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SFIDA ALL'ALZHEIMER: DALL'EZIOLOGIA ALLA TERAPIA
I medici pensano che quando hanno scoperto
la causa di una malattia, hanno anche scoperto il modo
di curarla.
Introduzione
Scorrendo la recente letteratura internazionale sulla malattia di Alzheimer - la più frequente forma di demenza - si incontrano spesso due aggettivi: devastante e modesto. Il primo è riferito al decorso ingravescente della patologia, alla perdita dell'autonomia funzionale con sconvolgimento della personalità di chi ne è colpito e all'inesorabile, progressivo impoverimento della qualità della vita, non solo del paziente ma anche di coloro che quotidianamente lo assistono (caregiver). Il secondo viene applicato al reale vantaggio ottenuto con le terapie oggi disponibili, anche le più recenti.
Basta rifletterci un attimo per capire che tra i due concetti sussistono strette correlazioni. L'Alzheimer è la quarta causa di morte in età adulta - dopo le malattie cardiovascolari, il cancro e l'ictus - e colpisce circa 20 milioni di persone nel mondo (oltre 450.000 in Italia). Le previsioni per il futuro sono catastrofiche: per ragioni intuibili, questa patologia è destinata ad aumentare e il numero di pazienti tra vent'anni potrebbe più che raddoppiare. I costi per le famiglie e per lo Stato sono già enormi e la scoperta di farmaci in grado di ritardare anche soltanto di cinque anni l'esordio della malattia potrebbe far risparmiare al servizio sanitario nazionale un numero cospicuo di miliardi. Le aspettative per una terapia realmente efficace sono dunque elevate, così come forti sono le pressioni sulle istituzioni di ricerca pubblica e privata per raggiungere una migliore conoscenza dei meccanismi biologici alla base della patologia e derivare da essa un approccio farmacologico più soddisfacente, sia sul piano del controllo dei sintomi sia su quello preventivo.
L'industria farmaceutica colloca grossi investimenti in questo settore, che risulta attraente per dimensione e quindi per prospettive di ritorno economico. Le informazioni che raggiungono il pubblico sui risultati - in realtà non eclatanti - conseguiti con i nuovi farmaci peccano spesso di eccessivo ottimismo. Tra le varie controversie che animano il mondo scientifico vi è anche la seguente: esiste oggi una terapia farmacologica veramente efficace per la demenza di Alzheimer? C'è chi sostiene che le nuove terapie, in particolare i farmaci anticolinesterasici, non abbiano apportato al paziente un reale beneficio in termini di miglioramento della capacità di svolgere le attività di ogni giorno, della qualità di vita e anche delle funzioni cognitive, in particolare quelle rilevabili con l'osservazione clinica oltre che con i test neuropsicologici. Inoltre, il rallentamento della progressione della patologia che si può ottenere sarebbe troppo breve per una malattia che dura in media 7-10 anni (Pryse-Phillips, 1999). Altri ritengono invece che qualcosa sia meglio di nulla e che in una discreta percentuale di pazienti anche una risposta modesta possa permettere, se non un ritorno alle attività e alle ocupazioni precedenti, almeno una diminuzione dell'apatia e un rinnovato interesse per i rapporti sociali. Il nichilismo terapeutico sarebbe dunque un atteggiamento improduttivo e medicalmente non appropriato (Gauthier, 1999a).
Gli enormi progressi recentemente registrati nella conoscenza dei meccanismi genetici e molecolari alla base della malattia inducono comunque a tenere un atteggiamento di fiducioso ottimismo.
Prima di ripercorrere i percorsi intrapresi dalla ricerca farmacologica, è necessario fare due premesse. La prima è che le forme di malattia di Alzheimer che rappresentano il settore più fruttuoso da indagare - quelle con un evidente substrato genetico, a esordio precoce (prima dei 60 anni), trasmesse per via autosomica dominante - costituiscono soltanto tra il 4 e il 25% della patologia; il rimanente è formato da forme sporadiche, tardive, senza alcun precedente familiare evidenziabile. La seconda premessa è la seguente: questa malattia è concordemente ritenuta un'entità clinica che può insorgere a seguito di molteplici cause, anche se la patologia molecolare che ne sta alla base (placche senili, grovigli neurofibrillari, infiammazione, perdita di neuroni e di sinapsi e lesioni mitocondriali) rimane la medesima, con un inizio nella corteccia entorinale e nell'ippocampo e una successiva diffusione a tutta la neocorteccia associativa. La terapia dovrebbe quindi prevedere un'associazione di farmaci a diverso meccanismo d'azione.
Strategie con bersaglio eziologico
Seguono tutte una concezione "amiloidocentrica", basata cioè sull'acquisizione ampiamente condivisa che la deposizione di aggregati fibrillari insolubili di un materiale proteico chiamato beta-amiloide nelle placche senili extraneuronali rappresenta il fattore causale più importante nella genesi della malattia. La formazione di grovigli neurofibrillari all'interno dei neuroni destinati a morire è l'altro elemento distintivo della patologia e deriva da una abnorme fosforilazione della proteina tau presente nei neurotubuli del citoscheletro neuronale. Placche e grovigli sono le due alterazioni fondamentali descritte da Alois Alzheimer nel 1907 e oggi si è abbastanza concordi nel ritenere che non siano semplicemente un epifenomeno dell'evoluzione della malattia. Numerose evidenze sperimentali portano a concludere che i grovigli, e quindi l'alterazione della proteina tau, siano secondari all'accumulo di beta-amiloide. Gli sforzi dei farmacologi sono dunque tesi a impedire la "patogenicità" della beta-amiloide, identificata principalmente nei suoi frammenti più lunghi, a 42-43 aminoacidi, che a differenza di quelli più brevi, solubili, tendono a depositarsi come ammassi fibrillari nelle placche senili delle forme a componente genetica della malattia. Infatti, almeno tre dei quattro geni finora implicati nella eziologia dell'Alzheimer producono per mutazione questa amiloide di tipo fibrillare, che si aggrega in modo irreversibile nelle placche e che è capace di distruggere i neuroni: il gene sul cromosoma 21, che codifica per la proteina precursore dell'amiloide (APP), e i due geni delle preseniline (PS1 sul cromosoma 14 e PS2 sul cromosoma 1).
La proteina precursore dell'amiloide (APP) è una grossa proteina transmembrana che viene scissa in frammenti di beta-amiloide di varia lunghezza per opera delle secretasi alfa, beta e gamma. Nel normale metabolismo cellulare, l'APP è tagliata dall'alfa-secretasi per produrre la forma più breve e solubile di amiloide; in condizioni patologiche, invece, gli interventi consecutivi della beta-secretasi e della gamma-secretasi portano alla produzione di beta-amiloide a catena lunga, quella capace di aggregarsi in forme fibrillari insolubili all'interno delle placche senili. Dati molto recenti dimostrano che le preseniline sono in grado di modulare l'attività proteasica della gamma-secretasi (secondo alcuni autori sarebbero esse stesse delle gamma-secretasi) e pertanto si ipotizza che il loro ruolo nella eziologia della demenza di Alzheimer sia centrale (Selkoe, 1999; Soto, 1999; Haass e De Strooper, 1999). La possibilità di inibire queste proteasi con sostanze a elevato indice terapeutico rimane uno degli obiettivi più interessanti e promettenti della ricerca neurofarmacologica (Fig. 1).
Il quarto gene, sul cromosoma 19, codifica la formazione della apolipoproteina E (ApoE), un carrier che coordina la mobilizzazione e la ridistribuzione del colesterolo nei processi di crescita e di riparazione della mielina e delle membrane neuronali. Un particolare allele di questo gene, l'Apo E4, è stato riscontrato con frequenza molto maggiore nei pazienti con malattia di Alzheimer tardiva, sia su base familiare che sporadica, per cui la presenza di uno o due di questi alleli ereditati dai genitori rappresenterebbe un importante fattore di rischio per questa patologia. La presenza di Apo E4 è stata correlata positivamente con l'amiloidogenesi e con una alterazione dell'attività colinergica cerebrale (Poirier, 1999).
Non sono ancora stati chiariti i meccanismi con cui la beta-amiloide delle placche svolge i suoi effetti devastanti sui neuroni vicini. Sono state formulate varie ipotesi, tra le quali un aumento del Ca++ intracellulare, uno stress ossidativo abnorme (Behl, 1999) con produzione - per compromissione mitocondriale - di radicali liberi, che a loro volta provocano una reazione infiammatoria con liberazione di citochine e stimolazione della microglia (Staehlin, 1999; Allain et al, 1998). Su queste premesse potrebbero essere interpretati i risultati di diversi studi clinici che hanno registrato modesti miglioramenti della sintomatologia con l'impiego di calcio-antagonisti (Feldman e Gracon, 1996) e in modo più rimarchevole con anti-ossidanti - come le vitamine E e C e i caroteni (Perrig et al, 1997), la selegilina (Sano et al, 1997; Freedman et al, 1998) o gli estratti di Ginkgo biloba (Le Bars et al, 1997) - e con farmaci anti-infiammatori non-steroidei (Stewart et al, 1997).
Farmaci sintomatici
Inibitori dell'acetilcolinesterasi
Dalla scoperta di un deficit di acetilcolina nel cervello dei malati di Alzheimer all'introduzione di una terapia di sostituzione dotata di una qualche efficacia sono trascorsi circa 20 anni (Giacobini, 1998). La perdita di neuroni colinergici nel nucleo basale di Meynert e la diminuita funzionalità nell'ippocampo dell'acetiltransferasi, enzima che provvede alla sintesi di acetilcolina, hanno costituito il razionale per vari tentativi farmacologici intesi a correggere la carenza della neurotrasmissione colinergica (Shadlen e Larson, 1999)
Finora si sono ottenuti risultati apprezzabili, anche se in una percentuale ridotta di pazienti responders, per un periodo relativamente breve e limitatamente alle forme di malattia lievi e moderate, con farmaci che prevengono la demolizione dell'acetilcolina mediante inibizione dell'acetilcolinesterasi. La seconda generazione di questi farmaci (donepezil, rivastigmina, metrifonato), pur non presentando vantaggi di rilievo per efficacia rispetto alla prima (tacrina), è priva di epatotossicità e non richiede pertanto frequenti monitoraggi di laboratorio.
L'attivazione colinergica non arresta la perdita neuronale, non corregge il deficit di altri neurotrasmettitori e non modifica l'accumulo delle placche senili e dei grovigli neurofibrillari nel cervello dei pazienti, anche se una recente rassegna di Ladner e Lee (1998) sottolinea le numerose evidenze sperimentali che documentano l'esistenza di un rapporto inverso tra l'attivazione dei recettori colinergici muscarinici M1 e la formazione e deposizione di beta-amiloide. Alle possibili cause del successo solo marginale della farmacoterapia colinomimetica nella demenza di Alzheimer, dettagliatamente elencate da Benzi e Moretti (1998), bisognerebbe dunque aggiungere l'evenienza di un disaccoppiamento fra il recettore muscarinico M1 e la sua proteina G.
Altre terapie
Per una malattia a genesi multifattoriale quale l'Alzheimer, oltre ai target "amiloidogenesi" e "deficit colinergico" è necessario prendere in considerazione anche i risultati ottenuti in altre direzioni, sebbene la consistenza numerica e metodologica dei trial clinici sia inferiore a quella per i farmaci discussi in precedenza.
Tre studi longitudinali hanno evidenziato un effetto protettivo della terapia di sostituzione con estrogeni sul rischio di Alzheimer (Sloane, 1998). Gli estrogeni modulano il metabolismo secretorio dell'APP e un polimorfismo del gene alfa del recettore degli estrogeni sembra interagire con l'Apo E4 nel determinismo di forme sporadiche di Alzheimer (Brandi et al, 1999). La prevalenza di Alzheimer valutata in 50.000 soggetti ha evidenziato una riduzione del 60-73% - rispetto al totale della popolazione esaminata o ai pazienti trattati con altri farmaci cardiovascolari - nei pazienti in terapia anticolesterolemizzante con statine (Wolozin, 1999).
Una sostanza che agisce come inibitore selettivo della ricaptazione dell'adenosina e come inibitore della fosfodiesterasi, la propentofillina, è in avanzato stadio di valutazione per il trattamento della demenza sia di Alzheimer sia vascolare (Mielke et al, 1998).
Inoltre, non si possono ancora accantonare le "vecchie terapie" che hanno dimostrato di migliorare - seppure temporaneamente - i processi cognitivi, la socializzazione e l'orientamento dei pazienti. Tra queste vanno citati i nootropi, attivatori cerebrali appartenenti al gruppo chimico degli acetamici, che sembrano agire aumentando la liberazione dei neurotrasmettitori. Per uno di essi, l'aniracetam, studi neurochimici hanno evidenziato un effetto agonista sui recettori AMPA del glutammato che mediano la trasmissione sinaptica eccitatoria rapida, contribuendo all'espressione del processo di apprendimento; esso rappresenta il precursore delle ampachine, farmaci ancora in fase sperimentale (Flynn e Ranno, 1999). Vanno infine menzionati i derivati ergoloidi (ergotamina mesilato e nicergolina) che sono stati impiegati con qualche successo in varie forme di demenza.
Il puzzle della genesi dell'Alzheimer si va componendo, anche se molti pezzi non hanno ancora trovato la loro collocazione.
Nel frattempo, un impiego sapientemente combinato di queste terapie può ritardare la istituzionalizzazione, alleviare temporaneamente il carico dei caregiver e contenere la spesa (Gauthier, 1999b).
Di fronte ad una malattia così devastante non è poca cosa.
Bibliografia
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Fonte: http://www.anmco.it/uploads/u_cms/media/2014/12/799cc1130e61ee2af23faeb77f2fd7ed.doc
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