Prestazioni di lavoro mansioni qualifiche e categorie

Prestazioni di lavoro mansioni qualifiche e categorie

 

 

 

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Prestazioni di lavoro mansioni qualifiche e categorie

LA PRESTAZIONE DI LAVORO: MANSIONI, QUALIFICHE E CATEGORIE.
1. L'obbligazione di lavoro.
Il rapporto di lavoro è un rapporto complesso, risultante da 2 contrapposte obbligazioni fondamentali (di lavoro e di retribuzione) e da una serie di altri obblighi e doveri reciproci fra loro connessi e correlati alle obbligazioni principali.
La prestazione di lavoro è oggetto dell'obbligazione principale del lavoratore. L’obbligazione di lavorare è un’obbligazione di comportamento (o di attività) che impone al lavoratore soltanto di tenere un certo comportamento, e non di raggiungere un risultato specifico.
Gli elementi che concorrono a determinare la prestazione di lavoro sono diversi; il tipo di attività, la durata (intesa come orario di lavoro e più in generale tempo di lavoro) e il luogo di esecuzione della prestazione.
Per indicare il tipo di attività che costituisce oggetto dell’obbligazione di lavoro si fa riferimento alle mansioni del lavoratore (art. 2103 c.c.). In relazione alle mansioni si stabiliscono qualifica e categoria.
L'oggetto della prestazione di lavoro è dunque determinato solo in modo generico, con riferimento cioè alla serie di compiti e quindi alle mansioni per le quali è stato assunto. La specificazione dei compiti di volta in volta richiesti al lavoratore rientra nel potere direttivo del datore di lavoro, che lo esercita tramite i suoi collaboratori appartenenti alla c.d. linea gerarchica (capi di vario livello). Le mansioni sono dunque l’insieme dei compiti e delle concrete e specifiche attività che il lavoratore è chiamato ad eseguire e che sono esigibili dal datore di lavoro. Esse individuano l’oggetto specifico dell’obbligazione lavorativa.
Una simile determinazione relativamente gerarchica corrisponde alle esigenze mutevoli dell'organizzazione del lavoro. L'individuazione di compiti troppo stretti quali contenuto dell'obbligazione ostacolerebbe un impiego flessibile del lavoratore. L'assunzione con compiti troppo indefiniti, a parte l'ipotesi (di scuola) di nullità del contratto per indeterminatezza dell'oggetto (art. 1346 c.c.), contraddirebbe il principio della divisione del lavoro, essenziale alla moderna organizzazione produttiva. Con l'avvento del modello post-fordista si è assistito ad un allargamento delle mansioni, che tendono a divenire polivalenti.
I gruppi di mansioni risultanti dalle classificazioni delle posizioni di lavoro individuano le qualifiche. La qualifica dunque individua un raggruppamento di mansioni che in genere individua una figura professionale.
La qualifica designa lo status professionale del lavoratore (identificato in base alle mansioni assegnate) e concorre con le mansioni a determinare la sua posizione nella struttura organizzativa dell’impresa, e quindi il suo trattamento economico e normativo.
Benché sia la qualifica che la mansione concorrano entrambe a determinare l’oggetto della prestazione dovuta dal lavoratore e la sua posizione giuridica, esse si distinguono, in quanto la qualifica indica l’oggetto generico dell’obbligazione lavorativa inerente allo status professionale del lavoratore, mentre le mansioni individuano l’oggetto specifico dell’obbligo, i concreti compiti che il lavoratore esegue in base alle direttive del datore.
Le qualifiche sono a loro volta raggruppate in entità classificatorie più ampie: le categorie. Il codice civile (art. 2095) individua 4 categorie; operaio, impiegato, quadro e dirigente (il quadro è stato aggiunto nel 1985).
Il codice (art. 2095) rinvia all’autonomia collettiva l’esatta determinazione dei requisiti di appartenenza a ciascuna categoria. I contratti collettivi di categoria, infatti, contengono le c.d. declaratorie, vale a dire formulano per ciascuna categoria i criteri di appartenenza sulla base delle mansioni svolte che variano peraltro in funzione del livello di appartenenza (per quanto riguarda i “livelli di appartenenza”, si tratta di diversi livelli di professionalità che la contrattazione collettiva identifica all’interno delle varie categorie o, qualifiche legali, come vengono altresì definite le categorie in ambito contrattuale).
È il caso poi di precisare che la terminologia contrattuale tradizionale inverte quella legislativa. La contrattazione collettiva parla di “qualifica” per indicare le categorie legali (operaio, impiegato, quadro e dirigente) e di “categorie”, “livelli” o “profili professionali” per indicare le classificazioni interne (operaio di 1° o 2° categoria o livello).
2. Le categorie dei lavoratori: impiegati e operai.
La distinzione fra operai e impiegati ha fondamento legislativo nella storica legge sull’impiego privato (R.D.L. n. 1825 del 1924). Questa legge è la prima disciplina organica del rapporto di lavoro di origine statuale, influenzata dalla precedente normativa degli usi e dai principi della giurisprudenza dei probiviri.
I criteri distintivi delle 2 categorie sono indicati nell'art. 1 della L. del 1924  ove si definisce l'impiegato come colui che svolge attività professionale, con funzioni di collaborazione, tanto di concetto che di ordine, eccettuata ogni prestazione che sia solamente di manodopera. I criteri della “professionalità” e della “non manualità” della prestazione dell’impiegato sono apparsi subito scarsamente rigorosi. Si è dato così rilievo al criterio della “collaborazione impiegatizia”, cioè alla particolare funzione degli impiegati di collaborare ad attività organizzative proprie dell’imprenditore, e quindi di agire in sua sostituzione. Formula, questa, che è consolidata anche nella codificazione del 1942.
Il superamento della distinzione fra operai e impiegati si è avviato (ad opera della contrattazione collettiva) prima nei settori ad alta percentuale impiegatizia, dove l'operazione era più facile, poi nell'industria a partire dalla tornata contrattuale del 1973. L'unificazione dei metodi di classificazione e di valutazione retributiva del lavoro si è realizzata con il c.d. “inquadramento unico”, anche se non sono eliminate le differenze residue (ad es. le diverse discipline contrattuali del periodo di prova, di preavviso, nonché alcune diversità della disciplina legale in tema di previdenza e sicurezza sociale). La giurisprudenza ha evitato di forzare il superamento di tali residue differenze, respingendo le posizioni critiche che ne sostenevano la sopravvenuta illegittimità. Comunque, la diminuzione delle differenze, a partire dagli anni '90, ha attenuato l'interesse sia della giurisprudenza che della dottrina per la tradizionale questione della distinzione fra operai e impiegati.
2.1. Dirigenti.
Per quanto riguarda la disciplina legale, la specialità della disciplina è di tipo “negativo”. Infatti molte disposizioni che prevedono tutele e garanzie a favore dei lavoratori non si applicano ai dirigenti (in relazione al licenziamento, alla durata della giornata lavorativa, alla durata massima settimanale, ecc.).
Sotto il profilo contrattuale invece, la disciplina si caratterizza in senso prettamente “positivo”. La maggiore forza negoziale dei dirigenti (sia a livello individuale che collettivo) fa si che essi riescano ad ottenere un trattamento economico notevolmente vantaggioso rispetto alle altre categorie di lavoratori.
Se la specialità della disciplina è netta, non può dirsi altrettanto dei criteri distintivi della categoria tra dirigenti e quadri.
In mancanza di definizioni legali (l'art 2095 c.c. rinvia alla contrattazione) l'identificazione di tali criteri è stata operata dalla giurisprudenza, ricorrendo alle indicazioni contrattuali. La definizione tradizionale della giurisprudenza è che il dirigente costituisce l'alter ego dell'imprenditore, preposto alla direzione dell'intera impresa o a un ramo importante ed autonomo di questa e provvisto per questa ragione di piena autonomia.
A partire dagli anni '80 la giurisprudenza ha dovuto prendere atto dell'evoluzione che ha progressivamente allargato la figura fino a comprendervi lavoratori del tutto privi di poteri direzionali e di autonomia.
Il riconoscimento della qualifica dirigenziale attraverso la contrattazione rende applicabile la disciplina contrattuale, ma non basta di per sé a rendere applicabile a tali figure la disciplina legale speciale. I giudici hanno cercato di tenere separata la qualificazione di dirigente ai fini legali da quella a fini contrattuali con il riconoscimento della c.d. “qualifica convenzionale di dirigente”. Ma il tentativo non ha fermato la tendenza espansiva della categoria. In realtà l'identificazione del dirigente, non può basarsi su criteri astratti e generali (come quello di alter ego), ma deve risultare da un'analisi delle funzioni.
La tendenza verso l'espansione della categoria ha indotto parte della dottrina a porre in discussione la sua stessa unitarietà. Nonostante l'unitarietà della figura continui ad essere riaffermata dall'opinione prevalente, la giurisprudenza più recente sembra porsi su tale scia: avvalla una nozione restrittiva di dirigente apicale (top manager) coincidente con quella di alter ego del datore di lavoro vuoi per escluderlo dalla soggezione del potere disciplinare, vuoi per sottrarlo alla disciplina limitativa del licenziamento. Detto orientamento alimenta una tendenza ad allontanare il dirigente apicale dalle tutele delle altre categorie e, nel contempo, a ricondurre il dirigente minore nell'alveo del c.d. “pseudo-dirigente” o dirigente meramente convenzionale, con conseguente applicazione delle tutele lavoristiche.
2.2. I quadri.
La L. n. 190/1985 nel modificare l'art. 2095 c.c., definisce i quadri come quei lavoratori che, pur non appartenendo alla categoria dirigenziale, svolgono continuativamente funzioni di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa. Ancora una volta il legislatore affida alla contrattazione collettiva il compito di stabilire i requisiti di appartenenza alla categoria.
La portata di questa norma è incerta: dubbie sono soprattutto le conseguenze della sua inosservanza in ordine all'identificazione della categoria. Gli aspetti di disciplina speciale individuati dalla L. n. 190 sono alquanto limitati e non sono neppure necessariamente collegati alla posizione di quadro, ma estendibili a tutti i prestatori che siano meritevoli di pari considerazione per le mansioni svolte. Per gli altri aspetti non espressamente regolamentati, ai quadri si applicano le norme riguardanti la categoria degli impiegati, salvo diversa espressa disposizione della contrattazione collettiva (art. 2, 3°comma, L. n. 190/1985).
La difficoltà di delimitare la figura dei quadri, verso l’alto rispetto ai dirigenti e verso il basso rispetto agli impiegati con funzioni direttive, è confermata dall'esperienza contrattuale successiva alla L. n. 190/1985; in generale avvalora la scarsa aderenza all'attuale realtà organizzativa del lavoro di classificazioni come quelle dell'art 2095 c.c., imperniate su categorie rigide.
L’orientamento dei sindacati confederali, in sede di contrattazione collettiva nazionale, mostra una tendenza al contenimento della categoria. Tendenza che pare confermata dalla Corte Costituzionale, la quale ha rilevato che la categoria rientra pur sempre nell’ambito impiegatizio, sia pure inteso latu sensu, cosicché al riconoscimento sul piano legislativo della nuova categoria professionale non è seguito un vero e proprio “riconoscimento” sul piano sindacale.
3. Le mansioni e la qualifica.
L'individuazione delle mansioni del lavoratore (e quindi la sua qualifica e categoria) si determina secondo le regole generali in materia di rapporti contrattuali. È questo il principio di contrattualità delle mansioni, desumibile dall’art. 2103 c.c. , il quale esplica che “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto”.
L’individuazione delle mansioni e della qualifica del lavoratore avviene di norma secondo la tipologia definita dalla contrattazione collettiva. Ed è influenzata in modo decisivo dalla situazione sottostante al rapporto: posizione professionale del lavoratore, condizioni organizzative dell'azienda e del mercato del lavoro. In in mancanza di una precisa indicazione contrattuale delle mansioni, il punto di riferimento per stabilire la qualifica saranno le mansioni effettivamente svolte in modo stabile dal lavoratore.
L’identificazione in concreto della qualifica diventa così oggetto di frequenti controversie. Dato che i criteri di classificazione e di gerarchia delle qualifiche sono fissati nella contrattazione collettiva senza indicazioni legislative, i parametri cui riferirsi dovranno desumersi dalla stessa contrattazione. È questa la pratica giurisprudenziale prevalente, secondo le direttive seguite in materia di retribuzione sufficiente in applicazione dell'art. 36 Cost.
L'unica definizione legislativa specifica è quella della categoria di impiegato (R.D.L. n. 1825/1924), che peraltro è sempre stata alquanto indeterminata ed è sempre più labile ed incerta. Non maggiore pregnanza ha la definizione dei quadri contenuta nella L. n. 190/1985.
Ad ogni modo, base della valutazione sono le mansioni oggettive dedotte nel rapporto e non le caratteristiche professionali del lavoratore. La c.d. “qualifica soggettiva” del lavoratore, intesa come somma di capacità personali professionali, è di per sé é priva di rilevanza giuridica nel nostro ordinamento.
Niente vieta allora che un lavoratore provvisto di una certa qualificazione professionale sia assunto in mansioni e qualifiche diverse, anche inferiori. Ma anche il titolo di studio costituisce elemento decisivo per l'attribuzione di una certa qualifica o condizione essenziale per acquisirla. Nulla vieta altresì che le mansioni di assunzione siano polivalenti o promiscue, con una maggiore flessibilità del lavoro e minore ripetitività dei compiti. Nel caso di mansioni promiscue (a cavallo fra qualifiche diverse), l'inquadramento può presentare problemi. La giurisprudenza ritiene in tal caso di far riferimento alle mansioni di fatto prevalenti. Al fine di individuarle, il criterio quantitativo va combinato con quello qualitativo in un'ottica di flessibilità e di maggiore attenzione alle caratteristiche concrete dell'organizzazione aziendale del lavoro.
La rilevanza qualificatoria delle qualifiche è diversa da quella delle categorie. Mansioni e qualifica individuano l'oggetto della prestazione dovuta dal lavoratore mentre la qualifica costituisce la posizione giuridica fondamentale del lavoratore da cui deriva una serie di doveri/diritti inerenti al rapporto di lavoro. Le categorie (operai, impiegati, quadri, dirigenti) si determinano sulla base delle mansioni e qualifiche ad individuazione di alcuni aspetti del trattamento c.d. “normativo del lavoratore” sia esso stabilito su base legislativa o su base contrattuale.
4. La disciplina contrattuale delle qualifiche: l'inquadramento unico. 
Le qualifiche insieme alle categorie costituiscono un oggetto centrale della contrattazione collettiva dalle sue origini e rappresentano i termini di un “patto storico” fra imprese e lavoratori sui criteri di valutazione del lavoro.
Fino agli anni '60 si è assistito ad una sostanziale staticità dell'organizzazione del lavoro e della stessa contrattazione. Nel corso degli anni '60, la contrattazione aziendale sperimentò nuovi sistemi di classificazione basati su tecniche di valutazione delle posizioni del lavoro; la c.d. “job evaluation”. Ma tali esperimenti non si generalizzarono per la debolezza della contrattazione e per la diffidenza dei sindacati.
Un cambiamento del sistema si realizzò alla fine degli anni '60 con l'adozione del c.d. inquadramento unico. Le novità introdotte dal nuovo sistema sono, in primo luogo il superamento parziale della distinzione tra operai e impiegati (divenuta obsoleta e non più rispondente agli assetti produttivi) attraverso l’adozione di una scala di classificazione unica, ordinata per livelli professionali e in secondo luogo la riduzione del numero di livelli per gruppi omogenei di mansioni in cui si raggruppano le mansioni ai fini retributivi, in modo tale da ridurre la differenziazione salariale.
In definitiva il sistema di inquadramento unico ha mantenuto il significato prevalente di raggiungimento classificatorio, di riduzione di differenziali salariali e di perequazione normativa fra operai e impiegati. Tuttavia l'influsso della scala mobile ha provocato un crescente appiattimento salariale che nei primi anni '80 ha contribuito in modo decisivo a mettere in crisi l'intero sistema classificatorio.
Una innovazione netta è stata introdotta dai primi anni '90 in quei contratti di categoria che hanno riformato il sistema classificatorio. In particolare il contratto dei chimici ha sostituito i tradizionali livelli di inquadramento con nuove aree (o categorie) professionali.
La gran parte dei contratti di categoria si limita a prevedere apposite Commissioni paritetiche nazionali per la revisione delle classificazioni provviste di compiti non solo applicativi ma anche innovativi, di modifica e aggiustamento dei profili professionali a seconda delle indicazioni provenienti dalla realtà aziendale. Tali innovazioni riflettono la consapevolezza che negli attuali contesti produttivi, caratterizzati da grande mutevolezza tecnologica/organizzativa, una valutazione corretta del lavoro può difficilmente raggiungersi con declatorie statiche, ma solo adottando procedure flessibili di adattamento continuo delle classificazioni alla realtà produttiva realizzabili a livello decentrato.
Questa evoluzione contrattuale incide anche sul sindacato giudiziale e sui diritti del singolo lavoratore all'inquadramento. Il contratto giudiziale è ammesso per verificare la congruenza fra le mansioni concrete del singolo e la relativa classificazione, non invece sulle regole classificatorie come tali che rientrano nella insindacabile competenza dell'autonomia collettiva. Nel sistema di amministrazione flessibile delle qualifiche, il controllo del giudice può essere impraticabile nel modo tradizionale per la mancanza di riferimento a regole classificatorie generali.
5. Lo jus variandi: dal codice civile all'art. 13 St.lav.
L’oggetto dell’obbligazione di lavoro è solo relativamente determinato in riferimento alle mansioni di assunzione. Le specificazioni del comportamento concretamente dovuto dal lavoratore spettano al datore di lavoro,attraverso l'esercizio del proprio potere direttivo.
Inoltre al datore è riconosciuto il potere di modificare le mansioni del lavoratore oltre l’ambito convenuto. Un simile potere unilaterale, denominato jus variandi, non trova riscontro in altri rapporti obbligatori di durata, dove le modifiche del contenuto obbligatorio sono ammissibili solo per mutuo consenso. Tale potere si giustifica in relazione alle esigenze flessibili dell’organizzazione del lavoro, che spesso richiedono modifiche non prevedibili o non fronteggiabili (per la loro eccezionalità) e che il datore deve poter fronteggiare con tempestività.
La prima disciplina organica dello jus variandi fu stabilita nell'art. 2103 c.c. Nella versione originaria della norma lo ujs variandi era riconosciuto all'imprenditore per esigenze dell'impresa e purché non importasse una diminuzione della retribuzione e un mutamento sostanziale della posizione del lavoratore. L'unico limite rimaneva l'invariabilità in pejus della retribuzione.
I limiti stabiliti dalla norma riguardavano solo gli spostamenti unilaterali di mansioni, mentre non incidevano sulle modifiche consensuali, ritenute ammissibili senza condizioni sul presupposto della piena disponibilità della materia da parte dell'autonomia privata.
Alle debolezze garantistiche della disciplina originaria, rimediò l’art. 13 St. Lav. che ha sollevato molteplici controversie relative sia alla sua incidenza sullo jus variandi, sia al significato dei singoli limiti in essa stabiliti alle variazioni delle mansioni.
Non sembra accettabile la tesi secondo cui la norma avrebbe del tutto cancellato lo jus variandi dell'imprenditore e implicherebbe la necessità del consenso del lavoratore. Una simile rivoluzione nei poteri dell'imprenditore, che irrigidirebbe in modo drastico la gestione della forza lavoro, non si desume dalla Statuto. Questo mira infatti a limitare i poteri direttivi dell'imprenditore, non ad eliminarli, conformemente del resto alla contrattazione collettiva che il legislatore ha tenuto presente. Meno problematico è invece il richiamo della norma alle mansioni ultime effettivamente svolte come termine di raffronto per giudicare le legittimità degli spostamenti.
5.1. Il limite dell'equivalenza delle mansioni.
Le modifiche in “orizzontale” sono ammesse dal nuovo art. 2103 c.c. solo per mansioni “equivalenti” a quelle di assunzione, senza alcuna diminuzione della retribuzione (1°comma). La prassi giurisprudenziale ha inteso l'equivalenza in modo rigido e statico, tale cioè da escludere qualsiasi mobilità- unilaterale o consensuale- verso il basso. Non sorprende quindi che l'art. 13 sia divenuto una delle norme più criticate dello Statuto per l'eccessiva rigidità che essa avrebbe indotto nell'impiego della forza lavoro, mirando alla tutela della professionalità del lavoratore.
Se in un periodo di crescita economica tale impostazione ha potuto essere difesa , la crisi produttiva degli anni recenti ha aumentato i motivi di critica e le difficoltà applicative. Di qui l'esigenza, segnalata dalla dottrina, di un'applicazione flessibile e contrattata della norma, perseguendo una tutela dinamica e non statica della professionalità.
Il giudizio sull'equivalenza delle mansioni risulta da più elementi. L'eguaglianza di retribuzione prevista dagli inquadramenti contrattuali ha un valore indicativo, ma non sufficiente. L'equivalenza è dunque essenzialmente equivalenza professionale. L'equivalenza professionale va accertata considerando il “complesso della attitudini e delle capacità acquisite dal lavoratore” cioè quel bagaglio di perizia ed esperienza che costituisce il suo patrimonio professionale. Tuttavia, secondo un orientamento tuttora minoritario, tale lettura statica dovrebbe essere corretta sulla base della valutazione, più dinamica. In altri termini, bisognerebbe dar rilievo non tanto al saper fare, quanto al saper come fare.
Un'interpretazione corretta del precetto in esame comprende inoltre un controllo circa la modifica dei compiti inerenti al posto di lavoro e quindi può ostacolare la sottrazione o riduzione delle mansioni svolte senza conferimento di altre. A fortiori deve ritenersi illecito il comportamento del datore di lavoro che rifiuti sistematicamente la prestazione di lavoro, così intaccando la posizione professionale del lavoratore nell'ambito aziendale. Infatti la valorizzazione della professionalità realizzata dall'art. 13 St.lav. è stata vista come un indice normativo che comprova l'esistenza di un diritto e non solo di un dovere del lavoratore all'esecuzione della prestazione di lavoro.
La giurisprudenza prevalente stenta ad imboccare la via di un'interpretazione più elastica della nozione di equivalenza, restando ancorata ad una nozione statica e alimentando una serie composita di azioni giudiziali contro la dequalificazione. Se così è, non sorprende che poi la stessa Corte sia costretta a percorrere, la strada meno piana della creazione di “eccezioni” al divieto di patti contrari.
In ipotesi di violazione del precetto normativo il lavoratore può richiedere, oltre alla dichiarazione di nullità dell'atto e la condanna alla reintegra, anche il risarcimento del danno da dequalificazione (c.d. danno alla professionalità), pur se quest'ultimo profilo resta esposto ad incertezze relativamente sia al contenuto dell'onere della prova (con frequente ricorso a presunzioni), sia alla quantificazione del danno (per lo più operata con valutazione equitativa sulla base della retribuzione), sia alla proliferazione delle figure di danno.
5.2 La nullità dei patti contrari
L'ultimo comma del nuovo art. 2103 c.c., nel sancire la nullità di ogni patto contrario, tende a correggere la lacuna più vistosa della vecchia disciplina. Gli accordi nulli cui si riferisce la norma sono quelli individuali e collettivi che realizzano un risultato vietato dalla norma, ad es., l'adibizione a mansioni inferiori (c.d. mobilità verso il basso).
La natura inderogabile della norma tuttavia, pone un problema a fronte di quei patti che dispongono lo spostamento a mansioni inferiori per soddisfare un interesse qualificato del lavoratore (quello di evitare un licenziamento). A favore della validità di tali patti, depone un'interpretazione della norma sensibile agli interessi sostanziali in gioco (salvaguardia della professionalità del lavoratore con l’interesse alla conservazione del posto di lavoro) e al risultato che essa vuole realizzare. La norma mira a proteggere la posizione professionale del lavoratore. Quindi non esclude la variazione consensuale rispetto a mansioni e posizioni professionali diventate inagibili o per invalidità incolpevole (ad es., sopravvenuta inidoneità psico-fisica), o per modifiche oggettive della struttura aziendale (ad es., quale unica alternativa al licenziamento).
Il legislatore impone al datore di lavoro di spostare le lavoratrici madri temporaneamente a mansioni non pregiudizievoli alla loro salute, anche se inferiori, con conservazione della retribuzione precedente. Analogamente i lavoratori divenuti invalidi durante il rapporto di lavoro non possono essere licenziati nel caso in cui possano essere adibiti a mansioni diverse, anche inferiori.
Sempre nella logica di una graduatoria dei valori in gioco, il legislatore prevede l'assegnazione a mansioni “diverse da quelle svolte” (cioè inferiori) per i lavoratori eccedenti in alternativa al licenziamento collettivo, per messa in mobilità o per riduzione di personale.
Un filone giurisprudenziale, ricalcando la citata normativa, giunge a legittimare il mutamento in pejus delle mansioni su mera richiesta del lavoratore per soddisfare un proprio interesse non ulteriormente qualificato. A volte il consenso è desunto dal comportamento del lavoratore. Quest'ultima soluzione però accende il sospetto di un'operazione elusiva della prescrizione posta dal nuovo art. 2103 c.c. Per un controllo sull'effettiva libertà negoziale del lavoratore appare condivisibile la prassi di trasfondere gli accordi di dequalificazione in verbali di conciliazione avanti la Direzione provinciale del lavoro.
5.3. (Segue): Mobilità verso l'alto e carriera.
L’ultimo comma del nuovo art. 2103 c.c., disciplina la cosiddetta mobilità verso l'alto o verticale, cioè l'assegnazione a mansioni superiori. Il legislatore ha stabilito che lo svolgimento di mansioni superiori protratto per più di 3 mesi (o per il minor periodo previsto dai contratti collettivi) rende irreversibile lo spostamento. La norma è diretta ad evitare pratiche fraudolente di spostamenti ricorrenti di breve durata senza riconoscimento della professionalità acquisita.
La promozione si realizza automaticamente al compiersi del periodo temporale; ma si ritiene che l'automaticità funzioni  soprattutto a carico del datore.
Mentre l'art. 13 St.lav. conferma che la progressione in carriera è affidata al potere discrezionale del datore, la contrattazione collettiva, specie in certi settori dei servizi, ha previsto diverse procedure rivolte a vincolare le scelte datoriali: concorsi privatistici interni di vario genere, simili a quelli tradizionali del pubblico impiego, spesso con la partecipazione sindacale.
Si è discusso se i 3 mesi di svolgimento delle mansioni superiori debbano essere continuativi o se si possano anche cumulare distinti periodi. La giurisprudenza prevalente propende per la prima ipotesi (e intende i 3 mesi come mesi di lavoro effettivo e non di calendario). Peraltro precisa che eventuali interruzioni di tale periodo non connesse a reali esigenze produttive, ma effettuate dal datore al fine di eludere l’applicazione della norma, non impediscono il cumulo e quindi la promozione, in quanto devono ritenersi in frode alla legge o contrarie ad un'esecuzione secondo buona fede del contratto. Così pure si precisa che la continuità non va intesa in senso rigido e quindi non è interrotta ad esempio dalle ferie (che tuttavia non si computano).
La norma prevede poi un’eccezione alla promozione automatica quando l’adibizione alle mansioni superiori venga disposta per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto (malattia, infortunio, maternità\paternità, permessi, aspettative sindacali, previsti dalla legge o dal contratto). In definitiva, l'eccezione non vale (e quindi matura la promozione) per le ipotesi di sostituzione derivanti da scelte organizzative del datore. L’eccezione è motivata dall’esigenza di non vanificare il diritto del lavoratore assente di ritornare al proprio posto di lavoro dopo il periodo di sospensione.
Si è ritenuto che entrino nel disposto della norma anche le cosiddette sostituzioni a cascata: la promozione automatica cioè sarebbe preclusa nei confronti non solo del sostituto dell'assente, ma di eventuali ulteriori sostituti che coprano il posto di chi sostituisce l'assente. Il lavoratore spostato a mansioni superiori ha diritto da subito al trattamento superiore corrispondente (art 2103 c.c.).

 

Fonte: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com/2014/02/il-rapporto-di-lavoro-subordinato.doc

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