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L’apparato locomotore è un insieme funzionale costituito da ossa collegate tra loro per mezzo di articolazioni e messo in movimento per l’azione dei muscoli.
1) Cenni di anatomia dell’apparato locomotore.
Da un punto di vista anatomico occorre tener presente che lo scheletro è costituito da:
Da un punto di vista morfologico le ossa si distinguono in ossa piatte (scapola, calotta cranica) in cui predominano la lunghezza e larghezza sullo spessore, ossa corte (ossa del tarso e del carpo) ove le tre dimensioni si equivalgono, ossa lunghe ove predomina nettamente la lunghezza.
Morfologicamente un osso lungo è costituito da una zona centrale detta diafisi, cilindro di tessuto osseo duro e compatto la cui cavità centrale è riempita di midollo (importante per la formazione delle cellule del sangue), dalle epifisi poste alle due estremità della diafisi, sono rigonfiamenti ossei rivestiti da cartilagine; tra diafisi ed epifisi v’è una zona chiamata metafisi, importante per l’accrescimento in lunghezza delle ossa lunghe.
Due (o più) ossa sono unite tra loro a costituire un’articolazione, che è l’organo mediante il quale avviene il movimento e la vita di relazione.
Le articolazioni a seconda della conformazione anatomica e della forma si possono distinguere in sinartrosi ( non vi è movimento come nelle ossa del cranio, sacro-iliache), anfiartrosi (il movimentoè limitato come tra i corpi vertebrali, sono articolazioni serrate), diartrosi (il movimento è ampio come a livello dell’anca, ginocchio, spalla, etc.; in queste articolazioni vanno considerate altre strutture: menischi, legamenti, capsula sinoviale, capsula articolare, borse sierose, cartilagine,
liquido sinoviale che possono interessare per eventi patologici particolari).
Quando si considera l’apparato locomotore non si può prescindere da formazioni che con esso hanno rapporti strettissimi sia da un punto di vista anatomico che funzionale e cioè i muscoli e i nervi.
I muscoli che hanno importanza per noi sono i muscoli rossi o striati la cui caratteristica è quella di contrarsi volontariamente: sono costituiti da una zona carnosa spessa propriamente contrattile detta corpo muscolare, da due zone allungate inestensibili dette tendini. Questi ultimi si inseriscono in modo opportuno a particolari zone ossee.
La contrazione muscolare è realizzata attraverso l’azione dei nervi motori che si collegano in particolari zone (placca motrice) alle fibre muscolari.
Il corretto sviluppo delle varie componenti anatomiche, il perfetto funzionamento delle varie formazioni anatomiche sono alla base di una normalità funzionale dell’apparato locomotore; una lesione congenita o una malattia acquisita possono turbare i delicati meccanismi che sono alla base del corretto funzionamento delle varie strutture anatomiche compromettendo il normale sviluppo, la normale crescita, il movimento e tutto ciò che deriva da tali alterazioni.
TERMINOLOGIA ANATOMICA
Alla base di una corretta comprensione della materia è opportuno conoscere la terminologia che viene utilizzata in Ortopedia e che molto spesso essendo intuitiva permette il riconoscimento degli eventi che riguardano la fisiologia e la patologia dell’apparato locomotore.
L’articolazione della spalla è in realtà un’articolazione composita costituita da due articolazioni:
articolazione acromio-claveare e articolazione scapolo-omerale.
Nella zona anteriore del torace ritroviamo l’articolazione sterno-claveare e le articolazioni sternocostali.
Il braccio costituito dall’omero che distalmente si articola con l’avambraccio mediante l’articolazione del gomito costituita a sua volta da due articolazioni: omero-ulnare e omero-radiale.
L’avambraccio distalmente si articola con la mano costituendo l’articolazione del polso costituita più propriamente dalla articolazione radio-carpica. Le ossa del carpo sono piccole ossa corte disposte su due filiere: la prossimale costituita da scafoide, semilunare, piramidale, pisiforme la distale trapezio, trapezoide, capitato, uncinato che articolandosi con le 5 ossa metacarpali permettono i vari movimenti della mano.
Le ossa metacarpali sono ossa lunghe che articolandosi con le ossa falangee permettono i movimenti delle dita della mano.
Il bacino o cingolo pelvico è costituito dalle ossa iliache (ove si distinguono ileo, ischio e pube) che posteriormente si articolano con l’osso sacro (parte terminale distale del rachide) , anteriormente si congiungono a livello del pube, e lateralmente si articolano a livello delle anche con gli arti inferiori.
L’anca o articolazione coxo-femorale è costituita da una cavità cotiloidea entro cui alloggia la testa del femore, si tratta di una articolazione con un ampio grado di movimento il cui perfetto funzionamento permette insieme con le altre articolazioni degli arti inferiori il mantenimento della stazione eretta e la traslazione del corpo umano nello spazio.
La coscia è costituita dal femore che prossimamente presenta una morfologia ed anatomia particolari. Si evidenzia una zona prossimale costituita dalla testa e dal collo del femore, una zona metafisaria trocanterica, una zona diafisaria centrale. Distalmente il femore presenta due zone globose, i condili che scivolano, rotolano e ruotano sul piatto tibiale, parte prossimale della tibia formando così l’articolazione del ginocchio. La rotula è un piccolo osso corto che posto nella regione anteriore del ginocchio (di cui fa parte) contribuisce a dare una maggiore potenza al movimento di flesso-estensione. In realtà esso è considerato un osso sesamoide ed è inserito nella
parte tendinea del muscolo quadricipite.
A livello dell’articolazione del ginocchio dobbiamo tenere presenti le seguenti strutture anatomiche che hanno importanza per determinate patologie degenerative e traumatiche. Vanno così ricordati i menischi interno ed esterno a forma di semiluna, costituiti da fibrocartilagine e il cui ruolo è quello di ammortizzare le sollecitazioni tra i capi ossei armonizzandone i movimenti; i legamenti crociati anteriore e posteriore che impediscono, insieme con la capsula e le altre formazioni, lo spostamento anteriore e posteriore della gamba sul femore; i legamenti collaterali interno ed esterno; la capsula articolare; la capsula sinoviale; la cartilagine articolare la cui integrità è indispensabile per un perfetto movimento articolare.
La gamba è costituita dalla tibia e dal perone (o fibula); distalmente la gamba si articola con le ossa del tarso formando l’articolazione del collo piede (o caviglia).
Il piede è costituito da una parte posteriore o tarso (astragalo, calcagno, scafoide, cuboide, 1,2,3 cuneiforme), da una parte mediana (ossa metatarsali), una parte anteriore (ossa falangee). Le ossa del piede si articolano tra loro e pertanto è utile ricordare che si distingue una articolazione mediotarsica di Chopart (tra calcagno e astragalo da una parte e altre ossa dall’altra) ed un’articolazione di Lisfranc (tra cuboide e i tre cuneiformi da una parte e dalle 5 ossa metatarsali dall’altra).
Capsule articolari, tendini e muscoli contribuiscono a dare stabilità alle varie articolazioni.
A livello del ginocchio ad es. sono considerati elementi di stabilità passiva oltre ai capi ossei, la capsula articolare e i legamenti, elementi di stabilità attiva sono considerati i muscoli.
Il sinergismo funzionale tra muscoli agonisti e antagonisti è alla base sia della stabilità di una articolazione sia del movimento di essa.
Si distinguono pertanto a secondo del movimento che comportano muscoli flessori, estensori, abduttori (allontanano l’arto dal tronco), adduttori (avvicinano l’arto al tronco), rotatori esterni, rotatori interni.
Alcuni movimenti sono però complessi ed entrano in gioco diversi tipi di muscoli, così ad es. avviene nel movimento di circumduzione della spalla che implica i mm. Rotatori Abduttori e Adduttori.
Gli arti superiori prendono la loro innervazione, sia motoria sia sensitiva, dal plesso brachiale, questo è costituito dalla unione o anastomosi degli ultimi 4 nervi cervicali rachidei. Le branche terminali del plesso brachiale sono: n. circonflesso (che innerva la regione della spalla), n. muscolocutaneo (mm. anteriori del braccio ad azione flessoria del gomito), n. radiale, n. mediano, n. ulnare.
Gli arti inferiori prendono la loro innervazione dalle branche del plesso lombare e del plesso sacrale formati da radici nervose provenienti dalle vertebre lombari.
Vanno ricordati il nervo femorale o crurale (il più importante del plesso lombare) che innerva il m. quadricipite, il nervo grande sciatico che si suddivide infine nel n. sciatico popliteo esterno e n. sciatico popliteo interno.
Una paresi o paralisi del n. sciatico popliteo esterno o S.P.E. è relativamente frequente in numerose patologie: ernia del disco, conseguenze di interventi di protesi dell’anca, traumi e fratture di gamba etc. La sintomatologia è caratterizzata da ipoestesia in corrispondenza della superficie antero-esterna della gamba e sul dorso del piede, ma soprattutto da deficit della flessione dorsale del piede e marcatamente dell’alluce.
FISIOLOGIA OSSEA E ARTICOLARE
Il tessuto osseo possiede un ricambio metabolico molto accentuato e pertanto subisce un continuo rimaneggiamento nel corso della vita dell’individuo.
Alla base di questo rimaneggiamento vi è l’influenza di diversi fattori: ormonali, alimentari (ad es. vitamine, sali minerali etc.), ambientali, ereditari, meccanici etc.
L’assetto definitivo dello scheletro viene realizzato intorno ai 20 anni epoca in cui tutti i nuclei di accrescimento sono scomparsi e l’altezza dell’individuo è quella definitiva. La fusione del doppio contorno dell’ala iliaca esplorabile radiograficamente (test di Risser) indica che l’accrescimento corporeo (età ossea) è terminato.
Diversi sono gli indici bioumorali che ci possono fornire indicazioni sullo stato dell’apparato scheletrico: calcemia (adulto: 95-105 mg/lt, 95-115 mg/lt nel bambino), fosforemia (adulto: 28-45 mg/lt, 45-55 mg/lt nel bambino), idrossiprolinemia (e idrossiprolinuria: 20-30 mg/24 h), fosfatasiemia alcalina (20-30 UI/100 ml), fosfatasiemia acida (< 5 UI/100 ml), etc.
L’equilibrio calcico nell’organismo è mantenuto da delicati equilibri ove giocano ruoli
fondamentali la quantità di calcio ingerito, l’eliminazione di calcio con le urine e gli intestini, la quantità di calcio liberata e captata dall’osso, tutte funzioni sottoposte a controllo ormonale, fattori vitaminici etc. L’attività fisica riveste un ruolo fondamentale nel mantenimento della compattezza ossea.
L’osso è costituito strutturalmente da una matrice organica proteica (l’idrossiprolina è il costituente fondamentale) su cui si struttura secondo una configurazione trabecolare cristallizzata la parte propriamente calcica dell’osso formata da sali minerali (l’idrossiapatite è il componente fondamentale).
La formazione del tessuto osseo avviene inizialmente dalla costituzione di un tessuto cos. osteoide (è formato da particolari cellule dette osteoblasti) che si trasforma in tessuto osseo definitivo per precipitazione di sali di calcio. Ma nel tessuto osseo vi sono altre cellule differenziate dette osteoclasti deputate al riassorbimento dell’osso. L’osso normale è in un perenne equilibrio tra fenomeni di riassorbimento e di neoformazione ossea. In tal modo è possibile la guarigione delle fratture (consolidazione o calcificazione ossea).
In alcuni particolari periodi della vita (ad es. donne in menopausa, prolungata immobilità, senilità, particolari malattie etc.) prevalgono fenomeni di riassorbimento, si parla pertanto di osteoporosi (da menopausa per riduzione del tasso di ormoni estrogeni, senile etc.).
Il tessuto osseo può essere di tipo compatto (lamellare come ad es. la diafisi di un osso lungo) o di tipo spongioso (come ad es. di un corpo vertebrale).
L’accrescimento dell’osso avviene a livello della cartilagine di coniugazione, zona situata tra la metafisi e l’epifisi di un osso lungo, a livello dei nuclei di ossificazione nelle ossa corte. Le cellule osteoblastiche assumono un rilievo notevole in questi processi.
La cartilagine articolare è un tessuto bianco latte, brillante e liscio che riveste le estremità ossee facenti parte delle articolazioni. Particolare importanza assume nelle articolazioni ad ampio movimento (diartrosi) e permette il buon funzionamento di esse. I condrociti sono cellule particolari deputate alla formazione del tessuto cartilagineo (formato da tessuto collagene fibroso e da tessuto fondamentale in cui i mucopolisaccaridi assumono un importanza notevole). La cartilagine non è
vascolarizzata e trae nutrimento dal liquido sinoviale, pertanto essa non si rinnova nell’età adulta né a seguito di eventi traumatici.
Moderni studi di bioingegneria articolare hanno permesso oggi di poter attuare tecniche di rigenerazione di tessuto cartilagineo in laboratorio che può essere inserito in zone ove la perdita o la distruzione cartilaginea articolare compromette il movimento (interventi di autotrapianto cartilagineo nelle artrosi e nei difetti cartilaginei limitati).
L’invecchiamento della cartilagine (sfibrillamento, disidratazione, usura etc.) è alla base dei fenomeni degenerativi articolari (artrosi).
La membrana sinoviale riveste l’interno di una articolazione, si tratta di una membrana sottile e delicata deputata alla formazione di liquido sinoviale, giallo citrino, vischioso non coagulabile deputato al nutrimento della cartilagine e dei condrociti. L’acido ialuronico, liquido vischioso, è un costituente fondamentale del liquido sinoviale; l’albumina costituisce il 75 % delle proteine presenti.
I neuroni sono le cellule nervose costituite da un corpo cellulare, da più dendriti e da un assone; i dendriti sono ramificazioni che conducono le informazioni verso il corpo cellulare, l’assone viceversa conduce le informazioni dal corpo cellulare verso la periferia. Ogni cellula nervosa permette la contrazione di un certo numero di fibre muscolari che appartengono ad essa (questo insieme si definisce unità motrice). La placca motrice è una zona di intimo contatto tra estremità dell’assone e fibra muscolare. Il meccanismo della stimolazione motoria muscolare è simile a quanto avviene in un circuito elettrico mediato però da fattori chimici: all’interno della placca si libera l’acetilcolina sostanza che produce per modificazioni elettriche la contrazione delle fibre nervose. L’acetilcolinesterasi è un enzima che distrugge l’acetilcolina ed in tal modo permette una nuova contrazione. In condizioni normali una fibra muscolare si trova o in uno stato di eccitazione massima o in uno stato di rilasciamento completo (legge del tutto o nulla).
E’ dall’equilibrio di questi fenomeni che lo svolgimento del movimento avviene normalmente.
Il movimento di flesso-estensione di un arto avviene intorno ad un asse trasversale (ad es. la flessione dell’avambraccio sul braccio a livello del gomito).
Il movimento di abduzione e adduzione avviene attorno ad un asse verticale passante per l’articolazione (ad es. il movimento di allontanamento e avvicinamento al tronco dell’arto superiore).
Il movimento di rotazione avviene attorno ad un asse passante per la diafisi di un osso lungo (ad es. rotazione esterna e interna dell’arto inferiore).
Il movimento di supinazione avviene a livello del gomito e del polso: l’avambraccio e la mano ruotano in modo da presentare il palmo in avanti. A livello del piede la supinazione comporta una rotazione del piede in modo da appoggiare il lato esterno al suolo.
Il movimento di pronazione è caratterizzato da una rotazione contraria: a livello dell’avambraccio e della mano sarà il dorso della mano e del polso a guardare in avanti, a livello del piede questo appoggerà al suolo sul suo lato interno.
METODICHE DI ESPLORAZIONE DELL’APPARATO LOCOMOTORE
L’anamnesi cioè la raccolta delle informazioni sullo stato di salute, sulle eventuali patologie e sulla modalità di insorgenza dei disturbi, rappresenta il momento fondamentale per una diagnosi.
Alcune diagnosi relativamente all’apparato locomotore possono essere fatte soltanto ascoltando l’ammalato.
L’esame clinico rappresenta un altro momento fondamentale della visita dell’ammalato, se ben eseguito può far guidare una diagnosi corretta nella maggioranza dei casi.
Purtuttavia vi sono alcuni accertamenti e tecniche di esplorazione che modernamente rivestono un particolare significato soprattutto per una diagnosi precoce di molte malattie.
L’esame radiologico semplice (in antero-posteriore e latero-laterale) rappresenta il primo passo; esami radiologici semplici possono essere eseguiti in proiezioni particolari: proiezione di tre quarti, di profilo, assiale, grafie dinamiche etc.).
La tomografia (o stratigrafia) è un esame radiografico che avviene stratificando la regione interessata che viene riprodotta per strati sui singoli cliché.
L’artrografia è un esame radiografico di una articolazione dopo che in essa si è introdotto del liquido radiopaco.
La sacculoradicolografia o mielografia è la radiografia del rachide dopo iniezione all’interno del canale rachideo una sostanza radiopaca riassorbibile spontaneamente.
La discografia è la radiografia del rachide dopo iniezione di liquido radiopaco nel disco intervertebrale.
L’amplificatore di brillanza utilizza dosaggi molto bassi di radiazioni: la metodica consiste nel formulare in una immagine radioscopica su monitor la zona ripresa dall’apparecchio. Le immagini possono essere memorizzate e stampate.
La scintigrafia ossea (total body) è lo studio della captazione ossea di un isotopo radioattivo (in genere tecnezio). Le zone a maggiore rimaneggiamento (per infiammazione, neoplasia, consolidazione) sono cos. calde cioè a maggiore captazione del radioisotopo e quindi più evidenti su una lastra raffigurante lo scheletro umano.
La tomografia ossea computerizzata o TAC utilizza dosaggi elevati di radiazioni che elaborate dal computer riescono a rappresentare su lastra intere zone corporee stratificate per piani in proiezioni frontali, sagittali o coronali. TAC di ultime generazioni possono rappresentare dopo elaborazione da computer in immagini tridimensionali regioni corporee (Cos. TAC spirale o tridimensionale).
La Risonanza Nucleare Magnetica o RNM non utilizza radiazioni x ma onde magnetiche, è pertanto un’indagine poco invasiva ed è particolarmente importante per lo studio dei rapporti tra strutture dei tessuti molli come ad es. vasi e nervi. Essa è particolarmente necessaria ad es. nella programmazione di un intervento di asportazione di una neoplasia ossea per definire i margini di resezione.
L’ecografia assume particolare importanza nello studio di alcune patologie dell’apparato locomotore: ad es. cisti, neoformazioni dei tessuti molli, stato dei tendini e dei muscoli etc.
L’artroscopia diagnostica è lo studio diretto visivo di un’articolazione.
La biopsia è un intervento di asportazione di una piccola o grande parte di tessuto di una lesione, che sottoposto ad esame microscopico istologico opportuno ci potrà permettere di ottenere esatte diagnosi del tipo di lesione. La biopsia può essere eseguita in anestesia generale o distrettuale attraverso incisione (cielo aperto), ma può essere anche eseguita con opportuni aghi da biopsia (senza ferita chirurgica: a cielo chiuso) in anestesia locale e sotto controllo ampliscopico o TAC.
Artrocentesi è l’evacuazione di liquido da un’articolazione: essa viene eseguita con ago o previa piccola incisione. Il liquido aspirato può essere sottoposto ad esame chimico-fisio, batteriologico, microscopico, prove biologiche etc.
RUOLO DELL’INFERMIERE IN ORTOPEDIA
L’infermiere deve conoscere sia la morfologia sia la funzione dell’apparato locomotore almeno nelle sue linee essenziali.
Deve conoscere la terminologia al fine di poter comprendere nella esecuzione degli accertamenti cosa deve fare ad es. per la realizzazione di atteggiamenti posturali particolari.
Deve conoscere le modalità di esecuzione di esami bioptici e deve coadiuvare nelle sedi opportune con l’operato del medico.
La comprensione delle diverse metodologie di esplorazione dell’apparato locomotore è
fondamentale al fine anche di tranquillizzare il paziente e guidarlo nella esecuzione di esse.
Comprendere la tecnica di esecuzione degli accertamenti permette di dare conforto psicologico al malato e rassicurarlo. Di eseguire opportuni accertamenti di laboratorio propedeutici (azotemia, glicemia, emocromo etc.). Compito dell’infermiere è anche di controllare il malato e l’evoluzione di una condizione patologica e riferirla al medico; sorvegliare le funzioni vitali, intervenire prontamente in caso di necessità per rilevare alcune condizioni (polso, pressione arteriosa, respiro etc.).
E’ compito dell’infermiere di preparare il campo operatorio: pulizia minuziosa della pelle, rasura adeguata, disinfezione della cute; riferire al chirurgo eventuali anomalie riscontrate o notizie per caso rilevate da colloqui, controllare che il paziente sia digiuno prima di un intervento, applicare il catetere vescicale, controllare l’igiene ambientale e quella più vicina al malato ( abiti, letto e lenzuola).
E’ opportuno ricordare che molte complicanze possono essere evitate mediante un accurato nursing e un’attenta sorveglianza delle funzioni del malato.
APPUNTI DI ORTOPEDIA E TRUMATOLOGIA (parte seconda)
Generalità
L’Ortopedia e Traumatologia è una branca della chirurgia che studia, previene e cura le deformità anatomiche e funzionali, sia congenite sia acquisite, che interessano l’apparato locomotore.
Compito di questa chirurgia è non solo ricostruire l’anatomia e la morfologia ma anche di ridare la funzionalità con metodi compensativi e sostitutivi quando non è possibile ottenere una riparazione anatomica.
Già i medici dell’antichità Ippocrate, Celso e Galeno si interessarono della cura delle lussazioni, delle fratture e delle deformità scheletriche ovviamente con metodi non chirurgici.
La moderna chirurgia ortopedica viene ricondotta ad un medico francese Ambroise Paré che in epoca più recente (1500) iniziò ad effettuare interventi chirurgici. Si trattava però di una chirurgia che rientrava nella chirurgia generale.
Oggi la chirurgia ortopedica è una branca a sé, ben definita nei suoi presupposti e nei suoi sviluppied è certamente quella che più di tutte ha risentito degli sviluppi della moderna tecnologia.
Concetto di deformità
Per deformità si deve intendere qualsiasi alterazione morfologica e funzionale di un organo o apparato. Le deformità possono essere congenite se presenti alla nascita, acquisite se intervengono dopo la nascita (conseguenza di fratture, malattie).
Le deformità congenite sono dovute ad un alterato sviluppo fetale e possono riconoscere la loro patogenesi in un’alterazione cromosomica (ereditarie) o in patologie che si presentano nella vita fetale. Pertanto congenito non è sinonimo di ereditarietà.
Alcune deformità congenite sono dette ostetriche perché legate ad eventi traumatici legati al momento del parto (frattura di clavicola, paralisi del plesso brachiale etc.).
Da un punto di vista della terapia va ricordato che le deformità congenite, soprattutto quelle embrionarie, che si formano nelle prime fasi dello sviluppo intrauterino, sono le più temibili e difficili da trattare; molto spesso i risultati clinici non sono buoni e ci si deve accontentare soltanto di migliorare uno stato funzionale.
Va precisato inoltre che nelle deformità congenite in genere il trattamento deve iniziare precocemente e che il trattamento varia ovviamente a seconda delle fasi dello sviluppo dell’individuo. Ad es. un piede torto riconosciuto alla nascita impone un trattamento modellante immediato del piedino del neonato; nei primi anni di vita sono indicati trattamenti chirurgici sui tendini; in età più adulta (post-puberale) interventi sulle ossa.
Le deformità acquisite sono a volte il risultato di un mancato trattamento o di un trattamento non corretto di un trauma o di una malattia primitivi. Ad es. una frattura di femore potrà portare ad un arto più corto o deviato, una artrite di ginocchio potrà portare a un blocco in flessione dello stesso.
Anche in questi casi il trattamento della deformità dovrà seguire regole ben precise ed essere fondato sul concetto che se è vero che la morfologia è importante è pur vero che deve essere il ripristino della funzionalità l’obiettivo finale del chirurgo ortopedico.
Traumatologia
In questi ultimi decenni la traumatologia della strada è diventata una delle cause principali non solo di mortalità ma di lesioni dell’apparato locomotore. Misure di protezione e di sorveglianza continua in ambito lavorativo ha ridotto invece i casi di infortuni in ambiente di lavoro.
L’esperienza di un Pronto Soccorso generale è fondamentale per lo sviluppo professionale di un infermiere, ma quello traumatologico è sul piano emotivo e umano unico. Spesso si tratta di persone molto giovani che in pieno benessere vedono la propria esistenza mutare a volte per banali distrazioni.
In traumatologia va distinta l’emergenza (richiede un trattamento immediato), l’urgenza (il trattamento deve essere programmato nelle prime ore dall’incidente), urgenza differita (il trattamento può essere differito anche dopo le 24 h, ma non oltre le 48h). Le lesioni che minacciano la vita dell’infortunato sono quelle che richiedono un trattamento in emergenza e tra queste una lesione vascolare di un importante vaso arterioso ha la precedenza assoluta; ma un trattamento in emergenza lo richiede anche l’intervento di reimpianto di arto.
Molto spesso si tratta di politraumatizzati che non presentano soltanto una lesione dell’apparato locomotore ma anche di altri organi cranio, addome, torace etc.. L’ammalato può presentarsi presso il Pronto Soccorso in stato di shock con i parametri vitali completamente alterati, occorrerà fare immediatamente un bilancio delle lesioni e programmare la preminenza e successione dei trattamenti.
È molto importante il trasferimento del paziente dal mezzo di trasporto con il quale è giunto in ospedale (ambulanza o auto) alla barella dell’ospedale. In linea di massima un arto fratturato dovrà essere mantenuto in trazione manuale, si dovranno evitare movimenti irregolari di lateralità e rotatori, in caso di ferite aperte si dovrà procedere ad accurata pulizia con lavaggio e detersione di sostanze estranee e disinfezione opportuna.
In generale una lesione ossea (frattura) comporta una immediata impotenza funzionale, una lesione delle parti molli cioè dei legamenti, ad es. una distorsione del collo piede o del ginocchio, può comportare una sintomatologia in due tempi: il paziente dopo l’incidente continua la sua attività ma dopo qualche ora si renderà conto dell’importanza del trauma per il danno funzionale.
Per frattura deve intendere una lesione dell’osso, completa o incompleta che sia; l’infrazione è una frattura non completa; nei bambini in cui vi è uno spesso tessuto periostale si possono avere fratture cos. a legno verde, cioè non complete. La frattura può essere chiusa o esposta a seconda se vi sia lesione delle parti molli sovrastanti l’osso: anche una lesione semplice puntiforme fa considerare aperta o esposta una frattura. Una frattura d’arma da fuoco va considerata frattura aperta e pertanto potenzialmente infetta. La frattura può essere semplice a due frammenti o pluriframmentaria, con o senza spostamento dei frammenti: a volte in caso di frattura esposta si ha perdita di alcuni frammenti di osso.
Le fratture possono essere complicate ad altre lesioni che possono accompagnarla ed avere priorità di trattamento: lesioni vascolari, nervose, capsulo-legamentose.
Ovviamente il trattamento varierà a seconda del tipo di frattura. Una frattura può interessare l’articolazione e quindi presentarsi con un grave emartro e una notevole impotenza funzionale.
In generale queste fratture sono le più gravi da curare in quanto il presupposto del trattamento dovrà tener conto di ripristinare la funzionalità articolare perduta.
Una frattura guarisce per formazione di callo osseo che inglobando i frammenti ossei li ristruttura e li salda tra loro. Tale processo è permesso dal fatto che il tessuto osseo è molto attivo da un punto di vista metabolico; anche in questo processo entrano in gioco alcune cellule (osteoblasti e osteoclasti) specifiche del tessuto. Si tratta di un processo che avviene per fasi successive a partire dall’ematoma presente nel focolaio di frattura e che vede la formazione di un tessuto prima osteoide e quindi osseo per precipitazione di sali di calcio. La guarigione di una frattura avviene in tempi diversi a seconda dell’osso interessato, a parità di efficace trattamento adottato: ad es. una frattura di gamba impiegherà 4-5 mesi, lo stesso una frattura di femore, una frattura di clavicola 40gg-2mesi, una frattura di collo piede 2-3 mesi e così via. Ma nel processo di guarigione intervengono numerosi fattori.
In questi ultimi decenni si stanno adottando sempre più tecniche chirurgiche per la terapia delle fratture.
A favore di un trattamento chirurgico sono le seguenti considerazioni:
1) Riduzione anatomica della frattura
2) Stabilizzazione della frattura sicura (osteosintesi: sintesi dell’osso)
3) Il trattamento riabilitativo può iniziare precocemente
4) Guarigione più precoce (il trattamento riabilitativo può iniziare precocemente) e reinserimento sociale più rapido.
A favore di un trattamento incruento sono le seguenti considerazioni:
1) Assenza di rischio di infezione (una frattura chiusa rimane chiusa)
2) Assenza di rischio anestesiologico.
In realtà oggi prevale ovunque il trattamento chirurgico in considerazione anche del fatto che le tecniche anestesiologiche hanno raggiunto un livello tale da garantire una buona sicurezza, molte tecniche chirurgiche sono miniinvasive, a volte le complicanze di un trattamento non chirurgico (ad es. immobilizzazione in apparecchio gessato) non sono da sottovalutare.
Una frattura scomposta va ridotta e quindi immobilizzata per ottenerne la guarigione. La guarigione (consolidazione per formazione di callo osseo) sarà tanto più rapida quanto migliore è la riduzione dei frammenti. La riduzione di questi può essere ottenuta con manovre particolari, ponendo il paziente su appositi lettini ortopedici. Una riduzione di una lussazione o di una frattura è ottenuta agevolmente nelle prime ore dall’evento traumatico, perché a mano a mano che le ore passano si stabiliscono contratture muscolari e atteggiamenti tali da essere controllati sono con anestesia locale o generale.
Esistono manovre tipiche particolari per ottenere la riduzione di una lussazione o la riduzione di una frattura: è preferibile non cimentarsi in una riduzione se non si sa quali manovre effettuare in quanto il danno che si potrebbe arrecare può risultare maggiore della lesione stessa.
L’amplificatore di brillanza che consente una scopia continua della frattura è un ausilio fondamentale per la riduzione.
Una volta ottenuta la riduzione occorre immobilizzare i frammenti nella posizione di riduzione.
Questa è ottenuta mediante confezione di apparecchio gessato (modernamente si possono utilizzare bende o strutture in materiale sintetico simil-plastico che possono sostituire anche egregiamente le vecchie e tradizionali bende gessate). Una regola generale da tenere presente è che per ottenere una immobilizzazione efficace di una frattura occorre immobilizzare essa e l’articolazione a monte e a valle di essa.
Una cattiva riduzione di una frattura e/o una non efficace immobilizzazione possono prolungare notevolmente i tempi di guarigione (ritardo di consolidazione) ovvero non portare a guarigione: si parla allora di “pseudoartrosi” della frattura. In tali casi saranno richiesti interventi particolari e strategie opportune.
Una frattura guarita con callo vizioso, con alterazione dell’asse, con limitazione funzionale articolare può comportare un impegno sanitario a volte notevole. A volte esiti a distanza di fratture articolari delle grandi articolazioni possono richiedere ulteriori interventi chirurgici che prevedono l’impianto di protesi articolari (protesi di anca, ginocchio, spalla, collo piede, gomito).
Un tempo venivano effettuati frequentemente interventi di artrodesi (cioè si procedeva chirurgicamente al blocco dell’articolazione interessata) che permetteva per lo meno di stabilizzare in buona posizione l’arto interessato dalla lesione, realizzando una funzionalità discreta.
Modernamente le protesi articolari sono preferite alle artrodesi.
COMPITI DELL’INFERMIERE
Di fronte ad un paziente traumatizzato sarà opportuno rilevare lo stato generale, fare un primo bilancio delle lesioni, valutare le condizioni degli arti (se vi sono posizioni anomale), se il malato è cosciente sarà lui a guidare sulla zona interessata da trauma, altrimenti una accurata ispezione e palpazione dovranno farci capire dove concentrare l’attenzione.
In caso di lesione di un arto, sia superiore che inferiore, bisognerà ricercare i polsi periferici e, soprattutto in caso di incidente della strada, valutare le condizioni dei tegumenti: una temibile complicanza da tenere presente a seguito di un traumatismo è la gangrena gassosa che può verificarsi anche quando non è presente frattura ovvero anche quando l’entità del traumatismo non è notevole. Questa temibile complicanza è dovuta ad infezione da particolari germi anaerobi (clostridi) presenti nelle polveri delle strade, soprattutto di periferia: in ambiente anaerobico (e ciò può verificarsi in una ferita non detersa) le spore contaminanti si riproducono e liberano tossine capaci di condurre a morte il paziente in poche ore. Il gonfiore, l’edema, la presenza di macchie ecchimotiche sottocutanee, ma soprattutto il crepitio sottocutaneo dovuto a presenza di aria dovranno far sospettare che si è di fronte ad una infezione da germi della gangrena gassosa e far porre un trattamento in emergenza (che a volte è rappresentato dalla amputazione o disarticolazione di un intero arto).
L’infermiere dovrà conoscere come trasferire il paziente fratturato da una barella ad un'altra o da essa ad un tavolo di lavoro (lettino di radiologia, ortopedico etc.); in caso di sospetta lesione del rachide è opportuno sapere che i movimenti di flessione sia del tronco, sia del collo sono controindicati perché possono causare complicanze neurologiche (fino a vere paralisi degli arti inferiori o superiori).
L’applicazione di flebo con soluzioni opportune avrà lo scopo di mantenere adeguatamente il tono dell’apparato cardiocircolatorio e combattere un eventuale stato di shock concomitante.
Va ricordato che sempre in caso di incidente della strada o del lavoro il rilievo dell’infortunio va segnalato all’autorità giudiziaria per le eventuali responsabilità civili e/o penali corrispondenti.
Il compito dell’infermiere è anche quello di aiutare il medico in alcune prestazioni urgenti:
Solo la pratica diretta può insegnare ad essere competenti e bravi in tali attività. Vi sono infermieri che svolgendo il loro compito in sala gessi o nei pronto soccorso ortopedici per anni assurgono a preparazioni professionali davvero eccelse.
TRAUMATOLOGIA SPECIALE
La distorsione o trauma distorsivo interessa le parti molli di una articolazione: tendini, capsula, muscoli. Questi possono essere stirati (distorsione di 1° grado), sfibrillati (distorsione di 2° grado), rotti (distorsione di 3° grado). Nella distorsione non si ha perdita di contatto tra i capi articolari, in tal caso si parla di lussazione. Ovviamente trattandosi di un’articolazione il sangue arterioso o venoso che fuoriesce dalla lesione dei vasi si raccoglierà nel sottocute o nella cavità articolare dando luogo ad emartri più o meno cospicui.
Il ginocchio essendo costituito da una grossa cavità articolare può presentare a seguito di evento distorsivo cospicui emartri, e poiché essi sono dannosi per i tessuti articolari e per la funzione vanno svuotati. Lo svuotamento di un emartro viene effettuato con aghi opportuni e mediante aspirazione con siringa. Per il ginocchio il ballottamento della rotula più o meno notevole indica la presenza di un versamento intraarticolare che dovrà essere svuotato. La presenza di sangue fa parlare di emartro (versamento intraarticolare ematico: colore rosso scuro); a distanza di tempo parte del sangue viene riassorbito e si rileverà un idrartro (liquido sinoviale e siero: colore giallo citrino). Il rilievo di goccioline di grasso nel liquido prelevato testimonierà che vi è anche una frattura a carico di un componente articolare.
In caso di emartro è opportuno procedere ad una efficace immobilizzazione del ginocchio anche con apparecchio gessato (a ginocchiera o femoro-pedidio) in modo da mettere a riposo l’arto. Una semplice ma opportuna fasciatura (strapping) può mettere a riposo anche efficacemente l’articolazione del ginocchio o del collo piede in caso di trauma distorsivo di lieve entità.
In tutti gli eventi traumatici distorsivi, anche in quelli gravi che poi richiederanno il trattamento chirurgico, per limitare il danno è utile ricordarsi di:
1) porre l’arto in posizione acclive o elevata su apposito supporto,
2) utilizzare il ghiaccio per limitare il versamento ematico,
3) procedere a fasciatura relativamente compressiva,
4) far riposare l’arto interessato.
Queste operazioni si possono ricordare con la sigla: GRECO (Ghiaccio-Riposo-Elevazione-Compressione).
Il ginocchio e il collo del piede sono le articolazioni che più frequentemente in assoluto vanno incontro a traumatismi distorsivi: la pratica dello sport sia a livello dilettantistico sia agonistico è la causa più frequente di tali lesioni.
A carico del ginocchio la lesione del menisco interno (o mediale) è quella che più frequentemente si rileva; il menisco si può disinserire dalla capsula a livello del corno posteriore o perifericamente o rompersi nel contesto fibrocartilagineo. Il meccanismo traumatico più frequentemente rilevato è legato ad un movimento complesso di rotazione esterna del corpo mentre la gamba e il piede sono bloccati al suolo. Ciò può avvenire ad es. nel corso di una partita di pallone a seguito di un contrasto tra due giocatori, ma anche a seguito di sbilanciamento nella esecuzione di un tiro.
A volte le lesioni sono complesse in quanto interessano oltre al menisco anche un legamento crociato (nella maggioranza dei casi il Legamento Crociato Anteriore o LCA) e parte della capsula articolare (triade di O’Donoghue).
A seguito di un evento distorsivo sarà opportuno programmare l’esame radiografico nelle due proiezioni normali: esso è utile pere escludere eventuali patologie ossee. Nei primi giorni dall’evento traumatico, tranne in alcuni casi di particolare gravità, non vi è indicazione alla esecuzione di una TAC (tomografia Assiale Computerizzata) del ginocchio, in quanto la presenza di sangue e lo scompaginamento tessutale locale possono dare un quadro catastrofico non corrispondente alla realtà. Inoltre, tranne in casi particolarmente gravi o con lussazione dell’articolazione, si tende oggi, contrariamente al passato, a non intervenire chirurgicamente precocemente, ma a distanza di tempo (anche più mesi), perché molte lesioni guariscono e l’intervento chirurgico è più limitato o non più necessario.
Le tecniche di riparazione o ricostruzione capsulo-legamentosa a seguito di lesione legamentosa del ginocchio sono molto progredite; l’artroscopia chirurgica è una tecnica miniinvasiva che permette di effettuare una riparazione delle lesioni con un recupero funzionale più rapido rispetto alle tecniche convenzionali; va però rilevato che anche per queste l’affinamento delle tecniche è molto progredito in questi ultimi anni.
Il collo piede è l’altra articolazione che in assoluto è interessata da eventi distorsivi. Va ricordato che il trattamento trascurato non chirurgico di una distorsione del collo piede può predisporre a distorsioni recidivanti che poi richiederanno un trattamento chirurgico di stabilizzazione. Anche per questi traumatismi distorsivi (il compartimento caspulo-legamnentoso esterno è più interessato di quello interno) il trattamento terapeutico iniziale deve essere impostato seguendo lo schema GRECO.
Per quanto riguarda la spalla, va ricordato il principio che, trattandosi di un’articolazione con ampia libertà di movimento ma con poca contenzione tra capi ossei, un evento traumatico può determinare una lussazione con perdita dei rapporti articolari tra testa omerale e cavità glenoidea scapolare. In assoluto la lussazione anteriore nella varietà sottoacromiale è la più frequente.
Nelle primissime ore di una lussazione con opportune manovre si riesce sempre a ridurre la lussazione anche senza anestesia (esiste il cos. stupore dei tessuti che si presentano rilasciati), ma dopo alcune ore la contrattura muscolare e il dolore impediranno la riduzione della lussazione senza anestesia e rilassamento muscolare del paziente.
Una lussazione di spalla si può verificare come episodio unico nella vita di un malato a seguito di un evento traumatico consistente (ad es. caduta dall’alto, tuffo etc.); spesso, soprattutto se il trattamento non è adeguato, permane una lesione capsulare, che potrà esporre al recidivare della lussazione, soprattutto a seguito di particolari movimenti.
Una lussazione di spalla che recidiva qualche volta in un arco lungo di tempo occasionalmente viene definita recidivante (due-tre volte in 1-2 anni). Una lussazione di spalla che recidiva frequentemente, soprattutto nella esecuzione di particolari gesti del paziente, viene definita abituale e richiede un trattamento chirurgico di stabilizzazione (capsulo-plastica).
La trazione transcheletrica rappresenta un momento importante nella pratica ortopedicatraumatologica.
Essa è utile non solo per ottenere la riduzione di una frattura o una lussazione, ma anche per mantenere il discarico l’articolazione o allineare i frammenti di una frattura scomposta.
Le forze muscolari sono la causa fondamentale degli spostamenti di una frattura o una lussazione, l’applicazione di una trazione lungo l’asse dell’arto rappresenta una forza che si oppone a tali spostamenti. Una trazione transcheletrica permette di esercitare una trazione con opportuni pesi ed essa può essere impiegata come momento iniziale in una riduzione immediata seguita da immobilizzazione in apparecchio gessato, ovvero come tempo preparatorio in attesa dell’intervento chirurgico.
Il telaio di Zuppinger è un supporto particolare in cui viene adagiato l’arto inferiore quando si vuole applicare una trazione.
Tecnicamente la trazione viene viene applicata non in anestesia (in alcuni casi si può ricorrere ad un’anestesia locale) a livello delle regioni epifisarie-metafisarie. Si introduce con una adatta pistola spara-fili un cos. filo metallico di Kierschner attraverso la regione epifisaria. Esso viene poi fissato ad una staffa metallica la quale è agganciata con un filo che termina con un gancio cui vengono sospesi dei pesi opportuni. La infissione del filo metallico di K. Deve essere effettuata con arte e in modo da non ledere vasi e nervi decorrenti nelle zone vicine.
La trazione-sospensione di un arto su telaio di Zuppinger è abbastanza ben tollerato. Occorrerà controllare giornalmente la trazione, il paziente sarà invitato ad effettuare piccoli movimenti delle dita, si procederà ad una sorveglianza continua dei polsi arteriosi periferici.
La trazione transcheletrica (o trans-ossea) è necessaria soprattutto quando si voglia realizzare una efficace efficace riduzione ed un allineamento dell’asse; essa può precedere un intervento chirurgico o la esecuzione di un apparecchio gessato. A seconda della regione immobilizzata con apparecchio gessato si utilizzerà la terminologia sottodescritta.
1) Arto inferiore:
2) Arto superiore:
Ovviamente ogni ingessatura segue le sue regole e la immobilizzazione dovrà essere effettuata in posizione opportuna dell’arto, in modo da consentire oltre la guarigione della lesione per cui essa è richiesta, ma anche un recupero fisioterapico rapido. Va però notato che a volte i tempi di recupero funzionale (tono e trofismo muscolari, articolarità) sono più lunghi della guarigione stessa della lesione e pertanto modernamente vengono realizzate ingessature particolari cos. “funzionali” ovvero alla ingessatura sono preferiti interventi chirurgici che permettono di evitare i lunghi periodi di immobilizzazione.
FRATTURE PATOLOGICHE
Sono fratture particolari dovute non ad eventi traumatici veri e propri (ovvero a traumi di poco conto che in soggetti normali non producono danni), ma si possono presentare in modo spontaneo o a seguito di un movimento normale.
Riconoscono alla base una patologia preesistente ossea. Tralasciando alcune patologie ereditarie (ad es. malattia delle ossa di vetro o osteogenesi imperfetta) le cause in assoluto più frequenti di fratture patologiche sono le metastasi e le neoplasie ossee, l’osteopatia osteoporotica (o osteoporosi).
1) Le metastasi ossee sono la riproduzione in un segmento osseo a distanza dalla sede primitiva della neoplasia. Un tumore primitivo osseo (o una cisti ossea) può nel suo decorso alterare la resistenza della sede di insorgenza ossea e determinare una fratture. La relativa scarsa incidenza dei tumori primitivi dello scheletro (che interessano soprattutto l’età giovanile: osteosarcoma, osteoma osteoblastico, sarcoma di Ewing etc.) fa ricadere sulle metastasi ossee la causa maggiore di fratture patologiche. Tutti i segmenti scheletrici possono essere interessati, ma lo sono prevalentemente: i corpi vertebrali, il bacino, il femore e l’anca, l’omero e la testa omerale. Tra i tumori primitivi che più frequentemente danno metastasi vanno ricordati: tumore del polmo, della mammella, del rene, della prostata, della tiroide. Molto spesso si tratta di più localizzazioni che possono essere studiate e scoperte con esame scintigrafico o con TAC total body (cranio, rachide, torace, bacino).
Non sempre gli indici ematologici sono indicativi (fosfatasi, ipercalcemia etc). Ma il sintomo dolore, che si presenta cupo, penetrante, resistente in parte o in toto agli analgesici può richiamare l’attenzione e far proseguire nelle indagini.
2) L’osteopatia osteoporotica post-menopausale è una entità clinica oggi ben definita che a volte sconfina nella osteoporosi di tipo senile. Il depauperamento dei depositi di calcio a livello dello scheletro che inizia con la menopausa (riduzione del tasso di ormoni estrogeni) e con la riduzione dell’attività fisica che si verifica in età anziana contribuisce a realizzare in alcune sedi ossee dei punti di particolare fragilità. Le sedi in assoluto più interessate sono: il collo del femore, il polso, la testa e il collo dell’omero, i corpi vertebrali. Una banale caduta o un evento traumatico non molto importante possono determinare la frattura nelle sedi elencate. Il costo sociale del trattamento di queste patologie (oltre alle conseguenze invalidanti che esse producono) è rilevante e pertanto da diversi anni da parte degli ortopedici si sta intraprendendo una prevenzione farmacologia sistemica della osteoporosi post-menopausale e senile.
Il trattamento delle fratture patologiche non differisce da quello delle corrispondenti fratture normali se non per alcuni aspetti legati alla malattia di base. Il trattamento delle fratture metastatiche dovrà tener conto del periodo di sopravvivenza che si prospetta per l’ammalato e a volte ci si dovrà accontentare di obiettivi soltanto palliativi: ad es. lenire il dolore, migliorare il nursing etc. Il trattamento di queste fratture patologiche tumorali non può prescindere da una collaborazione multidisciplinare che impegna oltre che il chirurgo ortopedico anche l’oncologo e il radioterapista.
FRATTURE DEL COLLO DEL FEMORE
Sono in assoluto la patologia più frequente e più impegnativa di un reparto di Ortopedia e Traumatologia. Sono più frequenti nelle donne (rapporto 2:1) e rappresentano la complicanza più grave dell’osteopatia osteoporotica post-menopausale e senile. Il sesso più colpito è quello femminile perché la drastica riduzione del tasso di ormoni estrogeni che si verifica dopo la menopausa nella donna indebolisce notevolmente la struttura ossea in generale, ma soprattutto alcune sedi elettive: collo del femore, polso, rachide, epifisi prossimale dell’omero.
Queste fratture un tempo erano considerate la causa più frequente di mortalità delle persone anziane in quanto o non guarivano ovvero costringevano a lunghi periodi di immobilizzazione a letto con le conseguenze che ne derivano: piaghe da decubito, broncopolmoniti, decadimento organistico, insufficienza cardiorespiratoria.
La regione prossimale del femore è costituita dalla testa femorale, dal collo propriamente detto, dalla regione trocanterica (piccolo e grande trocantere).
Lo studio anatomico della zona riveste notevole importanza in quanto la rima di frattura di queste lesioni può interessare una regione di osso femorale intracapsulare o extracapsulare e ciò ha conseguenze notevoli per la guarigione di queste fratture.
L’irrorazione della regione della testa femorale avviene attraverso l’arteria del legamento rotondo, che proviene dalla zona centrocotiloidea e raggiunge il centro della testa femorale (fovea capitis), e attraverso le arterie capsulari (anteriore e posteriore) che raggiungono la base del collo femorale.
Una lesione frattura la cui rima cadrà in una regione del collo femorale prima della inserzione caspulare priverà del contingente ematico nutritizio delle arterie caspulari la testa femorale; questa pertanto riceverà sangue e quindi nutrimento solo dall’arteria centrale del legamento rotondo; se questa arteria è preda di processi aterosclerotici ovvero è trombizzata (come frequentemente si osserva nell’anziano) il sangue nutritizio alla testa femorale sarà scarso o nullo e pertanto la regola sarà la necrosi della testa del femore.
Pertanto queste considerazioni hanno indotto a distinguere le fratture del collo del femore in fratture mediali, quelle che capitano all’interno dell’inserzione capsulare sul collo (fratture cos. transcervicali, sottocapitate, basicervicali), e in fratture laterali, quelle la cui rima cade in corrispondenza dell’inserzione capsulare o subito all’esterno (fratture basi-trocanteriche, fratture pertrocanteriche, sottotrocanteriche). Le fratture laterali, o in generale le fratture trocanteriche, erano definite benigne in quanto la consolidazione era la regola, quelle mediali, o in generale le fratture transcervicali, erano definite maligne in quanto la necrosi della testa femorale è la regola.
Il trattamento di queste fratture del collo del femore dovrà pertanto tenere conto di questi presupposti. Un trattamento conservativo non chirurgico ovvero un trattamento chirurgico che prevede un’osteosintesi sarà destinato al fallimento nel caso delle fratture mediali, mentre sarà coronato da successo nelle fratture laterali trocanteriche.
Le fratture mediali in soggetti giovani, nei quali si può presumere che la testa possa ricevere sangue nutritizio dall’arteria centrale non obliterata del legamento rotondo, e che non si presentano molto scomposte, possono richiedere un trattamento chirurgico che prevede l’osteosintesi. In tutti gli altri casi di fratture mediali (trancervicali p.d., sottocapitate etc.) il trattamento dovrà essere chiurgico e consisterà in una artroplastica sostitutiva con protesi parziale o totale di anca.
Le fratture laterali prevedono un trattamento chirurgico di osteosintesi (chiodo gamma, chiodo placca, vite-placca, etc.) l’unico che permette di mobilizzare questi ammalati per lo più anziani, migliorarne le possibilità di nursing e consentire una rapida deambulazione.
APPUNTI DI ORTOPEDIA E TRUMATOLOGIA (parte terza)
FRATTURE DEL RACHIDE
Possono interessare qualunque tratto e rivestono importanza specifica a seconda della sede e dell’interessamento del midollo e dei nervi spinali. Pertanto a seconda del tratto interessato si distinguono fratture cervicali, dorsali, lombari, sacro-coccigee.
La frattura può interessare il corpo vertebrale anteriormente (soma vertebrale-fratture somatiche) o la parte posteriore: arco vertebrale, apofisi traverse, spinose etc. E’ chiaro che una frattura dell’arco può quando scomposta interessare il midollo spinale o le radici nervose adiacenti e pertanto configurare il quadro delle temibili fratture vertebrali mieliche o fratture con complicanze neurologiche. Una frattura mielica del tratto cervicale potrà dare quadri di tetraplegia (ad es. frattura cervicale conseguenza di un tuffo), una frattura del tratto dorsale quadri di paraplegia (ad es. caduta da un albero con frattura di D8-9). Frattura vertebrali più basse possono dare quadri di interessamento neurologico minori (il cono midollare termina a livello di D2, mentre il fascio di nervi spinali prosegue nel canale vertebrale fuoriuscendo attraverso i canali di coniugazione).
Il quadro clinico di una frattura vertebrale è caratterizzato da intenso dolore locale, impossibilità alla deambulazione e nel caso di compromissione midollare da quadro della paralisi o paresi. Lo stato di shock in questi casi determinerà una condizione di notevole gravità per il paziente che presenterà anuria e ileo paralitico.
Il trattamento di queste fratture (paralitiche) è nella maggior parte dei casi chirurgico in quanto si dovranno liberare dalla compressione meccanica la parte di midollo o le radici compromesse. Il trattamento deve essere immediato (riveste caratteri di emergenza). Una volta svuotato l’ematoma e liberate le radici e ricomposti al meglio i frammenti ossei si deve procedere ad una stabilizzazione di un ampio tratto vertebrale comprendente il focolaio di fratture.
Modernamente si utilizzano tecniche particolari derivate tutte dalla tecnica basilare di Cotrel-Dubousset che prevede la infissione di particolari aste metalliche (acciaio-titanio) modellate sul rachide e fissate ai peduncoli con particolari viti. Si tratta di una tecnica che viene utilizzata anche per la correzione della scoliosi, molto sofisticata perché precisa, e per la quale è prevista oggi anche un’assistenza computerizzata e videoassistita. Affianco a tale tecnica in particolari casi si possono utilizzare in alternativa anche particolari placche e viti applicate per via anteriore.
Un intervento effettuato nelle prime ore dal trauma in caso di frattura mielica può avere possibilità di successo e di recupero più o meno totale, ma se eseguito dopo alcune o molte ore dal trauma le possibilità di recupero diminuiscono sempre di più.
La riabilitazione è fondamentale per questi ammalati. Esistono particolari centri per fratturati mielici dove è possibile erogare un’assistenza adeguata intensiva. I cardini di questa si basano sui seguenti presupposti: occorre sostenere le funzioni vitali, controllare la diuresi e la canalizzazione dell’alvo (a volte sono utili le sonde rettali o lo svuotamento manuale), evitare le piaghe da decubito utilizzando particolari cuscini e materassini, reintegrare le perdite di liquidi e prevenire le infezioni curando una igiene massima. Superati lo shock iniziale e i primi giorni di meiopregia generale si verifica una ripresa organismica che porta a salvezza questi malati, ma non sempre ciò si raggiunge.
AMPUTAZIONI
Amputazione si definisce la rimozione di un arto o segmento di arto a livello non articolare.
Disarticolazione si definisce invece la rimozione di un arto o parte di esso con sezione a livello articolare: la disarticolazione di femore avviene ad es. a livello dell’anca, quella dell’omero a livello della spalla e così via.
Le cause che portano ad amputazione o disarticolazione possono essere molteplici e non solo traumatiche. Un piede in gangrena vascolare (ad es. conseguenza di un diabete scompensato che dura da molti anni) richiederà l’intervento di amputazione così come lo richiederà una gangrena post-traumatica, uno sfacelo traumatico di arto, una gangrena gassosa.
La guida da seguire sarà quella di conservare quanto più possibile la lunghezza dell’arto e se possibile l’articolazione. Un moncone di gamba lungo può con una buona protesi estetica comportare una deambulazione pressoché normale.
Le amputazioni che si effettuato a seguito di incidenti stradali e in soggetti giovani non pongono problemi particolari se l’intervento è eseguito secondo arte. Nei pazienti anziani e con disturbi vascolari molto spesso il tratto di arto lasciato è soggetto a disturbi vascolari e non sempre rappresenta un buon supporto per una protesi.
La sindrome dell’arto fantasma è un disturbo neurologico caratterizzato dalla sensazione da parte dell’ammalato di avere ancora l’arto che è stato amputato; tale sensazione è accompagnata a volte da intenso dolore e può essere fastidiosa. A livello dell’estremità del moncone d’amputazione si possono formare ulcere, escoriazioni e decubiti da contatto (nella zona di contatto con la protesi) o neurinomi cos. d’amputazione: a volte la cura è solo chirurgica e consiste nella regolarizzazione della ferita di un moncone, nell’asportazione del neurinoma, dell’ulcera etc.
Ogni amputazione deve essere controllata nel tempo e deve essere seguita da una opportuna protesi che deve offrire non solo stabilità, ma anche una buona funzionalità. Oggi esistono protesi che possono essere correlate a terminazioni nervose del moncone stesso e permettere anche movimenti automatici di dita proteiche: protesi mioelettriche.
PATOLOGIA INFETTIVA
Per osteomielite si deve intendere una infezione dell’osso; osteoartrite è una infezione ossea che interessa anche un’artricolazione. Esse sono dovute a comuni germi patogeni e molto spesso sono difficili da debellare.
L’osteomielite acuta ematogena è una entità nosografia ben precisa caratterizzata da infezione di un osso primitivamente, in genere femore o tibia. Si verifica in età giovanile, la fonte di infezione è il sangue, i germi in questione sono piogeni (stafilococchi) e si manifesta con febbre alta, dolore locale, impotenza funzionale. In realtà si tratta di una malattia relativamente frequente in passato, ma che oggi è da considerarsi rara.
Non così si può invece dire per le osteomieliti e le osteiti secondarie. Interessano l’osso o un’articolazione in conseguenza di un evento patologico pregresso: trauma, intervento chirurgico.
Si parla pertanto di osteiti post-traumatiche e osteiti postchirurgiche. Clinicamente si manifestano con febbre, tumefazione locale, fistolizzazione con fuoriuscita di materiale purulento, impotenza funzionale.
Una infiammazione dell’osso è molto spesso difficile da debellare per i seguenti motivi:
La presenza di mezzi di sintesi o di protesi interne favorisce il crearsi di zone a scarsa irrorazione nel contesto dell’osso ove permangono anche per lunghi periodi i germi responsabili dell’infezione.
In tali casi oltre ad instaurare una terapia antibiotica mirata (dopo prelievo per esame culturale e antibiogramma) è necessaria un’opera di bonifica chirurgica del focolaio accompagnata alla rimozione del mezzo di sintesi o della protesi.
Sotto questo aspetto va ricordato che la chirurgia ortopedica è considerata unanimemente una chirurgia pulita e che un’infezione secondaria rappresenta molto spesso il fallimento di un intervento (ad es. di protesi di anca o di ginocchio), pertanto l’attenzione mondiale è rivolta soprattutto a prevenire le infezioni chirurgiche e a svolgere il normale lavoro chirurgico in un ambiente idoneo. Ciononostante il tasso di infezioni secondarie è in ortopedia dello 0.2-0,5%.
Un’artrite settica di un ginocchio o di una spalla possono seguire ad una semplice puntura evacuativa o ad una semplice infiltrazione di sostanze medicamentose (ad es. di cortisone) e pertanto occorre prestare la massima attenzione alla esecuzione di tali pratiche.
Compito precipuo dell’infermiere di reparto, di sala gessi o di sala operatoria è di curare che la strumentazione e il materiale utilizzato per tali pratiche sia opportunamente sterile. L’utilizzo di presidi disposable (siringhe, telini, tamponi etc.) ha oggi ridotto grandemente il tasso di infezioni conseguenti a tali gesti.
Il morbo di Pott è tra le localizzazioni extraarticolari della Tubercolosi Ossea (TB) la più frequente: è interessata la colonna vertebrale, frequentemente a livello dorsale ed è caratterizzata da una progressiva distruzione di uno o due o più corpi vertebrali contigui. La caratteristica della TB vertebrale è che il processo infettivo interessa anche lo spazio discale oltre al corpo vertebrale (è ciò assume valore discriminatorio con la diagnosi di metastasi ossea vertebrale); la distruzione locale ossea determina una cuneizzazione delle vertebre interessate con accentuazione cifotica e deformità in gibbo del rachide. Nei casi gravi si ha compromissione neurologica (paralisi degli arti inferiori), frequenti anche le complicanze respiratorie.
La localizzazione extrapolmonare ossea della TB è un’evenienza che in questi ultimi anni si sta osservando sempre con maggiore frequenza: essa è legata alla immigrazione di popolazioni africane provenienti da zone ove tale patologie è endemica.
La terapia è quella classica polichemioterapica (associazione di più farmaci) coadiuvata da atti chirurgici e presidi ortopedici.
TUMORI
L’apparato locomotore può essere sede di tumori primitivi e secondari. In linea di massima si può dire che questi ultimi superano di gran lunga i primi e rappresentano spesso l’epifenomeno finale di una localizzazione primitiva di altri organi: polmone, mammella, prostata, reni, tiroide, apparato digerente.
Va ricordato che spesse volte un’alterazione litica o una frattura conseguente ad una lesione osteolitica di un osso è il primo segno di una manifestazione neoplastica la cui localizzazione primitiva sfugge alle comuni indagini di laboratorio. A volte il tumore primitivo può evidenziarsi clinicamente dopo mesi dalla localizzazione secondaria ossea.
Il tumore osseo primitivo per eccellenza è l’osteosarcoma. Può interessare ogni osso dello scheletro ma più frequentemente le ossa lunghe e la sede vicina alle cartilagini fertili: ginocchia, gomito, parte prossimale dell’omero etc. In genere si manifesta in età giovanile ma è interessata anche l’età adulta e avanzata.
La malattia si manifesta con dolore vivo, acuto, puntorio accompagnato a impotenza funzionale notevole e rapidamente ingravescente. L’esame radiografico può dare aspetti morfologici caratteristici (sole radiante caratterizzato da spicole ossee, aspetto a cipolla etc) che da soli possono far porre già la diagnosi con esattezza.
Ma il vero momento ai fini diagnostici è quello di porre indicazione per una rapida e opportuna biopsia ossea che sola ci potrà indirizzare verso la diagnosi esatta.
Una volta posta la diagnosi si impone il trattamento che richiede la conoscenza approfondita dell’argomento. Modernamente soltanto seguendo l’applicazione di opportuni protocolli di terapia si può modificare l’evoluzione infausta della malattia. In presenza di una diagnosi di osteosarcoma accedertata alla biopsia è opportuna una stadiazione della malattia programmando gli opportuni accertamenti di laboratorio: TAC, Risonanza Nucleare Magnetica, arteriografia, Scintigrafia etc.
Il trattamento dell’osteosarcoma richieda una competenza multidisciplinare in cui l’ortopedico, il radiologo, l’anatomo-patologo, l’oncologo rivestono tutti un ruolo importante.
Il trattamento classico moderno comprende dopo la diagnosi certa, la sterilizzazione mediante chemioterapia di eventuali focolai a distanza (marcatamente polmonari); oggi possediamo farmaci potenti ed efficaci che distruggono eventuali nidi di cellule neoplastiche, ma sono anche in grado di delimitare la lesione primitiva ossea necrotizzandone la periferia e facilitando l’opera del chirurgo che dovrà asportare la lesione.
Tale trattamento combinato farmacologico-chirurgico-farmacologico (radiante) ha migliorato sensibilmente la sopravvivenza di questi ammalati (dopo 5 anni si può vantare una sopravvivenza di oltre il 60%). Pertanto oggi non hanno più significato gli interventi di amputazione e disarticolazione se non in casi particolari. Questi non modificano la sopravvivenza.
Affianco all’osteosarcoma vanno ricordati altri tumori primitivi dello scheletro, meno aggressivi di quello ma che hanno una importanza ai fini funzionali e chirurgici: tumore a cellule giganti (a malignità locale, ma che può dare in alcuni casi metastasi polmonari), osteoblastoma, condrioma.
L’esostosi è un tumore benigno che può presentarsi soprattutto a carico delle ossa lunghe, ma anche di alcune ossa piatte (ad es. scapola). In genere l’accrescimento è lento nel tempo e molto spesso il riconoscimento viene effettuato in età adolescenziale: l’esostosi si accresce fino a termine di accrescimento. Può dare fastidi locali se comprime un nervo o un vaso arterioso o impedisce dei movimenti, in tali casi la exeresi chirurgica è risolutiva.
L’osteoma osteoide è una lesione ossea che interessa in genere le ossa lunghe (femore, tibia, omero etc.), ma può interessare anche ossa corte (vertebre, calcagno etc.). In realtà pur essendo inquadrato nel capitolo dei tumori dello scheletro non è a rigor di termini un vero tumore, ma deve essere considerato come una lesione flogistica-irritativa dell’osso, la cui eziopatogenesi rimane sconosciuta. La caratteristica di questa alterazione è che dà dolore a volte irradiato, che rimette tipicamente con l’aspirina (o altro analgesico). A volte la diagnosi non è precoce, perchè non è precoce la identificazione radiografica della lesione. La cura è attualmente solo chirurgica.
Il ruolo dell’infermiere nei confronti di ammalati affetti da neoplasie (soprattutto se gravi) è particolarmente delicato e basato non solo sulla competenza professionale, ma anche e soprattutto sul comportamento di recettività umana, di comprensione dei problemi, di terminologia, di prospettive di vita. Molto spesso si tratta di malati che provengono da esperienze chirurgiche molto dolorose e che una serie notevole di accertamenti ha debilitato. A volte è difficile una semplice endovenosa per mancanza di vene idonee, a volte i dolori sono tali da turbare la serenità quotidiana.
La partecipazione empatica con tali ammalati può rientrare in un programma di terapia che assume molto più valore rispetto a terapie tradizionali a volte del tutto inefficaci.
OSTEOPATIA OSTEOPOROTICA
La menopausa con il calo fisiologico degli ormoni sessuali femminili può comportare una riduzione della massa ossea scheletrica per riduzione della quantità totale di calcio presente a livello delle ossa (massa totale ossea), per ridotta apposizione di calcio a livello di esse. Una tale condizione viene definita osteoporosi pos-menopausale (o senile).
L’osteomalacia è caratterizzata da un difetto di formazione di sostanza osteoide neoformata per una scarsa quantità di accumulo di calcio (idrossiapatite). Si tratta di una condizione analoga al rachitismo infantile da carenza di vitamina D.
Numerosi sono i fattori che possono intervenire in questo equilibrio di mantenimento di un osso ben calcificato: il tipo di vita, l’alimentazione, alterazioni endocrine (ad es. ipotiroidismo), l’attività svolta, una certa predisposizione, epatopatia colecistica etc..
Il riconoscimento di questa patologia (osteoporosi post-menopausale e senile) è in questi ultimi anni molto più sentita sia per la possibilità di una cura su larga scala della popolazione, sia perché alla base di alcune fratture della cos. terza età vi è una situazione di osteoporosi latente.
Le fratture che riconoscono come causa predisponente una osteoporosi nell’adulto anziano sono essenzialmente: frattura del collo del femore, frattura del collo chirurgico dell’omero (e in generale dell’epifisi prossimale di omero), frattura di polso, frattura dei corpi vertebrali.
Il costo sociale di tali fratture è considerevole sia in termini di spesa terapeutica, sia in termini di coinvolgimento assistenziale vero e proprio.
Pertanto si sta proponendo sempre più la necessità di un trattamento farmacologico su larga scala preventivo dell’osteopatia osteoporotica, da iniziare soprattutto nelle donne al momento della menopausa.
Si tratta di un’affezione che colpisce in prevalenza donne in menopausa o donne e uomini molto anziani (osteoporosi senile).
La diagnosi di osteoporosi è soprattutto clinica, ma può essere di un certo aiuto la mineralometria ossea computerizzata (MOC) o l’esame radiografico standard di alcuni segmenti scheletrici (rachide dorso-lombare e bacino).
PATOLOGIA REUMATICA
Le malattie reumatiche fanno parete di un capitolo molto importante riguardante l’apparato locomotore. Molto spesso delle artriti reumatiche si interessa il medico internista reumatologo perché per una buona fase della evoluzione di esse l’iter diagnostico e terapeutico è appunto medico-farmacologico.
In genere l’ortopedico controlla gli ammalati reumatici più per gli esiti della malattia che per farne diagnosi. Ciò non toglie che molto spesso l’ortopedico deve per necessità interessarsi anche degli aspetti più propriamente internistici della malattia.
Il reumatismo articolare acuto (RAA) è una particolare malattia legata ad una infezione streptococcica che colpisce l’età infantile e che può esitare in danni articolari e cardiaci (vizi valvolari) anche rilevanti. Le artriti reumatiche sofferte in età infantile sono alla base di molte patologie notevolmente invalidanti in età adulta.
Ma molti sono i reumatismi che possono verificarsi primitivamente in età adulta e che possono esitare in danni a volte irreversibili articolari che poi richiederanno un trattamento ortopedico e chirurgico.
Innanzitutto per reumatismo articolare (artrite r.) possono essere intese numerose forme di reumatismo secondario a raffreddamento, allergie. Esso può interessare anche non propriamente le articolazioni, ma muscoli, tendini e fasce muscolari: forme cos. non articolari di reumatismo.
La patologia r. va poi differenziata dalle patologie degenerative articolari primitive o secondarie che vanno sotto il termine generico di artrosi (artr-osi: articolazione degenerata, artr-ite: articolazione infiammata)
Nei paesi anglosassoni, poiché molto spesso le forme reumatiche infiammatore molto diffuse e quelle degenerative non infiammatorie sconfinano l’una nell’altra, si utilizza il termine unico generico di osteoartrosi.
Ma esiste una malattia particolare reumatica a insorgenza in età giovanile o in età adulta che per la sua evolutività si presenta in modo particolarmente grave e porta rapidamente a gravi invalidità:
l’artrite reumatoide o poliartrite cronica primaria.
Essa riconosce una patogenesi autoimmunitaria (non streptococcica quindi) e si presenta con un corteo sintomatologico particolare: ad es. può iniziare con un interessamento delle piccole articolazioni delle mani o essere accompagnata da dolori muscolari piuttosto insistenti e non risolvibili, eritema del viso, uveiti etc.
Gli accertamenti ematologici specifici confermano la diagnosi clinica (VES, PCR, mucoproteine, Waaler-Rose, Rema test, anticorpi antinucleo, anticorpi anticitoplasma, presenza di cellule LE etc.).
In questi ultimi tempi nuovi trattamenti medici sono in grado di combattere a volte in modo efficace queste temibile malattia.
Gli esiti invalidanti dell’artrite reumatoide richiedono interventi chirurgici impegnativi: artroprotesi di anca, di ginocchio, di gomito, di spalla etc. Ciò sta a testimoniare che il costo sociale di questa malattia è notevole.
Tra le artropatie non settiche e non specificamente su base degenerativa semplice artrosica vanno ricordate: l’artropatia diabetica (artropatia dismetabolica), l’atropatia tabetica, l’artropatia siringomielica.
L’artropatia gottosa è un’artropatia dismetabolica su base infiammatoria legata ad iperuricemia.
Classico è l’interessamento metatarso-falangeo del primo raggio con esacerbazioni dolorose notturne (sub canto galli) con il classico quadro infiammatorio caratterizzato da rubor, tumor, dolor.
Numerose altre sono le patologie che riconoscono una base reumatologica e che sono di frequente osservazione ortopedica:
• l’epicondilite omerale caratterizzata da violento dolore in corrispondenza del condilo omerale e impotenza funzionale nei movimenti dell’avambraccio e dovuta a ripetuti microtraumatismi: tipica dei giocatori di tennis da cui tennis elbow.
• Periartrite scapolo-omerale caratterizzata da violenti dolori alla spalla con notevole impotenza funzionale e limitazione della abduzione elevazione extra e intrarotazione dell’arto superiore; frequente e violento è talvolta il dolore notturno: essa è legata ad infiammazione dei tessuti periarticolari dell’articolazione scapolo-omerale.
• Borsite trocanterica o olecranica: legate spesso a microtraumi da contatto delle regioni interessate.
• Sindrome del tunnel carpale: è frequente nelle giovani donne, è legata ad ipertrofia del legamento traverso al polso con restringimento del canale e compressione del nervo mediano; la sintomatologia a volte continua a volte particolarmente fastidiosa nelle ore notturne è legata ad impotenza funzionale delle dita della mano e soprattutto ad una ipoestesia nel territorio del dito mediano e in parte del 2° e 4°. L’esame elettromiografico permette di confermare la malattia la cui diagnosi è fondamentalmente clinica.
ARTROSI
E’ una malattia degenerativa che interessa le articolazioni. Può presentarsi in una forma primitiva legata all’invecchiamento fisiologico delle articolazioni e in una forma secondaria conseguenza di alterazioni dell’asse di carico o di altre patologie articolari.
Molteplici sono i fattori alla base di questa malattia che spesse volte è causa di gravi invalidità in una grande percentuale di anziani.
E’ una malattia delle articolazioni che evolve lentamente nel tempo rispetto alle forme infiammatorie (artriti), ma che spesse volte può presentarsi in età giovanile quando sono presenti fattori predisponenti particolari: a es. una frattura di un piatto tibiale o di un cotile possono guarire ed esitare in una grave artropatia degenerativa. Spesso alla base di un’artrosi dell’anca vi sono esiti di una displasia dell’anca presente alla nascita e passata misconosciuta.
Bisogna però riconoscere che vi è anche una predisposizione ad ammalare di artrosi, ma anche il tipo di vita e l’ambiente sono fattori predisponesti importanti: ad es. è tipica nelle nostre regioni l’artrosi dell’anca, delle ginocchia e del rachide dei contadini.
L’artrosi riconosce quindi una genesi multifattoriale e pertanto non sempre è possibile attuare una terapia preventiva.
I fattori di rischio comunemente ricordati sono:età avanzata (dopo i 55 anni la prevalenza della malattia aumenta con progressione geometrica anche se l’invecchiamento di per sé non è una causa della malattia), razza e diversità della distribuzione geografica (ad es. la gonartrosi o artrosi delle ginocchia è rara nelle donne orientali), fattori genetici, sesso e fattori ormonali (nella donna in generale la malattia può avere un decorso poliarticolare e presentarsi in modo più grave (sono allo studio gli influssi degli ormoni sessuali sul trofismo della cartilagine), obesità (un aumento dell’Indice di Massa Corporea comporta un aumento del rischio relativo di artrosi soprattutto delle articolazioni portanti), fattori metabolici (alcuni dismetabolismi, iperuricemia, diabete, condrocalcinosi, ocronosi etc., si ripercuotono negativamente sull’equilibrio biochimico della cartilagine), fattori meccanici (alterazioni congenite, traumatiche o infiammatorie determinando una alterazione della morfologia strutturale articolare sono potenziali ma sicuri fattori di rischio per la comparsa di un’artrosi secondaria).
Pur essendo una malattia che può interessare tutte le articolazioni dello scheletro, essa assume una importanza particolare soprattutto quando sono impegnate articolazioni importanti ai fini della deambulazione, come il ginocchio, l’anca e il collo piede, o articolazioni importanti ai fini della vita di relazione come le mani e i polsi.
L’evidenza radiologica della malattia è presente in circa il 50% della popolazione di età compresa tra i 15 e 80 anni, tuttavia la forma clinica della malattia interessa una piccola parte circa 1/3. Ogni anno i casi di malattia sintomatica sono oltre 4 milioni.
Le dimensioni del fenomeno pertanto portano a considerare l’artrosi una malattia il cui onere socioassistenziale è molto elevato e pertanto è necessaria una particolare strategia terapeutica per attenuarne la portata degli effetti negativi indotti da essa.
Se nelle prime fasi della insorgenza di un’artrosi sarà compito soprattutto del medico di curare la malattia con opportuni farmaci, nelle fasi avanzate sarà compito del chirurgo ortopedico scegliere il momento adatto e il tipo di intervento opportuno. Le terapie dell’artrosi si possono così raggruppare nei seguenti tipi:
• Cure riabilitative ed educazionali: chinesiterapia, massoterapia.
• Cure fisiche: onde corte e micro-onde, onde lunghe (diatermia), calore diretto o irradiato, onde elettromagnetiche.
• Cure termali: balneoterapia, lutoterapia, psammoterapia.
• Terapie alternative: agopuntura, stimolazione nervosa transcutanea
• Terapie farmacologiche sistemiche: farmaci condroprotettivi, farmaci analgesici, farmaci antinfiammatori steroidei e non steroidei.
• Terapie farmacologiche locali: infiltrazioni intra-articolari, terapie topiche
• Terapie chirurgiche:
A) Interventi palliativi o di attesa: enervazioni,, tenotomie, osteotomie, resezioni, artrodesi.
B) Interventi di sostituzione protesica parziale o totale.
C) Interventi di sostituzione autoplastica di cartilagine.
L’intervento di sostituzione protesica articolare è oggi l’intervento risolutivo che viene effettuato comunemente per ridare la funzione articolare.
Le protesi oggi utilizzate sono numerosissime e hanno risentito e risentono della ricerca e dei progressi della tecnologia moderna. Oggi si utilizzano per la costruzione delle protesi particolari metalli ben tollerati e capaci di resistere per anni e anni in un organismo vivente, si tratta di leghe metalliche (cromo-cobalto-molibdeno, leghe di acciaio inossidabile, titanio); particolari sostanze plastiche sono anche utilizzate ampiamente (polietilene ad alto peso molecolare) così come particolari ceramiche.
Per facilitare la stabilità di un impianto protesico è stato molto impiegato un particolare composito (cos. cemento metacrilato) che in questi ultimi anni è un po’ abbandonato negli impianti nei soggetti giovani nei quali è preferibile applicare protesi non cementate.
Ma le problematiche sono numerose e la ricerca tecnologica continua perché la protesi articolare ideale (che dura tutta la vita di un essere umano e che non si consuma) non esiste ancora.
MALATTIE CONGENITE ED EREDITARIE
Si definisce congenita una malattia che si manifesta già alla nascita. Non tutte le malattie congenite sono ovviamente ereditarie ma possono essere dovute ad eventi patologici manifestatisi nel grembo materno nella fase di formazione embrionaria degli organi (alterazioni congenite embrionarie) ovvero in una fase di sviluppo successivo di accrescimento fetale (alterazioni congenite fetali).
Si definisce ereditaria una malattia che riconosce in un’alterazione genetica la propria origine e causa. Non necessariamente una malattia ereditaria può presentarsi alla nascita, cioè essere congenita, come ad es. alcune forme di distrofia muscolare che si manifestano in fasi di sviluppo successivo dopo la nascita.
Lo studio della mappa cromosomica è utile nelle malattie ereditarie per conoscere precisamente la trasmissione genetica e prevenire nei limiti di una politica di eugenetica il manifestarsi delle malattie.
• Lussazione congenita dell’anca: meglio è utilizzare la definizione di displasia congenita dell’anca e rappresenta una gravissima patologia caratterizzata dal mancato sviluppo dell’articolazione dell’anca per cui alla nascita si possono avere quadri anatomo-patologici vari che vanno dalla mancata presenza o ritardata presenza del nucleo di ossificazione cefalico (della testa femorale), ad una notevole sfuggenza del cotile, ad una completa perdita dei rapporti articolari tra estremità del femore e cotile (lussazione franca). Si tratta di un’affezione che colpisce più frequentemente (2/1) le femmine.
Alla nascita andrebbe fatto in tutti i neonati una particolare manovra di valutazione degli arti inferiori, consistente in un movimento di circumduzione e abduzione ad anca e ginocchio flessi, la sensazione di uno scatto testimonierebbe che si è in presenza di una lussazione; altro segno consiste nella riduzione del movimento di abduzione delle anche (nelle forme monolaterali la diagnosi è più facile per comparazione con il lato sano), ancora infine caratteristica è la asimmetria delle pliche cutanee inguinali (una piega è risalita rispetto al lato opposto: segno però non sempre valido). La malattia può presentarsi in forma monolaterale o bilaterale, queste ultime sono molto spesso ingannevoli in quanto manca il dato della asimmetria della morfologia delle anche.
Nei primi giorni di vita e nei primissimi mesi l’esame ecografico può mettere sulla buona strada. Nei casi in cui vi è una notevole familiarità della malattia è opportuno un controllo radiografico del bacino a partire dal 6 mese si vita (ma esso può essere fatto anche in epoca precedente). Una volta posta la diagnosi di displasia congenita dell’anca si dovrà attuare un opportuno trattamento. I risultati sono proporzionali all’epoca della diagnosi e ovviamente alla gravità della patologia. Una diagnosi posta nei primi mesi di vita consentirà di attuare un programma di terapia efficace che non porterà conseguenze della deambulazione in età successive. Molto spesso e soprattutto nel passato e in ambienti poveri una displasia delle anche semplice (ad es. semplice sfuggenza del cotile e valgismo del collo del femore) passava inosservata nei primi mesi di vita e il bambino al momento della deambulazione (intorno ai 12 mesi in media) presentava una lussazione completa (cioè una perdita dei rapporti articolari dell’anca interessata). Un trattamento ortopedico non adeguato o tardivo comporta risultati non buoni che richiederanno successivamente interventi chirurgici complessi e non sempre risolutivi.
Nella semplice displasia dell’anca (mono- o bilaterale) si consiglieranno appositi divaricatori che ponendo le anche in abduzione (cosce divaricate) mantenendo i rapporti articolari corretti tra femore e cotile ne permetteranno il normale sviluppo. Nei bambini neonati si consiglia molto spesso il doppio pannolino in modo da tenere le anche divaricate.
Da molti anni ormai sono stati per tali motivi proscritti i metodi di fasciare tra loro gli arti inferiori dei neonati.
Una displasia congenita dell’anca comunque porta in età adulta a gravi patologie degenerative con quadri di coxartrosi gravissimi per la perdita della funzione e per il dolore.
Molte coxartrosi gravi dell’età adulta riconoscono una patogenesi diretta in una displasia
congenita dell’anca più o meno manifesta e l’unica terapia in tali casi è l’impianto di una
protesi totale di anca.
• Piede torto congenito: alla nascita si possono osservare delle alterazioni nella forma dei piedini dei neonati. Si tratta di un’affezione in genere monolaterale che interessa più frequentemente i maschi. Il piedino del neonato non si presenta nel suo aspetto normale, ma più tozzo rispetto al controlaterale, ruotato sul suo asse in genere on la pianta rivolta verso l’interno, la parte anteriore del piede flessa in giù (varietà equino-vara). L’alterazione è manualmente correggibile nei primi giorni di vita, ma bel presto per l’insorgere di tensioni tendinee e muscolari la deformità diventa incorreggibile se non con interventi cruenti.
La causa di tale alterazione non è ben conosciuta, si pensa ad atteggiamenti viziati del feto nell’utero materno (malposizionamenti), a turbe neurogene (ad es. è stata molto spesso notata l’associazione tra spina bifida e piede torto).
E’ importante una diagnosi adeguata e immediata in quanto molto spesso un opportuno trattamento anche solo ortopedico e non chirurgico potrà essere considerato definitivo ed
efficace.
• Ipoevolutismi staturali: non sempre alla nascita è possibile diagnosticare che lo sviluppo del neonato sarà deficitario, a meno che non sono presenti quadri sintomatologici complessi ad es. cardiopatie, malattie del tansito intestinale, deformità palesi degli arti etc., che fanno pensare a disturbi dell’accrescimento. L’acondroplasia è un difetto ereditario dell’accrescimento delle ossa, soprattutto delle ossa lunghe che non seguendo le normali fasi di allungamento per neoformazione ossea a livello metafisario, sono responsabili del deficit di altezza che si riscontra in alcuni individui. L’affezione è ereditaria (autosomica recessiva) e può colpire sia maschi che femmine in uguale percentuale. Il nanismo acondroplasico è la forma più comune e interessante di ipoevolutismo in quanto si manifesta in soggetti del tutto normali sotto altri aspetti che anzi presentano caratteri di giovialità e una viva intelligenza a volte fuori del comune. La diagnosi è facile e molto spesso si fa nei primi giorni di vita in quanto l’accrescimento del neonato non appare fisiologico. Si tratta di un nanismo disarmonico in quanto vi è sproporzione tra lunghezza degli arti e lunghezza del tronco. Nel nanismo ipofisario (non ereditario, da deficit della increzione dell’ormone STH dell’accrescimento) il nano si presenta piccolo proporzionato.
• Alluce valgo: Si tratta di una affezione caratterizzata dalla deviazione verso l’esterno del 1° dito del piede o alluce. Si può presentare nei primi anni di vita o in età giovanile o giovanile adulta, ma più frequentemente in età adulta e anziana legata a fatti degenerativi articolari.
Nelle forme che interessano l’età giovanile l’alterazione può riconoscere una causa in una alterazione congenita del 1° metatarso. Questo può presentarsi molto varo (cioè volto verso l’interno) e come conseguenza il 1° dito si devierà verso l’esterno. L’uso di calzature non idonee e soprattutto di calzature strette anteriormente infiammeranno la borsa sierosa presente a livello dell’articolazione 1 metatarso-falangea e determineranno una iperostosi della estremità distale del metatarso (cos. cipolla). L’uso di calzature con tacchi alti scaricheranno sull’avampiede il peso del corpo accentuandone lo slargamento e provocando un anomalo appoggio di tutto l’avampiede (sindrome da sovraccarico funzionale dell’avampiede). L’uso di calzature a punta stretta, tomaia dura, alti tacchi accentuerà la deformità fino ad un grado tale da provocare dolore e cattiva deambulazione. Il trattamento di tali forme è solo chirurgico e consiste nel ripristinare correttamente con osteotomie vare l’asse del 1° raggio del piede.
• Scoliosi idiopatica evolutiva: la vera causa della scoliosi essenziale dell’adolescente è
sconosciuta. Molti fattori anche costituzionali possono essere riconosciuti e giustificano alcuni che rilevano un andamento della malattia in alcuni ambiti familiari. Uno screening in età scolare ed il miglioramento delle condizioni generali di vita nei paesi occidentali hanno di molto ridotto l’incidenza della malattia. Essa si presenta più frequentemente nelle femmine ed il momento da considerare di attenzione massima è l’età puberale.
La scoliosi i. e. è una malattia dell’accrescimento che si presenta al momento della pubertà ed evolve fino a termine dell’accrescimento, portando a quadri di gravità tali che possono compromettere la funzione cardiaca e respiratoria.
La scoliosi è caratterizzata da una deviazione sul piano frontale della colonna vertebrale (sul piano frontale il rachide non presenta curvature, una piccola deviazione a largo raggio in tal senso può rientrare in un ambito fisiologico e far parlare di paramorfismo vertebrale: non oltre 10-15 gradi), ma l’aspetto anatomo-patologico importante è che il rachide deviato si presenta anche ruotato sul piano orizzontale in modo che le apofisi spinose e traverse non si presentano più allineate una sull’altra. Una deformità a livello dorsale o toracico si presenta in modo eclatante in quanto per la presenza della gabbia toracica e quindi delle coste si osservano quadri di deformità costali a volte anche notevoli (gibbo costale).
Una diagnosi precoce al momento del menarca (1a mestruazione) fa correre rapidamente ad opportuni ripari: la terapia consiste nei casi iniziali (fino a 20 gradi) nella semplice ginnastica medica e respiratoria, ginnastica in acqua, esercizi di postura; nelle forme più gravi si ricorrerà all’uso di busti gessati od ortopedici correttivi associati ad opportuna ginnastica; nelle forme rapidamente ingravescenti ed evolutive è opportuno fare ricorso alla chirurgia. Questa consiste nel bloccare tratti più o meno lunghi della colonna vertebrale mediante l’infissione di grosse viti peduncolate (avvitate nei peduncoli vertebrali) che fissano barrette metalliche (acciaio o titanio) che riallineano il tratto vertebrale deviato (metodo di Cotrel-Dubousset). Tale intervento viene attuato con esiti favorevoli in età adolescenziale ed evolutiva e nelle forme scoliotiche gravi dell’adulto.
TUMORI DELLO SCHELETRO (parte quarta)
Lo scheletro è sede molto frequente di neoplasie, sia primitive che secondarie. I tumori primitivi si distinguono a seconda del tipo cellulare che li costituisce e da cui hanno origine (classificazione istogenetica).
Per i tumori benigni la distinzione è generalmente facile perchè le cellule si mantengono simili a quelle di origine; per i maligni è difficile sia perchè le cellule originarie perdono gran parte delle loro caratteristiche e sia perchè spesso sono costituiti da cellule di origine diversa; in questo caso prendono il nome dal tipo cellulare più evoluto (ad esempio, se contiene contemporaneamente aree fibroblastiche, condroblastiche ed osteoblastiche, prende il nome di osteosarcoma, essendo l'osso la forma più evoluta).
Riporto una classificazione istogenetica semplificata, con riferimento alle forme presenti nell'età infanto-giovanile.
1. TUMORI DI ORIGINE OSSEA
o BENIGNI: osteoma, osteoma osteoide, osteoblastoma, (displasia fibrosa). (fibroma ossificante)
o BASSA MALIGNITÀ: osteosarcoma iuxtacorticale
o MALIGNI: osteosarcoma
2. TUMORI DI ORIGINE CARTILAGINEA
o BENIGNI: espostosi, condromi, fibroma condromixoide
o BASSA MALIGNITÀ: condrosarcoma gr. I
o MALIGNI: condrosarcoma
3. TUMORI DI ORIGINE FIBROSA ED ISTIOCITARIA
o BENIGNI: fibroma istiocitario, istiocitoma fibroso benigno
o BASSA MALIGNITÀ: tumore a cellule giganti, fibroma desmoide
o MALIGNI: fibrosarcoma, istiocitoma maligno
4. TUMORI DI ORIGINE MESENCHIMALE MIDOLLARE
o MALIGNI: sarcoma di Ewing, reticolosarcoma, plasmocitoma, (leucemia, Hodgkin, Linfosarcoma)
5. TUMORI DI ORIGINE VASCOLARE
o BENIGNI: emangioma, linfangioma
o MALIGNI: emangioendotelioma maligno, emangiopericitoma
6. TUMORI DI ORIGINE NERVOSA
o BENIGNI: neurinoma, neurofibroma
7. TUMORI DI ORIGINE ADIPOSA
o BENIGNI: lipoma
o MALIGNI: liposarcoma
8. TUMORI DI ORIGINE MISTA
o BASSA MALIGNITÀ: adamantinoma
o MALIGNI: mesenchimoma maligno
9. TUMORI DI ORIGINE DALLA NOTOCORDA
o BASSA MALIGNITÀ: cordoma
10. ALTRE FORME TUMORALI BENIGNE
o cisti ossea solitaria
o cisti ossea aneurismatica
TUMORI DI ORIGINE OSSEA
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OSTEOMA OSTEOIDE
E' caratteristico per la sua forma, per le sue dimensioni e per la sintomatologia dolorosa. E' costituito da un tessuto osteoide circondato da osso sclerotico che ne limita la sua estensione. Ha un decorso lentissimo e pare che possa anche spontaneamente regredire e guarire.
E' relativamente frequente, specie nel sesso maschile (2/1) e nell'età che va dai 5 ai 30 anni. Si localizza preferibilmente nelle ossa lunghe i in sede sottocorticale o metafisaria; non eccezionali sono le localizzazioni alle ossa brevi e alla colonna. La sintomatologia è caratterizzata dal dolore che insorge senza causa apparente e si acutizza generalmente durante la notte. Non sempre il paziente è in grado di localizzare esattamente la sede del dolore che spesso riferisce alla articolazione più vicina. E' caratteristica costante del dolore da osteoma osteoide, la scomparsa dopo assunzione di aspirina.
Nelle forme sottocorticali si può apprezzare una tumefazione dovuta alla reazione periostale, a volte intensa.
L'esame radiografico è caratterizzato dalla presenza di una piccola area di radiotrasparenza, rotondeggiante od ovale, detta "nidus" le cui dimensioni non superano cm 1-1,5 circondata da osso sclerotico; all'interno del nidus si può trovare un nucleo di radiopacità. Nella zona sottocorticale il tessuto sclerotico può essere molto abbondante.
Istologicamente il nidus è costituito da tessuto osteoide, organizzato in trabecole disposte irregolarmente, immerse in un tessuto ricco di cellule con osteoblasti, osteoclasti e fibroblasti. Il tessuto osteoide è più maturo al centro, dove si osservano zone calcificate.
La diagnosi è generalmente clinica, per le caratteristiche del dolore.
L'esame radiografico conferma la diagnosi ed offre il dubbio diagnostico differenziale con l'ascesso di Brodie e con l'osteomielite cronica sclerosante.
La diagnosi istologica viene a volte confusa con l'osteoblastoma.
La terapia è esclusivamente chirurgica e consiste nella asportazione del nidus. La recidiva è possibile soltanto quando l'asportazione non sia stata completa.
OSTEOBLASTOMA
Origina dalle cellule osteoblastiche, come l'osteoma osteoide, da cui si differenzia per la maggiore aggressività dei tessuti circostanti e per le caratteristiche cliniche. Evolve molto lentamente ma, nel corso degli anni, può raggiungere dimensioni considerevoli. E' un tumore raro, che prevale nel sesso maschile (2/1) ed è caratteristico dell'età infantogiovanile, come l'osteoma osteoide. Si localizza di preferenza alla colonna, ma può trovare sede in qualsiasi osso. Nelle ossa lunghe preferisce le metafisi e, nell'ambito delle ossa spugnose, le epifisi.
La sintomatologia è caratterizzata da dolore, che insorge senza causa, saltuariamente, di intensità variabile e di durata prolungata, che si accentua nelle ore notturne.
Talvolta è presente tumefazione, altre volte limitazione della funzione articolare ed altre ancora, segni di compressione vascolare o nevosa (specie per la localizzazione alla colonna).
L'esame radiografico mostra un'area di radiotrasparenza, a margini spesso sfumati, con rara sclerosi reattiva periferica. A volte può presentarsi radiopaco, in rapporto al grado di maturazione delle trabecole osteoidi, che possono in parte calcificare. Può essere in sede centrale o eccentrica e può espandersi notevolmente deformando l'osso che lo contiene la cui corticale si assottiglia fino a formare un velo radiotrasparente. Non deborda mai dall'osso.
Anatomicamente il tumore è di colorito rossastro o bruno, iperemico, di consistenza molle, granuloso al taglio. L'incisione provoca spesso emorragia a nappo.
Istologicamente è caratterizzato dalla presenza di numerose cellule osteoblastiche, in un tessuto riccamente vascolarizzato. Il tessuto osteoide tende a maturare ed ossificare in modo non uniforme. La diagnosi clinica e radiografica non è sempre possibile; anche l'esame istologico, da solo, può lasciare adito a dubbi, specie per la differenziale con l'osteoma osteoide ed a volte con la cisti ossea aneurismatica, col tumore gigantocellulare e con l'osteosarcoma.
La terapia consiste generalmente nello svuotamento della sede del tumore, che viene poi riempito con trapianti ossei. Nelle forme più estese e nelle localizzazioni vertebrali allo svuotamento si fa seguire l'irradiazione. Il tumore infatti è sensibile alla roentgenterapia, la quale provoca la sua sclerotizzazione specie nelle forme di piccole dimensioni.
Se l'asportazione non è completa, il tumore può recidivare.
OSTEOSARCOMA
E' un tumore altamente maligno formato da cellule mesenchimali che tendono a differenziarsi nel senso osteoblastico ed a produrre osso. Origina nelle sedi in cui è più rapido il ricambio osseo, quindi soprattutto in prossimità delle metafisi delle ossa lunghe.
Ha un decorso molto rapido e metastatizza precocemente, diffondendosi per via ematica al polmone e per contiguità all'interno dello stesso osso o nei tessuti vicini.
E' il più frequente dei tumori maligni primitivi dell'osso (dopo il plasmocitoma) con incidenza dello 0,2% di tutti i tumori maligni.
Preferisce il sesso maschile (1,5-2/1) ed interessa soprattutto una fascia di età compresa tra i 10 e i 30 anni. In età più avanzata lo possiamo riscontrare quando si manifesta nell'osso affetto da morbo di Paget.
Poichè origina nelle zone di più alto ricambio osseo, le sedi di più frequente localizzazione sono le metafisi vicine al ginocchio e la prossimale dell'omero; tutte le ossa possono essere però interessate dal tumore.
Clinicamente si manifesta con dolore di tipo gravativo, a volte esacerbato dalla funzione articolare e riferito quindi all'articolazione più vicina. Più tardi (dopo 2-3 settimane) il dolore diventa intenso, con esacerbazioni notturne, Si accompagna a tumefazione locale, dolente alla pressione, di consistenza dura, coperta da cute calda al tatto e talvolta arrossata. Le fratture patologiche sono una evenienza rara ma non eccezionale. Le condizioni generali, inizialmente buone, scadono rapidamente dopo qualche mese, specie quando iniziano a svilupparsi le localizzazioni metastatiche. Il quadro ematochimico è caratterizzato dall'aumento della VES e della fosfatasemia alcalina. L'esame radiografico è caratteristico, seppure con manifestazioni diverse. Distinguiamo forme prevalentemente osteolitiche forme prevalentemente osteoaddensanti e forme miste, la cui caratteristica costante è quella di avere margini sfumati e invadere rapidamente la corticale.
Generalmente il tumore è centrale, rispetto alla sede di origine e si espande alla periferia con aspetti molto vari per la presenza di ossificazioni disposte perpendicolarmente alla diafisi (a sole radiante) o irregolarmente attorno a questa. Negli individui più giovani si può osservare una reazione periostale, sotto forma di un orletto sclerotico; raramente ha l'aspetto a "bulbo di cipolla", come nel tumore di Ewing.
Dal punto di vista anatomico l'osteosarcoma si presenta come una massa di consistenza variabile dal molliccio al duro osseo, intensamente vascolarizzata che si espande verso la corticale e, non raramente, oltre il periostio, nei tessuti circostanti; la cartilagine di coniugazione offre una barriera alla espansione del tumore per cui viene invasa solo tardivamente e molto raramente. Nel contesto del tumore si trovano aree emorragiche e zone di necrosi.
Istologicamente si evidenzia subito il tessuto sarcomatoso, ricco di cellule ipercromiche con aspetti di malignità che vanno dalle forme grossolane ed irregolari delle cellule, con nuclei mostruosi e con mitosi frequenti ed atipiche, alle piccole cellule pigmentate caratteristiche del sarcoma.
Nel contesto di questo tessuto sarcomatoso si trova tessuto osteoide ed un tessuto osseo, caratterizzato dalla irregolarità della struttura e dalla estensione non controllata, che invade anche le trabecole ossee normali.
La vascolarizzazione del tumore è intensa particolarmente nelle zone con minor tendenza alla ossificazione. Queste sono anche le zone che mostrano una maggior aggressività nei confronti dell'osso circostante.
La diagnosi di osteosarcoma deve essere sospettata clinicamente, ma viene confermata dall'esame istologico che ci consente di fare diagnosi certa.
La differenziale infatti si presenta con numerosi altri tumori la cui terapia può differire notevolmente da quella dell'osteosarcoma, il fibrosarcoma, alcuni tumori metastatici, ecc.
La diagnosi deve essere sempre completata dallo studio radiografico dei polmoni per evidenziare eventuali metastasi macroscopicamente visibili e dalla scintigrafia. Nella maggior parte dei casi, quando si arriva a fare diagnosi di osteosarcoma, le metastasi polmonari sono presenti, anche se non visibili (80-89%).
La terapia dell'osteosarcoma è oggi medica e chirurgica contemporaneamente. Generalmente si preferisce instaurare inizialmente un trattamento chemioterapico, che complessivamente abbia la durata di circa un anno, con somministrazioni intervallate, quindi asportazione chirurgica del tumore, ed eventualmente riprendere la chemioterapia.
Generalmente i chemioterapici più usati sono la vincristina, il metatrexate e l'adriablastina, per via generale.
Oggi ha trovato un ampio impiego, per la sua notevole efficacia, il cisplatinum, iniettato per via endoarteriosa (questa somministrazione dà il vantaggio di una concentrazione locale e quindi di una diffusione per via generale).
L'intervento chirurgico consiste nella resezione (se il tumore è ancora circoscritto entro l'osso interessato) o nella amputazione. Lo studio istologico del materiale asportato, dopo il trattamento medico, ci dà una indicazione sull'efficacia della terapia, in rapporto alla estensione della necrosi cellulare.
La terapia immunitaria è ancora in studio, sebbene alcuni autori abbiano riscontrato effetti favorevoli con l'interferon o con altre sostanze che eccitano le difese immunitarie del paziente.
Oggi la sopravvivenza dopo i 5 anni è del 40-50% dei pazienti.
TUMORI DI ORIGINE CARTILAGINEA
ESOSTOSI SOLITARIA
La esostosi solitaria o osteocondroma non è precisamente un tumore dello scheletro, ma un amartoma che ha origine da un'isola di cartilagine fertile sottoperiostea che cresce producendo osso con caratteristiche aaloghe all'accrescimento scheletrico, ed arresta il suo sviluppo contemporaneamente alle altre ossa dello scheletro.
E' il tumore benigno dello scheletro più frequente e si manifesta prevalentemente nel sesso maschile. L'età di comparsa è attorno ai 6-10 anni sebbene, essendo un amartoma, sia di natura congenita. Si pensa che anche traumi locali e le irradiazioni possono, se pur raramente, favorire l'insorgenza di una esostosi. La sede di insorgenza è la metafisi delle ossa lunghe, in particolare quelle più fertili. Più raramente si può localizzare al bacino, alla scapola, alle coste, alla colonna vertebrale e, eccezionalmente nelle ossa lunghe delle mani e dei piedi.
La sintomatologia è inizialmente assente. Può provocare disturbi funzionali da compressione o per ostacolo dello scorrimento dei tendini.
Spesso il danno più evidente è quello estetico. L'attrito con le strutture vicine può causare la formazione di una borsite reattiva che può essere causa di dolore.
L'esame radiografico è caratteristico e consente la diagnosi. Il suo aspetto è quello di una tumefazione, di forma e dimensioni variabili, costituita da tessuto osseo, le cui trabecole si continuano con quelle dell'osso ospite.
L'osso che la costituisce è spugnoso e può contenere lacune radiotrasparenti (per la presenza di isole cartilaginee) ed è contornato da un sottile orletto di osso compatto. L'estremità è irregolare, mentre i profili laterali sono, di solito, netti.
La base di impianto nell'osso ospite può essere sessile o peduncolata e la direzione della espansione esostosica è sempre verso la diafisi. Poichè con la crescita dell'osso, anche la base di impianto si sposta, la sua inserzione, inizialmente metafisaria, può diventare diafisaria.
Anatomicamente l'esostosi si presenta come una escrescenza ossea rivestita, alla sommità da una calotta di cartilagine ialina, la quale tende ad assottigliarsi con il passare degli anni, fino a scomparire; sotto la cartilagine il tessuto osseo è spugnoso, con le trabecole disposte irregolarmente che imbrigliano midollo giallo e rosso.
Tutta la formazione esostosica è rivestita dal periostio, che aderisce alla calotta cartilaginea; quest'ultima può essere coperta da una borsa sierosa reattiva. La cartilagine che ricopre la esostosi ha una struttura istologica simile alla cartilagine di coniugazione. La diagnosi è facile.
La terapia è soltanto chirurgica e consiste nella resezione alla base.
Diventa necessaria soltanto se l'esostosi provoca disturbi funzionali o estetici. La possibilità di recidiva si ha soltanto se viene lasciata in situ una parte della calotta cartilaginea; la base ossea infatti non ha capacità di proliferazione.
ESOSTOSI MULTIPLA _____________________________________________________________
E' caratterizzata dalla presenza di amartomi cartilaginei multipli che si sviluppano sotto forma di esostosi, provocando spesso difetti di accrescimento delle ossa interessate.
E' più frequente nel maschio con un rapporto di 2,5/1 rispetto alla femmina e si trasmette ereditariamente in modo non del tutto preciso, ma con espressione fenotipica più evidente nel maschio. Il maschio portatore è sempre malato, mentre la femmina portatrice può essere sana.
Il decorso della malattia è analogo a quello della solitaria, ma è più frequente la possibilità di una degenerazione sarcomatosa. Le localizzazioni sono generalmente multiple, con diffusione più o meno generalizzata. La sintomatologia è caratterizzata, oltre che dalla presenza di tumefazioni ossee, dai difetti di accrescimento di alcuni segmenti scheletrici e dalla deviazione e deformazione di questi. La maggiore o minore diffusione ed il maggiore o minore sviluppo delle esostosi ne caratterizzano il quadro.
La diagnosi clinica e radiografica è solitamente facile.
La terapia consiste nella asportazione delle esostosi che provocano disturbi estetici o funzionali, nella profilassi delle deformazioni e nella correzione delle deformità, mediante interventi di osteotomia correttiva, di allungamento di arti, ecc.
ENCONDROMA
E' probabilmente un amartoma formato da cellule cartilaginee, che si sviluppa all'interno di un osso lungo. Si accresce lentamente e raramente subisce la trasformazione sarcomatosa. Si espande poi nell'osso ospite,determinando talora deformità evidenti dall'esterno.
Viene osservato generalmente in età giovanile o adulta sebbene il suo sviluppo risalga probabilmente fin dai primi anni di vita, senza predilezione di sesso. Si localizza nelle ossa di origine cartilaginea, con grande preferenza per le ossa lunghe delle mani e dei piedi; lo possiamo
trovare anche nelle altre ossa lunghe e raramente nel bacino e nelle vertebre.
La sintomatologia, a causa della lenta crescita del tumore, è spesso silente ed inizia generalmente con l'evidenza di una tumefazione. Può diventare dolente in seguito alla frattura della sottile corticale ossea che lo circonda, come spesso avviene in particolare nelle ossa delle mani e dei piedi.
Radiograficamente l'encondroma si presenta come una area osteolitica, a volte sedimentata, a contorni netti, che tende ad espandersi e rigonfiare l'osso che la contiene deformandolo; il periostio può formare, attorno al tumore, un sottile strato di osso compatto, radiograficamente visibile.
L'anatomia patologica ci permette di vedere una massa costituita da cartilagine ialina, di colore azzurrognolo, irregolare come conformazione e di consistenza friabile.
L'esame istologico è quello di una cartilagine ben differenziata. La diagnosi solitamente è possibile anche con il solo esame radiografico. Viene confermata dall'esame istologico.
La terapia consiste nella asportazione completa del tumore, mantenendo intatte le pareti dell'osso che lo circondano, le quali devono essere accuratamente pulite. La cavità viene poi riempita con osso autologo o di altra provenienza.
CONDROMATOSI MULTIPLA
Detta anche malattia di Ollier è caratterizzata dalla presenza di encondromi in svariate parti dello scheletro, i quali sono probabilmente di origine amartomatosa.
Non ha carattere ereditario ed è caratterizzata dalle deformità delle ossa colpite che possono presentare deviazioni assiali e difetti di accrescimento. La preferenza è per il sesso maschile. L'età in cui diventa sintomatica è generalmente quella della prima infanzia, specie per le forme più gravi.
La localizzazione dei condromi è molto variabile ma generalmente si osserva la predilezione per una metà del corpo; le ossa più frequentemente interessate sono quelle tubulari delle mani e dei piedi.
La sintomatologia è precoce, a causa del rapido accrescimento dei condromi, che provocano deformità evidenti soprattutto alle dita delle mani e dei piedi e difetti di accrescimento da un solo lato del corpo. Non rara l'insorgenza di dolore spontaneo o causato dalle fratture patologiche.
L'aspetto radiografico è caratteristico, sia nelle ossa delle mani, dove è simile a quello degli encondromi solitari, che nelle ossa lunghe, dove assume l'aspetto di colata di aree osteolitiche, in prossimità delle metafisi, che tendono a diffondersi alle diafisi; talvolta radiograficamente non è visibile il contorno osseo sotto periostale, per cui il tumore sembra diffondersi nelle parti molli circostanti.
L'anatomia è simile a quella del condroma solitario. La diagnosi non è difficile, ma può essere confusa con la displasia fibrosa. La terapia è chirurgica, limitatamente a quelle sedi in cui vi siano disturbi estetici o funzionali.
CONDROBLASTOMA
E' un tumore raro che origina probabilmente dal tessuto cartilagineo, costituito da un tessuto di tipo condroide, ricco di cellule che sono simili ai condroblasti. Predilige il sesso maschile in età compresa tra i 10 e i 20 anni e si localizza alle epifisi ed alle apofisi. Si espande lentamente distruggendo anche la cartilagine di coniugazione ed espandendosi quindi nella metafisi contigua.
La sintomatologia è generalmente tardiva e si manifesta con dolore in corrispondenza dell'articolazione vicina.
Radiograficamente si presenta come un'area osteolitica, centrale o eccentrica rispetto all'epifisi, a sede epifisaria, che si espande verso la diafisi, con limiti netti, ben definiti per la presenza di un orletto di osso sclerotico reattivo.
Anatomicamente si presenta di colorito bruno-grigio rossastro, di consistenza molle, con presenza di zone emorragiche e cavità cistiche, circondato da osso friabile. La cartilagine di coniugazione, che viene interessata può apparire degenerata. Istologicamente è costituito da un tessuto molle ricco di cellule poliedriche, con nucleo rotondeggiante e citoplasma abbondante; sono presenti anche cellule polinucleate (a 2-4 nuclei). La sostanza fondamentale intercellulare è scarsa. Tra le cellule si osservano frequenti focolai di calcificazione (patognomonici del tumore).
La diagnosi di certezza può essere fatta soltanto con l'esame istologico.
La terapia è chirurgica e consiste nella escissione del tumore, con una porzione di osso circostante. A questa segue il riempimento della cavità con innesti ossei autologhi ed eterologhi.
CONDROSARCOMI
Sono tumori maligni del tipo sarcomatoso nel contesto dei quali sono presenti cellule della serie cartilaginea.
Si distinguono condrosarcomi centrali, che originano all'interno dell'osso, condrosarcomi periferici che originano da una preesistente esostosi, oltre ai condrosarcomi periostei, mesenchimali a cellule chiare, di cui non trattiamo perchè più rari.
Il condrosarcoma è uno dei più frequenti tumori maligni dello scheletro, si manifesta prevalentemente nel sesso maschile in una età compresa tra i 20 ed i 60 anni, ma può comparire anche nel bambino e nell'adolescente. Le sedi preferite sono il bacino, il femore prossimale, la scapola, la tibia, la colonna e tutte le altre ossa di origine cartilaginea.
La sintomatologia è generalmente tardiva per la lenta evoluzione del tumore ed i primi segni clinici si possono avere a distanza di parecchi anni dall'inizio dell'evoluzione del tumore (anche 5 o più anni).
Nelle forme centrali il sintomo iniziale è il dolore che può diventare intenso quando vengono superati i limiti dell'osso e si spande nell'articolazione vicina. Nel condrosarcoma periferico il primo segno può essere dato dalla presenza di una massa voluminosa, dove prima si trovava una esostosi, che continua ad espandersi.
Esistono diversi gradi di malignità (I - II - III) che sono caratterizzati da una diversa rapidità di evoluzione e dalla più o meno precoce metastatizzazione; dai gradi inferiori, con il trascorrere degli anni, si può passare a quelli superiori ed il tumore assume quindi caratteri di più spiccata malignità.
Le metastasi sono generalmente per via ematica (rare quelle ghiandolari) e possono essere anche molto tardive, cioè a distanza anche di parecchi anni dall'inizio della sintomatologia.
Radiograficamente il condrosarcoma centrale è prevalentemente osteolitico, ma può impregnarsi di sali calcarei, assumendo successivamente radiopacità. L'area osteolitica si espande nella spugnosa poi supera la corticale dell'osso e deborda nelle parti molli circostanti.
Le aree calcifiche si osservano soprattutto nei tumori a più lenta evoluzione e quindi a più' bassa malignità.
Il condrosarcoma periferico si distingue più facilmente in quanto si manifesta attorno ad una primitiva esostosi, come una massa abbondantemente calcificata, che assume spesso la forma del cavolfiore.
In alcuni casi la opacità è minima ed è intercalata da aree radiotrasparenti le quali sono indice di maggior malignità del tumore.
Anatomicamente l'aspetto macroscopico e microscopico variano a seconda del grado di malignità del tumore.
L'esame istologico deve essere fatto su cartilagine non decalcificata per avere un quadro più preciso. Nella forma periferica la cartilagine in genere è ben differenziata, appare molto più vitale e rigogliosa di quanto non si osservi nella forma centrale.
Si riscontrano nei due tumori, tre gradi di malignità.
Nel grado I è spesso difficile la distinzione dal condroma, data solo dalla presenza di cellule che dimostrano una maggiore tendenza alla proliferazione.
Nel grado II la atipia cellulare è più evidente. I nuclei delle cellule sono più voluminosi; sono abbondanti le cellule con più nuclei, ipercromici. Nel suo contesto sono presenti aree mixoidi, con
cellule a forma fusata o stellata. Nella forma centrale si osserva la penetrazione del tumore negli spazi midollari dell'osso.
Nel grado III si osserva ancora la differenziazione cartilaginea. Le cellule sono più spesso atipiche, con nuclei molto ipercromici, numerose ed abbondantemente polimorfe. L'osso circostante viene rapidamente infiltrato.
Le caratteristiche istologiche descritte non sempre sono evidenti in tutto il tumore per cui la diagnosi di malignità può essere fatta soltanto dopo una accurata ricerca su numerosi preparati istologici eseguiti su prelievi da diverse sedi del tumore.
La terapia deve tenere conto che in questi tumori esiste sempre una progressione di malignità che può arrivare alla differenziazione cellulare ed ad un conseguente aumento di aggressività. La cura è esclusivamente chirurgica e va dalla resezione abbondante, quando sia risparmiata la corticale, alla amputazione, quando il tumore invade le parti molli circostanti.
Il tumore è radioresistente e non è sensibile agli antiblastici.
TUMORI DI ORIGINE FIBROSA ED ISTIOCITARIA
FIBROMA ISTIOCITARIO
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E' un tumore spesso asintomatico che si riscontra con una frequenza del 5%.
Si tratta di una forma di natura benigna che si osserva fino ai 20 anni di età.
La sede è metafiso-diafisaria specie all'estremità inferiore del femore, alla tibia, al perone ed all'omero. Nel 10% dei casi si può osservare una frattura patologica. Radiograficamente si osservano erosioni eccentriche dell'osso; è presente un orletto sclerotico particolarmente nelle ossa più voluminose. La terapia è chirurgica e consiste nello svuotamento ed eventuale riempimento della lacuna ossea con trapianti.
TUMORI DI ORIGINE MESENCHIMALE MIDOLLARE
SARCOMA DI EWING
Si manifesta prevalentemente nei giovani adulti o negli adolescenti. La sedi più colpite sono le metafasi delle ossa lunghe e le ossa piatte.
Sintomatologicamente è il dolore che conduce il paziente dal medico, nell'anamnesi si riscontra spesso un trauma. E' presente una tumefazione e le parti molli sono infiltrate, spesso arrossate e calde. Il dolore è di tipo continuo, penetrante, ed è causato dalla rapida infiltrazione tumorale che investe il periostio e di conseguenza le parti molli. Questi fatti possono far pensare in un primo tempo ad una forma osteitica. Le condizioni generali decadono rapidamente ed è spesso riscontrabile un rialzo della temperatura ascellare.
Gli esami ematochimici sono caratterizzati da un elevatissimo aumento della fosfatasemia alcalina e della. VES Spesso è presente leucocitosi.
L'esame radiografico mostra immagini sia osteolitiche che osteosclerotiche; si osserva una rapida distruzione periostale con invasione dei tessuti circostanti. La reazione periostale prima della distruzione è caratteristica per la sovrapposizione di strie di addensamento osseo alternate con strie di radiotrasparenza, assumendo una conformazione a "bulbo di cipolla".
La diffusione anatomica va dalle parti molli al cavo midollare; sono presenti nodosità grigio-biancastre che si alternano a zone emorragiche.
Istologicamente si distinguono cellule piccole, di forma rotondeggiante, che si raggruppano in noduli (pseudorosette) la componente reticolare è scarsa.
Il sarcoma di Ewing metastatizza frequentemente ai polmoni, al cervello ed in altri distretti scheletrici, per cui la prognosi è infausta.
La terapia è radiante e antimitotica. Il tumore regredisce molto rapidamente, ma recidiva in una percentuale superiore al 60% dei pazienti trattari. Nelle forme ancora localizzate al trattamento chemioterapico segue l'asportazione chirurgica.
ALTRE FORME TUMORALI DELLO SCHELETRO
CISTI OSSEA SOLITARIA
E' inclusa tra i tumori primitivi benigni dello scheletro anche se la sua etiopatogenesi non è ancora del tutto chiarita.
Le sedi predilette sono le zone metafiso-diafisarie delle ossa lunghe nei bambini e negli adolescenti.
Un segno caratteristico è il fatto che non supera mai la cartilagine di accrescimento.
Macroscopicamente appare come una cavità formata da tessuto connettivo fibroso con un contenuto liquido; si ritrovano cellule del tipo istiocitario, fibrocitario o linfomonocitario.
La sintomatologia clinica può essere del tutto silente: in altri casi è caratterizzata dal dolore e della tumefazione della zona interessata di lieve entità non di rado le fratture patologiche sono il primo segno della malattia e vanno generalmente trattate incruentemente perchè spesso favoriscono la spontanea guarigione della neoplasia.
L'esame radiografico è patognomonico in quanto si apprezza un'immagine di rarefazione ossea con formazione di una cavità unica all'interno dell'osso circoscritta da una corticale sottile, con aspetto soffiato, caratteristicamente situata in posizione centrale rispetto al cilindro diafisario. A volte si apprezzano zone di aumentata opacità che partono dalla corticale conferendo un aspetto lobulare alla cisti, segno di pregresse fratture delle pareti ossee.
La terapia è chirurgica ma spesso è sufficiente svuotare il contenuto, introducendo un ago in anestesia locale, ed iniettando un cortisonico; la manovra può essere ripetuta 3-4 volte, ottenendo la progressiva guarigione della formazione cistica. L'intervento chirurgico consiste in una accurata toilette della parete; se le dimensioni della cavità sono notevoli e tali da non far permettere uno spontaneo riempimento è necessario colmarla con trapianti ossei.
CISTI OSSEA ANEURISMATICA
Sembra che origini in seguito ad una emorragia locale, l'insorgenza è tipica tra i 10 e i 20 anni anche se ne vengono descritti casi riscontrati in età pi avanzata e più giovane. Le sedi tipiche di localizzazione sono in ordine di frequenza: la tibia, il femore e le vertebre.
Anatomicamente si tratta di una grossa cavità con contenuto ematico, suddivisa in lobuli da setti fibrosi. All'esame istologico si osservano pigmenti emosiderinici, pareti endoteliali e coaguli ematici.
I sintomi clinici sono rappresentati da dolore, limitazione funzionale e tumefazione che nelle cisti aneurismatiche di vecchia data può essere tale da raggiungere anche le dimensioni di una arancia. Spesso ad un attento esame anamnestico emerge la storia di un trauma anche di scarsa rilevanza a livello del segmento colpito.
L'esame radiografico è tipico per una lesione a carattere osteolitico con un assottigliamento della corticale.
Il trattamento è chirurgico e consiste nello svuotamento della cavità e successivo riempimento con trapianti ossei o con altri materiali osteoconducenti, come la idrossiapatite o l'osso deproteinizzato.
Fonte: http://www.area-c54.it/public/appunti%20di%20ortopedia%20e%20traumatologia%20-%20testo_0.doc
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