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CAPITOLO 5
IL RUOLO DELLO PSICOLOGO SISTEMICO IN UNA EQUIPE DI CURE PALLIATIVE
5.1 LE CURE PALLIATIVE
Le cure palliative si occupano in modo attivo e totale dei pazienti che non rispondono più ai trattamenti terapeutici rivolti alla guarigione. Il loro obiettivo primario, quindi, consiste in un miglioramento della qualità della vita attraverso il controllo del dolore e degli altri sintomi, tenendo conto nel contempo degli aspetti psicologici e sociali del malato e della sua famiglia.
Il termine “palliativo” ha origine dal latino “pallium”, che significa “mantello”: veicola, cioè, il concetto di coprire, proteggere, e con ciò esprime semanticamente il significato che si è voluto dare attualmente al termine, cioè quello di intervento protettivo che lenisce le sofferenze, ma non rimuove le cause.
Tenuto conto che l’etica deontologica medica prevede almeno due doveri: “sanare infirmos”, cioè ripristinare la salute rimovendo la malattia e “sedare dolorem”, cioè diminuire le sofferenze del malato, il medico palliatore dovrà interpretare il concetto di guarigione e cura non solo al recupero fisico, ma anche come il raggiungimento per il malato di un miglioramento della propria qualità della vita, fisica e psicologica: la sofferenza psicologica del morente è infatti più sfuggente e difficile da controllare del dolore fisico !
Il medico palliatore dovrà perciò lasciare, almeno in parte, le sue capacità diagnostiche e tecniche e dovrà indirizzare l’attenzione sulle componenti emotive, incontrando l’ammalato anche attraverso l’ascolto ed il contatto fisico.
Nel 1999 la Commissione Ministeriale per le Cure Palliative, riprendendo e modificando una dichiarazione del National for Hospice and Palliative Care Services, ha definito che le Cure Palliative:
Esse si caratterizzano inoltre per:
In Italia questo servizio si realizza in genere attraverso le Unità Operative di Cure Palliative che cercano di garantire: 1) ambulatori per visite e controlli, day hospital per le prestazioni diagnostiche e terapeutiche; 2) cure domiciliari prestate dall’équipe di Cure Palliative integrate con le attività del medico di base; 3) ricoveri in reparti ospedalieri, meglio se specificatamente destinati, oppure in strutture totalmente separate, definite Hospices.
5.2 I TRE CARDINI DELLE CURE PALLIATIVE DOMICILIARI
L’organizzazione ospedaliera è data da rigidità di orari, visite, esami, terapie; al personale sanitario non rimane molto tempo per l’assistenza, intendendo questo termine nel senso di stare accanto ad un malato non solo per le cure mediche, ma anche per vicinanza umana o perché egli non può stare solo.
L’ospedale non offre uno spazio adeguato per chi è giunto alla fine dell’esistenza e vuole morire dignitosamente e fra i suoi cari.
Il ricoverato ha difficoltà ad individuare in reparto un “curante” di riferimento, spesso il suo spazio è ridotto ad un letto e le sue abitudini vengono negate. Questo tipo di assistenza diventa più facilmente realizzabile quando l’ammalato terminale rimane presso la sua abitazione, con la presenza di una famiglia che, se adeguatamente supportata, è spesso in grado di far fronte alla situazione.
La maggioranza dei pazienti oncologici esprime in fase avanzata della malattia, il desiderio di essere seguito a casa soprattutto quando l’équipe curante gli assicura che non verrà abbandonato.
Il sofferente seguito a domicilio diventa il Soggetto dell’assistenza in quanto si trova in situazione di indipendenza rispetto al personale sanitario, pur rimanendo il loro Oggetto di cura.
L’assistenza domiciliare all’ammalato terminale si realizza quindi su tre cardini
Queste tre realtà devono costantemente rapportarsi ed interagire fra di loro, pur mantenendo ben distinti i ruoli di ciascuno, perché ciò avvenga la comunicazione è indispensabile, deve essere di tipo circolare e nessuno deve rimanervi escluso.
Si deve cioè passare da una struttura tradizionale a piramide, che vedeva al vertice la figura del medico e sotto gli altri operatori ed ancora sotto il paziente, ad una struttura circolare, dove l’ammalato e la sua famiglia sono al centro e tutti gli operatori ruotano attorno, attuando uno scambio continuo di informazioni fra loro e con i soggetti principali.
L’équipe di Cure Palliative infatti non ha solo il compito di migliorare la qualità della vita del paziente controllando il dolore e gli altri sintomi, ma deve anche confrontarsi costantemente con il malato e la sua famiglia per quanto riguarda le decisioni terapeutiche e l’informazione su ciò che sta avvenendo; tutto ciò per evitare che nel paziente e nella sua famiglia la paura di ciò che è sconosciuto prenda il sopravvento.
L’équipe e la famiglia non si sostituiscono nell’assistenza, ma si integrano; i famigliari devono essere aiutati ad individuare le proprie risorse o a meglio utilizzarle per giungere così ad una alleanza terapeutica sia sui contenuti organizzativi che su quelli umani.
5.3 L’EQUIPE DI CURE PALLIATIVE
Le unità di Cure Palliative sono in genere collegate strettamente ai Servizi di Diagnosi e Cura degli Ospedali; il personale che fa capo al settore delle Cure Palliative necessita di un particolare training per poter affrontare i compiti emotivamente stressanti che nascono dal prendere in considerazione anche gli aspetti psicologici e sociali del malato. In particolar modo medici ed infermieri devono poter ampliare le loro conoscenze relative alla comunicazione. Al colloquio, all’ascolto di tutti i bisogni espressi dal malato ed agli aspetti culturali del morire.
Gli operatori dell’equipe domiciliare entrano nell’intimità della casa in un momento di intensa sofferenza collettiva e devono perciò saper riconoscere i segnali emotivi e relazionali più importanti. I problemi legati alla terminalità sono infatti di diversa natura e vanno affrontati utilizzando competenze e strumenti specifici; è proprio per tali motivi che nella equipe di Cure Palliative si trovano diverse figure professionali.
Il medico di Cure Palliative deve avere una buona conoscenza delle terapie analgesiche, dei farmaci per il controllo dei sintomi e deve sapar lavorare in equipe. I suoi compiti sono quelli di proporre l’adeguato trattamento terapeutico-assistenziale; affiancare gli infermieri domiciliari; consultare e coinvolgere il medico di base; facilitare la prescrizione ed il reperimento dei farmaci necessari, ecc., sempre considerando il malato nella sua unità psico-fisica.
L’infermiere è la “chiave di volta” del servizio di assistenza domiciliare perché è la figura più vicina al paziente ed alla sua famiglia e costituisce il riferimento al quale convergono gli altri operatori coinvolti.
Prende in carico i malati fin dalla prima visita a domicilio effettuata con il medico, istruisce i familiari ed il malato sulla somministrazione dei farmaci e sull’accudimento, partecipa alle riunioni d’equipe, dà supporto alla famiglia nel momento del decesso.
L’assistente sociale procura in modo adeguato e rapido ciò che può facilitare l’assistenza: risolve problemi pratici, burocratici e finanziari relativi al materiale sanitario (letti, sedie a rotelle, ausili, ecc…). Si occupa principalmente dei problemi sociali ed economici del paziente e della sua famiglia.
Lo psicologo supporta con interventi diretti (colloqui, didattica e formazione) ed indiretti (supervisione delle riunioni settimanali e controllo delle dinamiche in corso e delle interazioni allargate) l’attività di tutta l’equipe. Può inoltre fornire aiuto psicologico con colloqui al paziente, ai familiari, al personale o ai volontari.
I volontari, che devono essere selezionati e formati, lavorano in stretto contatto con lo staff curante. Collaborano per risolvere i problemi non sanitari del paziente o della sua famiglia. In alcune realtà partecipano con un loro rappresentante alle riunioni d’equipe.
Il termine “spirituale” si riferisce a quagli aspetti relativi ad esperienze trascendenti i fenomeni sensoriali; spesso questi vengono messi in relazione con i significati e gli obiettivi della vita. Nelle persone vicine alla morte la spiritualità si associa al bisogno di perdono, riconciliazione ed affermazione del bene, indipendentemente da un credo religioso. La fine della vita è spesso piena di “perché ?”; l’assistente spirituale si occuperà di dare quindi supporto morale ed umano e, se richiesto, anche religioso.
Si può infine individuare un’altra figura dell’equipe, quella del “familiare leader”, cioè colui che si fa carico del compito più gravoso dell’assistenza, che è al corrente di tutto e che si assume delle responsabilità; non sempre questa figura coincide con quella più intimamente vicina al sofferente. Inserire idealmente anche questa figura nell’equipe ha il senso di voler agevolare la collaborazione reciproca.
5.4 IL CONTESTO: LA UNITA’ DI CURE PALLIATIVE DELL’OSPEDALE DI LEGNANO
L’Unità di Cure Palliative che ha sede in Legnano proviene storicamente dalla trasformazione della Unità Operativa Antalgica che, come Centro di Terapia del Dolore, era attiva già nel 1980.
Nel 1993 è stato avviato un progetto sperimentale di Cure Palliative Domiciliari, sui cui sviluppi si è poi costituita l’equipe attuale:
4 |
medici con specializzazione in Anestesia e rianimazione, per un totale complessivamente di 76 ore settimanali |
1 |
assistente sociale con attività prevalente presso altro servizio, per 5 ore settimanali (dal 1993 al 2000) |
1 |
psicologo con esperienza nel settore oncologico, per un totale di 38 ore settimanali nell’UO Cure Palliative e nell’UO Oncologia |
4 |
Infermiere professionali che operano sul territorio |
Per quanto riguarda la figura del volontario viene in genere attivato il personale della Lega Tumori, ma non costituisce parte integrante dell’equipe. Non è presente la figura dell’assistete spirituale.
La sede del Servizio è stata fissata presso la Terapia Antalgica dell’Ospedale di Legnano. Nel reparto, oltre agli ambulatori per le visite ed i colloqui, sono disponibili anche posti letto per eventuali ricoveri in caso di necessità sanitarie o per quelle situazioni ove la famiglia presenta problemi di assistenza.
La richiesta di intervento per attivare il servizio viene effettuata: 1) dall’ospedale al momento della dimissione; 2) dal medico di base; 3) dai familiari; 4) dal paziente; 5) da altri Ospedali o Servizi.
In genere il servizio viene mantenuto attivo sino alla morte del malato terminale. E’ però sempre possibile che i familiari usufruiscano di colloqui di sostegno con lo psicologo nella fase del lutto o di interventi dell’assistente sociale per aiutare i parenti ad affrontare gli aspetti pratici e di riorganizzazione familiare che si presentano dopo la perdita del congiunto.
Il paziente ed i familiari, a fronte di una loro libera scelta, possono chiedere di sospendere in qualsiasi momento il servizio.
A. LE FIGURE PROFESSIONALI COINVOLTE ED IL LAVORO DI EQUIPE
Nell’intervento delle cure domiciliari sono coinvolti i vari operatori dello staff, con tempi e modi differenti a seconda dei diversi profili professionali. Si tende però sempre ad un’ottica di integrazione tra le diverse attività.
Il paziente è seguito sempre dallo stesso medico che ha attuato la presa in carico. La frequenza delle visite domiciliari varia a seconda della situazione dell’ammalato; di norma, se non vi sono complicanze, si effettuano almeno due visite la settimana.
In genere si reca al domicilio del paziente ogni giorno; controlla la sua situazione complessiva e lo stato di assistenza, rileva i parametri vitali, esegue le medicazioni, verifica il corretto funzionamento delle pompe di infusione, riferisce immediatamente al medico referente se ci sono problemi.
Quando il paziente è allettato, insegna ai familiari ad eseguire le pratiche igieniche e ad occuparsi della cura quotidiana del congiunto. Infine, avendo contatti quotidiani con il paziente e la famiglia, segnala i bisogni che emergono agli altri operatori dell’equipe.
Oltre a quanto già espresso, l’assistente sociale collabora con l’equipe nel far circolare le informazioni, dando loro una lettura psico-sociale; offre couseling alle famiglie su problematiche concrete; aiuta a far emergere nei singoli casi problematiche non meramente sanitarie non sempre riconosciute dagli altri membri dello staff.
Lo psicologo riveste un doppio ruolo all’interno della equipe di Cure Palliative: è parte integrante di essa quando prende in carico la situazione psico-emotiva di un paziente o di un suo familiare; diviene elemento “super partes” quando assume il ruolo di supervisore nelle riunioni d’equipe.
Un intervento diretto dello psicologo viene richiesto dall’ammalato poco frequentemente (in questo caso lo psicologo si reca al domicilio); più spesso vengono richiesti colloqui di sostegno ai familiari ed – in qualche caso – dai singoli operatori.
Vengono attivati dall’assistente sociale laddove ne riscontra la necessità ed intervengono solo laddove paziente e familiari ne accettano l’aiuto. Può recarsi anche più volte la settimana presso l’ammalato per portare semplicemente un po’ di compagnia o per sostituire un congiunto che deve assentarsi.
B. LE RIUNIONI SETTIMANALI
Le riunioni settimanali dello staff di Cure Palliative costituiscono un importante momento di confronto tra i diversi professionisti coinvolti nell’assistenza domiciliare al paziente terminale. All’incontro partecipano tutti gli operatori; occasionalmente sono stati invitati medici di base o volontari.
Durante l’incontro, che in genere dura circa due ore, il medico titolare del caso e gli infermieri aggiornano le cartelle dei pazienti. Si esamina insieme quello che è successo ai pazienti ed ai loro familiari, incominciando da quelli che sono morti: non si tratta di una semplice pratica di archiviazione, ma di un momento di condivisione nel gruppo dell’afflizione della perdita.
Diverse sono le finalità dell’incontro:
5.5 IL RUOLO DELLO PSICOLOGO NELLA UNITÀ DI CURE PALLIATIVE
A. UN PO’ DI STORIA
L’esperienza delle Cure Palliative Domiciliari dell’Ospedale di Legnano è partita con una serie di incontri formativi che sono serviti a descrivere ed a delineare nei contenuti le Cure Palliative. I promotori di tali incontri erano medici (3) e psicologi (2) fortemente motivati a realizzare questo progetto; i fruitori dei corsi era personale assegnato a questo Servizio senza possibilità di opzione (infermieri ed assistente sociale).
Con il tempo, nella maggior parte del personale vi è stato un lento ma progressivo coinvolgimento personale e professionale nel Progetto; in alcuni, invece, il rifiuto ad entrare nello spirito delle Cure Palliative Domiciliari non è mai venuto meno.
Di fatto, nel 1993, l’equipe è partita assumendo come proprio il linguaggio e l’agire medico-scientifico: parametri biologici ed i dosaggi terapeutici erano al centro della comunicazione tra gli operatori durante i primi incontri.
Da parte degli infermieri professionali c’erano anche state delle reazioni oppositive, durante i dibattiti successivi alle lezioni teoriche, a tutto ciò che era emotività, empatia, relazione con il malato e la sua famiglia, informazione al paziente.
Gli operatori psico-sociali hanno inizialmente accettato che il gruppo, in una logica sanitaria, rimanesse prevalentemente orientato verso il compito e che le interazioni tra i suoi membri privilegiassero gli aspetti pragmatici ed organizzativi, a discapito di quelli emozionali. Il modo di operare dell’equipe era stato letto dagli psicologi come un atteggiamento difensivo di tutto lo staff di lavoro, che necessitava di un percorso per poter assorbire ed elaborare all’interno le valenze emotive derivanti dal confronto con la sofferenza e la morte.
In un primo tempo, quindi, si è venuto a creare un equilibrio “medico” che volutamente non è stato rotto con l’imposizione di un punto di vista che privilegia gli aspetti relazionali, tenendo in conto che, generalmente, anche le famiglie tendono a chiedere aiuto prevalentemente per problematiche mediche e non esprimono bisogni sociali o psicologici in strutture sanitarie.
Un primo passaggio verso un’apertura dell’equipe ai bisogni psico-sociali del paziente si è realizzata con la decisione di affiancare l’assistente sociale al medico in occasione del primo colloquio con la famiglia del malato. L’assistente sociale ha quindi ottenuto un suo spazio nell’equipe settimanale e gli argomenti sociali si sono aggiunti a quelli sanitari.
Interrogatisi sul loro ruolo e su quale poteva essere il significato della loro presenza nel gruppo di lavoro, gli psicologi hanno riportato questa problematica all’equipe intera e l’hanno condivisa con le altre figure professionali.
L’ingresso diretto degli psicologi nelle equipe settimanali ha permesso il passaggio dell’equipe intera da una modalità relazionale basata sul distacco e sul controllo ad una più empatica verso il paziente e più aperta all’espressione dei propri vissuti emotivi.
Da questo momento le riunioni settimanali e l’equipe hanno incominciato ad essere vissuti come il tempo ed il luogo adeguato per discutere di tutti i bisogni del paziente e per il confronto ed il supporto fra colleghi anche sulle tematiche psico-sociali.
Alcuni casi particolarmente impegnativi hanno permesso l’emergere di tutte le emozioni non espresse fino a quel momento; in un breve periodo di tempo, infatti, sono stati accuditi ed accompagnati alla morte due giovani poco più che ventenni e due coppie dove entrambi i coniugi avevano raggiunto contemporaneamente la fase terminale della malattia. In questa fase il ricorso allo psicologo è stata massiccia, sia da parte dei pazienti e dei loro familiari, sia degli operatori. Interi incontri d’equipe sono stati trascorsi a riflettere sui bisogni e sui comportamenti dei vari soggetti in azione al fine di comprenderli nella giusta luce (la madre anaffettiva era in realtà paralizzata dalla sofferenza; i figli non accudenti ed assenti erano in realtà allo stremo delle forze).
La “macchina” dell’equipe ha incominciato a funzionare a pieno ritmo proprio con l’insorgere di situazioni particolarmente stressanti e si è rivelata importante nella sua funzione di contenimento delle incertezze e delle ansie suscitate dall’impotenza, favorendo l’esplicitazione dei vissuti e delle emozioni individuali ed una loro gestione più adeguata.
Il gruppo di lavoro è diventato capace di contrastare l’ansia provocata dal “non sapere più cosa fare” di fronte alla morte incombente ed al disagio del come agire, offrendo protezione e sicurezza a tutti gli operatori coinvolti. La libera espressione delle emozioni ha incentivato inoltre la messa in campo di risorse umane ed individuali al di là dei ruoli professionali, permettendo così una più adeguata risposta ai bisogni psico-sociali dei malati e dei loro familiari.
B. LO PSICOLOGO
Le Cure Palliative in Oncologia stanno diventando sempre più una realtà sanitaria caratterizzata da una propria specificità etica e tecnica d’intervento e, in questa realtà si inserisce anche la figura dello psicologo, che contribuisce a migliorare l’approccio globale al paziente, in una filosofia d’intervento dell’eco-sistema nella quale ogni scienza (media, infermieristica, psicologica, sociale) può e deve contribuire a rispondere agli aspetti ed ai bisogni diversi che coesistono nella gestione del malato.
La peculiarità dello psicologo, in questo caso, è quella di operare secondo una mentalità di equipe multidisciplinari, in un’ottica di assistenza psico-sociale integrata, cioè in rete con i veri servizi esistenti negli ospedali e sul territorio, dei quali deve conoscere l’esistenza e con i quali deve mantenere legami professionali.
Nel contesto delle Cure palliative l’intervento dello psicologo si rivolge a persone il cui disagio psicologico non dipende solo da un disturbo psicopatologico, ma è generato anche dalla situazione traumatizzante della malattia organica. Si tratta quindi di una psicologia dove la reazione funzionale o disfunzionale del paziente e della sua famiglia non dipende solo dai tratti personologici individuali o dai giochi familiari in atto, ma da fattori diversificati quali il tipo di informazione medica ricevuta, la capacità degli operatori di comprendere il paziente, lo stile di vita precedente la diagnosi di malattia, ecc.
L’ambito diagnostico è rappresentato dal concetto di crisi, considerato come momento di cambiamento in cui si trovano, non per loro scelta, il paziente e la sua famiglia, che reagiscono alla situazione in modo altalenante, con l’accettazione o con il diniego.
Gli strumenti che vengono utilizzati per mettere in atto l’intervento devono seguire una diagnosi ed un progetto terapeutico multidisciplinari.
Lo psicologo sceglierà le tecniche da applicare, tra le diverse possibili, seguendo la propria formazione e la propria esperienza clinica, ma tenendo anche in considerazione che esse imporranno comunque un confronto diretto e a volte continuo con i sentimenti di solitudine e di impotenza e con la paura della separazione e della morte, sentimenti cui sono esposti il paziente, i familiari e gli operatori e che egli dovrà riuscire innanzi tutto a riconoscere e a tollerare in se stesso prima di poter aiutare gli altri.
Egli dovrà anche affrontare la difficoltà di operare al di fuori del setting abituale (strutture sanitarie, studio professionale, ecc.) per confrontarsi con un setting nuovo, l’abitazione del paziente, dove le regole vengono dettate dal padrone di casa. E’ importante perciò per lo psicologo, come per ogni altro membro dell’equipe, poter oscillare armoniosamente tra sentimenti di solitudine e bisogno di un gruppo di riferimento, per sentirsi mentalmente parte integrante di esso anche quando opera a domicilio.
Nel caso specifico, lo psicologo della UO Cure Palliative dell’Ospedale di Legnano si trova ad affrontare categorie diverse di problemi:
Potrebbe apparire che nella figura dello psicologo vi sia una commistione di ruoli: da una parte elemento “super-partes”, dall’altra membro a pieno titolo della equipe.
Di fatto, tale visione dicotomica viene superata dal punto di vista operativo dall’intendere la “supervisione” non in modo classico (operatore esterno al gruppo che coordina e gestisce gli incontri), ma definendola come una visione da dentro il gruppo di lavoro, da parte di un professionista che per formazione specifica può fornire una visione comunque diversa da quella degli altri operatori e che per funzione istituzionale viene riconosciuto in questo ruolo.
In generale, lo psicologo sistemico si assume il compito di offrire agli altri membri della equipe una lettura non diretta e banale di quanto portato durante le riunioni, cercando di introdurre un livello di analisi non lineare, ma circolare e complesso, poiché complesse sono le situazioni che si vanno ad affrontare.
In ogni caso, sia che lo psicologo operi direttamente con il paziente o la sua famiglia, sia che non lo faccia, durante le riunioni di gruppo il suo compito sarà comunque quello di offrire una lettura relazionale ed emotiva al materiale portato dagli altri membri dell’equipe, che per loro formazione professionale tendono a parlare il linguaggio asettico della medicina.
La metodologia seguita è quella dettata dalla epistemologia sistemica: lo psicologo è chiamato a formulare ipotesi sulle dinamiche in atto (familiari o di gruppo) fondate sul materiale in suo possesso, portato da egli stesso o da altri operatori, che includa tutti i componenti (della famiglia o del gruppo) e che fornisca una supposizione concernente il funzionamento relazionale globale (ipotizzazione sistemica), evitando di mutuare il linguaggio lineare causa-effetto, per sua natura semplificante, per aiutare i membri dell’equipe a lavorare in termini di complessità (circolarità) e cercando di mantenere un atteggiamento mentale ed un conseguente comportamento manifesto improntato al non-giudizio e al non-schieramento da una parte o dall’altra, sia che si tratti di familiari che di membri dell’equipe (neutralità).
Un malato terminale raramente richiede per se stesso l’intervento dello psicologo di una Unità di Cure Palliative; è forse possibile ipotizzare che, con l’approssimarsi della fine della sua vita, egli non senta tanto il bisogno di “sfogarsi” o di “capire” quello che sta avvenendo, quanto ricerchi risposte ed un senso della vita e della morte di natura più spirituale o filosofica.
Anche la vicinanza emotiva al malato terminale è meglio garantita dai suoi stessi familiari che da un professionista che, in ultima analisi, è un estraneo.
L’opera dello psicologo in CP è quindi maggiormente richiesta ed ha una maggiore operatività tecnica e teorica quando si rivolge alla famiglia del malato.
Incontrandola in ospedale o al domicilio, egli opererà su diversi fronti. Cercherà di aiutare la famiglia ad affrontare il trauma rappresentato dalla malattia e dalla terminalità del congiunto, per sostenerla nel difficile compito di “ammortizzatore” nello scontro con questa nuova realtà, fatta di sofferenza, e di “contenitore” di tutte quelle paure ed ansie che sono la naturale conseguenza di questo cambiamento, che genera incertezze sul futuro di tutto il nucleo familiare.
La famiglia andrà accompagnata nel suo duplice sforzo: da un lato preservare la propria identità e continuità verso l’esterno, dall’altro riorganizzare al suo interno ruoli e pesi pratico-affettivi, come conseguenza della frantumazione causata dalla malattia e dai continui cambiamenti a questa collegati.
Lo psicologo opererà inoltre allo scopo di aiutare i membri a comprendere le richieste dell’ammalato e a salvaguardare il proprio equilibrio interno, specie se in famiglia ci sono bambini o adolescenti.
Per la famiglia, il costo di dover assistere un ammalato è alto, sia in termini fisici che psicologici ed incide spesso in maniera pesante sui rapporti che intercorrono fra i suoi componenti, sconvolgendone gli equilibri. Se da un lato gli aspetti pratici dell’assistenza costringono ad un totale stravolgimento dei ritmi di vita, dall’altro reinserire una persona malata nel contesto della sua famiglia provoca una riorganizzazione delle dinamiche relazionali che intercorrono tra i vari membri sulla base della presenza della situazione di malattia, che viene vissuta come inevitabile (rabbia e frustrazione) e come generatrice di sensi di colpa ed angosce relative alla morte (propria ed altrui).
Spetta alla sensibilità dell’operatore che entra nella famiglia rendersi conto del clima emotivo che vi regna e mutuare il suo intervento attraverso un approccio che si rivolga sia all’intero gruppo familiare, sia a quei singoli membri che egli sente come più fragili e bisognosi di sostegno.
Insieme all’intera equipe di Cure Palliative, un ulteriore scopo dell’intervento dello psicologo è quello di creare una alleanza terapeutica con il paziente e la sua famiglia, allo scopo di poter sfruttare le energie e le risorse di tutti nell’ottica di uno sforzo comune. Tale risultato può essere ottenuto innanzi tutto migliorando la comunicazione tra le parti, quindi riuscendo a mettere in luce e rinforzare i valori umani e le qualità psicologiche della famiglia, sia agli occhi della stessa, sia nell’opinione generale che l’equipe ha di essa.
Un caso clinico può essere esemplificativo.
La Sig.ra M aveva 45 anni, era sposata con il Sig. P, suo coetaneo, ed aveva una figlia di 11 anni. Era una donna dal carattere forte, una leader naturale, realizzata professionalmente.
Le era stato diagnosticato un tumore al pancreas; la diagnosi le è stata fatta il giorno dopo che, con la famiglia, si è trasferita nella casa nuova, avvicinandosi così alla propria famiglia di origine.
Nelle ultime settimane di vita non era più presente a causa delle metastasi cerebrali; da quel momento la figlia era andata a vivere dalla nonna materna, con il consenso del padre, che si occupava direttamente della moglie.
La famiglia di origine della Sig.ra M era molto presente e di fatto era divenuta l’unico interlocutore della equipe della UO Cure Palliative, che si era costruita una immagine molto negativa del Sig. P. Egli veniva quindi molto isolato dall’equipe, che tendeva a relazionarsi esclusivamente con i familiari della Sig.ra M.
A questo punto il Sig. P ha chiesto un aiuto psicologico per sé, poiché “stava molto male”.
Dopo un primo colloquio con lui, lo psicologo ha chiesto che negli incontri successivi fosse presente anche la figlia ed ha condotto dei colloqui con i due fino alla morte della Sig.ra M.
Dopo due colloqui con il padre, la bambina ha chiesto di poter tornare a dormire a casa sua, ricostruendo quindi la nuclearità della famiglia di appartenenza e cercando di assumere un ruolo adultizzato nel confronti del padre. Successivamente la bambina è anche riuscita a partecipare ai funerali della madre. Il malessere del Sig. P era via via diminuito.
Lo psicologo aveva lavorato su due fronti: da una parte la coppia formata dal Sig. P e dalla figlia, per cercare di far riemergere un tessuto ed un legame che andava disgregandosi, dall’altra fornendo all’equipe una lettura sistemica di quanto stava accadendo nelle due famiglie (nucleare ed allargata, che aveva sempre vissuto il Sig. P come un corpo estraneo) che ha aiutato gli operatori ad avere del Sig. P una visione meno pregiudiziale di conseguenza a coinvolgerlo maggiormente nella gestione della fase terminale della malattia della moglie.
L’ipotesi che è stata fatta è quella che la bambina sia potuta tornare a casa solo quando ha percepito che il padre non era più isolato, in conseguenza di una qualche “colpevolezza” della malattia della Sig.ra M (messaggio mutuato dalla famiglia allargata), ma anzi fosse meritevole di fiducia ed affetto. Tutto ciò grazie non solo al lavoro terapeutico ma anche al mutato atteggiamento dell’equipe medica ed infermieristica nei suoi confronti.
Il lavoro psicologico con l’equipe: la malattia tumorale è oggi una delle più difficili da affrontare, sia per i pazienti che per il personale curante a causa del suo immediato significato di morte, di dolore totale.
Il paziente subisce la malattia mortale come una ingiustizia, il medico avverte l’impotenza dei mezzi di cui dispone per aiutare il malato, l’infermiere deve fronteggiare i pregiudizi e le interpretazioni, a volte magiche, legate al cancro. Anche chi assiste il malato ha una sua rappresentazione mentale del tumore e può avere reazioni difensive nei confronti del paziente e della sua condizione di morente; crisi depressive, negazione della situazione di sofferenza del paziente e della sua famiglia, distacco emotivo sono mezzi che possono essere messi in atto per difendersi dall’angoscia della morte.
Questa angoscia, sempre presente quando ci si relaziona con un malato terminale e la sua famiglia, rende difficile il contatto con essi e rende complesso prepararsi emotivamente ed operativamente ad un’assistenza di questo tipo. Prendersi cura del malato nella fase terminale della sua vita comporta il riconoscere ed ammettere i limiti della propria professione, soprattutto per gli operatori sanitari.
Accettare la crisi del proprio ruolo significa avvicinarsi all’ammalato non con lo sguardo oggettivo della scienza medica ma con lo sguardo di chi deve saper cogliere la soggettività della malattia.
Accostarsi all’altro essendo aperti ad accogliere i suoi sentimenti attraverso una comunicazione ed un ascolto empatico aumentano la sensibilità verso i suoi bisogni, ma comportano un rischio di eccessivo coinvolgimento emotivo. Se lasciato solo, l’operatore può riuscire ad accogliere e contenere le comunicazioni più o meno angosciati dell’altro, ma sul lungo periodo rischia di non riuscire più a distaccarsene e a venirne travolto.
Il momento della riunione d’equipe può costituire una importante risorsa di sostegno e di confronto anche a livello emotivo.
Un vero gruppo di lavoro si costituisce attraverso la partecipazione attiva di ogni singolo operatore, che contribuisce a costruire un momento di arricchimento reciproco e di scambio.
Le resistenze psicologiche a questo lavoro, che devono essere affrontate e superate dal gruppo stesso nel suo insieme, sono spesso relative ad un esibizionismo culturale e professionale, ad un atteggiamento di rigido attaccamento alle proprie convinzioni, alla propensione a critiche sterili e fini a se stesse, svincolate dai problemi concreti e dalle loro possibili soluzioni.
All’interno di una equipe si possono inoltre agire comportamenti la cui natura è chiaramente difensiva dall’ansia e dalla depressione generate dal contatto quotidiano con la morte ed il morire.
Si potranno avere così comportamenti di negazione del dolore, che possono portare a vivere la morte e la sofferenza come una routine quotidiana; atteggiamenti scontrosi, freddi, frettolosi nei confronti del paziente possono avere lo scopo di tenerlo emotivamente lontano da sé, allo scopo di non affrontare il proprio senso di impotenza di fronte alla morte; l’incapacità di affrontare il rapporto con il morente può portare l’operatore domiciliare ad evitarlo il più possibile, in un atteggiamento di fuga che può arrivare alla delega dell’assistenza del malato ad altri oppure egli può reagire all’angoscia con un atteggiamento tecnicistico, che lo preserva dalla relazione con il malato. Il bisogno del paziente può essere preso in considerazione solo se rientra fra i sintomi codificati e può quindi ricevere solo una risposta “scientifica”; in questo modo si risponde e si tratta esclusivamente ciò che è razionalmente spiegabile. Al contrario, un avvicinamento eccessivo al paziente può portare ad attribuirgli esigenze e sentimenti che in realtà originano dall’operatore, portando così ad azioni che rispondono ai suoi bisogni e non a quelli del malato stesso, oppure può condurre il curante a caricarsi di emozioni che non gli appartengono e quindi a divenire meno efficiente nell’assistenza poiché è portato a vivere l’ansia e la depressione del paziente e della sua famiglia come proprie.
Queste resistenze e questi meccanismi di difesa, agiti individualmente, insieme alle dinamiche che si instaurano all’interno dell’equipe, trovano nel momento della riunione settimanale una particolare cassa di risonanza e vengono amplificate.
Come si è già evidenziato, la presenza dello psicologo all’interno dell’equipe può assumere modalità diverse: componente dell’equipe, cui si è delegato il soddisfacimento delle problematiche psicologiche del paziente, ma anche tecnico specializzato nella conduzione gruppale, in grado di leggere ed interpretare le dinamiche del gruppo di lavoro nel suo insieme.
In ogni caso, il compito dello psicologo sarà quello di riconoscere e mostrare all’equipe le resistenze ed i meccanismi di difesa che sottostanno a comportamenti che in equipe possono essere agiti sotto forma di discussioni accese, critiche feroci, contrapposizioni rigide, atteggiamenti svalutativi, tensioni sotterranee.
Solo nel momento in cui, attraverso il lavoro dello psicologo, l’equipe riesce a riconoscere la natura di queste sue reazioni ed emozioni potrà elaborarne il contenuto ed evitare di agirle sia in equipe che nei confronti del paziente.
Lo psicologo dovrà quindi collocarsi in una posizione “di confine” nell’equipe, dentro e nello stesso tempo fuori dall’equipe, come elemento conoscitivo delle dinamiche del gruppo stesso; al suo interno per poterle vivere, fuori per poterle razionalizzare ed esprimere.
In altri termini, un gruppo di lavoro può rappresentare un momento psicologico molto importante perché, se adeguatamente condotto, contiene in sé la potenzialità di divenire uno spazio mentale condiviso, in cui il risultato finale è maggiore della somma delle singole parti.
Questa modalità di lavoro permette inoltre agli operatori di dare e restituire senso al proprio lavoro, evitando nel contempo di sentirsi soli nel rapporto con il paziente.
Alla luce di tutto ciò, appare comprensibile come un buon lavoro ed un buon clima di equipe – insieme ad uno stabile equilibrio individuale (fra dare e ricevere; tra lavoro e vita privata; tra professione ed interessi personali) – rappresenti il principale mezzo di prevenzione, per l’operatore, della sindrome del burn out.
Fonte: http://www.centrogenoveseterapiafamiliare.it/wp-content/uploads/2014/01/G-capitolo-5.doc
Sito web da visitare: http://www.centrogenoveseterapiafamiliare.it
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