Trame romanzi

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Trame romanzi

 

GIOVANNI VERGA

I Malavoglia (1881)

Tempo della storia: tra il 1863 e il 1877/1888. Trama anticipata nella novella “Fantasticheria”. Storia della famiglia Toscano (Malavoglia è antifrastico, attribuito per contrario). Per fare la dote alla nipote Mena, padron ‘Ntoni compra dei lupini (semi gialli, lucidi, posti sotto sale) e si indebita con l’usuraio del paese – Aci Trezza, siamo in Sicilia -, zio Crocefisso. Durante il trasporto, la barca (la Provvidenza) naufraga, e Bastianazzo, figlio di padron ‘Ntoni, muore. Iniziano le disgrazie. Un nipote, Luca, muore nella battaglia di Lissa e la Provvidenza naufraga nuovamente. Il vecchio vende la barca e cede la casa (casa del Nespolo) per sanare i debiti. Il giovane ‘Ntoni, dopo il servizio militare, si dà alla vita sregolata, diviene contrabbandiere e arriva ad accoltellare il brigadiere don Michele. Per ‘Ntoni si spalancano le porte del carcere. Lia, insediata da don Michele e umiliata dalla condizione della famiglia, si prostituisce. Dopo cinque anni ‘Ntoni torna a casa; un nipote del vecchio, Alessi, dopo aver sposato la Nunziata, ha ricomprato la casa del Nespolo. Lì torna ‘Ntoni, e viene bene accolto. Dopo una notte nella vecchia dimora, il giovane capisce che l’ostrica s’è chiusa e per lui non c’è più posto.

 

Mastro-don Gesualdo (1889)

Tempo della storia: 1820/1821 – 1848. Trama anticipata nella novella “La roba”. Gesualdo, capomastro arricchito, sposa Bianca, una nobile spiantata e senza dote. Egli aveva già due figli illegittimi con la serva Diodata. L’uomo diviene, nel frattempo, ricchissimo sfruttando l’acquisto di terre comunali e i vuoti di potere che si creano con i disordini carbonari. Gesualdo rimane, però, gretto e, comunque, ai margini della società che conta. Per nobilitarsi, combina le nozze tra sua figlia Isabella, molto fine, e il duca di Leyra. La vicenda termina con la decadenza di Gesualdo. I suoi magazzini vengono assaltati. Morirà tra l’indifferenza e il disprezzo dei suoi stessi servi. La ricchezza è cosa effimera, e la nobiltà non è acquisibile.

 

GABRIELE D’ANNUNZIO

1. I romanzi della rosa: la passione invincibile.

Il piacere (1889)

Andrea Sperelli, ricco dandy romano, vuole dimenticare Elena Muti dandosi ai piaceri della vita mondana. Ferito in duello, durante la convalescenza ferrarese a villa Schifanoja (vero momento contemplativo, quasi nicciano, del romanzo) Andrea conosce e si innamora di Maria Ferres, moglie di un diplomatico. La donna rappresenta un tipo d’amore diverso da quello incarnato da Elena: se quest’ultima aveva rappresentato il rapporto passionale, Maria Ferres era la donna che fuggiva, che resisteva alla tentazione rappresentata dal nuovo spasimante. E Sperelli non sa scegliere. In realtà Andrea dichiara, nelle pagine finali del romanzo, una volontà: vorrebbe creare l’amante ideale, miscela perfetta delle due donne. La storia chiude con Andrea che, durante un incontro amoroso con Maria, urla il nome di Elena. Il dandy che, appunto, non sa scegliere, non si stacca dal dilemma etico e non si trasforma in superuomo.

 

L’innocente (1892)

Tullio Hermil scopre che la moglie, Giuliana, aspetta un figlio da uno scrittore. Dopo un primo momento di sconvolgimento, Tullio accetta di prendersi cura della donna e del nascituro. Tutto sembra essere tornato alla normalità quando la passione torna a vincere: Hermil ucciderà il bambino esponendolo al freddo nella notte di natale.

 

Il trionfo della morte (1894)
 
Giorgio Aurispa non riesce a vincere la passione che prova per Ippolita Sanzio. È un amore ondivago, continuamente altalenante tra il sentimento insopprimibile e un rifiuto che talvolta arriva alla repulsione. Sul punto di perdere la donna, la trascinerà con lui in un dirupo pur di eternare l’amore e, nel contempo, vincere l’incontenibile passione. Il romanzo si costruisce attorno a una sorta di circolarità: esso inizia, infatti, con la coppia che osserva la scena di un suicidio.

2. I romanzi del giglio: la passione che si purifica.

Le vergini delle rocce (1896)

Claudio Cantelmo si vuole unire in matrimonio con una delle tre principesse Capece-Mantega, antica famiglia di origine borbonica ormai decaduta. Da una delle tre donne (Massimilla, Anatolia, Violante) dovrà nascere il nuovo re di Roma, cui il popolo dovrà consegnare la corona regale. Il romanzo è un autentico manifesto di disprezzo per la democrazia: è l’elitarismo a farla da padrone. Il neonato regnerà in quanto unico degno di farlo. Siamo qui di fronte al romanzo superomista di D’Annunzio, pur essendo debole la componente nicciana: Cantelmo, infatti, non cerca il superamento della questione etica (il bene e il male) e la contemplazione (il tutto poesia) ma guarda all’attivismo dell’uomo-guida, dell’elegante poeta guerriero. Su questo modello D’Annunzio costruirà quella grande opera d’arte che sarà la sua vita.

 

3. I romanzi del melograno: i frutti che derivano dal dominio della passione.

Il fuoco (1900)

Stelio sogna una nuova forma d’arte drammatica che fonda parola, colore, suono e azione. Foscarina, la donna che Stelio ama, dovrebbe essere l’interprete di questa nuova opera ispirata a Richard Wagner (il musicista del superomismo). Stelio si innamora, però, di Donatella. A questo punto Foscarina cede il posto alla rivale e si accommiata da Stelio. Sullo sfondo ci sono splendide pagine dedicate a Venezia e, soprattutto, l’amore tra Gabriele D’Annunzio ed Eleonora Duse.


ITALO SVEVO

Una vita (1892)

Alfonso Nitti, impiegato di banca trasferitosi a Trieste, non riesce ad adattarsi alla nuova vita di città. Il suo disadattamento si ripercuote anche sul suo convivere con i colleghi e con i ritmi dell’ufficio dove lavora e, soprattutto, sul suo rapporto d’amore con Annetta Maller, figlia del suo direttore. L’inettitudine, intesa come eterna incapacità di decidere, di scegliere, finisce per schiacciare il protagonista: Alfonso si suicida con il gas. Alcuni critici hanno fatto notare che occorre riflettere sul ruolo svolto dal suicidio: c’è chi lo ha definito come la massima espressione dell’inettitudine e chi, invece, trova nel darsi la morte una forma, pur se estrema, di decisione.  

 

Senilità (1898)

Emilio Brentani conduce una grigia vita da impiegato di assicurazioni (nota come Svevo, a fine Ottocento, anticipi una tendenza di Novecento entrante, e cioè la volontà di porre la classe impiegatizia come nuova protagonista di un secolo che, però, finirà per schiacciarli con i suoi ripetitivi ritmi fagocitanti). Emilio incrocia, però, un elemento che lo può trarre fuori dalle sabbie mobili della routine quotidiana: si innamora, infatti, di Angiolina, una bella e sfacciata popolana. Un amico dell’uomo, Stefano Balli, cerca di dissuaderlo dal suo proposito di conquistare la donna. La sorella di Emilio, Amalia, donna non bella ma estremamente sensibile, s’innamora segretamente di Stefano e, per amore, si suicida ingerendo del veleno. Emilio, a quel punto apre gli occhi: l’amore ha spaiato le carte, sì, ma ha anche portato alla tragedia. L’uomo, che nel frattempo ha anche visto Angiolina fuggire con un altro, ritorna alla sua vita grigia, alla sua senilità. Alcuni critici, tra cui Eugenio Montale, hanno definito questo romanzo il vero capolavoro di Svevo in quanto, con la sua circolarità (dall’inettitudine all’inettitudine), l’autore ha piegato al messaggio non solo il contenuto ma la stessa struttura dell’opera. Ricorda che anche il titolo va interpretato: senilità, sinonimo di vecchiaia, va intesa come età dell’anima (Brentani ha trentacinque anni), come senescenza del carattere, come stanchezza e incapacità di cambiare ritmo a livello caratteriale. 


La coscienza di Zeno (1923)

Zeno Cosini, ricco commerciante triestino a riposo, scrive la propria autobiografia (diario terapeutico) perché stimolato da uno psicanalista, il dottor S. (Svevo o Sigmund Freud?), cui l’uomo si è rivolto per guarire dalla sua inettitudine che ha trovato segnale, nel corso di una vita, nell’incapacità di smettere di fumare (l’eterna U. S., l’ultima sigaretta iterata all’infinito). Il dottore ha deciso di pubblicare le memorie di Zeno perché quest’ultimo, ad un certo punto del percorso di cura, ha deciso di interrompere le sedute perché, a suo dire, guarito. Le memorie sono divise in sei blocchi: 1. Il fumo; 2. La morte del padre; 3. La storia del matrimonio; 4. La moglie (Augusta) e l’amante (Carla); 5. Storia di un’associazione commerciale; 6. Psicanalisi. A fare da filo conduttore è, lo si è capito, l’inettitudine di Zeno Cosini, la sua incapacità di scegliere, di decidere. A chiusura del percorso terapeutico l’uomo scriverà allo psicanalista di essere guarito ma, ci tiene a specificare, non per l’efficacia della cura, bensì grazie al successo di un’operazione commerciale (guadagni ottenuti attraverso una speculazione da pescecane di fine prima guerra mondiale). È il corpo a trionfare sulla psiche, pare voler dire Cosini. La conclusione, però, riporta a galla la questione. L’opera si chiude con una bomba che, rubata da un uomo, verrà collocata al centro della Terra da un altro uomo; l’esplosione dell’ordigno ridurrà il pianeta allo stato di nebulosa. Come interpretare questa conclusione “surreale”? Tre le possibili letture avanzate dai critici: 1. Una profezia della bomba atomica (suggestivo ma poco credibile?); 2. La bomba è la scrittura, l’unica forma di terapia in grado di curare la malattia psichica; 3. La malattia psichica, il disagio, il male di vivere attanagliano l’uomo così profondamente da essere tutt’uno con la sua dimensione. Solo la distruzione della Terra e dell’uomo potranno sconfiggere il male.  

 

Il vegliardo (Il vecchione)

Opera appena iniziata. Doveva essere il romanzo che andava a riassumere il pensiero di una vita. La vita va guardata con il sorriso distaccato, quasi cinico, dei vecchi che, usciti dalle tensioni del continuo decidere, possono limitarsi a osservare. La vecchiaia ha cambiato significato: dalla senilità del romanzo del ’98 intesa come età dell’anima in senso negativo, si è giunti al raggiungimento anagrafico di un punto di vista maturo.  


LUIGI PIRANDELLO

Il fu Mattia Pascal (1904)

Mattia Pascal è impiegato in una biblioteca di Miragno, un paese ligure. A causa di un litigio con la moglie Romilda e la suocera Marianna Dondi, vedova Pescatore, decide di allontanarsi da casa per raggiungere Marsiglia e da lì imbarcarsi per l’America. Durante una sosta a Montecarlo, Mattia vince un’ingente somma al casinò; contemporaneamente egli legge sul giornale che al suo paese è stato ritrovato un cadavere, in un mulino, e i parenti lo hanno identificato con lui. A quel punto Mattia è libero dalla “forma”, dalla maschera che la società gli aveva posto addosso (bibliotecario, marito, persona compassata,…). Il protagonista inizia così una nuova vita con il nome di Adriano Meis: viaggia un anno per l’Italia e, infine, si stabilisce a Roma e si innamora di Adriana, figlia del proprietario dove sta a pensione. Ben presto, però, capisce che la mancanza di una vera identità rende la vita molto difficile: non può sposarsi, non può denunciare un furto, non può sfidare un rivale a duello,…). A quel punto decide di rientrare nella propria “forma” e, simulato il finto suicidio di Meis, torna al proprio paese. Là trova, però, la moglie risposata e con una bambina. Il grande teatro della vita si è riorganizzato e il suo ruolo non è più previsto. Mattia decide così di rinunciare ai propri diritti di marito e di vivere in solitudine, di rimanere nell’ombra e, di tanto in tanto, portare dei fiori sulla propria tomba e rispondere, a chi gli chiede chi sia: “Io sono il fu Mattia Pascal”.   

 

Uno, nessuno, centomila (1912-1925)

Un giorno la moglie Dida rivela a Vitangelo Moscarda, detto Gengè, che egli ha il naso storto. L’uomo rimane allibito mentre la moglie lo rassicura: tutti sanno, da sempre, che Gengè ha quello e altri difetti. La vita di Vitangelo ne risulta sconvolta: chissà quali letture ha dato di lui la società nel corso degli anni. È ora di cambiare: gengè si impegnerà a distruggere le mille maschere che il mondo gli ha cucito addosso. Arriverà a spendere tutto per costruire un ospizio per mendicanti dove anch’egli, ormai vicino alla follia, andrà a morire. Anche qui, come nel romanzo precedente, la rinuncia alla forma porta all’autodistruzione. L’esilio dalla società si trasforma, nell’interpretazione della società stessa, in follia. In cambio, però, divenuto un “matto” come gli altri, Moscarda non sopporta più il peso del pensare.


FEDERIGO TOZZI

Con gli occhi chiusi (1919)

Il romanzo è costruito attorno all’amore tra Pietro Rosi e Ghisola. L’uomo è il tipico inetto, del tutto schiacciato dalla personalità di un padre che coglie qualsiasi occasione per umiliarlo ed evidenziare l’incapacità del figlio. Pietro si innamora di Ghisola, la nipote dei coloni che amministrano il piccolo podere senese che la famiglia Rosi possiede. Ghisola mantiene un comportamento ambiguo: dapprima si lascia avvicinare dall’uomo, in seguito lo rifiuta per, poi, passare ad accettare la proposta di matrimonio dell’uomo per coprire una gravidanza che è frutto di un rapporto con un commerciante fiorentino. La donna si offre a Pietro ma egli rifiuta perché vuole arrivare illibato alle nozze. E l’inganno continua: Ghisola, che ormai non può più coprire la gravidanza, dice a Pietro di essere divenuta la domestica di una signora fino a quando una lettera anonima informa l’uomo che la ragazza è, in realtà, in un bordello. Pietro raggiunge la donna e la trova, effettivamente, incinta e ospite di un postribolo. A quel punto Rosi apre gli occhi. All’ultima riga del romanzo, ma solo all’ultima, Pietro pone fine all’amore per Ghisola. Pietro Rosi rappresenta, nel corso dell’opera un inetto ancor più grigio di quelli disegnati dalle pagine sveviane e pirandelliane: egli, non solo non sa decidere, ma non vuol addirittura avere gli elementi per poterlo fare. Egli vive “con gli occhi chiusi”.

 

Il podere (1915-1918)

Remigio Selmi, impiegato nelle ferrovie, torna a visitare il padre, moribondo, dopo averlo lasciato, tempo prima quando, alla morte della madre, l’uomo si era risposato con Luigia e aveva contemporaneamente tenuto vivo il rapporto con l’amante, Giulia. Remigio deve lasciare il lavoro e dedicarsi all’amministrazione del podere di famiglia. La sua inettitudine, però, lo rende vittima della nuova situazione: le continue incertezze della matrigna, le richieste di Giulia e l’avidità dei mezzadri che lavorano le terre della tenuta lo schiacciano. L’uomo rivela presto la sua incapacità di portare avanti il lavoro del padre: il nuovo ruolo di padrone crea cortocircuito con la sua inettitudine. Quando è costretto a vendere il podere, viene ucciso da uno dei suoi contadini. La vigna del podere, nel frattempo, viene distrutta da una grandinata.  

 

Tre croci (1920)

Pubblicato poche settimane dopo la morte di Tozzi, il romanzo, ispirato a una vicenda realmente accaduta, è stato considerato per anni il vero capolavoro dell’autore senese. I tre fratelli Gambi, Giulio, Niccolò ed Enrico, gestiscono una libreria attraverso cui il padre era riuscito a fare fortuna. I figli, però, abulici e inetti, non hanno i numeri per poter seguire le orme del padre. Per porre un freno al disastro economico, Giulio, il vero protagonista, prima si fa coprire i debiti con una cambiale firmata da un amico e, in seguito, con l’assenso dei fratelli, falsifica nuove cambiali. La truffa viene presto scoperta e Giulio, per la vergogna, s’impicca. Dopo qualche tempo moriranno anche gli altri fratelli Gambi: Niccolò muore d’improvviso di colpo apoplettico mentre Enrico spira in un ospizio di poveri dove era stato ricoverato. Alla vedova di Niccolò non resta che porre tre croci, uguali, sulle tombe dei tre fratelli.

   

Fonte: http://www.itisanzeno.it/index.php/download/category/31-prof-febo?download=264:trame-romanzi-classe-quinta

Sito web da visitare: http://www.itisanzeno.it/

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