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Il diritto sindacale può definirsi come il complesso normativo disciplinante le associazioni di carattere economico-professionale, istituite a tutela degli interessi collettivi delle categorie dei prestatori e dei datori di lavoro. La normazione, oggetto del diritto sindacale, può distinguersi essenzialmente in due parti:
Il diritto sindacale interno comprende:
L’esistenza di un ordinamento sindacale, diverso dall’ordinamento statale, deriva dalla pluralità delle organizzazioni o istituzioni della comunità nazionale: ad ogni organizzazione può corrispondere un ordinamento giuridico e a quest’ultimo uno specifico apparato normativo, espressione dell’autonomia privata riconosciuta e ammessa dallo stato stesso.
Nell’ordinamento italiano manca una definizione legislativa di sindacato. In base alle formulazioni dottrinali e giurisprudenziali il sindacato professionale può definirsi l’associazione libera e spontanea di singoli individui nel particolare status di prestatori di lavoro subordinato o in quello di datori di lavoro; è un’associazione che rappresenta, attraverso i suoi organi elettivi interni, tutti gli individui che lo compongono nella loro qualità di soci; è un’associazione che agisce collettivamente al fine di tutelare i comuni interessi professionali nei confronti degli stessi soci, delle altre associazioni, degli altri soggetti giuridici (Mazzoni). La giurisprudenza ha successivamente precisato che perché ad un’associazione possa riconoscersi natura sindacale occorre che la sua attività di assistenza e di tutela sia svolta non soltanto a vantaggio degli associati, ma anche a vantaggio di tutti gli appartenenti alla categoria, anche se rimangono al di fuori dell’organizzazione.
L’art. 39 della Costituzione sancisce, al comma 1, il principio della libertà di organizzazione sindacali e nei commi successivi dispone che:
La mancata attuazione dell’art. 39 Cost. (che richiederebbe la registrazione del sindacato con conseguente riconoscimento della personalità giuridica) fa sì che le organizzazioni sindacali siano oggi delle mere associazioni non riconosciute. I soci, detti comunemente iscritti al sindacato, sono coloro che fondano l’associazione (cd. promotori) oppure che vi aderiscono successivamente mediante l’iscrizione. Il sindacato è un’associazione aperta: per iscriversi occorrono essenzialmente due requisiti:
Una volta ottenuta l’iscrizione, l’associato acquista posizioni giuridiche soggettive attive e passive così sintetizzabili:
nei rapporti interni:
nei rapporti esterni:
nei rapporti interni:
nei rapporti esterni:
L’organizzazione sindacale dei lavoratori è strutturata sia su base verticale (in base cioè all’attività svolta dal lavoratore nell’impresa), sia su base orizzontale (ovvero su base professionale). Su base verticale abbiamo i sindacati, organizzati per categoria economica i quali, a loro volta, confluiscono nel sindacato provinciale di categoria; dal quest’ultimo si passa alle federazioni nazionali che, a loro volta, danno vita alla Confederazione. I sindacati provinciali, però, si uniscono anche in linea orizzontale nella Unione territoriale, che prende nomi diversi a seconda della centrale sindacale cui fa capo (ad esempio: Camera del Lavoro nella CGIL; Unione sindacale provinciale CISL; Camera sindacale provinciale nella UIL).
Le confederazioni di maggior rilievo, anche per numero di iscritti, sono tre:
Alle tre confederazioni storiche si è recentemente aggiunta l’Unione Generale del Lavoro (UGL), di ispirazione corporativa.
L’art. 39, comma 1, della Costituzione, sancisce la libertà dell’organizzazione sindacale che costituisce una autonoma e specifica manifestazione del generalissimo principio di libertà di associazione, di cui all’art. 18 Cost.
Per quanto riguarda invece i datori di lavoro coesistono sistemi diversi che prevedono una distinzione in base alla natura del capitale delle imprese rappresentate, alla loro dimensione, al settore di attività: esistono associazioni di imprenditori privati e pubblici, di imprenditori agricoli, di piccoli e medi imprenditori, di costruttori, di imprenditori tessili.
L’art. 39, comma 1, della Costituzione, sancisce la libertà dell’organizzazione sindacale che costituisce una autonoma e specifica manifestazione del generalissimo principio di libertà di associazione, di cui all’art. 18 Cost. La fonte normativa più importante dopo la Costituzione, in materia di libertà sindacale, è oggi la L. 300/70 meglio nota come Statuto dei Lavoratori. Essa ha recepito i principi fondamentali fissati dalla Costituzione stessa tendendo non a disciplinare la libertà sindacale, bensì a garantire l’esercizio delle medesima all’interno delle unità produttive, predisponendo, al riguardo, anche un efficiente apparato sanzionatorio.
Ai sensi dell’art. 19 St. Lav. si può definire la rappresentanza sindacale aziendale come qualunque tipo di organizzazione attraverso cui il sindacato è presente nell’azienda, purché derivi dall’iniziativa dei lavoratori ed abbia qualificazione sindacale, cioè sia riferibile alla struttura sindacale. Inoltre, in seguito al referendum ex D.P.R. 312/95 che ha portato alla riformulazione dello stesso art. 19, “rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva. Nell’ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento”. Ne consegue che i requisiti per la costituzione delle RSA e, quindi, per fruire della normativa di sostegno sono solo i seguenti:
Va comunque ridimensionato il peso dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori nell’attuale sistema delle relazioni sindacali all’interno dell’azienda e questo in quanto le rappresentanze sindacali unitarie (RSU), previste e disciplinate dagli accordi interconfederali, vanno progressivamente sostituendosi alle RSA le quali, dunque, finiscono con l’avere valenza solo in quelle realtà imprenditoriali marginali che non applicano i contratti collettivi. Il Protocollo d’intesa siglato dalle parti sociali e dal governo nel 1993, approvato a larga maggioranza dalla base dei lavoratori, riconosce le RSU come rappresentanze sindacali sulla base dell’accordo tra le suddette confederazione del 1991, stabilendo, altresì, che i contratti nazionali di lavoro deleghino a tali organismi la titolarità della contrattazione di secondo livello (cioè aziendale o territoriale). Il successivo accordo del 1993 ha disciplinato al costituzione, i compiti ed il funzionamento delle RSU ed a dato, in tal modo, attuazione ai principi dettati dall’accordo del luglio 1993. In particolare stabilisce:
Le RSU possono essere costituite ad iniziative delle associazioni sindacali firmatari del Protocollo del luglio 1993, da quelle firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro o dagli altri sindacati abilitati alla presentazione delle liste; esse hanno durata triennale al termine della quale si deve procedere al rinnovo dei loro componenti.
L’elettorato attivo è sostituito da tutti i lavoratori iscritti e non iscritti addetti all’unità produttiva, l’elettorato passivo è definito attraverso apposite liste che possono essere presentate da tutte le associazioni sindacali purché formalmente costituite e aderenti al contenuto dell’accordo.
L’elezione avviene a scrutinio segreto ed ha validità se è raggiunto un quorum di votanti pari alla metà più uno degli aventi diritto. I seggi sono assegnati per i 2/3 in misura proporzionale ai risultati conseguiti nelle diverse liste, mentre il restante terzo viene ripartito tra le associazioni stipulanti il contratto collettivo nazionale in proporzione ai voti ottenuti nelle elezioni per gli altri 2/3 e potrà essere ricoperto anche da soggetti designati dalle associazioni e non inclusi nelle liste.
Lo sciopero, da sempre mezzo tipico di lotta sindacale, può considerarsi la principale forma di autotutela dei lavoratori. Esso si configura come una astensione totale e concertata dal lavoro da parte di più lavoratori subordinati per la tutela dei loro interessi collettivi.
In uno Stato di diritto come il nostro, normalmente, la tutela dei diritti è demandata all’autorità giudiziaria. Nel mondo del lavoro sussistono, invece, varie forme di autotutela attuate attraverso il riscorso a particolari forme di azione dirette le quali hanno carattere eccezionali nel nostro ordinamento e non trova alcuna corrispondenza nelle forme in cui si manifesta l’autonomia privata. Queste forme di azione diretta si riferiscono non a diritti già sorti, ma ad interessi privi di una tutela giuridica nell’ordinamento e possono avere ad oggetto non solo la modificazione del rapporto per quanto riguarda il suo aspetto economico, ma anche la difesa delle posizione morale e della dignità professionale del lavoratori.
Le forme più ricorrenti di autotutela sindacale sono rappresentate dallo sciopero, della serrata, nonché da altri mezzi di lotta sindacale quali il boicottaggio, la non collaborazione, l’ostruzionismo.
Lo sciopero, tradizionale mezzo di lotta sindacale, può considerarsi la principale forma di autotutela dei lavoratori. Esso si configura come una astensione totale e concertata del lavoro da parte di più lavoratori subordinati per la tutela dei loro interessi collettivi. Lo sciopero viene oggi quindi ad essere considerato non una semplice libertà ma un vero e proprio diritto soggettivo fondamentale ed irrinunciabile concesso al solo prestatore di lavoro. Più precisamente, per migliore dottrina, lo sciopero, come diritto, va collocato fra i diritti soggettivi pubblici di libertà (Grezzi, Romagnoli, Galantino).
La titolarità del diritto di sciopero è attribuita al singolo prestatore di lavoro, il quale lo può esercitare senza il bisogno di alcun benestare sindacale. Tuttavia, se è vero che il diritto di sciopero si configura come individuale quanto alla sua titolarità, è anche vero che si configura come collettivo quanto al suo esercizio. Infatti, solo l’abbandono collettivo del posto di lavoro da parte di una pluralità di lavoratori, può qualificarsi come esercizio del diritto di sciopero; ciò in quanto solo una astensione collettiva e concordata dal lavoro può consentire di realizzare quei fini collettivi per il raggiungimento dei quali è preordinato lo sciopero.
Il diritto di sciopero incontra limiti esterni (relativi cioè ad eventuali contrasti tra l’interesse garantito dal diritto di sciopero con altri interessi costituzionalmente tutelati) ed interni (derivanti cioè dalla stessa nozione di sciopero).
Quanto ai primi, la necessità di assicurare il godimento di diritti costituzionalmente garantiti ha comportato l’esclusione della titolarità del diritto di sciopero per tutti quei lavoratori occupati in attività connesse o strumentali alla tutela di tali diritti. In specie si discute circa l’ammissibilità dello sciopero per le seguenti categorie di lavoratori:
Per quanto riguarda i possibili limiti oggettivi al diritto di sciopero, la mancata regolamentazione legislativa ha reso spesso difficile definire l’esatta configurazione dello sciopero, la sua portata, i suoi limiti. Attualmente, anche al lume della prassi giurisprudenziale, è possibile, è opinione prevalente che lo sciopero, inteso come totale astensione dal lavoro, si legittimi pienamente tutte le volte che sia finalizzato alla tutela degli interessi dei lavoratori, interessi che non vanno riferiti alle sole rivendicazioni retributive, ma coinvolgono e ricomprendono quel vario complesso di beni riconosciuti e tutelati nella disciplina costituzionale dei rapporti economici.
Tra le fattispecie di maggior rilievo la Corte Costituzionale ha stabilito la legittimità:
La giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cassazione, fino all’inizio degli anni 1980, oltre alla classe dei limiti esterni, riconosceva anche l a categoria dei limiti interni, derivanti, cioè, dalla stessa nozione di sciopero , con la conseguenza che non sarebbero legittime le astensioni collettive dal lavoro attuate con modalità anomale e particolari. Ne conseguiva l’illegittimità di tutte quelle forma di lotte sindacale non rispondenti alla definizione canonica di sciopero.
Tuttavia a partire dagli anni ’80 la Cassazione ha mutato il proprio orientamento, precisando che la nozione di sciopero deve essere desunta dal comune linguaggio adottato nell’ambiente sociale, vale a dire dalla prassi delle relazioni industriali per cui se non tutte le forme di lotta possono essere ritenute legittime, per gran parte di esse, pur non rientranti nella nozione consolidata di sciopero, va ammessa l’applicazione diretta dell’art. 40 che legittima la pratica. Tra le forme anomale di sciopero si ha:
Sono da citare, infine, alcune forma di protesta per le quali prevale l’indirizzo dottrinale e giurisprudenziale che le ritiene illegittime, per contrasto con i diritti costituzionalmente garantiti dalla libertà di iniziativa economica e del lavoro (art. 41 e 4 Cost.), ed in specie:
L’effettuazione di uno sciopero, stante la garanzia costituzionale, costituisce un fatto giuridicamente lecito e non una ipotesi di inadempimento contrattuale, per cui non può comportare la insorgenza di alcuna responsabilità nei rapporti tra le parti (Giugni). Unico effetto dell’esercizio del diritto di sciopero sarà la sola sospensione bilaterale delle due prestazione fondamentali del rapporto di lavoro e cioè della prestazione del lavoratore da parte di dipendenti e della corresponsione della retribuzione da parte dei datori di lavoro. Al di fuori delle anzidette conseguenze, durante l’esercizio del diritto di sciopero, il rapporto di lavoro resta in vigore ed operante ad ogni altro possibile fine (prestazioni degli enti previdenziali). I principi di cui sopra hanno trovato conferma nella stessa legislazione dapprima con la legge 604 del 1966 che, all’art. 4, ha dichiarato nullo il licenziamento determinato dalla partecipazione ad attività sindacale e, successivamente, con lo Statuto dei lavoratori che, agli artt. 15, 16 e 28 vieta e punisce ogni comportamento del datore di lavoro inteso ad impedire o limitare l’esercizio del diritto di sciopero.
Occorre accennare agli effetti dello sciopero sul trattamento di fine rapporto, sulla 13° mensilità e sul godimento delle ferie. Se per quanto concerne il TFR, la disciplina introdotta con la legge 297 del 1982 dispone la non incidenza delle giornate di sciopero per il calcolo del TFR, sussiste in dottrina e giurisprudenza contrasto per quanto concerne la tredicesima mensilità e le ferie. In considerazione del fatto che lo sciopero sospende l’obbligo della corresponsione della retribuzione da parte del datore di lavoro e che la tredicesima mensilità ha natura di retribuzione differita, la Cassazione ha ritenuto legittima la trattenuta di una quota ad essa proporzionale al periodo dello sciopero, estendendo, in pratica, anche a tale elemento accessorio della retribuzione il principio della sospensione per effetto dello sciopero.
Ugualmente è stata ritenuta la legittimità della non corresponsione della retribuzione per le giornate festive che cadono durante i giorni di sciopero nonché la legittimità della riduzione delle ferie in proporzione al periodo di astensione dal lavoro in quanto, tanto il pagamento delle giornate festive che le ferie, sono in rapporto di sinallagmaticità con una concreta prestazione lavorativa. Di contrario avviso è la dottrina la quale obietta che il pagamento della tredicesima mensilità non è in rapporto di sinallagmaticità con la singola prestazione lavorativa, ma deriva dalla costanza del rapporto di lavoro che non viene intaccata dallo sciopero e che, relativamente alle ferie, il comma 3 dell’art. 36 Cost. pone come elemento necessario per la nascita di un diritto, non l’effettiva prestazione lavorativa bensì il semplice fatto di essere lavoratori.
Ci si è chiesti se lo sciopero per il datore di lavoro caso di forza maggiora e quindi motivo di esonero di responsabilità nei confronti di terzi verso i quali abbia assunto un’obbligazione. L’orientamento prevalete ritiene che ove lo sciopero abbia carattere economico occorra verificare l’evento colpa del datore nel resistere alle richieste dei lavoratori. Pertanto laddove il datore abbia prontamente e seriamente risposto alle richieste dei lavoratori e trattato con loro, non potrà essere responsabile nei confronti dei terzi per inadempimento, dovuto allo sciopero dei suoi dipendenti verificatosi nonostante ogni suo sforzo. Nel caso di sciopero politico, invece, la pretesa degli scioperanti non rientra nella disponibilità del datore di lavoro, e quindi ricorre un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione del datore di lavoro nei confronti dei terzi per causa a lui non imputabile.
L’esercizio del diritto di sciopero comporta che il datore di lavoro non possa attuare comportamenti discriminatori nei confronti degli scioperanti ex art. 15, 16, 28 legge 300/70. Ci si è chiesti se il datore possa sostituire temporaneamente i dipendenti in sciopero con altri lavoratori (crumiraggio).
La serrata è la chiusura, da parte del datore di lavoro, dei normali luoghi di lavoro, in modo da rendere impossibile lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte dei prestatori e ciò allo scopo di impedire prevedibili azioni di protesta dei prestatori medesimi ovvero indurre gli stessi a recedere da un determinato comportamento. La nostra Costituzione, mentre riconosce lo sciopero come diritto fondamentale del lavoratore (art. 40), tace per quanto concerne la serrata. La Corte Costituzionale ha dichiarato con la sentenza n. 29 del 1960 la illegittimità costituzionale dell’art. 502 c.p. che sanzionava penalmente (unitamente allo sciopero economico) la serrata per fini contrattuali. Ne consegue la possibilità di considerare legittima sul piano penale la serrata per finalità contrattuali ovvero indirizzata nei confronti dei dipendenti e per ragioni strettamente inerenti al rapporto di lavoro.
Parte della dottrina ritiene ammissibile, in caso di serrata (considerata come illecito civile), l’azione di risarcimento danni da parte del dipendente per “mora accipiendi” ex art. 1206 c.c. e segg.
Benché l’art. 40 della Costituzione prevedesse l’esercizio del diritto di sciopero nell’ambito delle leggi che lo regolano, tale previsione è restata disattesa fino all’emanazione della legge 146 del 1990, emanata al fine di “contemperare l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione”. Dopo circa dieci anni di operatività della legge 146 del 1990, la legge n. 83 del 2000, sulla scorta degli indirizzi della dottrina e della giurisprudenza, nonché gli stessi orientamenti della Commissione di garanzia, la disciplina originaria della legge 146 del 1990 è stata sostanzialmente riformata, in particolare potenziando il metodo preventivo rendendo più rigoroso l’apparato sanzionatorio e conferendo maggiori poteri alla Commissione di Garanzia, sia sotto il profilo della prevenzione, sia sotto quello della repressione degli scioperi illegittimi.
I servizi pubblici essenziali nel cui ambito lo sciopero deve essere regolamentato sono (art. 2, comma 2, della legge 146 del 1990):
La legge 146 afferma il principio della garanzia dei diritti fondamentali nel settore dei servizi pubblici indipendentemente dalla qualificazione giuridica del lavoratore. Di conseguenza la disciplina della legge 146 di applica ai:
La sottoposizione alla legge 146 opera nei confronti di tutti i lavoratori la cui attività lavorativa si collochi nel campo dei servizi pubblici essenziali di cui all’art. 1 della legge e le cui astensioni collettive dal lavoro incidano sulla funzionalità dei servizi.
Prima della riforma del 2000 i lavoratori non subordinati erano contemplati dalla 146 dolo in relazione alla possibilità di essere oggetto di una ordinanza di precettazione e limitatamente ai lavoratori autonomi e ai titolati di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Con le modifiche apportate, anche l’astensione collettiva dalle prestazioni, ai fini di protesta o di rivendicazione di categoria, da parte dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori è subordinata all’osservanze delle procedure e delle modalità definite dai codici di autoregolamentazione. Questi ultimi, che sono emanati dalle associazioni e dagli organismi di rappresentanza delle categorie professionali, sono assimilabili ai contratto o accordi collettivi in cui vengono individuate le prestazioni indispensabili.
Il diritto di sciopero, nei servizi pubblici essenziali, è consentito nel rispetto di tre condizioni:
La legge 146 vieta il c.d. effetto annuncio (o anche sciopero virtuale), stabilendo che la revoca spontanea dello sciopero proclamato dopo che ne sia stata data informazione all’utenza costituisce forma sleale di azione sindacale.
Gli accordi o contratti collettivi tra amministrazioni pubbliche e associazioni sindacali dei lavoratori integrano la disciplina di legge che, quale norma astratta e generale, non specifica in ciascun ambito quante e quali prestazioni devono essere assicurate all’utenza, demandando tale compito alla contrattazione collettiva. A tal fine, nei contratti o accordi collettivi, per ciascun comparto della P.A. che eserciti un servizio pubblico essenziale devono essere individuate:
I contratti collettivi che individuano le prestazioni indispensabili, nonché i codici di autoregolamentazione per le categorie dei lavoratori autonomi, liberi professionisti e piccoli imprenditori, che erogano servizi di pubblica utilità, devono essere sottoposti al vaglio della Commissione di Garanzia (art. 10 della legge 83 del 2000). Nell’effettuare la propria valutazione, la Commissione ha l’obbligo di sentire, per un parere, le associazioni dei consumatori e degli utenti e deve tenere conto dei parametri di riferimento definiti nella stessa legge (le prestazioni indispensabili individuate nei contratti collettivi non possono eccedere il limite del 50% dei servizi normalmente erogati e non possono riguardare più di 1/3 della forza lavoro occupata). Il procedimento termina con un giudizio che può essere positivo o negativo. In caso di inidoneità, che deve essere debitamente motivata dalla commissione, dell’accordo:
La provvisoria regolamentazione, emanata dalla commissione, ha carattere vincolante ed è mirata a garantire le finalità della legge in caso di mancanza di regole collettive oppure quando esse siano giudicate non idonee.
Nell’ipotesi di dissenso tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori su clausole specifiche del contratto collettivo e sulle prestazioni essenziali da garantire in caso di sciopero, può essere indetta una consultazione dei lavoratori, da parte della commissione: di propria iniziativa; su proposta di una delle organizzazioni sindacali; su richiesta motivata dei prestatori di lavoro. La consultazione deve avvenire nei 15 giorni successivi alla sua indizione, fuori dell’orario di lavoro, ma nei locali dell’impresa o dell’amministrazione interessata, sotto la vigilanza della DPL.
L’art. 8 della legge 146 del 1990 disciplina la procedura di precettazione che ha sostituito, almeno nell’ambito dei servizi pubblici essenziali, l’analogo istituto previsto dal Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 e dalla legge comunale del 1934. Il procedimento di precettazione può essere attivato:
Le autorità precettanti emanano una ordinanza affinché le parti desistano dai comportamenti contrari alla disciplina di legge o patrizia e promuovono l’esperimento di un tentativo di conciliazione. Solo se tale tentativo non dia esito positivo, viene emanata l’ordinanza di precettazione che deve essere portata a conoscenza di tutti i soggetti interessati dallo sciopero e, attraverso i mass media, alle utenze. L’ordinanza può disporre che lo sciopero sia posticipato, che ne sia ridotta la durata o cha avvenga con modalità diverse, tali da garantire le finalità della legge. Essa deve essere adottata entro 48 ore dallo sciopero, eccetto che sia in corso il tentativo di conciliazione o vi siano urgenze particolari. In caso di inottemperanza all’ordinanza di precettazione la legge prevede un completo apparato sanzionatorio (art. 9 della legge 146 del 1990).
La riforma operata con la legge n. 83 del 2000 è intervenuta sul sistema delle sanzioni poste a presidio della legge, allo scopo di renderlo più equilibrato ed efficace. All’uopo l’art. 13, comma 1, lett. i) della legge conferisce alla Commissione i seguenti poteri sanzionatori:
Il potere sanzionatorio configurato dalla legge spetta quindi, attualmente alla Commissione ed è da essa esercitato direttamente, anche se per mezzo del datore di lavoro in qualità di detentore dei beni oggetto della sanzione.
La procedura per l’irrogazione delle sanzioni è stabilita al comma 4 quater (comma introdotto dalla legge 83/00):
Nella delibera indicante la sanzione viene indicato anche il termine entro cui essa deve essere applicata e dell’avvenuta esecuzione della sanzione deve essere data informazione alla Commissione di garanzia nei 30 giorni successivi.
Trattasi di un apposito ente super partes deputato a valutare l’idoneità delle misure volte ad assicurare il contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona.
Fonte: http://www.controcampus.it/wp-content/uploads/2012/03/Mazziotti-Compendio_Di_Diritto_Del_Lavoro__Aggiornato_.doc
Sito web da visitare: http://www.controcampus.it
Autore del testo: M. De Stasio www.studiodestasio.it
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