Mobbing sul lavoro definizione

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Mobbing sul lavoro definizione

LA RILEVANZA PENALE DEL MOBBING.
Americo Marini

  • Introduzione: una breve analisi sociologica del fenomeno.

Prima di discorrere circa la rilevanza penale del mobbing occorre, a mio parere, inquadrare il fenomeno dal punto di vista fattuale. A questo scopo, poiché in Italia non esiste una definizione giuridica del termine, bisogna avvalersi degli studi sociologici in materia.
Il primo a realizzare studi consistenti sul fenomeno in questione fu, negli anni ’80, lo psicologo svedese Heinz Leymann, considerato il “padre del mobbing”. Per lo studioso, il mobbing è definito come: “il terrore psicologico sul luogo di lavoro che consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una condizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili. Queste azioni sono effettuate con un’alta frequenza (almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata, il comportamento ostile dà luogo a seri disagi psicologici, psicosomatici, sociali” .
Nel panorama italiano la figura più importante è lo psicologo Harald Ege che ha tradotto gli studi di Leymann e li ha rielaborati in modo da renderli applicabili alla situazione sociale italiana.
Secondo Ege il mobbing è “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione” .
Dalle citazioni riportate si evince che il mobbing è un fenomeno che appartiene alle cd. disfunzioni lavorative caratterizzato in particolare da forme di aggressione, esclusione, emarginazione di un lavoratore: a seconda che soggetto attivo della condotta sia datore di lavoro o collega si suole distinguere tra mobbing di tipo verticale e di tipo orizzontale. In Italia il mobbing verticale ha assunto in alcuni casi connotati caratteristici: è accaduto con certa frequenza che le vessazioni fossero compiute dal datore di lavoro nei confronti del sottoposto in attuazione di una subdola strategia espulsiva; ciò accade in particolare in sistemi garantisti come il nostro dove c’è una ristretta libertà di licenziamento . Si ricorre allora al mobbing (che nel caso di specie prende anche il nome di bossing) per costringere il “lavoratore scomodo” alle dimissioni.
Forse proprio questa situazione presentatasi con sempre più ricorrenza ha reso intollerabile, nel sentire comune ma anche agli occhi del legislatore e degli interpreti, la lacuna di tutela nei confronti della posizione debole. Di qui l’esigenza, in mancanza di una fattispecie penale ad hoc, di sussunzione del fenomeno sotto specifiche ipotesi di maltrattamenti o fattispecie “limitrofe”.
Di questa esigenza deve farsi naturalmente carico l’interprete, consapevole che mai potrà trascurare i vincoli dettati dal principio di legalità (e dai corollari che ne seguono) e che quindi mai potrà offrire una tutela penale per così dire “creativa” a fatti atipici; ciò che potrà (e che in verità si è sforzato di) fare è utilizzare reati codificati qualora applicabili al caso concreto. A tal fine le norme che di volta in volta si sono candidate a dare copertura al fenomeno di mobbing sono state diverse: la giurisprudenza da un lato ha riconosciuto la rilevanza penale di singoli comportamenti vessatori riconducendoli a reati di ingiuria, diffamazione, molestie, minacce, lesioni, violenza sessuale, violenza privata, estorsione etc.; dall'altro lato, ha cercato di garantire una tutela più uniforme, che contempli la condotta vessatoria nel suo complesso, ricorrendo all'ipotesi dei maltrattamenti in famiglia.
Nei paragrafi successivi quindi si procederà all’analisi dei singoli reati nei quali potrebbe “trovare cittadinanza” il fenomeno del mobbing, conducendo, soprattutto con riguardo al delitto di maltrattamenti ex 572 c.p., una dissertazione anche di carattere giurisprudenziale.
Chiuderanno il cerchio alcune considerazioni sulla possibile introduzione di una specifica tutela penale; considerazioni fatte tenendo a mente i pareri della più avveduta dottrina.

  • Sussunzione del mobbing nel reato di maltrattamenti in famiglia (572 c.p.)

      2.1 Ante L.172/2012
Si riporta di seguito l’art. 572 co.1 c.p. vecchia versione: “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli - Chiunque, fuori dei casi previsti nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.
La norma è tutt’altro fuorché inequivoca, non tanto per la sua formulazione, quanto per la sua collocazione sistematica la quale ha riservato spazi notevoli alle pagine della dottrina.
Volendo partire proprio da questo aspetto si osserva come l’art 572 c.p. sia collocato al titolo IX – capo IV del libro II riservato ai delitti contro l’assistenza familiare: se si dovesse individuare il bene giuridico tutelato sulla base della collocazione sistematica non ci sarebbe alcun dubbio e si propenderebbe per un’interpretazione della norma tutta volta alla tutela del rapporto familiare e dei profili relazionali ad essi assimilabili. Subito quest’osservazione si scontra con un’analisi letterale del testo: i soggetti passivi del reato possono essere legati all’autore non solo da un vincolo di natura familiare ma anche da un rapporto fondato sull’autorità o da una precisa ragione di affidamento. Il dato letterale e il mutato sentire sociale hanno pian piano piegato a loro piacere i criteri esegetici della sistematicità donando nuova interpretazione al reato di maltrattamenti rispetto a come concepito nella vecchia stesura: ecco che per giurisprudenza costante la nozione di famiglia è venuta ad abbracciare “ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni o consuetudini di vita siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo” (si vedrà come ciò ha portato nella nuova versione all’inclusione nella norma dei conviventi).
Questo atteggiamento generale di apertura e caratteristiche intrinseche alla struttura del reato rendono particolarmente idoneo l’art.572 c.p. a sussumere il fenomeno di mobbing in particolare sotto l’inciso “persone sottoposte all’autorità del colpevole”; l’art. 572 c.p. ben si presta per una serie di motivi: è reato proprio, di mera condotta, a forma libera; il verbo maltrattare assorbe in sé molteplicità di condotte tanto tipiche (percosse, minacce etc.) quanto atipiche ma che comunque nella loro ripetizione determinano sofferenze fisiche o morali.
Altra caratteristica importante è l’abitualità: elemento psicologico indefettibile è il dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze instaurando un sistema di sopraffazioni e vessazioni che ne avviliscono la personalità e costituiscono fonte di disagio continuo e incompatibile con normali condizioni di vita.
Tuttavia gli elementi costitutivi della norma non possono instaurare una relazione d’identità con il fenomeno oggetto d’indagine; quali elementi allora devono caratterizzare il mobbing perché questo possa rientrare nel paradigma dell’art. 572 c.p.? In nostro aiuto sovviene una sentenza della Cassazione (n.218201/2010) la quale per la configurazione del fenomeno nel reato di maltrattamenti richiede non solo il già pacifico requisito della frequenza e durata delle condotte vessatorie, ma che queste avvengano nell’ambito di un rapporto tra lavoratore e preposto che assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia ; la stessa sentenza pone l’accento sul fatto che il legislatore non abbia predisposto una specifica figura incriminatrice per contrastare tale pratica persecutoria: questa costituisce sicuramente titolo per risarcimento in sede civile ( configurando responsabilità contrattuale ex 2087 c.c.) ma non necessariamente è configurabile sotto il 572 c.p.; in altre parole “il mobbing per quanto assimilabile al 572 c.p. non ne condivide tout court, quasi per automatismo, tutti gli elementi tipici”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Trib. Di Milano 30 settembre 2010: “la caratteristica ontologica del 572 c.p. è quella di reprimere non la generica discriminazione nei confronti del lavoratore dipendente, né tantomeno la sistematica violazione dei doveri contrattuali di rispetto della sua integrità fisica e morale, ma lo stravolgimento di un peculiare rapporto personale tra il “superiore” e un subordinato, in un ambito che per dimensioni e rapporti di quotidianità può essere assimilato ad una famiglia”. Con la conseguenza che “il bene giuridico tutelato dall’art.572 c.p. è ben più corposo e delicato della sola, anche se grave, violazione dei doveri contrattuali verso il dipendente e per questo motivo non può essere ravvisato nelle aziende di grandi dimensioni in cui il lavoratore presta, sostanzialmente, solo il suo tempo e le sue capacità intellettuali e fisiche ad un soggetto impersonale, ad un’organizzazione complessa ed articolata”.
Nell’assetto di questa giurisprudenza come appena rilevato diventa elemento di discrimine la dimensione dell’azienda: ciò ha suscitato non poche critiche da parte della più avveduta dottrina tra cui quella (oserei dire lungimirante) di Roberto Bartoli in una nota alla pocanzi citata sentenza del tribunale di Milano (30 settembre 2010): “se la sentenza è nel giusto quando afferma che la fattispecie di maltrattamenti in famiglia non può essere integrata con la mera violazione dei doveri contrattuali, dall’altro lato, però, può risultare ambigua quando precisa che tale fattispecie non può trovare applicazione nelle aziende di grandi dimensioni (…). La nostra impressione è che il criterio delle dimensioni non abbia particolare rilevanza, dovendosi invece basare soprattutto sul contesto relazionale” .
Vedremo nel prossimo paragrafo come questa impostazione, soprattutto a seguito delle modifiche introdotte dalla L.172/2012, sia stata seguita dalla successiva giurisprudenza di legittimità.

 

2.2 Post L.172/2012
La legge 172/2012 che più volte si ritrova scritta nelle pagine precedenti altro non è che una legge di ratifica ed esecuzione di obblighi di natura internazionale che il nostro paese ha assunto con l’adesione alla Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre del 2007. Questa ha per obiettivo principale la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, prevenendo e combattendo i reati in tale materia, tutelandone le vittime e promuovendo la cooperazione nazionale ed internazionale nel contrasto a tali forme criminose .
Con la legge di ratifica, oltre alla specifica introduzione di reati che la convenzione prescriveva e che per altro in gran parte avevamo già nel nostro sistema penale, si sono introdotte disposizioni di adeguamento interno tra cui anche la modifica dell’art 572 c.p. che a noi interessa e che oggi recita:
Maltrattamenti contro familiari e conviventi - Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da due a sei anni”.
Prima di vedere da vicino le principali novità del nuovo testo, per un principio di parallelismo rispetto al precedente paragrafo, si fa notare come il legislatore, pur modificando i contenuti della norma, non abbia scelto di cambiarne la collocazione sistematica , cosa che alcuni si aspettavano dato ormai per appurato che trattasi di collocazione anacronistica e in considerazione del fatto che l’interesse giuridico protetto dalla norma è ormai pacificamente riferibile alla vita, alla libertà e all’integrità psicofisica e morale della persona .
In quanto a struttura del reato nulla cambia: viene conservato il termine maltrattare e dunque la forma libera, restano immutati i profili che qualificano il reato come necessariamente abituale etc.; ciò che cambia è essenzialmente costituito dal novero delle possibili vittime del reato: il primo comma aggiunge al riferimento alla persona della famiglia l’espressione “o comunque convivente”. Indubbiamente, l’inserimento della nozione di convivenza sottolinea quanto già era emerso nelle sentenze che estendevano la nozione di famiglia ai rapporti affettivi di convivenza, anche fuori del matrimonio; emerge però, qui, un primo profilo critico, proprio rispetto a quanto già era stato evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, la quale aveva riconosciuto l’estensione della nozione di famiglia non solo alle convivenze more uxorio, ma anche alle situazioni in cui vi fossero rapporti di affetto e solidarietà al di fuori di una vera e propria convivenza, sia pure in un quadro di frequentazione reciproca .
Questo riferimento alla convivenza emerge già dalla rubrica la quale appunto muta da “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” a “Maltrattamenti verso familiari o conviventi”: particolare non di poco conto nell’economia del nostro discorso dato che proprio collocazione sistematica e rubrica avevano costituito pietra angolare dell’interpretazione giurisprudenziale che nega l’applicabilità di questa fattispecie ai casi di mobbing quando il rapporto non sia connotato dall’elemento della para-familiarità. La nuova rubrica in realtà, se dovesse essere criterio esegetico per la sussunzione, altro non farebbe che confermare proprio quell’indirizzo: sembrerebbe che la norma intenda tutelare infatti la famiglia, questa volta non solo giuridica ma anche di fatto, e non le relazioni sociali ad essa non accostabili. In realtà parte della dottrina, attraverso un’abile ricostruzione di diritto costituzionale in materia di interpretazione delle rubriche (che ha quale principale referente Crisafulli), tende a propendere per una (non) valenza esegetica della rubrica dell’art. 572 c.p. Le ragioni che sostengono tale visione sono essenzialmente due:

  • L’art 572 c.p. sfugge alla sua rubrica: è una norma a strati che tutela oltre ai rapporti familiari anche altri rapporti tra i quali anche quello istauratosi tra il maltrattante e il soggetto sottoposto alla sua autorità per l’esercizio di una professione (come ad es. datore di lavoro e lavoratore).Si guarda la norma alla luce di una generica finalità di tutela della posizione debole di una relazione affinché questa non sia distorta per fini riprovati dall’ordinamento. Se si guarda all’aspetto finalistico e alla ratio generale la tutela del bene giuridico “famiglia” poco c’entra e la modifica della rubrica del 572 c.p. non può introdurre alcuna novità in tal senso.
  • L’intento del legislatore è quello principalmente di codificare il principio già affermato dalla giurisprudenza di equiparazione della famiglia di fatto a quella giuridica; da questa volontà non può essere desunta quella di intervenire su altri rapporti presi in considerazione nel testo della norma (es. maestra che maltratta l’allievo, l’infermiere che maltratta l’anziano ospitato in una casa di cura…).

Detto delle modificazioni compiute da parte del legislatore e della configurabilità in capo al nuovo 572 c.p. di condotte che si pongono anche al di fuori del contesto strettamente familiare, proprio come fatto per la prospettiva ante riforma, si passa a vedere come la giurisprudenza si è evoluta sul punto. Invero anche nelle pronunce successive alla modifica legislativa tanto la giurisprudenza di merito che la giurisprudenza di legittimità hanno continuato, avallando le teorie dei sostenitori dell’interpretazione sistematica, ad affermare la necessità della para-familiarità della relazione intercorrente tra vittima e autore di mobbing. Da qui il corollario-discrimine quantitativo dato dalle dimensioni dell’azienda.
Su questo solco diviene interessante osservare la sentenza della Cassazione, sezione VI, 22 ottobre 2014 n.53416 che registra in materia un evoluzione di vedute. Se ne riassume brevemente la vicenda: una signora da molti anni in servizio presso un’azienda del settore chimico con oltre 25 dipendenti, subisce dopo il rientro da un periodo di maternità una serie di condotte vessatorie da parte dell’ amministratore della società nello specifico consistenti in demansionamenti, esclusione da occasioni conviviali, adozione di provvedimenti disciplinari nonché da ultimo licenziamento per giusta causa: provvedimenti già ritenuti illegittimi da parte del giudice del lavoro. Gli imputati in sede penale vengono dapprima condannati dal tribunale di Torino poi assolti in Appello. La decisione del giudice di secondo grado si basa sulle seguenti ragioni:

  • numero dei dipendenti dell’azienda (più di 25) è incompatibile con i tratti della para-familiarità: a un elevata densità occupazionale corrisponde una minore intensità delle relazioni personali.
  • durata del rapporto: l’anzianità della dipendente escluderebbe lo stato di soggezione;
  • non esclusività della condotta mobizzante: il fatto che la signora non fosse unica destinataria delle condotte in questione sarebbe indicativo della natura spersonalizzata dei rapporti tra vittima e imputati.
  • reazioni della vittima: il fatto che la lavoratrice abbia denunciato il fatto a mezzi d’informazione oltre che all’autorità giudiziaria indica ancora la mancanza di uno stato di soggezione.

La sesta sezione penale della cassazione annulla con rinvio la decisione assolutoria censurando l’illogicità della relativa motivazione; in particolare in relazione ad ogni punto:

  • il criterio meramente quantitativo delle dimensioni aziendali non può costituire unica e sicura guida per l’interprete; si impone necessariamente un esame qualitativo del rapporto tra le parti. In proposito la Suprema Corte sottolinea come possano esservi dinamiche prettamente para-familiari anche all’interno di un reparto tra caporeparto e singolo addetto.
  • la massima d’esperienza fatta propria dal giudice di secondo grado appare non ragionevole: le condotte persecutorie ben potrebbero in concreto essere tollerate per molti anni in ragione di una situazione di bisogno economico e mancanza di alternative professionali.
  • Anche questa terza motivazione appare illogica agli occhi della Suprema Corte: se si assumesse per buona una simile affermazione si giungerebbe al paradosso di introdurre una nuova causa di non punibilità in presenza di un atteggiamento persecutorio indirizzato non già a una vittima isolata, bensì a una classe di lavoratori. Semmai la reiterazione delle condotte nei confronti di una pluralità di soggetti dovrebbe apparire come sintomatica di una maggiore intensità del dolo.
  • questo punto delle motivazioni della corte d’Appello non solo erra in diritto perché rimette la punibilità di un delitto alla realizzazione di un comportamento successivo lasciato alla volontà del soggetto passivo, ma rischia anche di veicolare un pericoloso messaggio: si rischia in qualche modo di incentivare una condotta astensionista delle vittime di tali soprusi, scoraggiando l’iniziativa procedimentale della persona offesa.

In conclusione si può sostenere che la posizione fatta propria dalla Cassazione nella sentenza n.53416/2014 pare in un certo senso scalfire la rigidità del criterio dimensionale, a favore di un giudizio particolaristico, più rispettoso dei principi di legalità (specie nella declinazione di riserva di legge e determinatezza) e ragionevolezza dell'intervento penale. In primis, occorre ricordare che il requisito numerico non è previsto dalla legge: attraverso il suo utilizzo, pertanto, l'interprete introduce discrezionalmente un elemento decisivo per la configurabilità della fattispecie ex art. 572 c.p., in assenza di specifiche soglie di rilevanza penale a tal fine predisposte dal legislatore. Senza contare, peraltro, che un requisito siffatto risulta persino carente sotto il profilo della necessaria determinatezza: non è chiaro, invero, quale sia la precisa soglia numerica da prendere in considerazione. Infine, istanze di ragionevolezza sconsigliano anch'esse una risoluzione aprioristica della questione: il criterio dimensionale non consente di tenere in debita considerazione la diversa intensità delle dinamiche relazionali, aprendo così la strada a trattamenti potenzialmente discriminatori .

  • Riconducibilità del mobbing ad altre fattispecie delittuose

Cosa succede se mancando il requisito della para-familiarità (ad es. come più volte attestato dalla giurisprudenza a seguito dell’accertamento dimensionale dell’azienda), non si può sussumere la condotta vessatoria o persecutoria nella fattispecie di cui all’art. 572 c.p.? Quale profilo di tutela penale in altre parole può accordarsi a queste situazioni? Ove ne ricorrano gli elementi costitutivi nulla esclude che singoli atti di questa specie possano essere ricondotti di volta in volta “sotto il cappello” della violenza privata (610 c.p.), delle lesioni personali (582 c.p.), dell’estorsione (629 c.p.) e così via. Tuttavia si tratta sempre di incriminazioni non in grado di cogliere la natura unitaria del fenomeno in questione, neppure valorizzando l’esistenza di un legame tra le stesse nei termini di un “medesimo disegno criminoso” rilevante ex 81 co2 c.p.
Restano fuori, in ogni caso, quelle condotte comunque ascrivibili al fenomeno del mobbing ma di per sé penalmente neutre: condotte che potrebbero assumere rilevanza penale solo se ricondotte ad una serie complessiva costitutiva di un reato abituale proprio. A questo scopo alcuni in dottrina hanno ritenuto di ricondurre il mobbing entro gli elastici confini della fattispecie di atti persecutori (612bis c.p.) . La sovrapponibilità tra fatti di mobbing e stalking non risulta peraltro ancora “testata” in sede giurisprudenziale.
Sembra opportuno ai fini della relazione passare brevemente in rassegna alcune ulteriori ipotesi di reato (probabilmente le più comuni) cui le condotte di mobbing possono essere ricondotte: segnatamente lesioni personali (582 c.p.), violenza privata (610 c.p.), atti persecutori (612bis c.p.). Per ognuna di esse si procederà preliminarmente ad una sommaria analisi del reato così da poter successivamente comprendere fino a che punto una singola condotta mobizzante possa essere fatta ricadere nell’area del penalmente rilevante e dove invece questa è destinata a rimanere inevitabilmente in una “zona grigia”.
3.1 Lesioni personali
Il reato di lesioni personali è disciplinato all’art.582 c.p. ed è integrato quando un qualsiasi soggetto “cagiona ad alcuno una lesione personale dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente”. Struttura della fattispecie è quella del delitto comune di evento a forma libera tipizzato in chiave causale mentre il bene giuridico tutelato è l’integrità psico-fisica della vittima.
La formula legislativa sembra articolarsi su un doppio evento: lesione e malattia; in realtà è ormai interpretazione pacifica che l’evento non può che essere unico ed è la malattia : questa comprende solo quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione, anche non definitiva delle funzioni dell’organismo. Per malattia della mente si intende “ogni manifestazione dannosa dell'attività funzionale psichica: sono tali, pertanto, l'offuscamento, il disordine, l'indebolimento, l'eccitamento, la depressione o l'inerzia dell'attività psichica, con effetto permanente o temporaneo, pure brevissimo, compresi lo shock ed il semplice svenimento (…). Non integrano invece una malattia nella mente ai sensi dell'art. 582 c.p. le c.d. nevrosi psicogene da scopo, da appetizione, da rivendicazione: sindromi mediate che la vittima di un trauma sviluppa con intento speculativo” .
Affinché sia integrato il delitto di lesioni è richiesta la presenza del dolo generico cioè della consapevolezza che la propria azione provochi o possa provocare un’offesa all’integrità personale della vittima; non è invece necessario che l’agente sia determinato a produrre specifiche conseguenze lesive né che sia consapevole o meno dell’antigiuridicità del fatto.
Il dolo di lesioni a livello più intenso confina col dolo di omicidio: la realizzazione di eventi lesivi dell’integrità fisica può essere l’effetto di un fallito tentativo di omicidio; il discrimine tra tentato omicidio e lesioni dipende dal contenuto del dolo: se c’è dolo in una forma idonea a integrare il tentativo d’omicidio, il delitto di lesioni personali è assorbito in quello di tentato omicidio .
Costituisce titolo autonomo di reato la lesione cagionata colposamente (art.590 c.p.).
Detto in generale del delitto di lesioni bisogna ora domandarci quando questo sia fungibile a dare una veste alla fattispecie di mobbing. Partendo dal verificare la sussistenza del fatto e in particolare dell’evento, la prima difficoltà con cui ci si scontra è quella di ricomprendere nella nozione di malattia mentale i tipici disturbi patiti dalle vittime di vessazioni sul lavoro. Non ogni turbamento potrà essere ritenuto penalmente rilevante ma dovrà essere verificata la sussistenza di una patologia. Anche accogliendo una concezione non unitaria di malattia ma fondata su un approccio individualistico, come il più delle volte la giurisprudenza ha fatto, si è comunque ritenuto che dovessero sussistere almeno stati depressivi, ansiosi o nevrosi non rilevando il mero turbamento, la sofferenza o l’agitazione (qualora non ricollegabili a malattie psichiche).
Una volta appurato che gli effetti psicofisici conseguenza del mobbing siano inquadrabili come “malattia della mente” ai sensi del 582 c.p. è necessario dimostrare il nesso causale tra la condotta vessatoria e il sorgere della malattia. A dimostrare il legame causativo secondo una certa dottrina sarebbero la congruità sul piano cronologico tra condotta e malattia e la compatibilità e proporzionalità tra natura del comportamento vessatorio e danno realizzatosi .
Per quanto riguarda la configurabilità dell’elemento soggettivo va sottolineato che raramente si tratterà di dolo intenzionale o diretto: lo scopo del mobber invero non è principalmente quello di cagionare lesioni alla vittima; più verosimilmente sarà quello di isolare, umiliare e allontanare il lavoratore accettando l’eventualità che dal suo comportamento possa derivare un danno psico-fisico; la partita si giocherà allora quasi sempre sulla prova del dolo eventuale.
La serie di considerazioni fin qui fatte consente di ricostruire a contrario la posizione della dottrina sfavorevole alla sussunzione del fenomeno di mobbing sotto il reato di cui al 582 c.p. : si farà leva su necessità di certezza (o meglio di tipicità), difficoltà di distinzione fra malattia e mero disagio, difficoltà di dimostrazione del nesso causale, prova del dolo.
Non va del tutto trascurata, ad avviso di chi scrive, una terza via: appare condivisibile la tesi di chi ritiene il reato di lesioni applicabile solo a specifiche situazioni di mobbing; non è infatti in alcun modo rinvenibile un identità tra intera vicenda di mobbing e delitto di cui art.582 c.p.
3.2 Violenza privata
Secondo l’art. 610 c.p. realizza reato di violenza privata “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare, od omettere qualche cosa”.
Il delitto in esame offende la libertà morale intesa come libertà di autodeterminazione e libertà di azione sulla base di scelte effettuate autonomamente dal soggetto. Si tratta di reato comune a forma vincolata la cui consumazione richiede la realizzazione di violenza e minaccia da parte dell’autore (condotta) e conseguente comportamento della vittima, costretta a fare, tollerare ed omettere qualcosa (evento).
Affinché sia integrato il reato in questione, è necessario quindi che vengano posti in essere atti di violenza o di minaccia che abbiano l'effetto di costringere la vittima a fare, tollerare o omettere una determinata cosa. È fondamentale la presenza dell'elemento di costrizione ed è inoltre richiesto che l'azione o l'omissione che il reo è volto a ottenere siano determinate.
Sull’interpretazione del termine violenza si sono registrati diversi orientamenti giurisprudenziali che ne hanno fornito di volta in volta:

  • Interpretazione estensiva: “è interpretazione consolidata quella per cui costituisce violenza l’uso di un qualsiasi mezzo che sia idoneo a privare coattivamente l’offeso delle libertà di determinazione o di azione potendo la violenza essere anche impropria, attuata cioè mediante l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressione sulla volontà altrui” ;
  • Interpretazione restrittiva: si nega che la sussistenza della violenza “sia insita nel mero risultato della coazione, evidente essendo che, rispetto a questo, essa si pone testualmente come entità strumentale e, per giunta, neppure esclusiva, stante l’alternativa previsione della minaccia. Tali nozioni impongono all’interprete di ricercare una nozione contenutistica e non puramente finalistica, di violenza, definendola con precisione in rapporto al mezzo alternativo della minaccia” .

Per minaccia invece si intende “un qualsiasi comportamento o atteggiamento, sia verso il soggetto passivo sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere, mediante tale intimidazione, che il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa” .
Da ultimo è giusto ricordare che la costrizione, realizzata nei modi sopra considerati, deve essere ingiusta ossia non autorizzata da alcuna norma giuridica.
In relazione all'elemento soggettivo, per la realizzazione di questo reato è richiesto il dolo, che consiste nella coscienza e volontà di indurre la vittima a fare, tollerare od omettere una determinata cosa. È fondamentale poi che il reo sia consapevole del dissenso della vittima nel realizzare l'azione/omissione, che è stata quindi posta in essere solo a seguito della coazione.
Trattandosi di un reato istantaneo, la violenza privata si consuma nel momento in cui il soggetto passivo pone in essere l'azione od omissione alla quale è stato costretto. Nel caso in cui la coazione non andasse a buon fine, quando cioè la vittima nonostante la violenza o la minaccia non realizza quanto voluto dal soggetto attivo, il reato sarà integrato solo nella forma del tentativo.
Va detto infine che il delitto di violenza privata è un delitto a titolo generico e sussidiario: si verifica cioè quando non si configuri per quel determinato fatto, una diversa qualificazione giuridica (es. l’estorsione - art.629 c.p. - è figura speciale rispetto all’art. 610 c.p.).
Per ciò che più ci interessa l’applicabilità in astratto del 610 c.p. a casi di mobbing è molto spesso criticata dalla dottrina e dalla giurisprudenza soprattutto per la difficoltà di definire in maniera univoca il concetto di violenza. Il problema riguarda l'incompatibilità dell'interpretazione restrittiva della nozione di violenza, fondata sull'idea di aggressione fisica, con le vessazioni sul lavoro, che possono essere sì costituite da violenze di tale tipologia, ma nella maggior parte dei casi si concretano in violenze morali. D’altra parte una lettura estensiva di tale concetto – che prescinde cioè dall’elemento fisico - sarebbe rischiosa: sebbene funzionale ad obiettivi di politica criminale in ordine alla repressione di condotte socialmente riprovevoli, troverebbe non pochi profili di contrasto con la funzione di garanzia del diritto penale, specie con il divieto di analogia. Il mobbing infatti non solo può essere caratterizzato da condotte che, singolarmente considerate, risulterebbero lecite, ma anche da condotte che potrebbero risultare addirittura “normali” nella gestione d’impresa quindi tutto fuorché violente. La sottrazione di compiti, il divieto di utilizzare il telefono, il mancato invito a delle riunioni etc. se considerati cumulativamente potrebbero indurre il lavoratore a dimettersi ma, se considerati singolarmente, sono senz’altro sprovvisti della qualità di condotte violente e perciò coercitive. Volendo tirare una linea di demarcazione ben si potrebbe dire che una cosa è la coercizione, altra è l’induzione .
Anche qui dunque come in precedenza emerge in tutta la sua evidenza la difficoltà di una sussunzione in automatico: la violenza privata non può garantire una copertura penale al fenomeno complessivamente considerato senza comportare, in alcuni casi, l’adozione di una nozione di violenza inaccettabile e del tutto incompatibile con il nostro ordinamento.
Concludendo e volendo “spezzare una lancia” a favore della possibile utilità del 610 c.p. ai fini di una repressione dei fenomeni di mobbing, si osserva che il reato in questione può ben tutelare le vittime di determinati episodi di vessazioni - in particolare di quelle attuate con violenza e minaccia - garantendo perlomeno una copertura parziale al mobbing.
3.3 Atti persecutori
Il reato di atti persecutori, comunemente chiamato stalking, è disciplinato all’art. 612bis c.p., recentemente introdotto nel nostro codice penale dall'art 7 del decreto legge 11/2009, convertito con modifiche nella legge 23 aprile 2009, n.38. Pone in essere questo reato chi “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”, salvo che il fatto costituisca più grave reato.
Dalla collocazione sistematica si evince che il bene giuridico tutelato è la libertà morale, intesa questa volta come tranquillità individuale e libertà di autodeterminazione. Asistematicamente invece la norma può considerarsi a presidio anche della salute mentale e fisica della vittima. Se mettiamo insieme le due cose possiamo affermare che in realtà è configurata con la norma una tutela assai ampia che riguarda in generale l’intangibilità della sfera privata.
Molto si è discusso circa l’inquadramento del reato di stalking tra i reati di evento o di mera condotta: oggi si ritiene il reato ascrivibile alla prima delle due categorie, essendo stato valorizzato, soprattutto in dottrina, l’utilizzo di verbi pregnanti propri della causalità come cagionare, ingenerare e costringere .
Per quanto attiene all'elemento oggettivo, questo consiste nella reiterazione delle condotte di minaccia e molestia. Per minaccia si intende unanimemente la prospettazione di un male ingiusto il cui verificarsi o meno dipende dalla volontà dell'agente; più problematica invece è la definizione di molestia: innanzitutto è da rilevare come, nonostante all'interno dell'art. 612 bis c.p. il termine parrebbe da intendersi come descrittivo della condotta, sembrerebbe più corretto concepirlo come il risultato di un comportamento qualsiasi (telefonate notturne, pedinamenti, appostamenti, riprese fotografiche), che si concretizza in “un'intrusione nella sfera psichica altrui con conseguente compromissione della tranquillità personale e della libertà morale della vittima, senza però concretizzarsi in vere e proprie violenze sulla persona” .
Con riguardo al requisito della reiterazione molto si è discusso: ci si chiedeva in particolare quale fosse in numero minimo di condotte necessarie e quanto tempo dovesse trascorrere tra le varie ripetizioni. Senza entrare troppo nel dettaglio, il che richiederebbe un ampia dissertazione del tema, qui basti sapere che la giurisprudenza ha affermato che possono ritenersi sufficienti anche due sole condotte .
Per quanto riguarda l'evento, questo consiste alternativamente nel perdurante stato di ansia o paura, o nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto oppure nell'alterazione delle abitudini di vita, evento che non si riterrà integrato in presenza di piccoli cambiamenti irrilevanti. Secondo un'interpretazione restrittiva della fattispecie, inoltre, il terzo evento non gode di autonomia, ma deve essere sempre connesso allo stato di paura o al timore per l'incolumità, poiché solo in questo modo si giustificherebbe la pena comminata, ben più severa di quella prevista dai reati di minaccia e molestia poiché tesa a “bloccare sul nascere un'escalation persecutoria che, in base all'esperienza criminologica, troppo spesso passa dalle molestie all'aggressione fisica” .
Da quanto detto finora è chiaro perché alcuni studiosi hanno sovente candidato l’art.612bis c.p. a dare copertura al mobbing: l’elasticità della condotta, che per quanto vincolata lascia ampi margini di permeabilità data l’ampiezza dei comportamenti definibili come molesti, e la costruzione del reato come reato abituale, lo rendono sicuramente un valido alleato di coloro che ricercano una “strada” che conduca alla repressione del fenomeno.
Non si può fare a meno di fornire le controindicazioni. Vanno infatti tenute in debita considerazione le differenze tra mobbing e stalking: la principale riguarda la tipologia di relazione tra vittima e persecutore: “nel caso del mobbing, l'agente vuole allontanare la vittima, che invece lotta per mantenere la relazione, e cioè per conservare il posto di lavoro; nello stalking, lo stalker vuole a tutti i costi creare una relazione con la vittima, che invece la rifugge. Nel caso dello stalking, quindi, manca una relazione vera e propria, ma vi è solo l'unilaterale tentativo dell'agente di instaurarla, turbando la tranquillità della vittima, desiderosa di escludere interferenze altrui. Lo stalking, poi, è un fenomeno ampio, che interessa per lo più la sfera privata e attiene alle relazioni umane, mentre il mobbing è un fenomeno che si verifica unicamente nell'ambiente lavorativo. Il fenomeno delineato dall'art. 612 bis è inoltre ben più grave rispetto al mobbing: lo stalker pone in essere una persecuzione totale, che limita fortemente la libertà e la tranquillità individuale della vittima, causandole ansia, timore per la propria incolumità e costringendola a cambiare abitudini di vita per evitare tali attacchi; non di rado, purtroppo, azioni persecutorie di questo tipo sfociano in epiloghi tragici, conseguenze invece difficilmente verificabili in presenza del fenomeno mobbing” .
In conclusione si ritiene possibile garantire la copertura penale del mobbing tramite l'art. 612 bis c.p. qualora questo fenomeno sia realizzato attraverso comportamenti che si concretizzano in minacce e molestie, causative di un grave e perdurato stato d'ansia, del fondato timore per l'incolumità o del forzoso cambiamento di abitudini di vita. Manca, nel reato di atti persecutori, il fine dell'emarginazione del lavoratore, tipico del mobbing, ma non richiedendo l'art. 612 bis c.p. un dolo specifico incompatibile con tale fenomeno, ciò non impedisce il ricorso a questa norma per tutelare i soggetti mobbizzati.
Potrebbero sorgere dei problemi in relazione alla realizzazione dell'evento richiesto dall'art. 612 bis c.p. e cioè, disgiuntivamente, il grave stato d'ansia e paura, il fondato timore per l'incolumità e la costrizione a mutare abitudini di vita: non sempre infatti lo stato di “malattia” cagionato dal mobbing si manifesterà nelle forme dell'ansia e della paura e ugualmente potrebbe creare problemi il riscontro del cambiamento delle abitudini di vita; per quanto riguarda invece l'evento del fondato timore per l'incolumità, trattandosi di una formulazione molto vaga, sarebbe possibile farvi rientrare il generico timore del mobbizzato di continuare a subire le vessazioni.

  • Considerazioni in una prospettiva di riforma

Per concludere la trattazione faccio mia una considerazione fatta dal prof. Bartoli sulla possibilità di una tipizzazione del fatto di mobbing: in particolare egli ha osservato che là dove si decidesse di tutelare penalmente il lavoratore dai comportamenti persecutori realizzati nel contesto lavorativo, la prima questione che si dovrebbe risolvere è se convenga davvero tipizzare una fattispecie sul modello degli atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. oppure sia preferibile una tutela di tipo ingiunzionale. Nella prima prospettiva, le difficoltà di tipizzazione si farebbero ancora più consistenti di quelle che si sono presentate per lo stalking, e ciò proprio in ragione del fatto che di regola i comportamenti non sono altro che illeciti civili e giuslavoristici, realizzati in un contesto relazionale tendenzialmente elastico, e soprattutto in ragione del fatto che il vero nucleo di disvalore sta nella discriminazione, vale a dire nella realizzazione di alcuni comportamenti “positivi” verso alcuni lavoratori, con esclusione della vittima, oppure nella realizzazione di alcuni comportamenti “negativi” verso la vittima con esclusione di altri. In sostanza, la previsione di una fattispecie classica costituirebbe uno strumento troppo rigido e “astratto”, che mal si attaglia alle cangianti dinamiche del fenomeno.
Ecco allora che, proprio al fine di superare queste difficoltà, si potrebbe pensare ad un modello ingiunzionale, dove si impartiscono determinati ordini di fare e di non fare all’autore dei comportamenti discriminatori e dove il diritto penale è posto a tutela del provvedimento emesso. Questo modello consentirebbe di soddisfare molte esigenze.
Anzitutto, si supererebbero le difficoltà di tipizzazione del fatto, non solo e non tanto in termini di determinatezza da intendersi come certezza, ma anche e soprattutto in termini di determinatezza come disvalore, nel senso che, preso atto della difficoltà di configurare un contenuto di disvalore “punitivo” univoco ed omogeneo già a livello astratto, si rimetterebbe alla ricostruzione effettuata dai soggetti davanti al giudice il compito di individuare eventuali condotte discriminatorie.
Inoltre, proprio perché il diritto penale interverrebbe in via mediata rispetto a fatti nella sostanza privi di autentico disvalore criminoso, si rispetterebbero i principi di proporzione e sussidiarietà. A ciò, infine, si deve aggiungere che si tutelerebbe l’interesse della vittima alla permanenza della relazione e che si coprirebbero tutte sia le ipotesi classiche di mobbing verticale, sia quelle più “moderne” di mobbing orizzontale. Insomma, alla dinamicità ed articolazione di un fenomeno si risponderebbe con uno strumento molto più duttile e flessibile .


H. LEYMANN, in H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002. 

H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing cit., pag. 39. 

“Nei sistemi dove maggiore è la libertà di licenziare, minore sarà la frequenza delle strategie di bossing; al contrario, in una realtà dove il licenziamento è ammesso solo per giusta causa o giustificato motivo, pena sanzioni anche rilevanti, l'interesse a provocare le dimissioni può divenire molto forte”, Bona e Oliva, Il fenomeno del mobbing, in Monateri - Bona -Oliva, Mobbing. Vessazioni sul lavoro., Milano, 2000, pag. 10 

Cass. 29 gennaio 2008, n.20647

D. PULITANO’ (a cura di), Diritto penale. Parte speciale, I , Tutela penale della persona, 2011, Torino, Giappicchelli, p.434.

Cfr. Cass. n.26594/2009 che fa esemplificativamente riferimento al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o al rapporto che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista.

R.BARTOLI, Fenomeno del mobbing e tipo criminoso forgiato dalla fattispecie di maltrattamenti in famiglia, in Dir. Penale Contemporaneo.

Art.1 della Convenzione di Lanzarote, 25 ottobre 2007.

G.PAVICH, Luci ed ombre nel nuovo volto del delitto di maltrattamenti, in dir. Penale contemporaneo.

Si fa qui rinvio agli arresti giurisprudenziali relativi alla concubina non convivente, o all’amante legata al soggetto attivo da una relazione stabile, o alla persona legata all’autore da una relazione sentimentale, che abbia comportato un' assidua frequentazione della di lei abitazione.

C.PARODI, Mobbing e maltrattamenti alla luce della legge n.172/2012 di ratifica ed esecuzione della convenzione di Lanzarote, in dir. Penale contemporaneo.

In merito si veda anche Cass. sez VI n.19760/2013 con nota a sent. di F. FERRI e M. MIGLIO, La rilevanza penale del mobbing nelle imprese di grandi dimensioni, su dir. Penale contemporaneo.

Così L.ZOLI, Sulla rilevanza penale del mobbing: i maltrattamenti sono configurabili anche all’interno di imprese medio-grandi, in dir. Penale contemporaneo.

cfr. A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010, 203 ss.; A. Galanti, Prime considerazioni in ordine al reato di stalking: se diventasse (anche) mobbing?, in Giust. pen., 2010(2), 63 ss.

  Questa interpretazione è corroborata dal fatto che l’intensità e conseguente gravità dell’evento “malattia” costituisce principale criterio di articolazione interna della disciplina: da qui la distinzione tra lesioni semplici, gravi e gravissime; si rinvia alla lettura dell’art. 583 c.p.

Voce Lesione personale, in E. DOLCINI, G. MARINUCCI, Codice penale commentato, IPSOA, 2011.

D. PULITANO’ (a cura di) Diritto penale, Parte speciale, I, Tutela penale della persona, 2011, Torino, Giappicchelli.

S.BONINI, Aspetti penalistici del mobbing, in S.SCARPONI (a cura di) Il mobbing analisi giuridica interdisciplinare. Atti del convegno tenutosi a Trento il 8/11/07, Trento, 2009.

R.DIES, La difficile tutela penale contro il mobbing, in S.SCARPONI (a cura di) Il mobbing analisi giuridica interdisciplinare. Atti del convegno tenutosi a Trento il 8/11/07, Trento, 2009.

Cassazione n.33854 dell’aprile 2009.

Cassazione n.2013 del novembre 2009.

Voce Violenza privata, in E. DOLCINI, G. MARINUCCI, Codice penale commentato, IPSOA, 2011.

F.VIGANO’, La tutela penale della libertà individuale. L’offesa mediante violenza, Giuffrè, Milano, 2002, pag.39.

D. PULITANO’ (a cura di) Diritto penale, Parte speciale, I, Tutela penale della persona, 2011, Torino, Giappicchelli.

Voce Atti persecutori, in E. DOLCINI, G. MARINUCCI, Codice penale commentato, IPSOA, 2011.

Così abbastanza recentemente Cass. penale, sezione V n. 25527 del 5 luglio 2010; circa la possibile cesura di incostituzionalità per violazione del principio di determinatezza si rinvia da ultimo a sent. 172/2014 C.Cost.

Ancora cfr. Voce Atti persecutori, in E. DOLCINI, G. MARINUCCI, Codice penale commentato, IPSOA, 2011.

R.BARTOLI, Mobbing e diritto penale, in Diritto penale e processo, n.1, 2012, pag. 88.

R.BARTOLI, Fenomeno del mobbing e tipo criminoso forgiato dalla fattispecie di maltrattamenti in famiglia, in Dir. Penale Contemporaneo.

 

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