (secondo la più recente giurisprudenza i due limiti erano concorrenti e non alternativi e dunque parimenti vincolanti).
Infine il D.lgs. 66/2003, nel recepire le indicazioni comunitarie, ha disposto l’integrale abrogazione delle pregresse disposizioni non esplicitamente richiamate dallo stesso decreto. In tale sede il legislatore ha confermato l’orario massimo normale (oltre il quale la prestazione lavorativa è da considerarsi straordinaria) ed ha anche attribuito ai sindacati comparativamente più rappresentativi:
-di potere stabilire contrattualmente una durata inferiore a quella legale;
-di potere riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative, per periodi ultrasettimanali non superiori all’anno.
Il decreto dunque, da un lato ha configurato i limiti normali massimi settimanali, e dall’altro, ha consentito il regime di orario multiperiodale, consistente nella possibilità di superamento convenzionale dei limiti normali massimi, salvo compensazione nell’anno. La riforma ha dunque valorizzato il ruolo della contrattazione collettiva nella gestione contrattata della flessibilizzazione dell’orario di lavoro. Un’innovazione sostanziale rispetto al regime precedente riguarda invece la regolamentazione della durata massima complessiva (ossia comprendente anche gli straordinari) della settimana lavorativa. La determinazione della durata massima complessiva settimanale è demandata ai contratti collettivi, i quali tuttavia devono rispettare un limite legale di 48 ore, limite che però va calcolato in modo flessibile. Il limite di 48 ore per ogni periodo di 7 giorni, va infatti calcolato non settimana per settimana, ma come media in un arco temporale non superiore ai 4 mesi (tale limite può però essere elevato dalla contrattazione collettiva a 6 o a 12 mesi).
Accanto ai limiti settimanali, normale e massimo, la legge non fa più riferimento ad una durata della giornata lavorativa. Tuttavia, fermo restando che nulla impedisce alla contrattazione collettiva di fissare tetti di orario giornaliero, una limitazione della durata della giornata lavorativa può comunque essere ricavata dalla norma sul risposo giornaliero, che garantisce al lavoratore il diritto ad 11 ore consecutive di riposo giornaliero e ad una pausa di 10 minuti; da ciò si desume che la giornata lavorativa non possa superare le 12,50 ore.
La presenza di un limite, seppure indiretto, di orario massimo giornaliero, permette di fugare i dubbi di costituzionalità che possono porsi in relazione all’art. 36 Cost., che impone al legislatore di fissare la durata massima della giornata lavorativa.
I limiti stabiliti dal legislatore si riferiscono al lavoro effettivamente svolto. Sul punto, il D.lgs. 66/2003 fornisce una nuova nozione di orario di lavoro, ricalcata su quella comunitaria, da intendersi come qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio della sua attività. Questi 3 elementi sono da considerarsi concorrenti e non alternativi, dunque se il lavoratore si trova a disposizione del datore, ma non è al lavoro (se ad esempio è in reperibilità) tale periodo non va considerato come periodo di lavoro effettivo.
In realtà la nozione di orario di lavoro della normativa comunitaria pare escludere che nella stessa rientri soltanto il lavoro caratterizzato da un’effettiva applicazione delle energie lavorative. Vanno infatti considerati anche quei periodi nei quali in lavoratore non sia impegnato in attività di lavoro in senso stretto, ma stia comunque mettendo a disposizione le proprie energie lavorative al datore di lavoro, essendo comunque obbligato a restare sul luogo di lavoro, per poter fornire a richiesta del datore, immediatamente la propria prestazione (ipotesi diversa dalla reperibilità, durante la quale il lavoratore non è obbligato a restare sul luogo di lavoro).
Ci si è chiesti se il datore possa modificare unilateralmente l’orario di lavoro, nel rispetto dei limiti massimi individuati dalla legge e eventualmente dalla contrattazione collettiva.
Per la modifica dell’estensione dell’orario di lavoro (e della retribuzione) l’opinione dominante nega l’esistenza di un potere unilaterale del datore, richiedendo l’assenso del lavoratore. Per la modifica della collocazione temporale dell’orario, un criticabile orientamento giurisprudenziale risponde in modo positivo, ritenendo che lo jus variandi in tale materia costituisca tipica manifestazione del potere direttivo ed organizzativo del datore. Ovviamente sono fatti salvi gli eventuali limiti negoziali concordati a livello individuale o collettivo.
Altro aspetto da considerare è quello della distribuzione sul multiperiodo dell’orario settimanale normale di lavoro. È pacifico che essendo tutti i poteri in materia rimessi dal legislatore alla contrattazione collettiva, gli interventi del datore siano vincolati alla presenza di una disciplina collettiva autorizzatoria. In assenza o al di fuori dei limiti previsti da questa disciplina, il datore non potrà che essere vincolato al limite rigido delle 40 ore settimanali, oltre il quale scatterà il regime del lavoro straordinario.
La regolamentazione dell’orario di lavoro dettata dal D.lgs. 66/2003 si applica a tutti i settori di attività pubblici e privati. Fanno invece eccezione all’applicazione generalizzata delle regole contenute nel D.lgs. 66/2003 tutta una serie di attività tassativamente elencate nello stesso decreto (personale scolastico, forze di polizia, forze armate, gente di mare, personale di volo nell’aviazione civile).
3. (Segue): lavoro straordinario (e supplementare).
Una disciplina particolare è prevista per il lavoro straordinario, ossia per il lavoro prestato oltre l’orario normale settimanale di lavoro fissato dalla legge. Nel sistema originario, il lavoro eccedente le 48 ore settimanali o le 8 giornaliere; con l’entrata in vigore del decreto 66/2003 invece il limite settimanale è stato ridotto a 40 ore (calcolate, in regime di orario multiperiodale, come media), mentre il limite giornaliero è scomparso.
La facoltà attribuita al datore di ampliare occasionalmente la durata dal lavoro ordinario è stata sempre vista dal legislatore con sfavore, ed è ad oggi ostacolata da limiti legali nonché da disincentivi di ordine economico. La ragione di tale atteggiamento di sfavore verso il lavoro straordinario consiste nel fatto che un eccesso del ricorso al lavoro straordinario potrebbe vanificare la ratio stessa della regolamentazione dell’orario di lavoro, forzando sistematicamente i lavoratori ad orari di lavoro ben superiori ai limiti normali di orario, e quindi, potenzialmente pericolosi per la loro salute. Inoltre una simile eventualità frustrerebbe le finalità occupazionali perseguite attraverso la riduzione di orario.
Per questo motivo, il lavoro straordinario, sommato al lavoro normale, deve essere contenuto entro il limite massimo settimanale di orario stabilito dai contratti collettivi, senza eccedere in ogni caso, le 48 ore settimanali (calcolate come media). Entro tale limite, i contratti collettivi sono liberi di regolare le modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro straordinario, anche prevedendo l’obbligo del lavoratore di effettuare le prestazioni eccedenti, fatto salvo un giustificato motivo di rifiuto.
In caso di assenza di disciplina collettiva, invece, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso solo se la richiesta del datore è corredata dal consenso del lavoratore e comunque entro il limite massimo annuale di 250 ore.
Inoltre, salvo diversa disposizione della disciplina collettiva, il lavoro straordinario può essere richiesto -anche prescindendo dal consenso del lavoratore - per esigenze tassativamente determinate (eccezionali esigenze tecnico-produttive, impossibili da fronteggiare attraverso l’assunzione di nuovi lavoratori; casi in cui la mancata esecuzione di prestazioni di lavoro straordinario possa dar luogo ad un pericolo grave ed immediato oppure un danno alle persone o alla produzione; eventi particolari, come mostre, fiere e manifestazioni collegate all’attività produttiva).
Il lavoro straordinario deve essere computato a parte e compensato con maggiorazioni retributive, la cui determinazione è integralmente rimessa alla contrattazione collettiva. La contrattazione collettiva può altresì consentire ai lavoratori di usufruire, in aggiunta o in alternativa alle maggiorazioni retributive, di riposi compensativi (questa è la traduzione in legge di un istituto introdotto dalla contrattazione collettiva, noto come “banca delle ore”).
A conti fatti, forse la remora più efficace frapposta all’utilizzo del lavoro straordinario è posta dal legislatore non già sotto forma di limite diretto, bensì di penalizzazione indiretta di tipo economico, rappresentata dall’obbligo per il datore di pagare un contributo addizionale in una percentuale (variabile) della retribuzione erogata per le ore di straordinario.
-Il lavoro supplementare
Il lavoro eccedente il limite di orario fissato dai contratti collettivi, ma entro il limite di orario normale settimanale fissato dalla legge, non è di per sé straordinario agli effetti di legge, ma è definito come lavoro supplementare (o anche straordinario contrattuale). Laddove dunque la contrattazione collettiva abbia previsto un limite settimanale di orario normale di lavoro (ovviamente inferiore al limite legale di 40 ore) e tale limite venga superato, pur rimanendo entro il limite legale dell’orario normale di lavoro delle 40 ore, non troverà applicazione la disciplina sul lavoro straordinario, ma soltanto quella contrattuale (eventualmente) prevista per il lavoro supplementare.
Abbiamo già detto che il decreto 66\2003 ha eliminato il limite (legale) giornaliero. Tuttavia, nel caso in cui la contrattazione collettiva abbia previsto oltre all’orario settimanale ridotto, un orario normale giornaliero, anche il superamento di tale limite determina l’applicazione della (eventuale) disciplina sul lavoro supplementare.
4. (Segue): lavoro notturno e regimi d'orario.
Dato il maggiore affaticamento psicofisico ed i sacrifici alla vita di relazione che questo comporta, il legislatore ha dettato una disciplina specifica per il lavoro notturno. Inizialmente si è limitato a considerare i soli aspetti economici, stabilendo, all’art. 2108 c.c. che il lavoro notturno non compreso in regolari turni periodici deve essere retribuito con una maggiorazione rispetto al lavoro diurno. Data la genericità della norma, la contrattazione collettiva ha svolto in materia un ruolo decisivo.
La disciplina organica del lavoro notturno è contenuta nel decreto 66\2003, il quale stabilisce i criteri per individuare quando e in favore di chi debba essere applicata (non tutti i lavoratori che prestano la propria attività nelle ore notturne, infatti, devono essere considerati lavoratori notturni). Pertanto:
-si ha lavoro notturno quando l’attività è svolta nel corso di un periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le ore 5 del mattino.
-è lavoratore notturno quel lavoratore che durante il periodo notturno svolga, in via non eccezionale, almeno 3 ore del tempo giornaliero o comunque una parte del suo orario normale di lavoro secondo il contratto collettivo. In assenza di disciplina collettiva, è considerato lavoratore notturno chi svolga per almeno 3 ore lavoro notturno per almeno 80 giorni lavorativi annui.
La disciplina del lavoro notturno è rimessa alla contrattazione collettiva, nel rispetto però delle disposizioni del decreto 66\2003, con particolare riferimento alla durata massima della prestazione. L’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore in media nelle 24 ore, salva l’individuazione, da parte della contrattazione collettiva, di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto limite. Il limite non riguarda solo la prestazione lavorativa resa in periodo notturno, ma l’orario generale che devono osservare i lavoratori notturni (anche di giorno). È altresì previsto che i lavoratori notturni debbano godere di una riduzione dell’orario di lavoro normale e\o di una maggiorazione della retribuzione. La determinazione della riduzione di orario o della maggiorazione retributiva e demandata alla contrattazione collettiva.
Lo svolgimento di prestazioni di lavoro notturno non può avvenire in danno della salute e dell’integrità psicofisica del lavoratore. Pertanto è obbligo del datore accertare lo stato di salute dei lavoratori addetti al lavoro notturno attraverso controlli preventivi e periodici ai quali è subordinata la idoneità del lavoratore a svolgere lavoro notturno.
Vi è poi il divieto di adibire le donne al lavoro, dalle ore 24 alle ore 6, dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino. Vi sono poi altre tre ipotesi, non riservate alle sole madri, nelle quali il lavoro notturno non deve obbligatoriamente essere prestato, cioè vi è un diritto di esenzione dal lavoro notturno: a)una prima ipotesi riguarda la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o alternativamente il padre convivente con la stessa. La norma attribuisce al padre un diritto non originario, ma subordinato ad una eventuale rinuncia da parte della madre; b)sono esonerati dalla prestazione di lavoro notturno anche le lavoratrici o i lavoratori che siano l'unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni; c) l'ultima ipotesi di esonero riguarda le lavoratrici e i lavoratori che abbiano a proprio carico un soggetto disabile.
Regimi particolari di orario risultano dall'uso di turni avvicendati, stabiliti con modalità alquanto varie, secondo le esigenze dell'organizzazione del lavoro. A riguardo si riferisce il D.lgs. 66/2003 il quale definisce il lavoro a turni come qualsiasi metodo di organizzazione del lavoro anche a squadre in base al quale dei lavoratori siano successivamente occupati negli stessi posti di lavoro, secondo un determinato ritmo, compreso quello rotativo e il quale comporti la necessità per i lavoratori di compiere un lavoro a ore differenti su un periodo determinato di giorni o di settimane. Il medesimo decreto legislativo definisce il lavoratore a turni come qualsiasi lavoratore il cui orario di lavoro sia inserito nel quadro del lavoro a turni.
Le preoccupazioni economiche e di competitività hanno indotto le aziende a ricercare regimi d'orario e di organizzazione del lavoro flessibili, cioè, da migliorare il grado di utilizzo degli impianti e i livelli di produttività.
5. Riposi giornalieri, settimanali, annuali e festività.
Il decreto 66\2003 disciplina non solo il tempo di lavoro ma anche il tempo di non lavoro (riposi periodici giornalieri, settimanali, annuali e pause giornaliere).
Ferma restando la durata normale dell’orario settimanale (40 ore, calcolabili anche come media nel multiperiodo), il lavoratore ha diritto a 11 ore di risposo consecutivo ogni 24 ore. Tale regime di riposo giornaliero, come visto, è divenuto essenziale per la determinazione dell’orario giornaliero. La regola vuole che il riposo vada fruito in modo consecutivo; tuttavia ad essa si può derogare per le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata.
Oltre alla consecutività del riposo, deroghe sono ammesse anche alla durata minima dello stesso, potendo scendere al di sotto delle 11 ore per quei lavoratori (dirigenti) la cui durata dell’orario di lavoro non è predeterminata attraverso contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
Il decreto 66/2003 riconosce inoltre al lavoratore il cui orario giornaliero ecceda le 6 ore, un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata vengono stabilite dai contratti collettivi. Qualora manchi una disciplina collettiva, è la stessa legge ad imporre una pausa di 10 minuti.
Il diritto a riposi settimanali trova riconoscimento (oltre che a livello comunitario) nella stessa Costituzione, che, all’art. 36, ne sancisce l’irrinunciabilità.
Il decreto 66\2003 ha confermato in materia, i principi base di periodicità e consecutività del risposo settimanale. Il lavoratore ha diritto ogni 7 giorni, ad un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica. È stato inoltre previsto il cumulo del riposo settimanale con le 11 ore di riposo giornaliero, garantendo così di fatto al lavoratore 35 ore di riposo consecutive ogni 7 giorni.
Il riposo settimanale di regola coincide con la domenica, con numerose eccezioni. È ammessa la collocabilità del riposo di 24 ore consecutive in un giorno diverso dalla domenica (sempre nel rispetto della cadenza settimanale) per un novero nutrito di ipotesi (attività a ciclo continuo; industrie stagionali laddove vi sia un rischio di deterioramento della materia prima; servizi e attività il cui funzionamento domenicale soddisfi interessi rilevanti della comunità ovvero sia di pubblica utilità).
Il lavoro nella giornata domenicale, da diritto, in considerazione della sua maggior penosità, ad una maggiorazione retributiva prevista dai contratti collettivi
Va ricordato che al di fuori delle ipotesi autorizzate dalla legge, la prestazione di lavoro in giornata festiva è illecita per contrarietà a norma imperativa di legge (tuttavia la nullità non pregiudica il diritto del lavoratore alla retribuzione).
Le festività infrasettimanali a tutt’oggi riconosciute sono 12 (5 civili e 7 religiose). Durante tali festività, i lavoratori (pagati a ore) ricevono la normale retribuzione giornaliera. Se le festività cadono di domenica, i lavoratori ricevono una retribuzione doppia.
6. (Segue): le ferie
Il diritto del lavoratore ad un periodo annuale di ferie retribuite è riconosciuto dall’art. 36 Cost., che ne sancisce l’irrinunciabilità, nonché dall'art. 10 D.lgs. 66/2003, che mantiene in vigore l'art. 2109 c.c.. Le ferie rispondono allo scopo tipico di soddisfare primarie necessità fisiche e morali del dipendente. La loro durata minima è fissata in 4 settimane, elevabile dai contratti collettivi.
Il periodo di ferie è annuale; esso spetta cioè, entro l’anno. Tuttavia, perché lo stesso maturi, non occorre aver prestato servizio per un intero anno, essendo garantito, anche a coloro che abbiano lavorato per un periodo inferiore, 1\12 delle ferie per ogni mese di servizio prestato (è questo il c.d. principio della introannualità delle ferie). In base allo stesso principio, quando il rapporto cessi prima della maturazione o del godimento della pausa feriale, il lavoratore avrà diritto alla corresponsione di un indennità sostitutiva proporzionale alle ferie non godute.
Per espressa previsione del decreto 66\2003, il periodo minimo di 4 settimane non può essere sostituito dall’indennità per ferie non godute, salvo che in caso di risoluzione del rapporto.
La scelta del periodo feriale rientra nel potere dispositivo del datore, da esercitarsi in buona fede, contemperando le esigenze aziendali con quelle dei lavoratori. Il datore resta tuttavia libero di assoggettare il proprio potere al vincolo della contrattazione collettiva (ciò che del resto solitamente avviene; le condizioni di godimento delle ferie sono spesso oggetto di contrattazione). Il potere di determinazione del periodo feriale, riconosciuto al datore non è assoluto. Il datore dovrà anzitutto rispettare il principio secondo cui, salvo diverse previsioni contrattuali collettive, le ferie vanno godute per almeno 2 settimane entro l’anno di maturazione, mentre il restante periodo entro 18 mesi dal termine dell’anno di maturazione. In secondo luogo, il datore dovrà tener conto del fatto che le ferie vanno possibilmente godute in modo continuativo.
Una questione a lungo controversa è stata quella relativa agli effetti della malattia sopravvenuta nel corso delle ferie. La giurisprudenza prevalente ha per lungo periodo escluso l'effetto interruttivo della malattia rispetto alle ferie. Questo orientamento ha subito un netto capovolgimento con la dichiarazione di illegittimità da parte della Corte Costituzionale dell'art. 2109 c.c., nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospenda il decorso. La Corte ha ritenuto che il sopraggiungere della malattia ostacoli la fruizione effettiva delle ferie e mal si concili, perciò, con la loro irrinunciabilità sancita dall'art 36 Cost. L'orientamento dominante attribuisce effetti sospensivi non ad ogni malattia , bensì solo a quella che impedisca, in concreto, il normale decorso delle ferie e ne precluda il raggiungimento delle finalità tipiche.
Vi sono poi altri tipi di pause, le quali si differenziano dalle pause, per essere legati a motivi personali di vario genere (le 150 ore per i lavoratori studenti; i permessi retribuiti; i congedi per la formazione; lo svolgimento di attività di volontariato ecc.)

 

Fonte: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com/2014/02/il-rapporto-di-lavoro-subordinato.doc

Sito web da visitare: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com

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