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Lezione 1 – lunedì 9 marzo 2015
Storia dello spettacolo e storia della città
Iniziamo da Pompei e da una questione di metodo analitico: il rapporto tra teatro e città. Il teatro, in occidente, nel corso dei secoli, è quasi sempre stato un fenomeno squisitamente urbano. Solo con le avanguardie storiche e con le esperienze della seconda metà del Novecento questo rapporto s’incrina.
Esiste comunque un rapporto dialettico fra il teatro, le città e le culture. Le diverse forme di teatro nel corso dei secoli si radicano e si producono nelle città. A riguardo, il libro Il teatro è la città, Saggi sulla scena italiana di Ludovico Zorzi, pubblicato da Einaudi nel 1976, già dal titolo svela questa chiave, coprendo una cronologia ampia, dal Quattrocento e Settecento. Tutt’ora questo libro costituisce uno snodo di metodo fondamentale. Segnalo anche un mio saggio che s’intitola Ludovico Zorzi, profilo di uno studioso inquieto, che potete trovare sulla su internet, non che sia obbligatorio leggerlo ma forse può esservi utile.
Per tentare di comprendere almeno in parte le diverse forme dello spettacolo nel corso dei secoli dobbiamo quindi iniziare dalla storia delle città, che non è solo spazi urbani e monumenti, ma anche storia di persone, abitanti e stranieri: lo spazio, le pietre, gli uomini e l’inesorabile fluire del tempo.
Questo rapporto teatro-città si genera da un modello antico e universale, Atene. In realtà l’intera civiltà greca è storicizzabile sulla base della storia delle città. Non è quindi una storia della polis ma delle poleis.
Ecco una forma schematica ma utile: città = civitas + urbs. Civitas è la convivenza sociale, la condizione di cittadino, la cittadinanza, l’insieme degli abitanti e il loro rapporto con gli stranieri. Urbs è la forma urbis, cioè il costruito, i segni urbani, gli edifici, i monumenti. Quindi, socialità + urbanesimo = città. Claude Levi Strauss, alfiere dell’antropologia strutturale, riassume questo rapporto nel suo libro Tristi tropici [lettura documento 1].
La città è un sistema complesso di rappresentazione di sé che muta nel corso del tempo, a seconda dei diversi contesti storici, culturali, politici. Pensiamo agli edifici del potere, carichi di significati. Paul Zanker lo sottolinea nel suo libro Pompei - che ha rivoluzionato il modo di studiare questa città - dando agli studi sul tema un inedito respiro culturale [lettura documento 2]: la città come palcoscenico di autorappresentazione di chi la abita. Pensiamo alle tante valenze che le città assumono nel corso dei secoli. Prendiamo due grandi categorie: la prassi del costruire e la speculazione teorica delle città (ad es. il tema rinascimentale della città ideale, che trova realizzazione per l’appunto nella scena teatrale, più che nella realtà).
Per le società di Antico Regime c’è un bellissimo libro che indaga la città: per una visione storica dal XII al XVII secolo della città europea si può utilizzare L’Europa delle città, Il volto della città urbana europea tra il Medioevo e l’Età moderna. È un libro che rivolge lo sguardo alla vita degli abitanti, più che alla storia dei monumenti, dove prevale la civitas. Si parla poco o nulla di teatro in questo libro, ma se si dovesse consigliare una lettura preliminare di sfondo, sarebbe perfetto.
Città greche e romane e il caso particolare di Pompei
Se per le città moderne disponiamo di informazioni abbondanti, per le città antiche il discorso è più complicato. È quasi impossibile scrivere la storia delle città antiche, greche e romane, perché le nostre conoscenze sono troppo limitate. Allora procediamo per domande.
Cosa sappiamo della gente di Pompei e del loro rapporto con lo spazio urbano? E di altre città del mondo antico? Quasi niente. Solo in alcuni casi è possibile ricostruire il rapporto delle società antiche con la città. Il mondo antico diventa quindi sovente un’entità astratta ed evanescente, fredda come le pietre, archeologica. Ciò vale anche per gli spazi dei teatri greci, ellenistici e romani, che di norma rischiano di rimanere confinati in una sorta di limbo, quello delle vestigia monumentali.
Ottaviano Augusto è il primo imperatore, da lui discente la gens iulia. Alla dinastia Giulio-Claudia si innesta la dinastia dei Flavi, da Vespasiano in poi. Quando nel 79 d.C. il Vesuvio erutta, a Roma regna la dinastia “degli uomini nuovi”, i Flavi, e nell’80 si inaugura il loro Colosseo.
L’eruzione stermina la popolazione di Pompei e cristallizza il fluire del tempo, conservandola come una “prodigiosa finestra sul passato” (cit. Salvatore Settis). È un’occasione unica per gettare uno sguardo nel tessuto di una città antica. Quali sono i sentimenti che si provano visitando o studiando Pompei? Non possiamo che provare pena e una umana solidarietà per il tragico destino degli abitanti. Malinconia e curiosità, stupore, voglia di tentare di capire e apprendere: sentimenti contrastanti. Goethe scrive nel suo Viaggio in Italia parole ciniche ma lucide, su Pompei [lettura documento 3].
Il vero problema di Pompei non è portare alla luce ciò che rimane da scoprire, ma conservare ciò che è noto. Dobbiamo recuperare tessuto urbano e spettacolare; noi cercheremo di ricostruire almeno un tassello di questo tessuto. Dobbiamo imparare a studiare in modo non manualistico, a fare ricerca insieme, è un percorso di condivisione.
Durante i vari seminari cercheremo di rintracciare diverse fonti, studiando testimonianze di tipo letterario ma anche pitture, mosaici, sculture, terracotte, epigrafi su pietra, per meglio comprendere l’urbs e la civitas di Pompei. Non esistono circoscritti e ben ordinati archivi per la storia dello spettacolo, noi dobbiamo ricercare le notizie di pertinenza spettacolare in plurime fonti.
L’eruzione del Vesuvio
In due famose lettere scritte da Plinio il Giovane [documenti 4 e 5], ci si rivolge al maggior storico dell’età romana, Tacito (55 dC – circa 120 dC). I due vivono all’ombra della dinastia dei Flavi e poi di Traiano. Si parla dell’eruzione del Vesuvio, che causò la distruzione di Pompei ed Ercolano nonché la morte dello zio di Plinio il Giovane, Plinio il Vecchio, un formidabile naturalista.
Abbiamo un nipote che assiste ad un evento tragico in cui perde la vita lo zio. Nella Naturalis Historia Plinio il Vecchio parla della Campania come di una regione “fiorente e splendida”. C’è un letterato meno conosciuto, Floro, che ribadisce “nulla è più dolce del suo clima… niente è più fertile del suo solo”. In quegli anni, per chi era nobile e ricco, la vita poteva scorrere dolcemente. Da qui la scelta frequente fra i nobili romani di eleggere la Campania a sede di riposo, vacanza e anche trasgressione capricciosa (come lo stesso Tiberio).
La cittadina di Baia è particolarmente interessante. All’epoca era una località balneare di gran moda, sede di villeggiature elitarie, dove si consumavano gli svaghi dell’aristocrazia romana: di Baia era innamorato Nerone, che quando progetta la Domus Aurea cerca di ricostruirla a Roma. In questa atmosfera dobbiamo immaginare Pompei, prima della catastrofe.
Plinio il Giovane nel 79 dC aveva 17 anni, si trovava in Campania con lo zio e la madre, scrive un’accurata relazione degli eventi nelle sue due lettere ai familiari (Lettere ai familiari, libro VI, lettera 16 e lettera 20). Questo ricco epistolario è una straordinaria fonte per la storia dello spettacolo [lettura documento 4]. Plinio il Vecchio muore sulla spiagga di Stabia a pochi km da Pompei, soffocato dalle esalazioni. Nel 1813 questo fatto ispirò la fantasia del pittore Pierre-Henry Valenciennes [lettura documento 5]. Questo documento, è un’idealizzazione mitica? Non sappiamo, ma queste due missive sono il primo documento della vulcanologia moderna.
Essendo a sud del Vesuvio, Pompei viene risparmiata dalla lava e dal fango (che seppellì Ercolano, ubicata a occidente), ma viene sepolta da una pioggia infuocata di lapilli e pietre di pomice, scorie e cenere vulcanica. Soprattutto viene pervasa da gas velenosi che si riversarono nelle strade e nelle case, intrappolando e uccidendo molti, inclusi quelli che avevano tentato di fuggire. Un ebreo pompeiano ebbe il tempo di scrivere una breve frase su una parete, due parole bibliche: “sodoma gomora”. Tra il 24 ed il 25 agosto del 79 dC Pompei muore, e nella catastrofe morirono circa 2000 persone su una popolazione di 10000. Le figure sono restituite nei minimi dettagli grazie alla tecnica del calco liquido.
Lezione 2 – martedì 10 marzo 2015
Quanti abitanti aveva Pompei? Le cifre sono controverse: alcuni studiosi parlano di 8-10 mila persone, una popolazione composta da diverse etnie e classi sociali (schiavi per il 40%). La moneta di uso corrente è quella romana.
Nel 62 dC la costa della Campania era già stata flagellata da un terremoto, quindi negli anni dell’eruzione Pompei è una città in ricostruzione. Un cantiere a cielo aperto, anche se di una città ricca. Sappiamo che molti dei monumenti pubblici erano stati danneggiati gravemente dal terremoto, o peggio, erano in rovina. È tuttavia una città piena di vita, perché si lavorava alla ricostruzione, in cui il restauro e la ricostruzione del tessuto urbano procedevano speditamente. Si cercava di ricostruire anche una potenza commerciale, che in questo periodo non era al meglio.
Molti si arricchivano alle spalle di questa ricostruzione: nella sua ultima fase (dal 62 al 79 dC), è una città in bilico tra lavori di restauro e speculazione edilizia. Nulla evidentemente faceva presagire il disastro. Fu una ristrutturazione importante, non solo si restaurava ma anche si ricostruiva ex novo. Si pensava con fiducia al futuro, tra le mura di Pompei. Qual era l’atteggiamento del governo centrale, ovvero dei Cesari di Roma (Nerone e poi Vespasiano), nei confronti di quella città? Non sappiamo se intervengono in aiuto alla città terremotata. Sappiamo invece che i non molti sopravvisuti alla tragedia del 79, furono aiutati concretamente dal figlio di Vespasiano, l’imperatore Tito.
Ante 62 dC
Torniamo al periodo precedente al 62, alla vita di Pompei. È una città popolata sia da gente comune che da aristocratici. Vi si mescolavano vecchi e nuovi ricchi, soprattutto proprietari terrieri e mercanti. Accanto a questi gruppi sociali vi erano molti artigiani e bottegai, gli schiavi ed i liberti (coloro che erano stati affrancati dalla condizione di schiavitù), prostitute, gladiatori e così via.
Pompei era una città piccola ma ricca, piena di piazze, vie, commerci, monumenti e grandi edifici pubblici e privati, religiosi o civili, che hanno spesso alto valore simbolico. Tra gli edifici pubblici sono importanti anche quelli per lo spettacolo. Era ricca anche di affreschi e statue, una città che dobbiamo pensare a colori.
A queste decorazioni, si aggiungono numerose iscrizioni murali nei muri delle case (per pubblicizzare spettacoli, comizi elettorali), graffiti ed epigrafi che testimoniano un certo plurilinguismo. Alcune sono in osco, altre in greco, in latino e alcune anche in aramaico. È un mondo meticciato.
Si sono rinvenuti anche molti oggetti preziosi e di uso quotidiano. È ricca di botteghe e laboratori artigiani ma anche bancarelle e venditori ambulanti. Vi erano anche terme, un segno forte della civilità romana, osterie e alberghi (hospitia), punti di ristoro tipo i noderni bar (thermopolia), case private talvolta sontuose e altre volte modeste, le più belle avevano lussureggianti giardini interni, anche con fontane.
Numerosi erano i vigneti (il vino è un asse portante del commercio pompeiano) e gli orti. L’approvvigionamento idrico era un problema non secondario a Pompei: fino all’età agustea l’acqua doveva essere raccolta con fatica. In molte abitazioni vi erano bacini di raccolta posti sia nei giardini che negli agri delle case private. L’irrigazione agricola e le terme, che richiedono grandi quantità di acqua, si alimentavano con pozzi, pubblici e privati, scavati nella dura lava. Tutto ciò cambia in età augustea imperiale, quando si risolve il problema con acquedotto che raggiungeva Porta Vesuvio prima di proseguire fino a Napoli. L’acqua era raccolta nel castellum acquae. Nelle case dei ricchi l’acqua era presente (mentre i poveri si recavano alla fontana a raccoglierla).
In un affresco [figura II.1] si nota la vendita di pane da parte di un panettiere, all’epoca una carica pubblica. Nella foto [figura II.2] vediamo la veduta d’insieme del panificio di Numerius Papirus Priscus: osserviamo chiaramente le macine presenti all’esterno, costruite in lava vulcanica, che venivano fatte rotare con grandi sbarre di legno mosse da asini o schiavi. Nell’immagine II.3 costituisce un’inquietante forma di pane carbonizzato, siglato minuziosamente dal panettiere, e suddiviso accuratamente in spicchi. Roma pianificava meticolosamente l’approvvigionamento del grano, sia in età repubblicana che imperiale.
Il mondo romano, a noi più vicino, è paradossalmente più misterioso di quello greco.
Fasi storiche e urbanistiche di Pompei
[Figura II.4] Pianta che illustra i principali centri della Campania romana. Pompei è edificata in una zona strategica: un vasto pianoro di lava situato a 30-40 metri sul livello del mare, già attestato in età preistorica, che domina la foce del fiume Sarno. L’ubicazione geografica consente di difendere bene la città. La posizione vicino al mare e dotata di un fiume importante, consente di controllare agevolmente gli scambi commerciali che avvenivano anche per via fluviale. È importante ricordare che Pompei aveva un porto fluviale sul Sarno, e che fu un vitale centro di commerci, contiguo alla grande via commerciali che partiva da Napoli.
L’età più fiorente per Pompei è tra il 3 e il 2 a.C., siamo in un periodo di grande espansione mediterranea di Roma. Abbiamo tutt’oggi dubbi sulle fasi fondative della città. Tra il VII secolo a.C. e il I d.C. l’insediamento pompeiano registra una miscela di civiltà e di culture, un meticciato vitale di lunga durata.
Fasi urbanistiche:
- Primo nucleo urbano. Tradizionalmente datato al VI a.C., è un piccolo nucleo fortificato posto sotto la protezione di Apollo, venerato anche nella vicina Cuma, la più antica colonia greca d’Italia. Questo centro è così influenzato dalla cultura urbana greca, diffusa lungo tutto il golfo di Napoli. Altre ipotesi teorizzano anche la presenza di una cinta muraria.
- Fase due. Dominio etrusco, che dura almeno fino alla metà del V a.C.
- Fase tre. La città viene conquistata dai Sanniti, una bellicosa popolazione italica, originaria dell’attuale Abruzzo e cge si estende anche al sud, segnando in modo decisivo la vita di Pompei. È il II secolo a.C., secolo d’oro per la città: boom edilizio indotto dai commerci fiorenti, soprattutto relativi a esportazioni di vino e olio. I nuovi edifici sono ricchi, sontuosi, di gusto grecizzante: in questo secolo la città è intrisa di cultura ellenistica. Pensiamo a quel teatro di impianto ellenistico (in pianta, figura 43) che nasce durante il II a.C. Il teatro di Pompei è quindi, inizialmente, di impianto ellenistico. La città diventa scalo marittimo nelle rotte tra Italia, Spagna e Grecia, con una funzione portuale non secondaria.
- Fase quattro. Fase romana, che parte dall’età della tarda repubblica (I a.C.) e prosegue fino all’età imperiale e alla distruzione della città nel 79 d.C. La città muta assetto politico a partire dai tempi di Silla. Pompei, ribellatasi a Roma insieme ad altre città campane soggette, viene conquistata definitivamente nell’80 a.C., divenendo colonia romana. In questa fase coloniale avviene sia la definitiva configurazione della forma della città, sia una notevole crescita demografica, indotta anzitutto da un motivo: divenendo colonia le terre vengono confiscate e assegnate alle truppe di Silla, che si stabiliscono in città. Si insediano così nuovi gruppi, i veterani di Silla, nuove famiglie (gentes), almeno fino alle età di Giulio Cesare e di Augusto. Silla aveva assediato ed espugnato Pompei nell’89: siamo ai tempi di una guerra importante, la Guerra Sociale, che vede tra il 90 e l’88 a.C. gli alleati italici insorgere contro Roma. Le popolazioni ribelli – private di autonomia e della cittadinanza romana - si riuniscono in federazione, e Pompei ne fa parte.
Silla era un aristocratico romano che amava molto i piaceri del teatro, un personaggio enigmatico e complesso. Nell’82 diventa dittatore dopo una guerra sanguinosa: i pompeiani si schierarono nuovamente contro di lui, ma nell’80 la colonia capitola definitivamente. Il disegno di Silla era un governo gestito dall’aristocrazia, secondo questa idea un senato rafforzato era al centro del potere. Quando si ritira, Sillia si ritira in Campania, con un gruppo dei suoi veterani, a Pompei, all’epoca governata dal nipote Publio Cornelio Silla.
In questo periodo si diffonde il culto della dea Venere, la divinità più cara a Silla, e Pompei assume un nuovo nome: Colonia Veneria Cornelia Pompeianorum. Il nipote Publio rinnova la costituzione pompeiana ispirandosi al grande modello romano, che rimarrà in vigore fino alla fine di Pompei. Prende vita un organismo politico importante: il senato locale, chiamato ordo decurionum e composto da 80 a 100 decurioni, ovvero senatori municipali, ai quali erano tra l’altro destinati i posti più importanti negli spazi dello spettacolo. Altri posti erano riservati ai magistrati, tra i quali ricordiamo gli edili, cui spettavano vari compiti, come il controllo degli spazi e gli edifici dello spettacolo.
Negli anni 80 a.C. c’è quindi un mutamento di non poco conto: dalle magistrature locali esce l’antica oligarchia sannitica, sostituita per un paio di generazoni dai sodali di Silla. Anche se le strutture sociali non vengono rivoluzionate totalmente, cambia il clima culturale: il latino come lingua ufficiale sostituisce l’osco.
Nella figura di Silla ha anche grande importanza l’incontro con la cultura asiatica. Si scontra con Mitridate, emulo di Alessandro Magno, che è la figura archetipica della rivalità del mondo antico. Alessandro vive 33 anni, muore nel IV secolo a.C., e il suo valore diventa un mito. Viene divinizzato in vita, e diverrà il punto di riferimento storico per tutto l’Antico Regime. Gli imperatori romani si misureranno sempre con questa figura: ad esempio Augusto verrà adorato spontaneamente come una divinità, e questo costituisce un capitolo importantissimo per la storia del teatro.
Silla muore nel 78. Ormai la repubblica romana volge al tramonto, e l’operazione gattopardesca sillana non era servita. Intanto si stagliavano figure come quelle legate al triumvirato di Pompeo, Crasso e Cesare. Seguirà il potere di Giulio Cesare e del figlio adottivo, Ottaviano Augusto. Proprio al tempo di Giulio Cesare, la vecchia oligarchia sannitica a Pompei riprende il potere. In seguito si diffonde spontaneamente il culto imperiale per Augusto, e anche gli antichi culti (di Apollo e Venere) assumono nuove valenze, funzionali alla celebrazione del vecchio regime.
Lezione 3 – mercoledì 11 marzo 2015
Forme architettoniche pompeiane
Fonti imprescindibili:
- il già ricordato De Architectura di Vitruvio (la migliore edizione è quella dei Millenni Einaudi)
- La Naturalis historia di Plinio il Vecchio
- Il De lingua latina di Varrone
Su Vitruvio ci soffermeremo, in quanto passaggio fondamentale della cultura classica. Il tessuto cittadino di Pompei si articola su grandi arterie, detti cardi e decumani, che dividono la città in nove quartieri, in latino regiones, a loro volta organizzati in insulae (isolati). Vale la pena ricordare l’archeologo Giuseppe Fiorelli, il quale suddivise la città in questo modo.
Iniziamo dall’asse ovest-est, il decumano, che parte da Porta Marina, corrispondente alla Torre XIII della città, nei pressi della quale si trova il Tempio di Venere. Il tratto del cardo va da nord a sud, prende le mosse dalla Torre di Mercurio (Torre XI) e poi ancora, via di Mercurio che poi diventa via del Foro, e poi via delle Scuole. Si incrocia col decumano all’altezza del Foro. Siamo in presenza di un impianto ortogonale, ovvero articolato in strade che si incrociano ad angolo retto - tipico dell’urbanistica antica – ma tuttavia non è privo di percorsi ad andamento irregolare.
L’andamento ortogonale rivela l’influsso della grande tradizione assiale della urbanistica coloniale greca. Ippodamo di Mileto, attivo in Asia Minore nel V secolo a.C., è l’alfiere di questa tradizione (urbanistica ippodamea) che si manifesta palesemente nei due assi longitudinale: via dell’Abbondanza, decumano 1, si abbina al decumano superiore, che occupa la via di Nola, e si conclude alla porta di Nola. Abbiamo quindi due assi longitudinali attorno ai quali ruota la città nuova, cioè quella costruita a partire dal V a.C.: la neapolis.
Attorno ai due assi, ruota la città della prima età sannitica, che è scompartita in diversi settori. Notiamo poi il cardo già citato, ma anche l’altro importantissimo cardo che è il cardus maximus della città, che comprendere la grande via Stabiana. Siamo di fronte ad un piano coerente ed organico, capace di conservare e assorbire con intelligenza la città vecchia. Attorno a queste arterie principali si articola il reticolo viario dell’età sannitica e poi romana.
Nel II a.C. Pompei cambia volto, trasformandosi in una bella città ellenistica. In questo quadro possiamo ripensare al già visto teatro ellenistico, che ora vediamo in pianta nella sua forma romana, che nella sua prima fase risale proprio al II a.C. Il teatro rinasce in questo grande sogno culturale ellenistico. E proprio nel II a.C. si anima anche il foro, sul quale ancora oggi aggettano le vestigia di importanti edifici pubblici, civili e religiosi.
Passiamo dal linguaggio delle vie e delle arterie, al linguaggio privato delle residenze. Parliamo di alcune tipologie di residenze sia alla loro decorazione. Esse occupavano i due terzi di Pompei: erano abitazioni, officine, botteghe, eccetera. Edilizia privata che si articola in tipologie abitative diverse a seconda degli ordines sociale. Si svaria dalle lussuose residenze signorili, destinate ai ricchi (aristocratici, proprietari di terre, banchieri, pubblicani, avvocati, oratori, commercianti, eccetera), alle dimore più modeste (di liberti, artigiani, piccoli commercianti), piccole e spartane. Le residenze signorili erano arredate con ricchezza. Inoltre erano sontuosamente affrescate e alcune anche progettate per altrettanto fastosi banchetti e ricevimenti. Le abitazioni più modeste potevano fare tutt’una con la contigua bottega. Case spartane anche al loro interno. Il gusto è riportato dai centri vicini: soprattutto Pozzuoli, Cuma e Napoli. Fra le case ne segnaliamo una sul decumano superiore, la Casa del Fauno, anch’essa del II aC, definita così per una statua presente all’entrata della residenza.
Sotto il profilo dell’edilizia privata, Pompei è uno straordinario bacino di conoscenza e patrimonio di conoscenza per l’edilizia residenziale antica relativa ad un lungo periodo, grazie al quale si comprende il gusto abitativo di Silla e dell’età augustea. Nell’ambito di questa grande rivoluzione urbanistica, a partire dall’ età romana gareggiano il patriziato pompeiano e i nobili romani, questa gara dell’ostentazione darà vita sia a nuove e sontuosissime ville della città (extraurbane), ma anche a palazzi signorili. Gara, quindi, dello statuto sociale, dove si pone in gioco il proprio rango (cfr. evergetismo). Notiamo, da qui, la trasformazione degli orti domestici in giardini scenografici, dove la natura non è più sussistenza dell’uomo, ma è governata dallo stesso e dà uno spettacolo di sé.
Guardiamo ora le pitture nelle case pompeiane: le aristocratiche dimore erano riccamente decorate con sculture e pitture (ovviamente non solo a Pompei). Gli edifici, sia pubblici che privati, sono decorati con pitture che dissimulano la nudità delle pareti e delle porte. Nel mondo antico spicca una certa centralità del colore. Siamo in presenza di un “teatro parietale” della pittura, non privo di segni spettacolari. Gli studiosi hanno divisi questi stili pittorici in 4 stili (tutt’oggi altamente discussi):
- I stile: dal III a.C. sino all’80 a.C., nella cosiddetta fase sannitica, fino a che Pompei non diventa colonia romana. Il gusto ellenistico è particolarmente diffuso. Si allude con pitture o stuccature a strutture esterne con rivestimenti preziosi (es: finto marmo); si parla di stile strutturale.
- II stile: decolla con l’80 e dura fino al 20 a.C. e oltre, fino almeno al principato di Augusto. Prevede un ricco complesso di architetture dipinte illusionisticamente, ricche di prospettive, allo scopo di dilatare artificiosamente gli ambienti delle case. Questi effetti sono accresciuti anche da raffigurazioni di paesaggi e di città (che torneranno nel teatro del ‘500). Alcuni studiosi riconducono questo stile tout-court alla scenografia del teatro ellenistico, ma si tratta di un notevole azzardo.
[Fig. 1/III: Villa del I a.C.] Appartenuta probabilmente alla, seconda moglie, di Nerone, cioè Poppea Sabina, con capelli d’ambra (che darà origine a una vera moda). Vi si trovano notevoli pareti affrescate con architetture in prospettiva; sulla sinistra si nota una maschera tragica teatrale greca e un pavone. Una maschera sicuramente stilizzata, ma ispirata a oggetti teatrali; notiamo gli occhi enormi spalancati e stupiti.
[Fig. III /IV: Maschera]??? Probabilmente è una maschera di un satiro, con volto deformato. In questa pittura, del I d.c. pompeiano parietale (nella Casa dei Dioscuri). Affresco attaccato e conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Questi due attori stanno recitando, anche se non sappiamo cosa. Possiamo, comunque, notare che sia le maschere che i costumi appartengono al genere tragico con maschere (femminile) con i folti riccioli, e le alte calzature (coturni). Il personaggio sulla destra è un uomo che interpreta un personaggio femminile (come accadeva nella tragedia romana: le donne recitavano solo negli spettacoli di mimo, con anche scene di nudo). La figura sulla destra è una imperiosa eroina tragica, il suo gesto e la mano aperta sta a indicare un ordine impartito all’altra figura, probabilmente un servo, che porta in braccio un neonato destinato al sacrificio. L’affresco illustra, una gestualità solenne e perentoria tipica della tragedia. La donna pare azzittire il suo interlocutore. La gestualità dell’attore era divisa in due discipline: la chironomia (recitazioni delle mani) e l’orchestica (recitazione del corpo). Guardando quella mano, dell’eroina tragica, non si può non tenere conto dell’arte oratoria di Quintilianeo.
Nel De architectura (VII libro), Vitruvio ci dice che nelle grandi pareti degli ambienti e dei luoghi aperti, in ragione della loro ampiezza, possiamo riscontrare un genere tragico, comico o satiresco (le tre scene teatrali presenti nel teatro antico). È la ccena del teatro antico - tria generam scenarium - siamo, quindi, in presenza di un passaggio della pittura scenica a quella abitativa. Alcuni studios, sono convinti, che la pittura prospettica del secondo stile si associasse allo spettacolo e alla scena frons del teatro romano e alla scenografia dipinta dei teatri ellenistici. Alcuni pensano che questa ipotesi di passaggio dallo spettacolo all’arte sia plausibile, altri confutano questa tesi e pensano semplicemente a temi decorativi che riproducano paesaggi reali o architetture domestiche altrettanto reali. In tutto ciò non bisogna mai dimenticare la committenza dei proprietari di queste case. Un esempio di prudenza (pag.18-19) è in un affresco dentro la casa di un orefice, Pinario Ceralis, dove si raffigura l’Ifigenia. Non si sa se le figure nude siano attori, anche se alcune cose lo confermerebbero: come la forma della porta centrale (porta regia) che potrebbe richiamare la scenafronte, con i lati aggettanti delle versure. Per la pittura pompeiana comunque la prudenza è sempre d’obbligo.
- III stile: dal 20 a.c. fino al I d.C.
- IV stile: da metà del I d.c. fino alla distruzione di Pompei.
Importantissimi oggetti di studio sono anche i mosaici, complementari alla decorazione pittorica, e lo straordinario patrimonio di mobili e oggetti di uso domestico, ma anche di lusso.
Lezione 4 – lunedì 16 marzo 2015
De Architectura
Il De Architectura è un trattato decisivo per comprendere la cultura architettonica e urbanistica del mondo antico, romano ed ellenistico, Pompei inclusa.
[lettura documento 1, Le tre scene]
È un passo capitale, anche per le sue conseguenze sul teatro moderno cinquecentesco, basti pensare alla scena prospettica di città. La tripartizione tragica, comica e satirica viene rifiltrata e reinventata attraverso la prospettiva, partendo proprio dal testo di Vitruvio. Il teatro degli antichi è dunque alla base dell’invenzione del teatro moderno.
Un trattato di Sebastiano Serlio (Parigi, 1545) codifica le tre scene vitruviane con descrizioni e vignette. Vediamo adesso DOVE?? la scena prospettiva realizzata nel 1584-85 per l’Accademia Olimpica di Vicenza, che occhieggia dietro la scenafronte degli antichi recuperata in maniera creativa dal genio di Andrea Palladio. Siamo in presenza di una maestosissima scena tragica, con una scenafronte dispiegata su due ordini, e la scena in prospettiva realizzata, dopo la morte di Palladio, dall’ultimo grande architetto del ‘500 europeo: Vincenzo Scamozzi.
La città allude a Tebe, anche se con le forme di Vicenza. La città reale slitta nella metafora della città teatrale, è la città “non finita” degli aristocratici vicentini. È un meccanismo di autorappresentazione. La scenafronte, anch’essa autocelebreativa, dispiega le statue degli accademici olimpici di Vicenza in abiti all’antica: è ancora autocelebrazione.
Anche i periatti tragittano dal mondo antico al mondo moderno. Vengono illustrati, sempre a proprosito della scena cinquecentesca, ma in realtà derivano dal teatro greco. Vitruvio parla dei periatti, ma ne parla in epoca più tarda (II d.C.) anche un lessicografo di grande importanza per la storia del teatro, Giulio Polluce, autore di un trattato in greco intititolato Onomasticon: erano prismi girevoli a base triangolare, delle macchine che potevano ruotare e dunque dar vita a tre mutamenti di scena, essendo ogni lato coperto da decorazione. Erano posti alle due estremità laterali dell’edificio scenico, non dietro alle porte della scena, piazzate in prossimità degli ospitalia. Questi prismi mostravano scene campestri, cittadine o portuali, ancora una volta in sintonia con le tre scene sopracitate.
Nel passo che abbiamo letto però si parla anche di tuoni. Quando Vitruvio dice “faceva balenare fulmini dalla sua sezione superiore”, quando usa l’espressione “cum tonitibus repentinis“, è molto probabile che si tratti di macchine girevoli simili.
In questo specifico caso testuale, quali sono le ratrici storico-culturali del testo vitrivuano? Dobbiamo rifarci al mondo ellenico, alla cultura teatrale ateniese, in particolare alla commedia nuova (di Menandro), che fiorì dal 323 al 263 a.C. circa, e anche alla cultura degli antichi architetti che costruivano i teatri ellenistici in pietra da il IV e il II a.C., che Vitruvio chiama veteres architecti.
[Figura IV.1]
È il teatro di Epidauro, probabilmente il primo curvilineo del mondo antico, del IV a.C., probabilmente di Policleto il Giovane. Sono teatri che la cultura latina fruisce però in modo diverso (Vitruvio scrive secoli dopo): la chiave è la ricezione della cultura ellenistica da parte del mondo latino tardo-repubblicano, ecco cosa sottende il trattato di Vitruvio. Per quanto concerne le tre scene, si capiscono le differenze di gusto tra la pittura greca e la pittura romana del periodo, che va in chiave prospettica.
Vitruvio dedica tra il 27 ed il 23 a.C. (epoca del II stile pompeiano) all’imperatore Augusto il suo grande trattato. Vitruvio fu architetto ma anche ingegnere e, naturalmente, trattatista, ma, al di là della sua opera, lo conosciamo poco. Anche i dati cronachistici su Vitruvio sono oscillanti tra due punti di riferimento: Ottaviano Augusto (che vive tra I a.C. e I d.C.) e Tito, che governa nell’anno di grazia 79 d.C.. Ma leggendo attentamente il De Architectura si comprende che Vitruvio è personaggio chiave della cultura fra Giulio Cesare e Augusto, anche la dedica è ormai consolidata.
Struttura e contenuti del De Architectura
In particolare affrontiamo il libro V, nel quale si dà amplissima attenzione alla costruzione dei teatri. Sottolineamo due dati generali: il bagaglio culturale che troviamo nel De Architectura è ancora tardo-repubblicano. Gli aspetti normativi presenti nel trattato non mirano a definire una concezione astratta dell’architettura, quanto a promuovere una corretta pratica del costruire. Vitruvio ritiene essenziali: completezza, brevità e chiarezza, nella sua esposizione, mirando ad un’esposizione chiara di concetti semplici. Il trattato è in dieci libri, articolati in capitoli e in paragrafi. Nel libro V si parla della costruzione dei teatri, della loro acustica, come si parla di terme e altri edifici pubblici.
Altri libri utili per lo studio di Pompei sono il VI, che tratta delle abitazioni, dell’edilizia privata. Quando Vitruvio illustra la decorazione degli interni, i pavimenti a mosaico, l’uso delle pitture e dei colori, si tratta di elementi che riguardano anche la storia urbana di Pompei. Vitruvio riesce quindi ad affrontare l’intera scienza delle costruzioni e raccoglie con intelligenza ciò che era stato scritto dagli autori greci che lo avevano preceduto e che non conosciamo. Purtroppo il testo ci è giunto privo dei disegni che lo corredavano. Palladio curò le illustrazioni per l’edizione veneziana a cura di Daniele Barbaro.
Vitruvio dà vita ad una visione unitaria del sapere architettonico, unitaria ed interdisciplinare. L’opera non è priva anche di una funzione etica. È un’operazione di alta divulgazione. I tratti salienti dell’opera sono:
1) prosaicità dei principi e delle osservazioni vitruviane: si dà voce alla pratica professionale;
2) semplicità dell’esposizione.
Propone soluzioni fattibili e semplici ai costruttori, cui si vuol comunicare ciò che si deve e ciò che non si deve fare. Vitruvio rivendica anche la necessità che l’architetto abbia una buona cultura; se ne ricava un atteggiamento fiero. Tra le poche cose che sappiamo di lui, vi sono importanti studi da lui fatti in giovinezza. In breve: un architetto che dà vita ad un trattato votato alla pratica ma dotato di ampia cultura disciplinare.
Torniamo ora al libro V, dove si parla di vari tipi di edifici e spazi pubblici profani: il foro, la basilica, il tesoro (l’erario), la prigione, la curia (luogo di assemblea, sede del senato a Roma), dei teatri latini e greci, dei bagni pubblici e delle palestre, dei porti e delle murature sommerse. Si torna a quel nesso che sottolineavamo nelle prime lezioni: l’edificio è inserito da Vitruvio in un contesto urbanistico.
Da dove nasce questa cultura? Da Ippodamo di Mileto che aveva ipotizzato la ripartizione delle aree urbane in tre sfere - religiosa, civile e privata - che si protrae fino a Vitruvio. Ippodamo è urbanista fiorito nei decenni centrali del V a.C. forse nell’Atene di Pericle, che aveva pensato anche un modello ideale di città, caratterizzato da una cifra numerica: la ricorrenza dei numeri 3 e 10. Questo dimostra che si era appropriato della dottrina numerica pitagorica. Pensiamo quindi ai nessi tra la filosofia pitagorica e l’architettura teatrale ellenica del IV a.C.
Guardiamo ancora al teatro di Epidauro, che risente delle teorie pitagoriche sulla propagazione delle onde sonore, che determinarono una rivoluzione dell’architettura teatrale. Il passaggio dallo spazio teatrale attico rettilineo-trapezoidale del V a.C. (di Eschilo Sofocle, Euripide) alla forma curvilinea o a ventaglio dei secoli successivi, destinata a divenire canone costruttivo, avviene nel IV secolo a.C.
L’ispirazione pitagorica risulta illuminante anche per comprendere il V libro del De architectura. Vitruvio è capace di esporre le teorie pitagoriche, è quindi seguace di una tradizione di unione tra speculazione urbanistica e cultura pitagorica e quindi teorizzazione delle aree civili della città. Pur esistendo già prima di Ippodamo di Mileto, questo concetto di spazio urbano pubblico è teorizzato in modo decisivo nella cultura dell’età periclea. La città è pensata come un insieme organico dominato dall’umana ragione.
Anche la nuova Roma di Augusto non sarà estrane al trattato di Vitruvio: Roma deve essere un centro di potere in grado di superare la cultura ellenistica.
L’idea di teatro di Vitruvio
Gli edifici teatrali greci e latini sono illustrati nei capitoli da 3 a 9, in circa metà del libro V. Il primo teatro litico che si inaugura a Roma nel 55 è il teatro di Pompeo. Dietro la scenafronte notiamo un grande quatriportico di sapore ellenistico, destinato a riparare il pubblico dalla pioggia e dal sole, circondato da statue e con un lussureggiante giardino. È il più grande teatro del mondo antico. Augusto lo ricostruisce rendendolo splendente: dalla pietra al marmo.
I teatri rispondono a ritmi musicali e astrologici di matrice pitagorica. L’obiettivo è far pervenire qualunque voce in scena chiara e soave agli spettatori. Il fondamento del teatro sta, per Vitruvio, nella diffusione del suono, ma un altro elemento fondamentale è l’ottica. Vedere e udire sono il binomio saliente della progettazione dell’edificio teatrale.
La forma del teatro
Secondo Vitruvio il teatro latino nasce da un cerchio di base, quello che l’architetto deve disegnare per delineare l’orchestra, e nasce dall’iscrizione in questo cerchio di quattro triangoli equilateri equidistanti, che determinano le posizioni e gli allineamenti dell’interno edificio teatrale. Il teatro greco invece è generato da tre quadrati, sempre nel cerchio base. Cosa testimonia l’utilizzazione di queste forme? Il richiamo alle proporzioni del corpo umano. Torna una concezione antroprocentrica dell’architettura.
Anche nel Rinascimento si instaura una legame tra forma umana e la progettazione architettonica. Leonardo inscrive il corpo umano in due figure emblematiche, cerchio e quadrato, partendo dalle proporzioni umane e col suo disegno [immagine] rivela che solo l’uomo nel cerchio ha il suo centro nell’ombelico, ma l’uomo nel quadrato ha il suo cerchio nel pube. Siamo nel simbolismo. Nascita e origine contro terrestrità e procreazione: cerchio (cielo, origine soprannaturale dell’uomo) e quadrato (destino terrestre dell’uomo). Insistiamo sulla figura del cerchio perché ci interessa il teatro latino.
Nel V libro a proposito del teatro latino (cap. 3) si parla prima di tutto della scelta del luogo. Poi (cap. 6) si parla delle teorie della propagazione dei suoni, e (capp. 4-5) delle leggi dell’armonia musicale. Si tratta anche di dispositivi di bronzo e terracotta da collocare in certi settori della cavea per migliorare l’acustica. Nel capitolo 6 parla anche della struttura del teatro determinata dalle triangolazioni.
[figura IV 5]
La cavea, a forma emiciclica, con ripide gradinate, è suddivisa orizzontalmente da un (ma ce ne possono essere di più) corridoio per l’afflusso e il deflusso del pubblico. Questo corridoio si chiama in realtà itinera, e il praecintio è il muro aggettante sul corridoio. Verticalmente vi sono i cunei radiali di afflusso del pubblico a tagliare la cavea. La porticus in summa gradatione coperta da tettoia è posta sulla sommità della cavea e chiusa da un muro curvilineo che ha ovviamente anche la funzione di acustica, di riflessione del suono. Ha un’orchestra semicircolare, nei pressi dell quale vi sono i bisellia, dove si siedono i senatori. La scaena è fissa, architettonica, animata da due o tre ordini, munite di porte (ianua regia e ospitalia) per l’ingresso degli attori, e il palco è definito dalle ali delle versurae e da una parte avanzata che si chiama pulpitum ma anche proscenium, con un frons pulpiti all’estremità.
Vitruvio prevede che dietro alla grande scenafronte ci debbano essere porticati, sia per gli attori che per riparare gli spettatori in caso di pioggia. È evidente che ci rifacciamo al teatro di Pompeo.
Lezione 5 – martedì 17 marzo 2015
I° Seminario - Pompei. Immagini urbane e forme dell’abitare, di Paul Zanker.
Studioso di archeologia classica, Zanker ha strutturato il libro in tre parti: la prima si intitola Pompei e oltre, nuove domande sulla qualità delle città romane e impegna 31 pagine, ed è una sorta di introduzione concettualizzante alle altre pagine. La seconda si intitola Immagini di una città, gli spazi pubblici (pp. 33-146), si articola in tre capitoli: il primo è dedicato alla storia della città ellenistica, la città dei sanniri. Il secondo alla città divenuta, dall’80 a.C., colonia romana, e si intitola non per caso Colonia Cornelia Venerea Pompeianorum. Il terzo capitolo s’intitola L’ideologia augustea e la nuova fisionomia della città agli inizi dell’impero”. La terza parte del libro si chiama Abitare da ricchi, la villa come modello di case pompeiane, completano i volumi gli Apparati bibiografici.
Il volume svela il proprio impianto nuovo fin dal sottotitolo Immagini urbane e forme dell’abitare: sono i concetti che abbiamo individuato all’inizio del corso, urbs e civitas. Si passa quindi dalla mera archeologia ad uno sguardo complessivo anche sugli uomini, quindi uno sguardo sia archeologo sia storico e antropologo. Troppo spesso queste sono strade separate.
Lezione 6 – mercoledì 18 marzo 2015
La storia di Pompei si articola in tre fasi:
a. città sannitico-ellenistica
b. Pompei colonia romana
c. Pompei della prima età imperiale da Agusto a Tito
Tre diverse strutture storiche, connotate da culture e mentalità diverse. In altri termini potremo anche dire: la città grecizzante, la città dei veterani di Silla e la città imperiale improntata anzitutto all’ideologia augustea.
Se tralasciamo la regione VI, la zona sontuosa della Casa del Fauno (n° 17 sulla pianta), osserviamo i tre già ricordati principali centri civili e religiosi:
1) a sud ovest, il Foro (n° 6); situato non per caso a cavallo del decumano antico, ambiente caratterizzato da edifici religiosi e civili e dalla tipica forma della piazza rettangolare. Osserviamolo nel plastico [fotocopia VI.1] del museo della civiltà romana a Roma. Aggiungiamo altre notizie: la storia dello spettacolo a Pompei vive un suo capitolo significativo proprio qui. Dal 20 al 3-2 a.C. un personaggio filoimperiale, Aulo Clodio Flacco, organizza e finanzia dei ludi. Egli apparteneva alla gens clodii, ricca famiglia pompeiana possidente di vigne. Allestisce spettacoli in uno spazio urbano solenne, e non è un caso che elargisca per due volte in occasione dei giochi nel segno di Apollo, nume protettore di Augusto, gli Apollinaria. Non stupisce che la drammaturgia di una parte non secondaria di questi ludi abbia luogo non negli appositi edifici dello spettacolo, bensì all’aperto. Ancora Vitruvio ci aiuta, quando ricorda che «fu tramandata dagli antenati la consuetudine di dare nel Foro spettacoli di gladiatori», c’è quindi anche un dato tradizionale.
2) a sud est, zona dei teatri; al n° 41 della pianta notiamo il cosiddetto Foro Triangolare, il quartiere dei Teatri è toccato dal cardus maximus della via Stabiana e a ovest dalla via dei Teatri. È un polo urbano di grande importanza culturale.
3) a sud est, il polo ludico sportivo; al n° 60 notiamo l’anfiteatro e la palestra grande di età augustea, cui si arriva per tutta via dell’Abbondanza.
Tutti segni architettonici e spazi ricchi di funzioni e di significati, frutto di stratificazioni diacroniche di vario tipo:
a. demografico, cambiano le persone, si meticciano popolazioni diverse;
b. politico, cambiano i governi;
c. culturale;
d. sociale;
e. economico.
Siamo in presenza di un sistema urbano eloquente che si articola in un trittico: spazi, edifici e immagini, i cui significati sono legati, nelle diverse fasi della città:
a. col potere;
b. con la sfera del sacro;
c. con quella dei commerci;
d. con la sfera dell’intrattenimento.
È grande anche la presenza di sedi per il piacere a pagamento ubicate spesso o nelle vicinanze o all’interno delle osterie e taverne. Il principale edificio di prostituzione è il n° 39, articolato in dieci stanze disposte su due piani (lupanare). L’edificio n° 40, nei pressi del lupanare, è quello delle grandi Terme Stabiane, anch’esse del II a.C. quindi di impianto ellenistico: è un fondamentale centro di socialità e di svago, che incrocia via Abbonanza e via Stabiana. Erano dotate tra l’altro di palestra, di piscina (natatio), frigidarium, tepidarium e calidarium [vedi pianta documento VI.2].
Seneca racconta la vita che ruotava attorno alle terme, come racconta nelle sue lettere a Lucilio (la n° 56), dalla quale deriva un mondo vivace e rumoroso. Siamo in presenza di un documento che ci consente di immaginare un capitolo fondamentale del mondo antico, l’antropologia sonora (cfr. Maurizio Bertini, Antropologia sonora del mondo antico).
Dal vicolo del Lupanare arriviamo nella via dei Teatri, un altro luogo di socialità condivisa. Teatro e prostituzione vanno a braccetto lungo i secoli.
Focalizziamo il quartiere dei Teatri. Imbocchiamo la via dei Teatri. Al quartiere si accede dal lato nord [documento VI.4], dove si trova il Foro Triangolare con un ingresso monumentale [documento VI.4a], un propilon innalzato nel II a.C. sulla via del Tempio di Iside e abbellito da colonne e semicolonne ioniche. Tale ingresso era, per gli abitanti di prestigio, «l’ingresso solenne nel mondo di cultura greca», era una sorta di viatico carico di pathos al mondo della cultura ellenistica, cioè la cultura internazionale dell’epoca, allora vagheggiata dalle classi egemoni della Pompei sannitica.
Il quartiere è caratterizzato da quella anomala ubicazione marginale che la differenzia dalle città del tempo greche, dove veniva edificato nel centro della città. Nella fotocopia [VI.4b] nell’area 2 è segnata l’area del Foro Triangolare, un altro polo pubblico cittadino, un terrazzamento proteso verso il mare caratterizzato dall’edificio arcaico costituito dal tempio dorico, ben visibile ai naviganti del golfo di Napoli, dedicato al culto di Atena, protettrice della navigazione, che sappiamo anche associato al culto eroico di Ercole. È possibile che questo luogo fosse anche luogo d’incontro tra abitanti e stranieri. Siamo in presenza di un santuario che viene porticato nel II a.C. su soli tre lati. Il teatro sottostante è edificato contestualmente, così come la scalinata che collega i due spazi sacro e spettacolare.
Sulla destra del tempio è osservabile quello spazio rettangolare allungato (di circa 200 metri). A cosa serviva? Quasi certamente si trattava di uno stadio-pista di allenamento per le gare di corsa, in piena sintonia con quel progetto culturale alla greca.
Il teatro risale, nella sua prima fase, alla prima metà del II a.C. ed è costruito secondo canoni ellenistici, canoni che all’epoca erano diffusi sia in Magna Grecia che in Sicilia. Non possiamo non ribadire l’importantissimo nesso teatro-tempio, tipico della città greca, che svela ancora una funzione alta del teatro, che fu propria anche della città ateniese [vedi documento VI.5].
Il quadriportico è collegato al Foro Triangolare [n° 8 in VI.4b] con una scalinata [VI.6]. È un arioso peristilio dorico ubicato dietro al teatro. Alcuni studiosi pensano che si potesse già parlare di un portico con funzioni collegate all’edificio teatrali, ma in origine, in piena coerenza col significato educativo di questo quartiere, assolveva non tanto la funzione di riparo per gli spettatori, bensì quella di ginnasio, un luogo privilegiato di acculturazione della gioventù pompeiana (luogo di paedeia).
Questa magnifica scultura bronzea che raffigura un atleta in corsa [immagine VI.7], copia romana di originale greco del IV a.C., è la statua di un corridore. Zanker ricorda che il ginnasio diventò la pietra angolare delle società urbane greche, anche prima dell’età ellenistica, e questo luogo a Pompei cambiò funzione solo in età imperiale romana. Solo dopo il terremoto del 62 d.C. lo spazio diventa caserma [VI.8], e questo spiega gli straordinari ritrovamenti di elmo di un gladiatore particolare, il trace.
Il manufatto è molto elegante, sormontato da una testa di grifo e con un seme paremetico esortativo, ovvero il segno della palma della vittoria. Proviene dal I secolo d.C. Un oggetto così pesante probabilmente era da parata, così come lo erano i gambali [VI.9bis].
In VI.10 notiamo molto bene il sistema di accesso alla parte superiore del teatro. Ha vissuto tutte le trasformazioni delle età romane. Qui il palco è basso, prossimo alla quota dell’orchestra. Ma vediamo com’era il palcoscenico nel II a.C.: probabilmente era come quello del teatro di Priene [vedi VI.11]. Sul proskenion alto due metri si stendeva una tavola di legno, il logheion, luogo da cui si parlava.
[VI.12]
Ricostruzione del teatro di Priene (III a.C.), dove l’orchestra non è più, come a Epidauro, un perfetto cerchio, ma è diminuito (il coro ha perso d’importanza), e notiamo come il palcoscenico ellenistico sia alto, articolato su due piani: il primo è quello del proskenion sormontato dal logheion (a circa 2,8 metri) su cui recitano gli attori. Poi c’è la skene decorata con grandi vedute pittoriche.
Dopo IV secolo si sviuppa quindi questo nuovo tipo di scena ellenistica, che si diffonde in tutto il Mediterraneo. Gli attori agivano in posizione prevalentemente frontale, rispetto al pubblico, e nettamente separati dai coreuti, mentre ai tempi del primo Eschilo, l’attore e le maschere sono fuse nell’orchestra, con ogni probabilità. Le maschere si erano divise anche perché ormai il coro aveva perduto di importanza drammaturgica.
Siamo in presenza adesso in un teatro di repertorio, che non ruota più attorno al teatro-poeta, ma al teatro-professionista, e si passa dal regime delle prime al regime delle repliche e agli spettacoli-antologia, quelli in cui un attore, prendendo i brani da varie tragedie, si crea copioni addosso.
Il mutamento delle forme dello spettacolo è parallelo a quello dell’architettura teatrale. Possiamo parlare con formula ormai acquisita di drammaturgia dello spazio. Sulla storia degli spettacoli pompeiani è calato però il silenzio.
Il volto di pompei colonia sillana
Esaminiamo il teatrum tectum [VI.13]. L’ipotesi è che questo teatro sia stato costruito nei primi anni dell’epoca sillana, al tempo del tramonto della repubblica, cioè quando, dall’80 a.C. Pompei era divenuta colonia romana. Se in questa epoca cambiano appena le strutture economiche e sociali, muta invece in modo sostanziale il clima culturale. I coloni, i veterani di Silla, ebbero un ruolo eminente nell’esercizio del potere. Ai senatori municipali erano destinati i posti più ambiti nel teatro, i bisellia.
Prendeva piede un nuovo tessuto culturale meticciato che si mescola a quello degli antichi pompeiani della città sannitica. Inoltre decolla una nuova fase edificatoria, e la bella città ellenizzante muta il volto. Due culture a confronto. Proseguono avanti per conflitti o per integrazione? In questo quadro di rinnovamento architettonico e culturale, si inseriscono sia l’edificazione del grande anfiteatro sia dell’impropriamente detto dell’odeo di Pompei (meglio parlare di teatrum tectum).
Lezione 7 – lunedì 23 marzo 2015
[Fig. VI/14 e VII/1]
Vediamo l’interno e la pianta del teatrum tectum. La cavea è inscritta in una pianta quadrata ed è circondata da un muro perimetrale, al quale poggiava un tempo il tetto a due falde che copriva l’edificio. Notevole è l’andamento mistilineo dei quattro bassi gradini della zona più vicina all’orchestra, che ospitava i personaggi eminenti (bisellia). I due ingressi laterali erano due corridoi voltati tramite i quali si accedeva all’orchestra; è il concetto che nell’edificio teatrale romano corrisponde all’adito maximum. Da questi corridoi si accedeva a questo piccolo ambiente dotato di una scena frons rettilinea. Osserviamo, inoltre, la fossa in cui era calato il sipario (ad alium a caduta): quindi abbiamo una scena frons rettilinea e d’innanzai essa il canale per il sipario.
[Fig. VII/2, ricostruzione assonometrica del teatrum tectum di Pompei]
Qui percepiamo la differenza fra la struttura del teatro grande (l’ipotesi di ricostruzione è del 1589). Questo spazio, impropriamente chiamato odeion, è contiguo al teatro grande (Fig.VI/8b). L’ambiente retrostante alla scena che era adibito a ginnasio, dopo il terremoto del 62, si trasforma in una caserma di gladiatori. Le scalinate portano alla zona del foro triangolare, dove si staglia l’antico tempio dorico. Sull’odeion di Pompei le ipotesi sono divergenti fra gli studiosi. Alcuni riconducono, con certezza, al livello progettuale e nella sua fase architettonica iniziale questo spazio al periodo sannitico della città. A confronto di questa ipotesi gli studiosi avanzano i due concetti di teatro tectum e teatro nudum che fanno sistema. Riscontri che si trovano sia in Sicilia che a Napoli e vengono messi in luce puntuali analogie con il teatro di Pietra Abbondante (Molise, figura VII/3) risalente anch’esso, come quello di Pompei, al II a.C. e dunque un edificio progettato in età sannita (in coerenza con la costruzione del teatro sannitico-ellenista) e, dunque, che conosce il suo completamento solo in età sillana. Un'altra ipotesi data, invece, la genesi di questo edificio, alla nascita della colonia.
Gli studiosi, che avanzano questa diversa ipotesi, ritengono il teatro tecutm fra i primi e i più importanti interventi dei coloni nell’edilizia pubblica di Pompei e, così facendo, ricusano l’ipotesi di un progetto unitario fra teatro grande e piccolo. Il sistema teatrale di Pompei non nascerebbe armoniosamente, ma in due fasi storiche diverse. Gli studiosi che collegano la genesi di questo spazio all’età coloniale, collegano dunque l’edificio al gusto dei veterani di Silla al gusto latino. Tuttavia sappiamo che non possiamo avere certezze, nemmeno sulla funzione di questo spazio.
L’ipotesi tradizionale e, più diffusa, è che questo spazio fosse un odeion (dedicato alla musica e alla poesia). Altri ancora ritengono, invece, che si trattasse di un edificio assembleare sannitico, anche se anche questa ipotesi si accetta con delle riserve. Altri, tra cui Zanker, pensano a uno spazio per le riunioni dei vetrami di Silla, uno spazio ispirato a un voluterium (edificio destinato alla sedute del consiglio civico).
Elenchiamo, ora, alcuni fatti storici: sappiamo sicuramente di alcuni eventi bellici dell’89 a.C. dei quali restano ancora tracce nelle mura di Pompei. Sappiamo che a partire dall’ 80 a.C. che Pompei è colonia dei veterani di Silla (è intitolata, in onore di Silla, Cornelia Veneria Poeianorum); questi eventi mutarono, in modo irreversibile, il paesaggio demografico della città, modificano l’impianto politico della città e, infine, sia l’ambiente culturale sia quello linguistico. La città osco-sannita cambia e adotta la lingua latina, segnando un mutamento non secondario. Si aggiunga che la cerchia di Silla ebbe un ruolo decisivo nell’esercizio del potere, in un giro d’anni in cui si realizzarono confische di terre a favore dei coloni, proscrizione e discriminazioni sociali degli sconfitti. Nella Pompei coloniale si instaurava un tessuto diverso: linguistico, politico, sociale e culturale, tessuto che va mescolandosi a quello plurisecolare dei pompeiani; siamo in presenza di un meticciato culturale.
Decollava, in quell’età, una nuova fase edificatoria che cambia il panorama urbanistico della città, un nuovo panorama che dà voce allo stile di vita dei romani. Non vengono emarginati i sanniti, non bisogna scordare i segni auto-romanizzanti dei pompeiani cioè quelli che seppur nemici di Roma, seguono spontaneamente questo mutamento culturale, oppure la cooptazione o ancora, l’adesione compiaciuta da parte della alta società locale alla politica dei vincitori (matrimoni fra le famiglie importanti sannitiche e quelle romane).
Questo meticciato non è privo di rancori, ma nel corso del tempo si risolverà in integrazione. È una città che si rinnova socialmente e che impara a integrare le sue diverse anime. È in questo contesto che si inseriscono sia l’edificazione del teatro di Pompei (età coloniale) sia il teatro tectum (età di Silla).
Il fatto che il teatro tectum fosse al coperto, è attestato da due identiche epigrafi di età sillana. Era un teatro di invenzione ellenistica/siciliota. L’esempio più antico di questa struttura è documentato ad Akrari in Sicilia, ed è prontamente recepito dai romani. Se prestiamo fede alle epigrafi (dedica del teatro tectum) è ragionevole ancorare sia la progettazione che l’edificazione, ai primi difficili anni della fase coloniale di Pompei, quindi, poco dopo l’80 a.C.
Non è da escludere l’ipotesi che questo teatro coperto, capace di circa 1500/2000 posti, sia stato progettato e frequentato nei suoi primi anni dai circa duemila coloni maschi di Silla che vissero quello spazio anche come un luogo di aggregazione sociale. Pensiamo ai veterani di Silla a Pompei e al loro difficile instaurarsi nella colonia della città. L’ipotesi di Zanker è plausibile: i veterani hanno fatto costruire quell’edificio per radunarsi compatti, in una città che almeno inizialmente li percepiva come differenti, sarebbe perciò un marcatore di identità a funzione assembleare.
Quei coloni che, probabilmente, erano desiderosi di spettacoli confacenti ai loro gusti, alla loro lingua e la loro gusto teatrale. Possiamo pensare a recite versatili come quella delle compagnie di mimo, recite che prevedevano anche la musica e la donna in scena (le mime). Un altro segnale a favore della datazione coloniale, osserva Zanker, è che accanto al teatro coperto vi sono delle abitazione a schiera, riservate forse agli stessi coloni, ma decisivo è un altro fattore: cioè l’identità di coloro che vigilarono sul mandato del senato locale (ordu decoronioum) alla costruzione ex novo dell’edificio. Questi due signori sono Caio Quinzio Valgo e Marco Porcio, ed ebbero tanto peso nella formazione della colonia in quanto membri del partito di Silla e promotori della fabbrica dell’anfiteatro. I due magistrati filosillani dapprima appaltarono la costruzione dell’edificio a una bottega di campagna.
Quell’anfiteatro (n° 60) che è un altro segno forte della nuova Pompei di Silla e che corrisponde alle nuove esigenze di vita e di svago della nuova città romanizzata. Siamo nella zono sudorientale di Pompei, una zona caratterizzata, inoltre, dal bellissimo e eccellente spazio per esercizi ginnici e atletici (n° 61) dotato al centro di un ampia piscina che risale all’età augustea. L’anfiteatro viene costruito nel 70 a.C., la città si dota di un altro edificio dello spettacolo, quindi, non solo più il foro ed il quartiere dei teatri, ma anche il grande polo dell’anfiteatro, sontuoso e grande [Fig. VII/4], nonché molto diverso dal Colosseo. La capienza si aggira intorno ai 20.000 posti, la popolazione di Pompei registrava però 10.000 anime. Da questo scarto ne consegue che, questo edificio, fu ideato per ospitare anche un pubblico non pompeiano proveniente dalle città vicine per assistere ai ludi anfiteatrali.
Lo spazio è caratterizzato da una pianta ellittica, si articola in un’arena e nella sovrastante cavea, scompartita in diversi settori e in parte addossata al terrapieno delle mura della città. Questa soluzione di addossamento consentiva un notevole risparmio di spesa perché, in quel lato, non occorrevano mura o fondamenta. Un podio separa l’arena dalla cavea con un alto basamento (oltre 2 m) che serviva a proteggere il pubblico da eventuali assalti di bestie innervosite (quasi mai esotiche, come accadeva a Roma).
Il podio era riccamente decorato con affreschi del IV stile e di soggetto gladiatorio, oggi scoparsi ma ancora esistenti all’inizio dell’800 e trasmessi da tempere di Francesco Morelli [Fig.VII/5]. È probabile che la decorazione recuperata sia da ricondurre ai restauri dopo il terremoto del 62. Nel fregio notiamo una scena gladiatoria con due gladiatori appiedati che si stanno preparando al combattimento, entrambi assistiti da servitori e non hanno completata la loro vestizione. Notiamo anche strumenti musicali, il gladiatore di sinistra sta per suonare il corno da guerra (strumento tipico romano) per dare il segnale di inizio del combattimento.
Dietro al suonatore di corno vi sono due inservienti, uno dei quali porgerà a lui lo scudo rotondo (parmula), mentre l’altro servitore è con l’elmo. Osserviamo l’altro gladiatore che ha uno scudo rettangolare ricurvo e due scudieri gli stanno porgendo una spada e un elmo piumato. I due gladiatori si stanno guardano. Al centro abbiamo un personaggio dalla tunica bianca: è, probabilmente, un addestratore di gladiatori (lanista), che circoscrive con un bastone lungo e esile nella sabbia dell’arena, il perimetro dove dovrà svolgersi il combattimento. Le ultime due figure posti ai lati del fregio sono vittorie paremetiche (esortative) alate e con la corona da assegnare al vincitore. Nell’anfiteatro di Pompei non mancava un grande velario e, quindi, un sistema di copertura. Il velario costituito da più veli e manovrato da un sistema di funi e da macchinisti. Era un dispositivo costoso e non sempre utilizzato, con lo scopo di riparare dagli agenti atmosferici. Era un’attrattiva in più per gli spettatori tanto che se ne reclamizzava l’uso; lo testimoniano le numerose epigrafi sui muri di Pompei.
L’anfiteatro sorge in una zona scarsamente urbanizzata, proprio pensando alla gran folla prevista e alla razionalizzazione l’afflusso e deflusso delle persone. Un edificio nuovo e per nuovi spettacoli, svelano un mutamento di gusto: passiamo alla costruzione armonica del corpo e della mente (tipico fatto ellenistico) a un sistema che mette al centro la distruzione del corpo. Un gusto che si diffonde anche negli abitanti sannitici e in molte città italiche, molto spesso diffuso ancora prima che a Roma.
Questo segno urbano come va interpretato? Questo edificio è una manifestazione di una mentalità evergetistica (elargitoria) cioè di donare alla città (tipico della cultura aristocratica romana). L’anfiteatro diventa, quindi, grandiosa elargizione. Questa grandiosa evergesia porta sulla scena i signori Porcio e Valgo, due ambiziosi uomini politici. Valgo era un ricco proprietario terriero che aveva il pallino evergetico delle magnifiche imprese edilizie, sappiamo che di quella città di cui era magistrato aveva trasformato il volto urbano. Porcio era molto ricco, lo testimonia il fatto che, in via delle tombe, vi è anche il suo monumento funebre concepito come una tomba di un eroe. Un uomo che si autorappresenta in vita e in morte. Questi fanno dono all’anfiteatro alla città di Silla. Da qui si desume un discorso fra anfiteatro e memoria-gloria di Pompei. Le domande che ora ci poniamo: è un solo monumento in memoria dei cittadini? Un monumento in onore solo della colonia? Quale colonia? Quella dei filo sillani o anche quella che aveva miscelato i precedenti cittadini? L’anfiteatro è quindi un segno di una amalgamazione o una di differenziazione? Può essere letto come una nuova comunità che si è amalgamata. Questo spazio diventa simbolo di una nuova aggregazione sociale.
La tradizione degli anfiteatri non deriva da Roma ma dalla Campania, ed è infatti qui che iniziò la gladiatura: è infatti il centro principale, in età repubblicana, per l’arruolamento e allenamento dei gladiatori, e vediamo fra i tanti l’anfiteatro di Capua. In Campania sembra che l’anfiteatro sorga già alla fine del II a.C., e che assolvesse al compito fondamentale di eliminare dai fori la pratica di combattimenti gladiatori, decentrando questa pratica in luoghi di più facile controllo. Per questo si passa dall’antica pianta rettangolare (combattimenti forensi) alla nuova pianta ellittica. Una pianta che si accorda agli edifici dei veterex architetti (tetri ellenistici). Questa pianta garantisce una migliore visibilità.
Il più antico anfiteatro è quello di Pompei, designato con il termine spectacula, cioè luogo per gli spettacoli. Il termine anfiteatro è più tardo e lo troviamo in Plinio il vecchio e in Vitruvio (cfr. libro I).
Quali erano spettacoli frequenti nel periodo? Cicerone divide i ludi romani in due: ludi scenici e i ludi circensi. Entro queste due partizioni troviamo rappresentazioni teatrali legate al cosmo dei circensi, le corse dei carri, le gare atletiche, le naumachie (battaglie navali simulate), le venationes (cacce), i combattimenti fra fiere e uomini o viceversa e i combattimenti fra i gladiatori, il teatro danza il mimo e il pantomimo. È un teatro musicale quello romano, con persone che si esibivano in spazi differenziati a seconda delle loro diverse specializzazioni performative.
I munera (combattimenti gladiatori, il termine gladiatore deriva da gladio cioè la corta spada utilizzata dagli stessi) sono giochi che hanno una genesi in età arcaica, nel mondo etrusco. In ambito campano e osco sono comunque attestati i giochi gladiatori fin dal IV a.C. e in età ellenistica erano tenuti nei fori urbani rettangolari di forma allungata. I gladiatori erano o prigionieri di guerra con le loro armi e stili di combattimento e gran parte delle categorie professioni ebbero origine dalle usanze dei prigionieri di guerra, dalle varie usanze di combattimento.
I gladiatori a Roma arrivano nel III secolo a.C., in occasione dei ludi funebri, quando combattono tre coppie di gladiatori (264 a.C). Numero destinato ad aumentare: negli spettacoli spettacoli importanti si arriva a cento coppie. Nell’età di Giulio Cesare, l’imperatore offre 320 coppie di gladiatori e il primo imperatore spagnolo di Roma, cioè Traiano, ne offre 5.000 (107d.C). Secondo le fonti combattevano anche le donne, i nani, i delinquenti, gli schiavi condannati o anche uomini liberi, ma spinti a questo lavoro dalla miseria e dai debiti. Il loro addestramento era curato dai lanisti. I gladiatori vivono in scuole dove si persevera la loro severa disciplina.
Esistono diverse classi di combattenti, ma dobbiamo eliminare la convinzione che il combattimento finisse all’ultimo sangue. Al contrario, il pareggio o la grazia e, anche, il congedo dalla gladiatura (missio).
[Fig. VII/6a]
Graffiti rinvenuti a Pompei di combattimenti avvenuti a Nola: a sinistra c’è un combattente Hilaru Ner??, sopravvissuto a 14 incontri (il 12 cancellato si riferisce ai combattimenti vinti). Il suo rivale ne ha combattute 7: la “V” sta per vicit la “M” sta per misso cioè “lasciato andare”.
[Fig. VII/6b]
La prima figura è un esordiente, lo si nota dalla “T” di tiro cioè recluta che vince contro Ilario. Marco Attilio doveva essere un combattente formidabile visto che vince tutti.
[Fig. VII/7]
È un celeberrimo affresco, proveniente da Pompei, di modesta fattura, ma di grande interesse storico. La tecnica adottata è quella di un paesaggista, anche detta a volo di uccello. Viene raffigura la sanguinosa rissa avvenuta nel 59 d.C. nell’anfiteatro di Pompei (età di Nerone) e nelle sue vicinanze, una lite che avviene fra i pompeiani e i nocerini che venivano a assistere ai giochi. Questa rissa avrà notevoli conseguenze, con morti e feriti, al punto da arrivare persino alle orecchie dell’imperatore. Nerone e il senato di Roma decretano che, per dieci anni, nell’anfiteatro di Pompei vengano vietati i combattimenti dei gladiatori. Anche se la pena è mitigata dopo il terremoto del 62, non viene del tutto annullata. Sullo sfondo vediamo le mura dell’antica Pompei, il velario in parte dispiegato, vediamo stilizzato il già citato fregio che circonda l’arena. Vediamo, inoltre, la grande scalinata a due rampe poggiata su arcate e che portava gli spettatori alla summa cavea. Davanti alla scalinata notiamo le bancherelle allestite in occasione dei ludi. Notiamo che, fra quelli che si scannano di botte, accanto agli alberi vi sono figure impegnate in loro affari. I protagonisti della lite sono sulla fascia superiore.
Lezione 8 – martedì 24 marzo 2015
II° Seminario – La vita privata dell’impero romano, di Paul Veyne.
Paul Veyne, archeologo e storico francese, è uno dei più autorevoli studiosi del mondo antico. È importante perché ha rinnovato il metodo e il modo di guardare al perduto mondo dell’antico. Il suo approccio metodologico è di tipo sociologico e, inoltre, persegue una storia a 360 gradi, attenta a sondare in profondità la storia delle mentalità e attenta ai dettagli e al caso specifico, evitando le generalizzazioni. Nel libro Il pane e il circo si indagano i rapporti dei ceti dominanti, che ruotano intorno all’evergetismo ricco di magnificenza, elargizione e liberalità. È un libro fondamentale anche per la storia dello spettacolo del mondo antico perché si comprendono i meccanismi di committenza e di fruizione dello spettacolo; meccanismi appesi al concetto evergetico. Questo aspetto è rintracciabile, inoltre, nel libro l’Impero greco-romano, dove si mette a fuoco la cultura della civiltà ellenica e si sottolinea la centralità decisiva della cultura ellenica nell’impero romano, inoltre, anche le forme del potere e del diritto sono romane. Questi libri ci traghettano anche nell’universo del cristianesimo. Sono libri che risultano alla base dell’origine concettuale della civiltà occidentale. Il libro oggetto del seminario è La vita privata dell’impero romano che si articola in dieci capitoli e affronta temi centrali della mentalità dei romani.
Dove la vita pubblica era privata (cap. V)
Nella società romana la vita pubblica e privata era vista come un insieme univoco; al contrario del mondo attuale, dove le due sfere sono separate. Per ‘impero’ intendiamo l’assoggettamento di popolazioni al potere centrale di Roma.
Le cariche pubbliche che erano chiamate a portare onore a Roma. Rispetto alla nostra percezione, nell’aristocrazia romana manca una differenza fra il privato e il pubblico. Quindi quando si vanno ad analizzare le cariche pubbliche ci accorgiamo come questi due concetti, pubblico e privato, si amalgamano. Questo concetto di amalgamazione si estende alla città, che è intesa come una proprietà collettiva; il ceto al potere sente la città come proprietà collettiva, e non solo la città di Roma. Questo spiega molto anche della concezione evergetistica, perché il donare qualcosa al popolo non è solo un investimento a fini personali ma si contribuisce alla grandezza della stessa città che sente propria. Nel meccanismo della cooptazione si parla di una mentalità ricca e senza distinzione pubblico e privato, e coopta le persone da fare entrare in senato. Al senato si accede tramite reti di clientelismo, quindi, le funzioni pubbliche sono trattate come dignità private. Siamo di fronte all’idea pertanto differente dalla moderna concezione di stato moderno.
Quello che noi chiamiamo concussione, le bustarelle, ecc., e quello che noi vediamo come condotte illecite, nel passato non era definibile in tal modo. Nella società romana questo non costituiva reato, non solo, quando unoa persona veniva nominata governatore gli dovevano essere date delle prerogative per governare (anche donazioni in denaro).
Quando il governatore questi soldi ce l’aveva di tasca sua li percepiva come cosa propria: ecco perché nell’evergetismo questo duplice carattere di donare spontaneamente o assolvere ad un onore, anche se giusto moralmente, era comunque un frugarsi in tasca. Il fatto che poi questo atto evergetico fosse fatto con sincerità è un altro discorso e per superare talvolta anche altri evergeti, ma era anche un modo per dimostrare alla collettività la propria grandezza, il proprio onore o il valore di un persona. Valori questi fortemente sentiti nell’élite dal mondo antico.
Nella società romana l’ostentazione dei doni derivati dai soldi della propria carica pubblica era fatto non solo normale, ma anche di onore, al contrario della concezione attuale. In sostanza, quindi, fino all’Ottocento l’arricchirsi governando era ritenuto onesto. Il concetto di evergetismo è difficile da definire perché non ha un corrispondente oggi (l’evergeta non è uno sponsor). Le fondazioni di oggi potrebbero avere qualcosa di simile all’evergetismo.
Ecco gli elementi costitutivi dell’evergetismo: è necessario un evergeta (il soggetto), il dono (l’oggetto dell’azione come un edificio, spettacolo, ecc.), un destinatario (il popolo), l’occasione (cioè uno è stato nominato pretore, console, ecc.), infine, l’animo (la disponibilità con la quale l’evergeta donava). Da quest’ultimo elemento si possono trovare situazioni o manifestazioni dell’animo, apparentemente contraddittorie, cioè l’atto evergetistica può essere visto o come atto di mera liberalità da un lato, ma anche come obbligo morale dall’altro. Se per l’evergeta era un sacrifico, ma lo faceva volentieri, in quanto, li permetteva di accrescere di dignità.
Piaceri ed eccessi (cap. IX)
I rapporti interpersonali della classe dirigente romana che erano basati su un sentimento di familiarità: un uomo ben educato doveva trattare i suoi simili come pari, perché si riteneva prerogativa dei barbari e degli schiavi quella di intimorirsi di fronte al padrone. Il sovrano doveva avere nei confronti degli stati più elevati della società un tono liberale. Le relazioni erano molto più importanti rispetto alle decisioni politiche. Succedeva che un imperatore era più facile che fosse deposto per motivi relazionali che per le sue decisioni politiche; questo perché la vita privata e pubblica non erano ben disgiunte. In realtà questo apparente rapporto di amicizia diventava spesso un rapporto clientelare.
L’urbanesimo: un romano si sentiva tale solo all’interno della città, quest’ultima infatti garantiva uno stile di vita che la campagna non poteva assicurare. Altro elemento fondamentale erano le mura, che avevano la funzione di protezione del cittadino e, inoltre all’interno di queste ci si sentiva come in una casa collettiva. All’interno della città sorgevano i luoghi del piacere e della socialità romana cioè i bagni e i teatri e le arene; erano dei piaceri a cui tutti i cittadini potevano partecipare e non solo la classe dirigente (vecchi, donne, schivai, bambini, liberti). I bagni non erano solo motivo di pulizia, ma era un piacere ben complesso. In principio erano luoghi molto semplici composti da tre tipi di bagni (tepidario, calidario e frigidario). Nel tempo questi bagni si evolveranno e vi si applicheranno metodi di riscaldamento complessi dove sia le pareti che la pavimentazione erano riscaldate (vedi le terme di Caracalla); spesso diventavano anche luoghi di ristoro nella stagione invernale. Inoltre sono arricchite con mosaici, decorazioni pittoriche e statue, tali da rendere l’atmosfera magica. Le terme non erano solo un luogo per pulirsi, ma erano luogo della collettività e della socialità; le terme al pari degli spettacoli sono piaceri urbani pubblici. Le terme sono inserite in una concezione di piacere complesso.
Nella città vi erano anche teatri e arene, all’interno delle quali si realizzavano spettacoli fruiti da tutte le classi sociali. Vi si svolgevano due tipi di spettacoli: nei teatri abbiamo le rappresentazioni teatrali, commedie, tragedie e pantomime. Nell’arena si svolgevano le lotte gladiatore, le naumachie, gare atletiche e le corse degli aurighi. Queste tipologie di spettacoli erano sottoposti a censura o critica: i primi perché ritenuti fonte di mollezza, mentre i secondi erano ritenuti futili. Le critiche erano soprattutto mosse dalla classe intellettuale (anche se questi erano i primi a partecipare agli spettacoli, quindi in totale incoerenza).
Gli spettacoli erano fra i più importanti affari della città perché non si contrapponevano a un’ideale di vita laboriosa, era perciò un aspetto fondamentale che si compenetrava all’interno delle altre sfere della vita. Gli spettacoli pubblici erano quindi un piacere condiviso, inoltre, dobbiamo notare anche l’assenza di contrapposizione fra labor e otium.
Dobbiamo anche eliminare dalla nostra concezione che i gladiatori non erano una sorta di sadici, ma al contrario nell’impero romano non vi era assolutamente questa concezione. Negli spettacoli romani, infatti, non ci si concentrava sulla morte, ma bensì sulla decisione se salvare o meno il gladiatore. Inoltre era biasimato chi godeva nel veder soffrire il vinto, in quanto, si riteneva che non assistesse allo spettacolo con oggettività. Siamo in presenza di spettacoli che noi percepiamo come crudeli, ma che erano visti come un’esibizione di valore e di coraggio, vi è un diverso sentimento della morte. Sia le terme che i teatri erano strutture e a pagamento.
Altro momento tipico della socialità romana era il banchetto, che aveva come sempre dei risvolti nella vita pubblica. Per la classe dirigente costituiva in un momento di esibizione di ciò che il privato aveva e ne faceva mostra. Era un momento di relax dove il privato si rilassava circondato dalle personalità che più gradiva. I banchetti avevano una disposizione precisa dei letti intorno al tavolo delle vivande, rispecchiando l’importanza degli ospiti: l’ambiente dove si realizzava era diviso in due parti, una parte dove si mangiava e un’altra parte dove si beveva. Visto che il banchetto era considerato un momento di estrema levatura ci si aspettava di assistere a delle storie biografiche, canti o danze.
Il banchetto, quindi costituisce una vera e propria manifestazione sociale per la classe dirigente. Per quanto concerne il volgo abbiamo due luoghi dove si banchettava: le taverne (presenti in numero elevato a Pompei) e le confraternite, libere associazioni private a cui accedevano solo gli uomini liberi o schiavi. Si pagava un diritto di ingresso tramite cui ci assicurava il banchetto e anche i funerali, e queste era una delle poche maniere per uno schiavo di assicurarsi una sepoltura in modo da non finire in una fossa comune.
Queste associazioni erano organizzate sul modello della città: avevano un consiglio, si votavano i decreti ed erano oggetto di pratiche evergetiche. Non erano, inoltre, ben viste dal potere, perché avevano molti partecipanti e non avevano scopi ben definiti, quindi, potevano diventare centri di potere difficili da gestire. La pratica della riunione era piacevole tanto che nascono dei collegi all’interno delle stesse famiglie, dove gli schiavi, liberti e mezzadri si riunivano e si tassavano sia per assicurarsi una sepoltura, sia per dimostrare un attaccamento alla famiglia per cui lavoravano.
La pratica del banchetto aveva bisogno di una legittimazione: veniva in aiuto la devozione a Bacco, una divinità che celebrava la convivialità e la socievolezza. Il popolo credeva in questa divinità, ma non la adorava, a differenza degli altri dei, perché considerato non affidabile: tuttavia la leggenda bacchica è presente in tutta l’iconografia romana, non solo in mosaici e pareti, ma anche negli oggetti della vita quotidiana (vasellame) come anche nelle tombe. Questo perché suscitava piacere e non aveva assolutamente un senso religioso, ma offriva al piacere e alla socievolezza una garanzia sovrannaturale.
La pratica del banchetto era anche presente in riti religiosi: il paganesimo era una religione di feste, il culto che si basava su vittimi sacrificali era sempre seguito da un festino in onore delle vittima sacrificata. La festa compiaceva anche gli dei, visto che essi stessi erano i primi che ne traevano piacere, quindi, il sacrificio e la festa religiosa assolvevano a un doppio piacere, perché erano anche adempimento di un piacere. Ai sacrifici si invitavano gli amici ad assistere, quindi probabilmente era diventata più una pratica che aveva la scusa di consumare un buon pasto, piuttosto che una pratica religiosa. La classe dirigente sacrificava vittime molto costose rispetto al ceto meno abbiente.
Un'altra partica di sacrificio era l’invitare gli dei a cenare a tavola con la famiglia, deponendo le statuette delle divinità in corrispondenza dei piatti, successivamente riempiti. In seguito venivano dati questi piatti agli schiavi, in modo che anche quest’ultimi potessero avere un momento di feste. Un altro momento di festa erano le feste contadine stagionali dove i mezzadri, schiavi e liberti portavano doni al proprietario terriero e in compenso li riservava la decima parte del raccolto che era poi consumata in compagnia.
Anche la concezione dell’amore era particolare: vi erano dei divieti ben precisi. Non si potevano avere rapporti prima del calare del sole, occorreva una candela accesa all’interno della stanza e la donna non doveva essere completamento svestita. Non si potevano avere rapporti con la sorella, con delle vergine di buona famiglia, delle donne già sposate, con adolescenti nati liberi e con le vestali. La donna era a pieno servizio del piacere dell’amato, tanto che lei faceva tutto all’interno del rapporto sessuale; era una società fortemente maschilista. L’uomo doveva avere sempre una parte attiva all’interno del rapporto, indipendentemente dal sesso del partner. La pederastia era molto diffusa e si riteneva che tutti potessero avere piacere dal partner dello stesso sesso, l’avere dei rapporti con lo stesso sesso provocava un piacere molto tranquillo, mentre avere dei rapporti con una donna faceva l’uomo schiavo della passione d’amore.
Sedativi dell’anima (cap. X)
La religione e la filosofia, a differenza della concezione dell’attuale, avevano lo scopo di sottrare l’individuo dalle inquietudine dell’esistenza. La religione non si occupava della salvezza dell’anima, infatti, l’aldilà era un luogo di riposo e non suscitava ne sentimenti di angoscia o di preoccupazione, la morte era vista come il nulla o un sonno eterno, nessuna dottrina a Roma insegnava che dopo la morte vi era qualcosa altro all’infuori del cadavere, infatti la tomba era vista come una dimora di riposo dopo un lungo viaggio. I riti funebri avevano solo la funzione consolatrice.
Gli dei pagani (esseri ragionevoli e immortali), vivono una propria vita, e non sono solo un qualcosa di metafisico, ma sono concepiti come una vera e propria razza che popola il mondo al pari degli uomini (esseri ragionevoli e mortali) e degli animali (essere irragionevoli e mortali). Erano entità volubili e capricciose che si ponevano al di sopra degli uomini e degli animali. Gli uomini pertanto dovevano mostrare rispetto e riguardo, quindi per dimostrare ciò dovevano salutare le immagini degli dei e frequentare molto il tempio.
Le relazioni fra gli dei (che non erano visti come “padri”) non erano servili, ma vi erano delle relazioni nobili e libere di tipo clientelare; la pietas romana si basa non sulla fede, ma bensì nella moltiplicazione delle pratiche nei confronti delle divinità in quanto il dio era visto come un protettore, cioè come qualcuno a cui si potevano fare doni e preghiere per avere una protezione in cambio. Un uomo empio era colui che non pregava e non frequentava il tempio, mentre un uomo pio era colui che pregava e faceva molti doni, in funzione quindi, delle relazioni di scambio che simboleggiavano un’amicizia fra partener di diverso livello che però erano in relazione per reciproci interessi.
Con il plurale “gli dei” non si intendeva solo la somma delle divinità, in quanto gli dei avevano una funzione e una virtù che ogni singolo dio non aveva, si diceva infatti che gli dei governassero gli avvenimenti e avessero creato il mondo in funzione dell’uomo; si arriva così a un concetto di provvidenza. Provvidenza non però in una concezione cristiana e quindi venerata, ma semplicemente ci si rifaceva alla sua volontà. È difficile pensare come un romano colto potesse credere alle diverse divinità, in ogni caso non poteva prescindere dalla concezione di religione pagana. La religione pagana era di tipo tollerante: ognuno preferiva una divinità rispetto alle altre, ma non era una decisione di tipo discriminatorio. Nel I d.C. il paganesimo si interiorizzerà e si crea un rapporto di sudditanza con le divinità o con le singole divinità. Le divinità diventano perciò provvidenziali e vengono venerate, non sono più dei capricciosi e venali, ma sono giusti e buoni. Cambiano pertanto i rapporti fra uomini e dei. Gli dei quini cominciano a dare dei veri e propri ordini all’uomo, fatto che primo non avveniva assolutamente.
Alla base della filosofia vi era sempre la felicità. La filosofia prevedeva un metodo per essere felici. I luoghi di divulgazioni di questi metodi erano le sette: le due sette più importanti sono quella Epicurea e Stoica. Queste proponevano metodi diversi per vivere senza temere uomini, dei e sorte. Lo stoicismo si basava sul liberarsi delle passioni della vita terrena, metteva in atto la pratica dell’apatia. L’epicureismo si basava sulla sensazione che serviva per capire ciò che era bene e giusto. Le dottrine filosofiche non limiteranno solo alla vita della setta ma si estenderà anche verso l cultura e le persone colte.
Le due figure di evergeta sono:
- il funzionario pubblico, e chiunque acceda alla dignità sociale deve pagare;
- il notaio senza carica pubblica.
L’evergeta dona e costruisce edifici o spettacoli di gladiatori, banchetti pubblici e feste; una sorta di mecenatismo, tutto sovvenzionato di tasca propria. Un mecenatismo rivolto al beneficio della città e ai suoi pubblici piaceri: capiamo allora che l’anfiteatro è il marchio dell’evergeta, il quale abbina pertanto il privato a un obbligo pubblico. Le città si abituano progressivamente a quel lusso pubblico, percepito come un diritto. La città appartiene a notari nobili perché da essi è pagata, e questi in cambio chiedono tasse e imposte esose. Le tasse vengono fatte ricadere di norma sui contadini. Siamo in presenza di un’oligarchia cha si fonda sull’evergesia. Abbiamo anche però, accanto a questo, l’ostentazione della propria ricchezza.
Lezione 9 – mercoledì 25 marzo 2015
Pompei e Augusto
Siamo nella fase imperiale di Pompei: la città pervasa dall’ideologia augustea fin dall’anno 20 a.C., una cinquantina di anni dopo l’edificazione del grande anfiteatro, che ridisegnava, unificandola, l’identità civica cittadina, quell’identità che comprendeva sia la popolazione sannitica, sia la popolazione romana dei coloni.
Il principe Augusto fu di fatto il primo imperatore di Roma. Arriva giovane al potere, divinizza il padre adottivo Giulio Cesare nel 42 a.C., divenendo di conseguenza il divi filius. Quell’Augusto che, nel corso della sua lunga vita, persegue e realizza un progetto politico ambiziosissimo che si fonda su una inedita concentrazione di potere supremo e universale.
Il progetto decolla, attuato con la complicità della seconda moglie Livia, nel 31 a.C. A questa data, con la vittoriosa battaglia navale di Azio in cui Ottaviano (alias Augusto) sconfigge Antonio e Cleopatra, si conclude un periodo terribile della storia di Roma, quello delle Guerre Civili, e inizia la pax augusta. È una pace derivata da un complesso equilibrio che miscelava un rispetto formale per le antiche istituzioni repubblicane che, in realtà, venivano svuotate dall’interno.
Augusto pone al centro del progetto una nuova virtù romana ed un rinnovamento religioso: virtus et pietas. Altro elemento chiave è il concetto di publica magnificentia. Nella pratica si tratta sontuose iniziative edilizie di pubblica utilità, ma anche ludi magnifici e feste di regime. Scatta un progetto emulativo della cultura ellenica. Senz’altro anche la sfera dello spettacolo riveste un ruolo non secondario: pensiamo al fiorire dei grandi teatri in pietra di età augustea, che si diffondono in tutta Italia. Sono segno di romanizzazione e di una concezione politica che prevedeva l’uso di questo spazi come veicolo di ideologia del principe, oltre che di intrattenimento controllato.
Il progetto si fonda su una abile costruzione del consenso. Vi si abbina un’idea forte e universalizzante - l’idea di impero – declinata per immagini, tramite quindi un linguaggio visivo.
“Non servono tanti libri allo studioso del teatro. Bisogna andare a cercare il teatro fuori dal teatro. Siamo dei minatori, che vanno a cercare le petruzze in territori più vasti. Nulla di peggio del teatro che si consuma solo nel teatro.”
Stefano Mazzoni
È la renovatio di una civiltà,e anche di un modo di configurare città e architettura. Pensate ad esempio ai bellissimi templi in marmo che, nell’urbe, vengono dedicati alle divinità tutelari di Ottaviano Augusto: Venere, Apollo e Marte.
Anche a Pompei, Apollo e Venere conobbero una nuova vita sotto la gens iulia. Enea era figlio di Afrodite. Mentre l’antico nume tutelare di Pompei, Apollo, già protettore di Silla in battaglia, diventa una sorta di benefico doppio del suo prediletto protetto. Un doppio di Augusto: si apre il capitolo delle assimilazioni dei principi alle divinità.
In onore di Apollo si organizzano anche a Pompei i ludi apollinares nel mese di iulius, luglio. Le famiglie si identificano con questa ideologia, e quindi nascono con meccanismi spontanei di consenso. Ci si paragona al principe, lo si sente un modello, è un processo alto-mimetico capillarmente diffuso. Vettore di diffusione sono le famiglie aristocratiche, che imitano e fanno imitare il comportamento del modello del princeps.
Nasceva il mito di una nuova era di pace e prosperità economico, mentre sul piano storico nasceva un nuovo regime che dal 27 a.C. distrugge l’antica repubblica, mantenendola apparentemente in vita. Dai valori dell’oligarchia senatoriale si passa a quelli della famiglia imperiale.
In questo quadro si spiega il nuovo volto urbano acquisito in età augustea a Pompei, specchio della renovatio. Fra tutti gli edifici basta ricordare la casa della pubblica sacerdotessa Eumachia. È stato ipotizzato che nel foro di Pompei ci sia stata una quadriga con Augusto pater patri sul modello di quello del foro a Roma. Siamo in presenza di una fitta segnaletica urbana che culminava nella celebrazione del culto imperiale.
Gli spettacoli a Pompei attraverso l’analisi di un documento epigrafico
A Pompei le molteplici forme di spettacolo sono attestate da una iscrizione sepolcrale dettata da un finanziatore di ludi filoimperiale, Aulo Clodio Flacco, uomo elettro tre volte tra i magistrati supremi della città [epigrafe letta al documento 1].
Non stupisce che una parte non secondaria di quei ludi non abbia luogo nel teatro e nell’anfiteatro, bensì guardacaso nel foro limitrofo appunto al santuario apollineo, nel solco di una tradizione che era anche italica.
Non possiamo dimenticare a questo punto di guardare anche a Roma. Il teatro di Marcello, dedicato alla memoria del genero di Augusto scomparso prematuramente, è un segno forte della dinastia iulia. Sottolineiamo l’importanza della metafora ‘Augusto come Apollo’ e il culto di Apollo Aziaco, il culto instaurato da Ottaviano in seguito alla battaglia di Azio.
A Efeso nel 21 a.C. Antonio invece entra preceduto da “donne vestiti da baccanti e uomini e fanciulli agghindati da satiri e da Pan, mentre la gente acclamava Antonio come Dioniso solare”. È oriente versus occidente, un tema di lunga durata nella storia europea.
I ludi apollinares in età agustea si caricano quindi di nuovi significati e ciò avviene en pendant col diffondersi del culto della famiglia imperiale.
L’evergeta Aulo Clodio Flacco, veicolatore dell’ideologia agustea, per entrare nel cuore dei cittadini organizza ludi nel luogo più emblematico dell’ideologia augustea: il foro. Prendiamo in esame ora le forme dello spettacolo: cacce, schermidori, pugilato a coppie e a gruppi, esibizioni di buffoni e pantomimi.
Nel secondo duovirato, Clodio Flacco utilizza anche l’anfiteatro. Una novità è quella di abbinare gli spettacoli di caccia a quelli di gladiatori, offerti in simultanea. Un abbinamento che fino a questa età era del tutto inedito. Uno spettacolo nuovo che miscelava nell’anfiteatro di Pompei tradizioni locali e romane, il tutto dinanzi ad un doppio sguardo: quello disincantado del pubblico di élite ma anche lo sguardo popolare. A partire da Augusto le venationes divennero parte integrante dei programmi dei giochi gladiatori. A Pompei non sono documentate cacce con dispendiose fiere importate dall’Asia e Africa, quindi non ci sono tigri, leopardi, leoni, eccetera. Gli animali erano animali della più modesta fauna locale.
Cosa si allestisce nel foro di Pompei? Uno spettacolo del pantomimo Pilade di Cilicia: nella fiera dell’anonimato artistico, spicca una personalità. Forse il più famoso dell’età agustea, che fu libertà del sommo Augusto. Attorno al 20 aC, mentre Augusto celebrava la riconquista delle insegne militari catturate ai Parti, Pilade danzava ai ritmi dello scavillum nel foro civile di Pompei coi suoi costumi preziosi e le sue piccole maschere dalle labbra chiuse [cfr. La danza di Luciano].
Lo scavillum era uno strumento tipo un sandalo, con una spessa suola di legno munito di due piastre metalliche, per battere il tempo [cfr. imm. di Mosaico]. Nell’immagine si vede una danzatrice con crotali ed un suonatore di strumento a doppia canna d’ancia (tibiae pares).
Lo spettacolo di pantomimo è l’esibizione di un mimo danzatore solista accompagnato da canti del coro e da musiche squillanti e fragorose. La pantomima scenica è una novità nella nostra penisola nel 22-23 a.C., e non nell’oriente, ed è importata qui da Pilade di Cilicia Batillo di Alessandria. Se Pilade era protetto di Agusuto, Batillo era il protetto di Mecenate, il quale, secondo Tacito era effuso in amorem batilli. A volte i due rivaleggiarono in un aurea di divismo, e il pubblico parteggiava per uno dei due.
Lo scavillum non solo scandiva il tempo per il danzatore, ma ritmava anche le melodie del coro e le modulazioni di uno strumento a fiato, il tibicen.
Pilade preferiva il registro tragico, tragediam saltare. Le fonti ricordano la danza di Pilade, definitva maestosa e multiforme, una danza tragica e patetica capace di rappresentare molti personaggi. Siamo in presenza di un antologico e trasformistico susseguirsi di parti in azione, indossando maschere e costumi diversi. I gesti del pantomimo fanno scattare le emozioni, indispensabili per una buona riuscita dello spettacolo.
I personaggi, come quelli tragici dell’antica Grecia, venivano fatti rivivere attraverso la chironomia. Delle fonti parlano di pantomimi “sapienti nelle mani”.
[lettura documento II]
Le fonti ci fanno percepire la ricchezza tecnica dello spettacolo del pantomimo. Lo spettacolo viene descritto anche da un enciclopedista del mondo antico, Macrobio nei suoi Saturnalia, in particolare in 2.7.12, prendendo in rapida analisi l’emozionante gara che ha luogo nel 18 aC tra il maestro Pilade e il suo allievo Ila.
Quel rimprovero di Pilade, “lo fai alto, non grande”, non andrà tradotto alla lettera, come di consueto, ma proponiamo una tradizione figurato “lo fai grosso, tronfio, smargiasso, non alto”. Ciò è in sintonia con ciò che precede questo punto. Pilade punta a restituire la regalità di Agamennone attraverso la pensosità, e non eccedendo nella fisicità.
Seneca, in una sua epistola, critica chi in scena “incede pettoruto e tenendo la testa all’indietro”. Forse Ila è incorso in un medesimo errore: un interpretazione esagerata. Libanio ha scritto un’orazione di elogio in difesa della pantomima e di questi artisti, perché istruisce le masse al posto della tragedia.
Da queste testimonianze e dal saggio di Luciano, si intende che l’arte performativa della danza è un’alleanza strategica tra il corpo e la mente. Era un’alleanza che affascinava gli spettatori.
I teatri da allora sono intrisi di iconografie scultoree destinate alla celebrazione della Gens Iulia. Lo spazio del teatro diventa altamente significante. È dinanzi a queste statue che si consumano, per esempio, proprio gli spettacoli di pantomimi: il teatro è quindi pieno di immagini, costumi, musica, movimenti, statue, pubblico, eccetera.
Bisogna eliminare l’anacronistica divisione balletto-prosa. Non si capiscono neanche a fondo gli intenti e la mentalità del pubblico. C’è un gusto nei confronti dello spettacolo che muta, il pubblico è affascinato dal repertorio pantomimico. Lo sguardo della storia della letteratura guarda al teatro in maniera sfuocata.
Va sottolineato che la rifondazione augustea del mondo fu anche rifondazione del microcosmo dello spettacolo. La forma pantomimica è un nuovo trapiano nel mondo latino. Soprattutto la fondazione augustea muta in profondità l’assetto architettonica e estetica del teatro, che diviene veicolo di creazione di consenso.
Torniamo all’epigrafe di Audio Clodio Flacco: “nel terzo duovirato rappresentazioni sceniche con una compagnia di primordine”. La ragione è che è subentrato Marco Orconio Rufo che è collegato al rifacimento del teatro. Qual era il repertorio agito sulle scene di Pompei? Ne sappiamo poco. I programmi dei giochi scenici venivano annunciati da araldi, praecones.
Sappiamo anche di un altro grande pantomimo, Paris, talmente famoso da avere un club a Pompei: i paridiani dell’osteria di Purpurio. Un altro pantomimo importante è Actius Anicetus, che ha anche lui i suoi fans, troviamo infatti iscrizioni sui actiani anicetiani. Questo porta a un dato sostanziale: la centralità dell’attore performer nell’evento spettacolo ellenistico e romano. I graffiti danno testimonianza dei grandi pantomimi, non dei grandi autori.
[cfr. lettera a Lucilio, 11.6]
Si parla anche di Seneca come uomo di teatro.
Lezione 10 – lunedì 30 marzo 2015
III° seminario
Nerone, Vita e Leggenda di B. H. Warmington
Lezione 11 – martedì 31 marzo 2015
Nerone arriva al governo dopo un breve ma traumatico principato di Caligola - o meglio, Gaio (37-41), appassionato di ludi - e quello di Claudio (41-54). Nel 49 d.C. Claudio sposa in quarte nozze la nipote Giulia Agrippina, Agrippina Minore, una vedova di un uomo importante, Domizio Enobarbo, al quale Agrippina aveva dato un figlio, Lucio Domizio, che poi prenderà il nome di Nerone.
Un anno dopo, Lucio viene adottato da Claudio. Nerone giunge al potere diciassettenne, nel 54, e probabilmente non si trattò di un caso. Fu Agrippina che fece tempestivamente acclamare Nerone dalla guardia pretoria. A quella data ormai l’impero di Roma aveva alle spalle un lungo periodo di pace e benessere: i benefici sociali ed economici della ferrea politica di Augusto avevano dato buoni frutti, almeno per i ricchi. La loro vita in questi anni scorreva dolcemente, a Roma e nei territori italici. Il giovane Nerone amava molto le “dolcezze del vivere”, più della cura del potere, che tanto intrigava la madre.
Nerone delega l’esercizio del potere ai consiglieri, il saggio precettore filosofo Seneca e Burro. Costoro orientarono e guidarono la prima fase dell’impero neroniano, la fase moderata del buongoverno (quinquennium neronis). “Liberalità, clemenza e cordialità” (Svetonio), sono le parole caratterizzanti il Nerone di quegli anni, diverse dalle parole che gli si accollano più tardi. Se un antineroniano come Svetonio scrive questo, ci sono buone ragione per credergli.
Qual’era l’idea di governo che girava nell’ambiente di Seneca? Pensava a un felice equilibrio tra il senato e le istituzioni imperiali. Una sorta di utopica diarchia. Mentre Seneca formulava queste idee, Nerone passava molte notti in avventurose scorribande.
Tra il 57 e il 58 per Nerone si accende una passione per gli spettacoli: fa costruire uno splendido anfiteatro ligneo in Campo Marzio (il quartiere dei teatri) riccamente decorato. Ne parlano Tacito, Svetonio, Plinio il Vecchio e soprattutto un poeta filoneroniano: Calpurnio Siculo.
Nella vita di Nerone le figure femminile furono preponderanti:
- Giulia Agrippina Minore, la madre dominante; aveva discendenza importante, dapprima fu amata da Nerone poi fu cacciata dal palazzo e assassinata nella cittadina marittima di Baia. Subito dopo la morte della mamma, sono forse casuali le prime esibizione di Nerone come citaredo e auriga, nei propri giardini privati?
- Ottavia, una giovane moglie non amata; figlia del precedente imperatore, Claudio, Nerone l’aveva sposata nel 53, un anno prima dell’avvelenamento dell’imperatore, per consolidare il legame di potere. Ben presto fu ripudiata ed esiliata. Ancor peggio, nel 62 viene giustiziata con un’ingiusta accusa di adulterio.
- Poppea Savina, amante sensuale; già moglie di un amico di baldorie di Nerone, Otone, era più grande di Nerone. Vicina alla cultura orientale, donna colta, bella, che morirà nel 65, lasciando Nerone nella disperazione e nel rimpianto.
- Messalina, terza moglie di Claudio e madre di Ottavia.
Urbanistica
L’avventura urbanistica neroniana è particolare. Gli imperatori precedenti avevano seguito le orme di Augusto in materia di edilizia pubblica, non così si può dire di Nerone, il quale pensava ad una città diversa, una nuova Roma ellenizzante, incardinata su un complesso di edifici straordinario: la Domus Aurea, la nuova reggia di Nerone, concepita nel cuore della città, che si ispira ad una grande villa marittima. Dietro c’era la memoria degli svaghi balneari di Baia, vicino a Pompei. Fu una sorta di città nella città. Nerone come il sole, un solare colosso di Nerone-Apollineo viene messa nell’atrio della Domus aurea.
Anche il velario nel 66 fu messo nel teatro di Pompeo aveva un’immagine di Nerone auriga solare. Siamo in presenza di una metafora: Nerone come il sole, Nero-Helios, e quel colosso solare è il simbolo di una fastosa presenza, e che emula l’Oriente, le dimore dei sovrani iranici.
E la Domus aurea è un sistema di edifici che ha moltissimo a che fare con la storia dello spettacolo. Tacito la descrive (Annales, XV 42): “Una sontuosa dimora dove non tanto erano da ammirare gemme e ori, quanto terreni coltivati e laghi, foreste selvagge, spazi liberi e prospettive”. Fu la dorata e tecnologica scena permanente del principe, così come lo saranno Boboli e Versailles per i rispettivi sovrani.
Pensiamo alla sala da pranzo della reggia: rotonda, attrezzata con un meccanismo girevole [lettura doc. 1]. La passione di Nerone per l’architettura, la tecnologia e le arti è totale. Gli architetti della reggia sono Severo e Celere, “capaci di creare con l’arte e lo sperpero delle ricchezze del principe, bizzarrie che andavano contro le leggi della natura (una villa di mare nel centro di Roma?)”, citando Tacito.
Viene costruita dopo il terribile incendio del luglio 64. L’incendio si sviluppa dalle botteghe situate all’estremità occidentale del Circo Massimo per poi estendersi in modo impressionante. Dopo quell’evento è possibile per Nerone dar vita alla sua idea di città ellenistica, in primo luogo si avvia tempestivamente la grandiosa Domus aurea. Lo potremo definire un evento provvidenziale [lettura doc. 2].
Fu questa la Roma pensata e in parte realizzata da Nerone, che, in questa circostanza, si mostra dotato di saggezza e capacità non comuni. Fu il desiderio di una nuova Roma, il movente di quell’incendio? Voleva essere un nuovo Romolo fondatore? Queste domande sono state troppo spesso formulate da storici e divulgatori televisivi. Ci interessa di più capire l’intelligenza urbanistica del dopo-incendio, perché NON-LO-SAPPIAMO.
La ricostruzione avviene anche con case popolari, distribuite su quattro e cinque piani e con al piano terra molti spazi riservati alle attività commerciali e artigianali. Sono case dormitorio, prive di servizi e cucine. Questo ci serve a capire bene il senso profondo della Domus aurea, che è anche uno spazio pubblico, così come le Terme neroniane costruite già nel 62 in Campo Marzio. Le terme sono un segno forte e duraturo del modus vivendi romano.
Marziale nel De spectaculis descrive in versi in modo straordinario l’inaugurazione del Colosseo dell’80 [lettura doc. 3]. Si rivolge all’imperatore Tito, figlio di Vespasiano. Siamo in presenza di un’operetta tutta encomiastica dell’inaugurazione del Colosseo che al tempo si chiamava Anfiteatro Flavio, simbolo della nuova dinastia militare che contrappassa Nerone. Marziale vira la realtà in senso antineroniano.
La Domus aurea non era, come scrive Marziale, costituita da una sola dimora, ma era un complesso di edifici [vedi immagine]. Il colosso solare di oltre 35 metri, realizzato dal bronzista greco Zenodoro, era conservato nel vestibolo. Era coronato da sette raggi solari ognuno dei quali era circa sei metri; ce ne parla anche Plinio il Vecchio (Naturalis Historia XXXIV, 46). Il lago quadrangolare è circondato da portici e da terrazzi e da edifici “schierati a guisa di città” (cit. Svetonio), è lo stagnum neronis poi prosciugato per edificare il Colosseo. I Flavi percepiscono la Domus aurea come un vulnus compiuto da Nerone a Roma, per questo nel bacino innalzeranno l’Anfiteatro. È un grande specchio d’acqua artificiale alimentato da una centrale idrica apposita pensato dal principe per rievocare gli svaghi marittimi di Baia.
Sul Colle Oppio vi è un complesso palaziale simile proprio ad una villa marittima campana, che intendeva anch’essa riprodurre le delizie marittime: era la Casa del Dio Sole. Ma non era solo la casa di un dio, ma anche una villa del popolo. Gli spazi erano in larga misura anche spazi di svago per il popolo, quindi assimilabili alla funzione delle terme. Siamo in presenza di un duplice complesso architettonico: quello sul Colle Oppio e l’altro, incentrato sul colosso solare neroniano, simbolo dell’assolutismo imperiale. È una dimora tutta diversa dal maestoso palazzo imperiale di Augusto-Apollo, sul Palatino.
Marziale si sciacqua la bocca, essendo cortigiano, tessendo le lodi dei Flavi. In realtà il principe voleva condividere con la popolazione molti dei piaceri, pensiamo tra tutti al grande specchio d’acqua. Svetonio non esagera quando ne descrive gli splendori. La reggia neroniana brucia poi nel 104 d.C..
Con la Domus aurea Nerone intendeva fornire al popolo di Roma i piaceri un tempo riservati all’aristocrazia e ai ricchi e umiliare i superbi, per i quali era impensabile elevare la gente comune alla dignità dell’amicizia del principe: si riallaccia così a suo bisnonno Marcantonio, che aveva goduto dell’adorazione delle masse ad Alessandria d’Egitto.
Nel corpo centrale della Domus, Nerone si identificava col popolino. Capiamo allora meglio perché immediatamente i Flavi intervennero sul lago: c’è una damnatio memoriae, un tentativo di cambiare fortemente lo stato delle cose.
Il colosso bronzeo, prima ubicata nel vestibolo, viene spostata nel II secolo d.C. (ai tempi di Adriano) nella piazza dell’Anfiteatro: da qui forse l’appellativo di Colosseo [immagine moneta del III secolo]. La statua nel frattempo era già stata mutata da Vespasiano in un Apollo. Siamo in presenza di un bell’esempio di rimozione della memoria.
-- FARSI RIMANDARE FINALE DI QUESTA LEZIONE!!!
Nerone arriva anche a esibirsi sulle pubbliche scene. È un comportamento che non poteva che scandalizzare le classi aristocratiche di Roma, giudicato come minimo sconveniente.
Quel Nerone, che si esibisce a Napoli nel 64, è molto legato anche a Pompei, così come la città amava lui.
Le passioni di Nerone:
1) principe auriga (corse dei carri)
2) musico, cantante e suonatore di cetra (citara?)
3) attore e cantore tragico, ovvero interprete di tragedie cantate
Lezione 12 – mercoledì 1° aprile 2015
La figura di Nerone è stata spesso filtrata malamente da luoghi comuni e un alone di leggenda che dobbiamo schivare, se abbiamo l’obiettivo di storicizzare. Lo stesso è accaduto per Caligola. Cosa possiamo asserire sul piano storico? Un dato di fatto resta: Nerone, da una certa data, fu inviso dalla maggior parte delle classi dirigenti romane.
Gli imperatori Otone (ex marito tradito di Poppea) e Vitiello, durante il loro breve regno (68-69, anno dei quattro imperatori e della guerra civile), si rifecero sorprendentemente alla memoria di Nerone. Sia il primo che il secondo rivendicano l’esempio del governo neroniano. Vitiello nel 69 arriva a presentare i suoi ospiti a corte il libro del sovrano, Liber dominicus, raccolta di carmi e liriche opera di Nerone.
Vedi anche i tre sosia che di Nerone giravano dopo la sua morte. Cosa significa questo atteggiamento memorialmente benevolo? Eppure ripensiamo a Tacito, a Svetonio, o al più tardo Dione Cassio, che, distanziato nel tempo, è alfiere di una rinnovata autonomia senatoria nei confronti dell’imperatore.
Una storiografia posteriore fa un ritratto nero del principe, nonostante una benevolenza popolare nell’immediato post mortem. Viene un sospetto: a dispetto delle sue oggettive malefatte, evidentemente Nerone ha anche doti che le fonti non hanno trasmesso. Queste fonti, tendenziose, sono tutte accomunate ad una tradizione anti giulio-claudia, e allineate con la storiografia di impronta senatoria. Come si risolve questa discrasia? Dare risposte deterministiche sarebbe fuorviante, ma avviamo alcune riflessioni su degli esempi.
Partiamo dal guardare da vicino il punto di vista di Tacito, leggendo il testamento del letterato suicida Petronio, e vedremo come secondo Tacito, Petronio accusi Nerone duramente, Petronio che tra l’altro era stato accusato di congiura [lettura doc. 1]. Siamo in presenza di una morte spettacolo, consumata di fronte ad un pubblico di amici. Una ben calibrata drammaturgia del suicidio che beffa le morti austere e solenni dei filosofi (si pensi al suicidio di Seneca del 65). Non va dimenticato il legame stretto tra Petronio e Nerone. Petronio era stato accolto tra gli intimi del principe, il primo addirittura influenza i gusti del secondo. Cosa c’è dietro questo ribaltamento? Tacito ricostrusce artificiosamente la fonte? Tutto è spiegabile attraverso la memoria di Tacito? Possiamo interpretare Nerone solo come un principe dissoluto? Improbabile.
Insistiamo ancora della cerchia culturale di Nerone, quel rapporto stretto tra Seneca, Petronio e Nerone: il ricco filosofo iberico Seneca, che era anche avvocato, oratore, uomo politico e scrittore, prima precettore e poi consigliere del principe, autore di tragedie, alfiere, nei primi anni di buongoverno neroniano, di una politica stoica, per un buon monarca equilibrato che collabori con il senato, i cavalieri e la corte. E poi il romanziere Petronio, raffinatissimo epicureo, filosofo, ma anche uomo concreto (consule nel 61) cui Tacito dedica il memorabile medaglione, e di lui dice che dedicata il giorno al sonno e di notte ai piaceri della vita. Petronio secondo lui si compiaceva del lusso principesco.
Un altro spagnolo, il poeta Lucano, imparentato con Seneca, è dapprima filoneroniano (al punto di essere accolto dal principe tra gli amici della corte) e poi suddito ribelle implicato in quella sfortunata congiura contro l’imperatore.
Questi uomini spariscono prima di Nerone: nel 62 viene allontanato Seneca e muore Burro, sostituito da Tigellino. Seneca fu poi accusato di aver aderito alla congiura ordinata da Pisonio, aristocratico non collegato ai giulioclaudia. Per questa accusa Seneca morì suicidia nel 65 per ordine del principe, un anno dopo il grande incendio di Roma [lettura doc. 2]: siamo in presenza di un contrappasso ironico del suicidio di Petronio.
Come vanno interpretati questi suicidi a catena? Drammaturgie filosofiche del suicidio che non rare (vedi il boss traditore del Padrino II). C’è un seme culturale comune: la visione stoica ed epicurea secondo la quale, se un uomo è malato o perseguitato o non può condurre più un’esistenza degna, può trovare nel suicidio un rimedio, non solo autorizzato ma persino raccomandato. Differenza netta dalla cultura e dalla morale cristiana. Non dobbiamo mai dimenticare che i ceti colti romani dell’epoca erano imbevuti di queste filosofie e delle loro concretissime decadute.
Paul Veyne riflette sulla frequenza dei suicidi meditati di questa epoca. Come quello del senatore che sa del principe che lo sta per mettere sotto accusa, o quello del vecchio che desidera una morte degna, preferibile all’infermità. Quel tipo di morte, era persino ammirata: è il suicida che suggella col suo sangue un’idea filosofica. Contava solo la qualità del tempo vissuto, non la quantità. La vita privata trova dunque rifugio nel diminio di sé, nel poter governare anche l’evento ineludibile della morte.
Petronio beffa la morte, la governa in pubblico. Aveva compreso che il suo percorso a corte era finito, e non temeva la morte, ma il disonore: questo andava detto per affrontare il suicidio di Nerone.
Nel 65-66 il principe è nevrotico, teme continuamente congiure, spazza via consiglieri, amici e molta aristocrazia romana. L’uccisione di Poppea Sabina avviene sempre in quel fatale 65, forse per un moto di rabbia del principe. Lei aveva 6 anni di più del principe ed esercitava su di lui molto ascendente. Tacito ci dice che Nerone era veramente innamorato della moglie, tant’è che dopo la morte segue un’usanza orientale, l’imbalsazione del corpo della defunta per deporlo nel mausoleo familiare. È Poppea a portare la cultura orientale a corte, ed era incuriosità dai riti egizi, in particolare dal culto di Iside e dall’astrologia.
[immagine 1] Cleopatra (1932), con Clodette Colbert che interpreta Poppea
[immagine 2] Quo Vadis (1951), con Peter Ustinov che interpreta Nerone
In questi anni Nerone è isolato: troppi morti, troppi esiliati, da lui voluti. Questo atteggiamento segna un certo clima all’interno del quale si profila la congiura pisoniana. Non sarà secondario notare che questa congiura parte dalla corte stessa: Tigellino esercitava su Nerone una potente influenza in negativo. Rispetto alla Roma del buongoverno, siamo in un’atmosfera di terrore.
Alcuni hanno studiato la figura di Nerone con l’ausilio della psicanalisi. Forse è esagerato, non ne sappiamo abbastanza, anche se certamente aveva un Io ipertrofico, incapace di rapportarsi alla realtà, nel bene e nel male. Ma se puntiamo l’indice su quella rifioritura artistica e culturale che riguarda anche l’architettura (vedi Domus aurea), grazie a Nerone mecenate delle arti, amante della cultura, quest’immagine bilancia in parte quella maledetta del mostro matricida (Plinio lo definisce “nemico del genere umano”).
La corte dei cesari
La corte di Nerone, in questi anni, è dunque mutata, e non certo in meglio. Il concetto di corte è anzi ancora troppo poco studiato. La corte fu lo spazio saliente delle drammaturgie del potere. La aula caesaris, cioè la residenza del principe, accoglieva:
- familiari;
- amici;
- personale di servizio;
- intellettuali.
Quella corte nasce nella città eterna con l’eclissi della repubblica e col principato di Ottaviano Augusto, momento in cui la struttura-corte era inedita per Roma, ma non altrove: pensiamo alla tradizione delle precedenti corti ellenistiche ed orientali (Dario il Persiano o Alessandro Magno). La corte si affianca a strutture politiche ed a palazzi civili illustri della repubblica (il senato e il foro) e si rivela come luogo decisivo di mediazione e di elaborazioni di diverse istanze:
- politico ideologiche;
- sociali;
- culturali;
- amministrative ed economiche.
Questa nuova struttura trasforma il foro repubblicano in un palcoscenico per le immagini degli imperatori. Schematiziamo le fasi salienti della corte romana:
1) la corte aristrocratica della famiglia giulio-claudia, da Augusto a Nerone, dalla fondazione alla distruzione di una dinastia;
2) la corte militare, dal 69 al 96, degli “uomini nuovi” italici, i Flavi;
3) la corte degli uomini nuovi delle province, dello spagnolo Traiano, imperatore dal 98 al 117.
La struttura della corte è elemento portante della storia mondiale. La corte concerne l’idea stessa di stato, e per la Roma antica troppo a lungo trascurata dalla storiografia. Della corte di Nerone sappiamo poco.
Cerimoniale e composizione sociale della corte di Nerone
Svetonio (Vespasiano, 14) parla della corte di Nerone, frequentata anche da Vespasiano. Per essere ammessi si passava dall’officium admissionis, un preciso filtro affidato ad un liberto; è paradossale che un liberto valuti gli ospiti ammessi, questo ci fa capire l’importanza che potevano assumere. Non era solo questione di status sociale, l’ingresso veniva negato anche ad importanti, se avevano fatto innervosire il principe.
La vita della corte era scandita da riti. Prima di tutti la salutatio, il saluto mattutino all’imperatore. Quelli che vivevano in comune col principe, affrontavano il contubernium, riservato a chi godeva del privilegio cortigiano del vivere quotidiano con l’imperatore. Accanto a questo concetto si innesta un momento privilegiato a forte valenza spettacolare, quello del banchetto a palazzo, in cui si aveva era un privilegio essere ammessi alla mensa del principe. Era segno di grande benevolenza, al pari di un altrettanto ambito privilegio: accompagnare l’imperatore durante i viaggi. È riservato agli amici più stretti, i comites.
Siamo in presenza di una cerchia selezionata. Tuttavia, per quello che ne sappiamo, il problema dei confini dell’estensione sociale della corte non può essere risolto. Crediamo che il nucleo forte di aggregazione sia quello familiare, ma questo mondo è inevitabilmente fluido.
Pompei in età augustea
Anche i marmi del teatro pompeiano sono eloquenti. Per capire la committenza italica-filoaugustea, abbiamo già considerato che molte famiglie pompeiane furono fedeli al primo imperatore. Ripensiamo insieme alla diffusione di quel concetto centrale per Augusto, la pubblica magnificenzia, e ricordiamo Marco Holconio Rufo e suo fratello o figlio Celero, appartenente alla quella ricca famiglia degli Holconi che abbiamo già trovato nella magistratura e nell’organizzazione di ludi. Sono implicati in una radicale ristrutturazione di Pompei, che ebbe luogo in un discreto giro d’anni, tra il 3-2 e il 14 d.C. circa, dopo che già in età sillana……. la statua loricata di Marco Holconio Rufo – augusti sacerdus, dell’uomo politico promotore della già citata della ristrutturazione del teatro pompeiano. Qui è scolpito in marmo in una posa marziale che richiama una scultura del foro di Augusto a Roma, Marte Ultore, oggi custodita al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Si innesta in quel linguaggio che Augusto aveva incardinato sul potere delle immagini.
Egli era la personlità pompeiana preminente del tardo periodo Augusteo, e nel 3 a.C. aveva esercitato la magistratura nel duovirato con Flacco. Sono immagini capaci di trasmettere significati chiari e comprensibili ai più. La statua onoraria, offerta a Rufo dai cittadini di Pompei, era collocata in maniera prossemicamente strategica al crocicchio degli assi urbani di via dell’Abbondanza e della via Stabiana, cioè tra il cardo e il decumano.
La statua viene concepita anche per celebrare la gloria di Augusto medante l’immagine di un suo fedele sacerdote. Nella capitale, lui poteva assistere gli spettacoli in posti privilegiati. A Pompei invece, nel “suo” teatro grande, a lui era riservato un eccellente punto di vista [immagine XII.5]. Un’iscrizione in bronzo segnalava il bisellium destinato a Rufus, in asse con la ianua regia della scenafronte [lettura documento 3].
Un’altra epigrafe ci svela il nome dell’architetto che ristruttura il teatro in età augustea, a spese degli Holconi, è un liberto che si chiamava Marcus Altorius Primus. Di norma noi ignoriamo i nomi degli artefici dell’arte romana. A parlare sono altri, i committenti, essendo consigliati gli artisti degli esecutori. Il caso più eclatante è l’anonimato artistico dell’Anfiteatro Flavio, dove dovremmo pensare ad uno staff di architetti e ingegneri. È un’ “arte al plurale” (cit. Settis).
[immagine XII.6] Ipotesi di ricostruzione: le parodoi scoperte diventano delle strutture voltate, sopra alle quali vengono costruite delle tribune d’onore in marmo, tribunalia, riservate a persone importanti e una struttura, la cripta, un corridoio pratibabile sul quale si appoggia una parte nuova della cavea, la summa cavea, destinata agli spettatori più umili e forse alle femmine.
L’evergesia, che si completa col rifacimento in marmo dell’intera cavea, viene riassunta in un’epigrafe [lettura documento 4]. Allora, l’edificio teatrale che era già astato dei coloni e dei sillani, cambiò di segno, abbellendo pompei ammodernandola nel sengo della pubblica magnificenza augusta.
Questo spazio era spia di un nuovo gusto, di una nuova ideologia, di un’emulazione della grande Roma augustea. Forse vi era in sommità anche un edicola con una scultura votata al culto imperiale, mentre è certo che tra il 2 a.C. e il 14 d.C. furono collocate in teatro statue dei due evergeti e che anche una statua di Augusto dominava la ianua regia. Si inaugura qui una scenafronte marmorea scandita da due ordine di colonne, animata da nicchie, e forse anche da altri ritratti della famiglia imperiale.
Il teatro diventa un luogo mitopoietico. Le statue rammentano sia la generosità degli Holconi sia il loro interloquire con le effigi imperiali.
Lezione 13 – lunedì 13 aprile 2015
Satyricon
sintetica analisi di quello di Petronio e presentazione di quello di Fellini
Dobbiamo mettere in moto la nostra immaginazione di storici per mettere meglio a fuoco l’epoca di Nerone. Petronio è uno scrittore ancora misterioso, e l’opera è un capolavoro: Satyricon libri, oppure Satyrica, ovvero “storie satiriche”. Un realistico affresco della vita e del gusto della roma neroniana o di poco antecedente. Un romanzo non privo di analogie col romanzo greco di avventure e di amore. È destinato a lettori colti, capaci di cogliere le tantissime allusioni letterarie disseminate ovunque. Opera di Petronius arbiter, identificato nello scrittore scelto da Nerone come “elegantie arbitre”: un aristocratico-snob-raffinato, dedito alle cure della politica. Quel Petronio che cade poi in disgrazia, addirittura accusato di tradimento dal prefetto del pretorio Tigellino, e che a fronte di ciò muore con dignità, e persino col sorriso, suicida nel 66 d.C., dopo due anni dall’incendio di Roma, attribuito forse a torto a Nerone, che si suicida a sua volta nel 68.
Di Petronio parla anche Tacito negli Annali, disegnandone un profilo memorabile, anche grazie al racconto del suicidio. Petronio è in viaggio in campagna al seguito di Nerone, un amico al seguito del principe, in quella Campania che allora era tutt’altro che la terra dei fuochi (Florio la descrive come la più bella regione del mondo).
La cifra di questa scrittura è la parodia (“niente è più stolto della serietà ipocrita”). Sotto la patina della caricatura, riprendono vita frammenti di quella civiltà, della società romana di età neroniana. Che tipo di scrittura caratterizza questo romanzo? È sapientemente meticciata. Prende in prestito diversi e molteplici generi letterari latini e greci, inclusi il mimo e la commedia. Quella scrittura è priva di intenti moralistici… Petronio non moraleggia, nonostante il teatrino dei vizi che costruisce il suo romanzo. Attinge al romanzo sentimentale o d’avventura e a tutto ciò aggiunge una vena personale inventiva notevolissima.
I protagonisti sono un giovane nevrotico e girovago che si chiama Encolpio, condannato da Priapo all’impotenza. È lui il narratore, l’io narrante, che ci porta dentro a questo mondo. È un intenditore di poesia, un intellettuale, buon parlatore, è l’antieroe del romanzo. Poi c’è l’amico Ascilto, e un efebo conteso tra questi due, furbetto, capriccioso, bello e privo di scrupoli, chiamato Gitone, amante adolescente oggetto conteso di desiderio. I tre viaggiano insieme per l’Italia vivendo di espedienti e liti. Si innesta anche la figura di un vecchio retore dissoluto, Eumolpo, poetastro e insegnante.
Fra gli episodi vari ce n’è uno fondamentale: il banchetto di Trimalcione, famoso perché denso di umorismo. Trimalcione era un nuovo ricco, un liberto arricchitosi in età neroniana. Un fine latinista lo definisce “un uomo generoso e funereo”. È afflitto da una moglie petulante che si chiama Fortunata, anche lei ex schiava. È ignorante, volgare, ma non privo di simpatia. Ne suoi banchetti si circonda dei suoi simili, ostentando la propria ricchezza di recente acquisizione. Petronio nel banchetto descrive il contrario della religione, del gusto, della raffinatezza da lui introdotta a corte: un mondo di villani rifatti che ormai dominavano l’economia dell’impero. Trimalcione ubriaco, rivela alla sua corte di umili il proprio testamento. Entra in scena la morte, protagonista anche nell’ultimo banchetto di Giulio Cesare (cit. Svetonio), ma qui la cosa si mette in parodia, e Trimalcione, in malinconia, piange e si immagina defunto, in un linguaggio che rinvia non alla lingua alta, scritta, ma a quella bassa e popolare. Questo perché ci interessa? Perché recuperiamo tramite il filtro della letteratura quel linguaggio utilizzato dalle cortigiane di bassa lega, dagli osti, dai liberti, ecc. Il linguaggio è vivacissimo.
Oltre al banchetto, ricordiamo l’amplesso della vedova, dove si racconta la storia di questa inconsolabile vedova di Efeso, che dopo un serrato corteggiamento e dopo la rottura del digiuno alimentare, si fa prendere da un soldato sulla tomba del coniuge che sta piangendo.
Il film di Fellini
Le scenografie e i costumi magistrali di Danilo Donati danno vita ad una straordinaria reinvenzione di Roma antica. Né storia né archeologia, bensì una personalissima e visionaria fantascienza del passato, che è utile per attivare la nostra immaginazione di storici.
Vedremo la cena di Trimalcione, impersonato da Sergio Romagnoli, in bilico tra portate spettacolari, musica, poesia e alla quale partecipa anche il poeta Eumolpo, interpretato da Salvo Randoni. Poi ancora, vedremo il funerale simulato di Trimalcione e il mancato amplesso da Eumolpo e una Arianna incazzata per l’impotenza del giovane. Fellini crede che il mondo antico sia perduto per sempre. Un critico definisce questa opera una sottopittura.
Lezione 14 – martedì 14 aprile 2015
Nerone
Nella propria regale persona, Nerone intendeva riconciliare le istanze culturali del suo trisavolo Augusto con quelle del suo bisnonno, Marcantonio il filoelleno. È un progetto teso a creare un mito, che assommava due filiere fino ad allora divergenti nella storia di Roma.
Gli spettacoli di cui parleremo si rivelano uno specchio eloquente di questo progetto.
Proviamo a schematizzare la figura del principe-artista-performer: quali sono le specialità performative care a Nerone? Primo: la figura dell’auriga, conduttore di quadrighe, ma sarebbe meglio dire agitator (il termine auriga in realtà disegnava chi si cimentava con le bighe, considerate dai romani un esercizio propedeutico), col colore della sua squadra preferita: i verdi. L’arena del Circo Massimo per l’occasione veniva sparsa di polveri splendenti.
Secondo: la figura del citaredo, cantante-solista di un’aria tragica che si accompagnava con uno strumento, la citara romana, strumento cordofono a plettro spesso impropriamente confuso con la cetra.
Terza figura: il tragoedus, attore e cantante di tragedie cantate.
Quarto: il poeta, di talento.
Quinto: evergeta e inventore di nuovi ludi.
Non pare condivisibile l’ipotesi che Nerone abbia praticato la pantomima, arte del danzatore-attore.
Che significato ha questa inclinazione di Nerone alle arti? Quali sono le motivazioni che determinano questo gusto e queste scelte? Cosa sappiamo per via documentaria di queste esibizioni? Occorre sgombrare il campo dalla troppo ricorrente aneddotica.
Perché quest’uomo sogna di essere un imperatore artista? Perché inseguiva gli applausi? Pensando anche al concetto di gravitas, importante per l’alta società romana, perché ribalta le regole comportamentali imperiali? Perché non segue l’etichetta consolidata? Perché scandalizzava il ceto senatorio mettendo così a rischio il suo governo?
Abbozziamo qualche risposta [lettura documento 1]. Tacito ci offre un primo importante spunto di riflessione, quando parla dei comportamenti del principe dopo il 59, cioè dopo l’uccisione della madre Agrippina. Tacito allude ai giochi panellenici in onore di Pindaro. Il letterato ci dice che da tempo, nella mente del giovane principe, c’era un sogno ricorrente di antica maestà, eroica e tutta apollinea. Un sogno in cui Nerone si autorappresentava nella sua mente, sia come un sovrano-auriga in gara, sia come un cantore e poeta. Va ricordato che nel pensiero greco, la musica è inseparabile dalla gloria e dalla regalità.
In definitiva Nerone perseguiva un cammino eroico. Il passo di Tacito è strategico per cominciare a comprendere il significato profondo di questa tenace passione artistica. Non è quindi solo l’istinto di un pazzoide, quest’uomo ravvisa nelle gare dei cocchi e nell’arte dei conto, un sogno di antica e regale maestà, per dar vita ad una nuova idea di impero, non più fondato sulla gravitas ma sulla iocunditas, la letizia.
Quindi questo sovvertitore impertinente del costume degli antenati, è anche veicolatore di un mutamento culturale che va a incidere sullo stile di vita, dei comportamenti (pensate alla Domus Aurea aperta al pubblico).
Parliamo di Apollo: era stato il nume tutelare di Augusto. Ripensiamo ai ludi apollinares, analizzati tramite Pompei, che sappiamo legati a doppio filo alle celebrazioni del potere augusteo, vere feste di regime. Posti sotto l’egida del protettore del principe.
Apollo-atticismo-augusto vs. Dioniso-asianesimo-Marcantonio, confronto di cui abbiamo già parlato, abbiamo già visto la statua di Nerone come Apollo solare, nella Domus Aurea. Allora, Nerone cerca con tratti di genio, di ricomporre e superare nell’immagine imperatore-artista questa dicotomia familiare radicata che aveva diviso il trisavolo dal bisnonno. Quel linguaggio per immagini apollinee così importante che accomunava la Grecia a Roma.
Indaghiamo la vocazione di quel giovane principe per apprendere e praticare e rivelare in pubblico le disdicevoli arti performative: due, sostanzialmente, l’arte del citaredo e dell’attore tragico.
Soffermiamoci sul training del citaredo: in gioventù Nerone si era affidato ad una star di questa arte, il citaredo Terpno [lettura doc. 2]. Persegue quindi il training degli artisti di professione, in maniera maniacale. E lo zelo teatrale di Nerone non è attestato solo nella sfera del privato: Svetonio, a proposito delle rappresentazioni di Nerone, scrive che “essendo ricaduto a terra lo scettro durante una tragedia, pur avendolo raccolto, temeva di essere escluso dal concorso per quella pecca”. Siamo in presenza di panico da palcoscenico? Probabile. Tant’è che “Nerone, non sputava mai e si asciugava il sudore col braccio”. Siamo in presenza quindi di informazioni utili sulla pratica teatrale.
[lettura documento 3]
Siamo a Roma, nel 65, forse nel Teatro di Pompeo, il più grande del mondo antico. Tacito, senatore, mostra il suo dispetto per quella “accozzaglia di gente”. Togliamoci dallo sguardo moraleggiante di Tacito, e cosa possiamo osservare? Potremmo immaginare un Nerone umile e ansioso in scena. Un Nerone che in quello spettacolo si esibiva con impegno e rispettava il galateo dei professionisti sulla scena.
Com’era la voce di Nerone? Tacito ci racconta della clacque di Nerone, gli augustiani, pagati dall’imperatore stesso. Tacito, Annali XIV, 15, ci parla di questi applausi. Era un gruppo di persone diviso per squadre, che, appositamente pagati, elogiavano il principe cantante in scena. Al di là di questo giudizio, individuiamo delle fonti sul comportamento del pubblico.
Svetonio ci parla anche dei tipi di applausi, che erano tre:
1) con mani incavati sul palmo, deboli;
2) con le mani tese a mattone;
3) i bombi, brusii in segno di consenso.
Svetonio ci dice anche che la voce di Nerone non era bella, vox esigua et fusca (fragile e roca), ma pecca di omissione: non ci dice che questa voce era efficacissima col pubblico. Ce lo ricorda di Quintiliano quando, sulla scia di Cicerone, ci parla della voce di Marcantonio che era subrauca e apprezzatissima dalla gente. Altre fonti ricordano che Nerone ben cantava. Allora forse dobbiamo ancora insistere sulla sua arte di solista, sia a Roma che in Grecia, provando ad incrociare le fonti [lettura documento 4].
Il brano è suddivisio in tre parti:
1) inserto sui neronia, comprende l’esibizione di Nerone come citaredo;
2) inserto in cui si accenna a uno spettacolo privato e ad un fantomatico caché di un milione di sesterzi offerto da un pretore non identificato;
3) inserto su Nerone cantore di tragedie.
Tre eventi diversificati anche cronologicamente e geograficamente. Anche se Svetonio non specifica la cronologia e ci trae in inganno, dobbiamo come primo compito ricostruirla. Il primo compito dello storico, in questo caso, è proprio ristabilire questa omessa cronologia.
Se quindi incrocio Svetonio con Dione Casso e Tacito, avrò preziosi sussidi cronologici. Il primo inserto svetoniano è da ricondurre all’estate 65 dell’era cristiana, quando si dette vita ad una pubblica esibisione chiamata neroneum agonia, istituiti a Roma nel 60, cinque anni prima. Nel 65 abbiamo un’esibizione canora e strumentale del principe citaredo, ad appena un anno dall’incendio di Roma, in quel periodo difficile della fallita congiura antineroniana di Pisone, del suicidio di Seneca e della morte di Poppea.
Per il secondo inserto, Cassio Dione ci svela che è Larcio a offrire il milione di sesterzi a Nerone. Dione riconduce l’episodio al 68, siamo ormai nel tratto finale della vita di Nerone, quando era rientrato nell’urbe dopo il viaggio in Grecia. Dunque il secondo inserto è a Roma nel 68, l’anno della fine del principato neroniano. Sappiamo anche che Nerone continuò a esibirsi fino alla fine. Questo uomo proveniente dalla Libia, Larcio, offrì i soldi da Nerone, ma lui non li volle perché non ritenne degno fare qualcosa del genere per soldi.
Nell’inserto tre Svetonio insiste sulle parti cantate dal principe in maschera.
XXXXXX
Tacito illustra i comportamenti compiacenti di Nerone nei confronti del pubblico.
Nel fare storia, l’incrocio delle fonti è indispensabile. Ogni documento esprime un punto di vista, che non è detto sia attendibile, occorre quindi lavorare metodicamente seguendo tre passi fondamentali:
a) ritorno alle fonti;
b) incrocio delle fonti e ricostruzione cronologica;
c) interpretazione (ermeneutica).
Quindi il documento di Svetonio si riferisce ad un giro di anni ed è in bilico tra Roma e la Grecia. Dione Cassio è importante perché ci offre una cronologia degli eventi. Ma Tacito, seppur denigratorio, integra il resoconto di Svetonio con puntuali particolari performativi, omessi da Svetonio.
Torniamo al documento 3. Qual è il teatro dove entra Nerone? È proprio quello di Pompeo che, nel 66, ospita una splendida cerimonia neroniana, quando Nerone riceve a Roma il sovrano d’Armenia. Di cosa dobbiamo dolerci? Abbiamo Tacito, Svetonio, Dione Cassio, ma ci manca la fonte principe… la perduta storia di Cluvio Rufo, araldo di Nerone dagli anni 60 e testimone diretto di queste cose. Abbiamo perduto il punto di vista di un prezioso testimone oculare.
Qual è il senso globale dei ludi di Nerone, trattati nell’inserto 1? Erano istituiti da Nerone nel 60 per festeggiare il suo primo periodo di governo, avevano cadenza quinquennale e si ispiravano alle gare in uso in Grecia, i giochi di Olimpia e di Delfi. Comprendevano sia gare musicali. E quando dico gare musicali, dico di musica e di canto, e non solo, anche di eloquenza e di poesia. Arrivviamo allora a Nerone poeta, che gareggia a Roma nel 65 (nel 60 aveva vinto Lucano). Gare musicali, ma accanto a competizioni atletiche e infine gare equestri. Siamo dunque nel mondo dell’agonismo, capitolo fondamentale del mondo greco.
Chi aveva portato per primo a Roma i giochi alla greca? Il primo è Augusto, riprendendo tentativi di Pompeo e Cesare, che introduce una lotta che fortifica i corpi, invece di annientarli come gli spettacoli dei gladiatori, giochi in cui anche lo spirito aveva la sua parte.
Nerone nel 62 fa costruire anche una palestra, il Ginmasium Neronis, edificio di sapore ellenico in Campo Marzio, edificato contestualmente ad un altro spazio dedicato alla cura del corpo: le magnifiche Terme di Nerone (62 ca.). Più in generale notiamo che i ludi alla greca non piacciono ai romani. Infatti i neronia, dopo la morte del principe, cadono in disuso, e il gusto del pubblico era orietnato da tempo verso altri tipi di spettacoli, tra tutti il fortunatissimo pantomimo, il teatro danza, che non doveva rimanere molto simpatico a Nerone.
Resta lo scandalo alla vista di un principe in veste d’istrione. Se questo fu intollerabile per gli illustri personaggi, per il pubblico popolare invece era apprezzatissimo, come del resto venne apprezzata in Grecia. Sempre a dire di Tacito, il pubblico popolare si divertì a quella esibizione popolare (Annales, XVI, 4).
Chi riesce per un breve periodo a instaurare l’uso dei giochi alla greca a Roma? Domiziano, che riuscì dove avevano fallito Augusto e Nerone: corse a piedi, gare di eloquenza e poesia latina, gare di pugilato, musica, lancio del giavellotto. Con lo stadium domiziani avevano trovato una sede stabile.
Lezione 15 – mercoledì 15 aprile 2015
Il biennio 64-65 è importante nella biiografia artistica di Nerone, perché segna il suo debutto sulle scene pubbliche, all’insegna dell’arte scenica del citaredo, in un passaggio dal dilettantismo privato al professionismo.
Il debutto avvenne in un teatro pubblico di Napoli (città greca) nel 64. L’anno dopo abbiamo anche il pubblico debutto a Roma. Nerone sceglie di non iniziare dalla capitale, questo ci fa capire quanto ben calibrasse le sue scelte.
Il debutto è preparato a lungo. Il pubblico è socialmente composito, dai ceti (meglio usare classe o meglio ancora ordine) più bassi a quelli più alti. Il grande boom di Nerone attore tragico avviene un po’ dopo, nel 67 in terra di Grecia, in una sorta di tournée.
Sono due le forme di spettacolo che improntarono il professionismo di Nerone: tragedia cantata e citharoedìa. È opportuno ricordare le differenze. Sono due diversi tipi di cantanti tragici. Il citaredus si accompagnava mentre cantava il pezzo, mentre l’attore tragico interpretava il proprio ruolo, e inoltre cantava un’aria e inoltre poteva fare uso di accessori e anche essere supportato da uno o più attori supplementari. Non solo cantava, ma poteva anche cimentarsi nel dialogo parlato. Un conto dunque è cantare un’aria in modo narrativo (citaredo) senza maschera, tutt’altra cosa, invece, è passare dalla narrazione epica all’interpretazione, alla rappresentazione.
Cosa sappiamo del repertorio di Nerone tragicus cantor? Riprendiamo la parte del brano di Svetonio [lettura documento 1], che registra alcuni cavalli di battaglia di Nerone. Queste notizie sono essenziali. Notiamo l’uso di maschere tragiche anche femminili. Altre fonti ci dicono anche che, dopo la morte di Poppea, amava recitare con maschere col volto di Poppea.
[Lettura documento 2]
Dione Cassio censura la pratica di Nerone. Siamo in presenza di un attore in gran parte solista e canoro, un attore che procede in larga misura attraverso monologhi, proponendo al suo pubblico frammenti della grande drammaturgia tragica, spettacoli antologici in cui si raccolgono frammenti (quelli più adatti all’artista), un repertorio incentrato su due figure: l’esule (come Edipo) e il matricidia (come Oreste). È un repertorio che andava certamente incontro ai gusti popolari e che si abbinava alle tensioni psichiche di questo giovane uomo.
Dione Cassio accomuna la recitazione neroniana allo standard del professionismo. Questo può essere dal punto di vista senatorio una roba spregevole, ma per quanto ci riguarda significa che, tutto sommato, quel solistico recitare di Nerone, raggiungeva un livello medio-alto. Dal nostro punto di vista di storici dello spettacolo, questa notizia è assolutamente importante.
Addirittura si dice che Nerone fosse posseduto dal suo ruolo. Naturalmente, chiediamoci se dobbiamo credere a queste fonti: Casso Dione è una fonte tarda, al pari di Filostrato, e non vide mai quel principe esibirsi in quelle tragedie cantate anche chiamate tragedie-concerto o tragedie da concerto (forma importante della spettacolarità imperiale romana). Queste fonti parlano senza aver visto i gesti, le maschere, i costumi, quelli che Nerone amava molto indossare.
Un dato di fatto incontestabile è che Casso Dione, come Svetonio, ricorda i personaggi preferiti da Nerone:
1) Edipo;
2) Ercole;
3) Oreste;
4) Tieste;
5) Alcmeone;
6) Canace partoriente.
Filostrato aggiunge un altro personaggio Sofocleo, Creonte. Sono tutti ruoli tragici, maschili e femminili, eroi ed eroine, nonché va ricordato quel Nerone-Ercole, non solo appeso alla drammaturgia senecana ma che rinvia anche alla predilezione di Nerone per il bisnonno dionisaco Marcantonio. È questo il repertorio ancorabile al 66-67.
È evidente, dal confronto dei due documenti, che questi due personaggi sono accomunati da una medesima e perduta fonte, forse Cluvio Rufo, araldo di Nerone. È un repertorio basato non su tragedie integrali, bensì su pezzi antologici incardinati su brani solistici, arie.
Su questi allestimenti sappiamo che è certa la presenza in scena di un suonatore di aulos, un auleta (che è tipo un oboe, e non un flauto perché non ha ancia), quindi una cosa tipicamente ellenica, che accompagnava la tragedia cantata. Dobbiamo immaginare che il protagonista ricopriva il ruolo principale in una breve scena d’insieme.
È anche possibile parlare delle maschere: è ovvio che quando Nerone recitava indossando le maschere, nessuno spettatore aveva dubbi. Nerone era, ad esempio Oreste matricida, e viceversa. Nerone era Edipo, il girovago anche lui matricidia Alcmeone. Cosa significa? Che la differenza tra vita e teatro, per quest’uomo, diventa impalpabile. Nerone mitologizza in scena se stesso e il suo delitto di matricida. In scena quasi si distanzia da quel delitto, si avvolge in un manto rassicurante, quello dell’eroe tragico. Lo scopo non era ritrovare un’innocenza che non c’era, ma quella di giustificare la colpevolezza agli occhi del mondo, come un antico eroe tragico.
Un’ulteriore riflessione è sul ceto destinatario di questi spettacoli, il target group, solo per dire che ovviamente un conto era il pubblico di Roma ed un conto il pubblico della Grecia, del circuito ellenico. Siamo in presenza di due diversi bacini di spettatori. Sarebbe ingenuo credere che quel Nerone che prepara con cura le proprie esibizioni, non fosse attento al ceto destinatario di quei suoi messaggi artistici. Quei ruoli tragici furono pensati da Nerone anzitutto per l’Ellade, non per l’Urbe, perché riflettendo sui documenti arriviamo a una conclusione: che l’attor tragico Nerone fa la sua comparsa solo in Grecia, prima c’è solo l’esperenzia della citaroedìa.
Parliamo ora della passione di Nerone per le corse dei carri e della costruzione di anfiteatri. Richiamiamo la figura dello zio Caligola, che governò l’impero dal 37 al 41 d.C. Parlando di anfiteatri abbiamo citato quello in muratura di Pompei, disegnato ancora col termine di spectacula (anfiteatro è un termine vitruviano, più tardo), del 70 a.C. circa, con tutte le conclusioni raggiunte nelle lezioni su Pompei.
A Roma invece la tipologia dell’anfiteatro in muratura si instaura molto tardi, viene costruito nel 29 a.C., circa 30 anni dopo quello di Pompei, da un personaggio ambizioso vicino ad Augusto, tale Statilio Tauro, in Campo Marzio (quartiere dei teatri), dove c’era già lo splendido teatro di Pompeo (55 a.C.), restaurato prima da Augusto e poi da Caligola.
Per le notizie dell’anfiteatro di Tauro è importante la geografia di Strabone, storico greco geografo e viaggiatore, che ci ha lasciato una straordinaria descrizione di Roma. Abbiamo poi notizie da Dione Cassio (155-235 circa), senatore di origine greca, che ricorda che fu costruito a proprie spese da Tauro, e inaugurato con venationes. A questo edificio anche, all’interno della vita di Caligola, Svetonio.
L’anfiteatro, nonostante fosse in muratura, non fu rispariato dalle fiamme dell’incendio di Roma (tra l’altro fino al II d.C. coesistono, nella prassi romana di costruire anfiteatri, le due tradizioni costruttive in legno e muratura).
Dopo Tauro dobbiamo ricordare il grande anfiteatro voluto sempre in Campo Marzio da Caligola, eccentrico imperatore che, come Nerone, è ancora troppo in bilico tra storia e leggenda. Troppo spesso viene posto dagli storici in una luce sinistra. Aveva cominciato a farlo costruire nelle vicinanze dei recinti delle elezioni, i saepta. Questo anfiteatro probabilmente all’inizio era in legno, poi in seguito fu iniziata una struttura in muratura, che non viene terminato per la fine dell’imperatore. I lavori vengono interrotti dal successore Claudio.
Di Caligola sappiamo che era appassionato di corse dei carri, era organizzatore di ludi, amava danza e canto, aveva ristrutturato il teatro di Pompeo, era affascinato dall’agonia dei gladiatori. Amava osservare nell’arena la morte altrui, come molti suoi contemporanei. Ma in particolare ricordiamo il grandioso circo fatto costruire da Caligola, con l’obelisco alto 25 metri che addirittura era stato trasportato per mare dall’Egitto su una nave costruita a posta: nacque il Circo di Caligola, alias Circo Vaticano, ubicato sul lato destro del Tevere.
Questo circo fu poi trasformato e utilizzato da Nerone. Era una struttura maestosa, lunga circa 500 metri, che andava dall’abside di San Pietro fino a tutta l’omonima piazza. I carceres sono posti oltre il colonnato del Bernini. Aggiungiamo che Caligola amava esercitarsi nell’arte dell’auriga ma, a differenza di Nerone, lo faceva in privato. Caligola era un tifoso sfegatato dei verdi (gli altri erano gli azzurri, i rossi e i bianchi). Attorno a queste quattro squadre, factiones, si scatena un tifo indiavolato, il pubblico romano accorreva al circo e si appassionava. Era diffuso in tutte le classi sociali anche la febbre per le scommesse, che poteva sfociare in puntate altissime. Siamo in presenza di una vera e propria industria dello spettacolo.
Svetonio ci racconta che Caligola amava cenare con gli aurigi della squadra dei verdi [lettura documento 3]. Non dobbiamo né trasformare in barzelletta né rifiutare in toto quello che scrive Svetonio. Ricordiamo che questa passione si inserisce in un gusto diffusissimo: a Roma tutti si entusiasmavano per le corse. Al pari di un’altra grande passione, il gioco d’azzardo. Caligola, come Nerone, era un aleator cioè giocatore di dadi. Non possiamo escludere che queste passioni siano unite al puntare somme ingenti.
Nerone amava le corse al Circo Massimo, ed è un amore che percorre tutta la sua vita [lettura documento 4]. Capiamo meglio quel già evidenziato desiderio di essere un celebre agitator. Non ci stupisce allora il suo continuo allenarsi e gareggiare, prima nei giardini privati e poi, dal 64, in pubblico nel Circo Massimo, nei quali indossa la divisa dei verdi e il casco da auriga.
Pensiamo poi alla Grecia, nel 67, quando Nerone si esibisce addirittura nell’ippodromo di Olimpia alla guida di un carro guidato da dieci cavalli. Si autorappresenta come un auriga all’ennesima potenza, circonfuso da un’aura di antica gloria. In questa gara si propone come un divino auriga solare, un Fetonte, il figlio del sole. Secondo le fonti antiche il circo è consacrato soprattutto al sole (cit. Tertulliano): quindi correndo intorno al circo Nerone imitava il ciclo del sole. Secondo la leggenda Nerone era destinato sin dalla nascita alla grandezza solare, era nato il 15 dicembre proprio a levar del sole. Un’altra versione dice che nacque prima dell’alba e fu circonfuso da dei raggi proveniente da una fonte invisibile di luce.
[lettura documento 5]
È palese la dicotomia tra ambizione e realtà. Ma è la stessa ambizione che ha quando annuncia l’autonomia amministrativa della Grecia nel 66.
Torniamo alla grande passione per i carri, testimoniata in tutto l’impero da molti tipi di documenti, come le defissioni: delle tavolette in cui i tifosi incidevano delle maledizioni contro gli avversari. Una pratica diffusa a Roma ma non solo, eccone una rinvenuta in nord Africa: «Io ti invoco o demone, chiunque tu sia e ti chiedo di tormentare i cavalli dei verdi e dei bianchi e di ucciderli, e di far murire in uno scontro gli aurighi Claudius, Romulus, ecc». Non solo defissioni, c’erano anche quelli che si rivolgevano agli astrologi di professione.
Torniamo a Roma per ricordare l’anfiteatro in legno che Nerone fa costruire a Roma nel 57, prima del periodo professionistico, che si affianca in Campo Marzio alla vecchia struttura di Tauro in muratura. Quest’anfiteatro è documentato da Plinio il Vecchio, Tacito, Svetonio, Dione Cassio e dal poeta Calpurnio Siculo.
Tacito ricorda le grandiose fondamenta e le travature, Svetonio che i lavori vennero conclusi in meno di un anno, ed è probabile che anche questo spazio ludico sia sparito tra le fiamme del 64: ne concludiamo che dal 57 al 64 in Campo Marzio vi erano due anfiteatri. Tauro è capistipite della futura moglie di Nerone, Statilia Messalina. L’anfiteatro era ricco, decorato con sfarzo, Calpurnio Siculo parla di decorazioni di ori e gemme, mentre Plinio il Vecchio ci ricorda che era coperta da un grande velario azzurro.
Proprio Calpurnio Siculo che parla anche delle forme dello spettacolo agite (soprattutto venationes con molte razze di animali) nell’anfiteatro di Nerone e dei meccanismi scenotecnici: un’arena in legno in grado di aprirsi, con macchine che potevano far emergere fiere e spezzoni di scenografia. Siamo in presenza di una drammaturgia dello stupore.
Svetonio ricorda uno spettacolo stupefacente e costoso: una naumachia in cui, nell’arena colma d’acqua di mare, nuotavano pesci e mostri marini, con persone che impersonarono una battaglia tra persiani e greci.
Il viaggio in Grecia
Dione Cassio ci dice che in Grecia l’imperatore non si recò né ad Atene né a Sparta. L’itinerario fu dettato dal desiderio del principe di percorrere il circuito dei magnifici agoni panellenici. In quell’occasione, straordinariamente, quei magnifici agoni vengono accorpati. Nerone diventa protagonista di questi giochi: il premio massimo era il periodonikes (il vincitore di tutti i giochi) e il circuito dei giochi si chiamava periodos e comprendeva i quattro agoni classici, detti agoni della corona, nei quali ha gareggiato Nerone: gli agoni olimpici Elide, i pitici a Delfi, gli ismici presso Corinto e i nemei in Argolide. E Atene e Sparta? I giochi di queste città erano ormai desueti, Nerone puntava al gran circuito, non quello secondario.
All’inizio davvero andò come pensò Nerone: al suo ritorno in Italia viene accolto trionfalmente. A Roma fece il suo ingresso «sul carro che era servito per il trionfo di Augusto, vestito di porpora con una clamide cosparsa di stelle d’oro, in capo la corona olimpica e nella mano destra quella pitica» (cit. Svetonio). Anche Dione Cassio ci parla delle lodi dei romani al ritorno di Nerone. Si passa da un nuovo trionfo, si passa da un trionfo militare ad uno artistico. Questo fu l’ultimo, grandioso, spettacolo di Nerone.
Fonte: http://mirkomanetti.it/wp-content/uploads/2015/05/Appunti-Storia-del-teatro-antico.docx
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Autore del testo: Stefano Mazzoni
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