Antropologia del corpo femminilità e acconciature

Antropologia del corpo femminilità e acconciature

 

 

 

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Antropologia del corpo femminilità e acconciature

«La cultura agisce sul corpo fisico del singolo e lo modella scegliendo, tra le tante possibili, quelle forme, quei modi di essere che sono coerenti con la maniera in cui affronta problemi e valori quali la vita e la morte, il lavoro e la festa, la natura dell’uomo e il suo destino, il piacere e il sapere. Ossia, esiste anche una coerenza tra la determinazione dei valori riconosciuti come fondamentali in una società in un certo periodo storico e il tipo di rapporto che essa instaura con il corpo.»
Tratto da “Il grido e la carezza” di Mariella Combi

 

 

Tra ciocche, nodi e trecce giace una parte della nostra identità
Nadia

 

 

«(…)il corpo stesso diventa uno strumento di espressione estremamente determinato: le forme che esso assume nel movimento e nel riposo esprimono per vie molteplici le pressioni sociali. Le cure che gli vengono dedicate, per la pulizia, l’alimentazione, la terapia; le teorie sulla necessità del sonno e dell’esercizio, su come esso si trasforma nel tempo, su come e quanto sopporta il dolore, su quanto a lungo può sopravvivere; insomma tutte le categorie culturali attraverso cui il corpo viene percepito devono essere strettamente correlate con le categorie attraverso cui è vista la società.»
Tratto da “I simboli naturali” di Mary Douglas

Introduzione

I capelli rappresentano un paradosso nell’ambito umano e antropologico, in quanto sono considerati scarti del corpo (come possono essere le unghie o lo sputo), e allo stesso tempo rappresentano un legame indissolubile con la persona e la sua identità, tanto da poter diventare oggetto di riti magici, stregonerie e malefici in ogni cultura e in ogni epoca. Il capello reciso è quindi un appendice stessa della persona e rappresenta la sua vera identità, per questo va tutelata. Nella donna il capello acquisisce un’ ulteriore valenza, quella legata alla femminilità, alla sensualità, al tabù. I capelli e l’acconciatura sono quindi uno dei poteri della donna e dalla sua femminilità, e questo fattore può scatenare anche un’arma a doppio taglio. La donna, da sempre e in moltissime culture, ha vissuto su di sé il pericolo della violenza, il peso dell’essere donna, del poter o non poter esprimere liberamente la propria femminilità. La femminilità, che venga percepito in modo conscio o inconscio dall’Altro, è un potere e come tale fa paura. La paura nei confronti della donna spesso non è controllata e può scatenare violenze e soprusi di cui purtroppo siamo sempre più spesso spettatori inermi. Come si lega la paura verso la donna e la sua sensualità, la violenza verso il mondo femminile e i capelli? I capelli sono stati tagliati, rubati, strappati, segretamente custoditi, rasati, e così via: sono cioè diventati uno strumento diretto per umiliare la donna, per dimostrarle la sua sottomissione ad un potere più alto (che si tratti di un uomo, una dittatura politica, un regime, una divisa, un ordine religioso). Il capello rappresenta un archetipo e per questo scatena dei meccanismi inconsci che apparentemente non possiedono una motivazione logica, in realtà questo tipo di violenza può essere studiato da un punto di vista antropologico e come si potrà leggere dal saggio completo i capelli contengono una storia e una simbologia che racconta la donna, racconta la violenza che la donna subisce, anche quella violenza “nascosta”, psicologica: come l’umiliazione di essere rasate perché adultere o perché appartenenti ad una determinata fede religiosa o gruppo politico, oppure quella di diventare vittime di un marito geloso che taglia ciocche di capelli per rabbia1, o del feticista che a Bologna ha tagliato le chiome di nascosto sugli autobus per poi conservarle, o infine di essere minacciate con una pistola da quel gruppo che in Argentina ha reciso i capelli, per poter poi rivendere la coda di cavallo ad un mercato di extension o parrucche…


“La tua analisi si basa sul fatto che le disuguaglianze sono al centro degli scambi sessuo- economici…”

«Sì, sono alla base degli scambi sessuo-economici e nello stesso tempo gli scambi sessuo-economici sono il cemento del potere maschile, un potere, per così dire, blindato…
L’organizzazione dei rapporti di scambio sessuo-economico. Riprendiamo un caso, quello di Nisa (Shostak 1983). Nisa è una donna di una popolazione di cacciatori raccoglitori del deserto del Kalahari in Namibia, i !Kung.. Ne parlo nella Grande Beffa per mostrare come lo scambio sessuo-economico faccia parte di un saldo intreccio strutturale. E come ne sia un elemento determinante.
Nisa assai giovane, di fatto ancora una bambina, apprende che verrà presto data in sposa, dovrà accettare un marito: se prima le dava da mangiare suo padre, ora sarà lui, il marito, a procurarle il cibo, le cose indispensabili per vivere, in primo luogo la carne, I prodotti della caccia ai quali le donne non hanno altrimenti accesso. In cambio lei gli deve riconoscenza, gratitudine e rapporti sessuali. E Nisa, nonostante una lunga resistenza alla fine sarà costretta, in primo luogo con la violenza, ad accettare la sessualità che le viene imposta, ad adattarsi ad essa. In numerose società le donne dipendono da un uomo per avere accesso alle risorse indispensabili per vivere. Questa dipendenza è legata alla divisione sessuale del lavoro: le donne non hanno strumenti e in particolare non hanno accesso alle armi (e questo nel nostro caso, il caso dei !Kung, vuol dire non potere cacciare). Ne parlo nel testo “Mani, strumenti, armi” (Tabet 1979). Allora metti insieme in una coppia, come nella società nel suo insieme, divisione sessuale del lavoro, scambio sessuo-economico, sessualità e riproduzione e hai l’intreccio potente che costituisce la struttura di base della dominazione degli uomini sulle donne.      Ora è chiaro che nelle società occidentali attuali le cose non sono proprio così. E tuttavia…»

“Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia. Pochi sono gli antidoti autorizzati a questo struggimento. Ci hanno insegnato a vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. Ma l’ombra della Donna Selvaggia ancora si appiatta dietro di noi, nei nostri giorni, nelle nostre notti. Ovunque e sempre, l’ombra che ci trotterella dietro va indubbiamente a quattro zampe.”

Tratto da “Donne che corrono coi lupi” di Clarissa Pinkola Estés


La storia dei capelli e delle acconciature

Nel mondo antico il valore legato alla capigliatura trova la sua essenza nella convinzione che la testa raccolga il seme della vita, mentre la coscienza e il pensiero (che noi normalmente leghiamo alla testa e al cervello), sono posti nel cuore e nei polmoni. Questa concezione dell’anatomia umana deriva innanzitutto dal fatto che il cervello e la sostanza cerebrospinale è ritenuto il principale veicolo del fluido seminale. Prima di avventurarci nel mondo delle acconciature, delle particolarità legate ai capelli nelle varie culture e varie epoche, è necessario fare un passo indietro per rendersi conto di come la cura del capello e la sua bellezza siano sempre stati presenti nella storia dell’uomo e della donna, fin dai tempi più antichi, anche quando non esisteva uno specchio dove specchiarsi, o un concetto di estetica e di importanza data all’immagine esteriore così forte ed elaborata come nell’epoca attuale. Farò un breve excursus storico, sicuramente non sarà abbastanza esaustivo per motivi di spazio, ma cercherò di dare almeno l’idea della diffusione di una cultura delle acconciature, partendo proprio dall’uomo primitivo: a Brassempouy, in Aquitania (Francia), fu trovata una statuetta di avorio di mammut, datata dagli archeologi 22.000 a.C., ovvero dopo la fine dell’era glaciale. Questa immagine è stata sopranominata “La signora della cappa”, la “cappa” in questione parrebbe essere un’acconciatura precisa e curata nei dettagli, intenzionalmente quindi orientata. Più o meno contemporanea sembra essere la “Venere di Willendorf”, trovata a Willendorf (Austria) e datata 25.000 a.C. anche in questo caso si riscontra una certa importanza e una certa attenzione data ai capelli e alla loro messa in piega, il che indica anche una certa consapevolezza del gesto necessario per sistemarsi i capelli in una qualunque maniera, un gesto legato al nostro corpo e alla sua antropologia.

Gli oggetti più antichi che sono stati ritrovati negli scavi archeologici pare siano proprio i pettini, oggetto prodotto con materiali diversi quali: osso, legno, corna, lische di pesce; confermando ancora una volta l’attenzione e la consapevolezza data ai capelli e alla loro cura.

Mesopotamia: Sumeri, Accadi e Babilonesi

Il nome dei Sumeri, per lo meno quello che loro utilizzavano per chiamare se stessi, era “Sag-giga” che significa “gente dalla testa nera”, proprio per descrivere se stessi e quindi la propria identità attraverso una caratteristica corporea legata alla loro etnia, ossia il colore dei capelli che contraddistinse sia i Sumeri che le popolazioni della Mesopotamia che gli succedettero. Le donne portavano i capelli lunghi, raccolti in chignon e gli uomini radevano sia la barba che i capelli. Le donne nobili tingevano i capelli con delle pigmentazioni color oro e decoravano l’acconciatura con pettini preziosi, i capelli venivano anche profumati con olii aromatici, che spesso servivano anche per fattori igienici e per tenere lontani eventuali
parassiti. A partire dal secondo millennio, con gli Accadi, (popolazione semitica giunta    dopo i Sumeri,furono proprio loro a dargli questo appellativo) gli uomini cominciarono a portare la barba tagliata a forma quadrangolare e ad arricciarsi i capelli. La tintura dei capelli con l’henna è entrato nell’uso comune a partire dai Babilonesi, oltre che per fattori estetici, si pensava che questa pianta avesse proprietà magiche e potesse quindi cacciare gli spiriti maligni, inoltre l’henna aveva proprietà medicinali, essendo un ottimo anti-fungino e unguento per il trattamento della cute. Come vedremo in molti altri esempi lungo  l’arco storico qui brevemente illustrato, molto  spesso  le  abitudini  legate  all’acconciatura,  o  le proibizioni e imposizioni su come portare capelli, barba e baffi, nascono proprio dall’incontro di due culture diverse o di due religioni diverse che cominciano a convivere sullo stesso territorio, oppure – nel caso di proibizioni e imposizioni – si tratta del gesto di un invasore sulla popolazione dominata, in segno di potere politico e forza sull’altro, ma anche come bisogno di mantenere vive le proprie tradizioni originarie, purtroppo a volte però usando la forza e la violenza senza esitazioni. A tal   riguardo anche Mariella Combi afferma:
«Acquistano particolare importanza i messaggi che l’ideologia dominante, in un certo periodo storico e in una particolare società, mette a disposizione dell’individuo. Essi implicano, infatti, forme di spiegazione e di razionalizzazione tendenti a far emergere sia alcuni aspetti, alcune puntualizzazioni della realtà sociale e naturale e non altri, sia prescrizioni riguardanti comportamenti disponibili o consentiti ai vari livelli e specie di individui e gruppi che compongono il sistema. Tali sistemi  di messaggi hanno come scopo proprio quello di spiegare perché il mondo è così com’è, fornendo contemporaneamente delle indicazioni che servono a mantenere coerente il sistema e a rassicurare l’individuo sulla posizione che occupa al suo interno. Il corpo e la parola rientrano in queste spiegazioni e prescrizioni»


 

Cina

In tutta la sua storia il popolo cinese ha dato grande importanza all’acconciatura, fornendogli anche grande valore simbolico, indicatore dello stato civile o sociale della persona, della religione o della professione. Prima della dinastia Qing (che regnò dal 1644 al 1911) gli uomini di etnia Han (la quale rappresenta il 98% della popolazione cinese) portavano i capelli pettinati indietro con la fronte rasata. Quando la dinastia Qing prese il potere, trattandosi di una famiglia appartenente alla minoranza etnica Manciù, proveniente dalla Manciuria, impose immediatamente la propria estetica riguardante i capelli e l’acconciatura, infatti proibì il precedente stile, e impose il così detto “ordine del codino”: questo consisteva nella rasatura ogni 10 giorni della parte sopra le tempie, mentre il resto dei capelli andava raccolto in una lunga treccia. Ci furono lotte intestine molto sanguinose a causa di questo editto, un’imposizione che prevedeva la pena di morte per gli avventori, e che fu abolita solo nel 1910 in quanto stava decadendo la dinastia, nel 1922 l’ultimo imperatore Qing ancora vivente si tagliò simbolicamente la treccia.

 


Le donne Manciù invece erano conosciute come donne “dalla testa d’oro e i piedi celesti”, le ragazze portavano una treccia sulla schiena ornata sulla testa con gioielli o pietre preziose. Nella storia della Cina si possono vedere le più belle ed elaborate acconciature, vere e proprie impalcature arricchite con gioielli, pendenti, fiori, pietre preziose. Secondo il Confucianesimo, infatti, il taglio dei capelli in una donna è segno d deformazione e mutilazione.

India

Durante i primi insediamenti nel territorio che ora chiamiamo India, la forma e l’aspetto dei capelli era indicatore dell’etnia di provenienza, inizialmente giunsero i Negroidi dall’Africa, poi gli Australoidi, i Mongoloidi, i Dravidici che fondarono e svilupparono la civiltà dell’Indo e infine giunsero gli Ariani. Nel periodo vedico, quello che contraddistingue l’invasione da parte degli Ariani e il loro incontro/scontro con le popolazioni Dravidiche pose fine alla civiltà dell’Indo e si instaurò al suo posto un nuovo sistema sociale di tipo piramidale, con l’introduzione delle caste. I capelli cominciarono ad esprimere ed indicare le diverse appartenenze. La casta dei Bramini, ovvero dei sacerdoti, veniva rasata, tranne per un ciuffo dietro la testa. L’india venne successivamente invasa dai Greci con Alessandro Magno, i quali influenzarono (qui, come in tutti gli altri territori da loro invasi), l’estetica riguardante anche le acconciature. Un esempio di questa inculturazione è data da una delle prime rappresentazioni scultoree del Buddha, in cui porta i capelli raccolti in un alto chignon, tipica acconciatura greca. Precedentemente, infatti, il Buddha veniva rappresentato solo simbolicamente e mai per il suo aspetto fisico. Con la successiva invasione mussulmana si assistette ad altri sincretismi culturali, soprattutto fra la classe dirigente, tra cui l’uso del velo per le donne e quello dei baffi, della barba e delle lunghe basette per gli uomini, nonostante la loro non fosse stata un’imposizione, e anzi sono sempre stati considerati una popolazione tollerante verso i costumi locali.

Egizi

Al contrario della credenza popolare che gli antichi egizi fosse tutti mori, ve ne erano parecchi anche biondi, soprattutto nel periodo predinastico. Era in voga l’uso dell’henna, era usanza radere la testa per motivazioni igieniche, infatti anche negli scavi archeologici è stato possibile testimoniare il fatto che questa popolazione era afflitta dalle lendini. I capelli venivano ornati con accessori, ma anche con parrucche fatte di capelli umani e di lana di pecora nera, lo stile delle acconciature era spesso stravagante, venivano anche utilizzate extension e trecce finte. La parrucca era usata sia da donne che da uomini, per coprire la testa rasata, questa veniva ornata con nastri e cerchi metallici che circondavano il capo all’altezza della fronte. Lo stile dei capelli non era segno indicatore del genere di appartenenza, come per altre culture, ma per lo più del gruppo sociale, ma l’uso della parrucca era riservato ai dignitari e alle loro famiglie. Le acconciature e le loro variazioni, in questa società, segnano soprattutto il passaggio  dall’età


infantile all’età adulta., e anche il grado sociale raggiunto. Ai bambini veniva posto un ciuffo di capelli al centro del capo, raccolto in un codino, quando il fanciullo entrava nell’età adulti il codino veniva tagliato. I faraoni utilizzavano complicate parrucche ornate in modo vistoso, in modo da rappresentare al meglio la divinità di cui rappresentavano la reincarnazione. Nel periodo di Cleopatra, ovvero verso il termine della civiltà egizia, l’Egitto viene annesso all’Impero Romano e così anche le acconciature si affinano più allo stile greco (acquisito a sua volta anche dai romani).

Antichi Ebrei

La religione ebraica proibiva il taglio dei capelli a scopo divinatorio, infatti nelle religioni più antiche venivano spesso tagliati i capelli per donarli alle divinità, ma per gli ebrei il taglio dei capelli era visto come un segno di afflizione o umiliazione per un peccato commesso, infatti era accettato solo in casi quali il lutto. I capelli venivano portati lunghi e folti, la calvizia non solo era considerata un difetto, ma addirittura una maledizione. I capelli venivano curati e abbelliti con l’uso di oli aromatici, i quali venivano spalmati anche sulle teste dei visitatori in segno di benvenuto.

Antica Grecia

Il taglio e lo stile con cui venivano portati i capelli era indice del proprio status sociale: gli schiavi ad esempio si radevano la testa, mentre le persone appartenenti a classi superiori avevano capelli ornati in modo prezioso ed elaborato, profumati con oli aromatici, ma l’acconciatura era per lo più naturale, un cambio di stile si ebbe attorno al V sec. per le donne, le quali cominciarono a portare i capelli lunghi tenuti su da una fascia, inoltre andò in disuso il costume di portare una treccia come segno del proprio stato civile. Dopo Alessandro Magno, nel 323 a.C., si cominciarono ad usare diversi tipi di acconciature, chignon, trecce, frangia, capelli legati con diademi, la caratteristica acconciatura chiamata “stile melone”. In quest’epoca nasce anche la professione del barbiere, ma per ora esclusivamente per gli uomini, il quale anche un importante diventa luogo di socializzazione nell’agora.


La donna nell’antica Roma

 

I capelli rappresentano sicuramente, in passato come nel presente, segno di seduzione, a volte aspetto centrale dell’atto seduttorio. I capelli emanano messaggi inequivocabili riguardanti la condizione sociale, il contesto, lo stato d’animo della persona, per fare ciò i capelli assumono vari simboli su di loro.
Nell’antica Roma, per fare alcuni esempi, le Vestali portano i capelli raccolti dall’infula4 e annodati con la vitta. L’acconciatura sacra porta con sé il simbolo della castità. La vitta è segno di pudicizia per tutte le donne, fossero vergini o matrone. Il simbolo lo si ritrova anche nella mitologia: infatti si racconta che Rea Silvia sia stata violentata nel sonno da Marte, al suo risveglio non ricorda cosa sia accaduto, ma percependo una situazione di disagio, si ricorda solo che le era caduta la vitta. A proposito di Medea, invece, piangendo prima della sua unione con Giasone, bacia come segno di distacco la vitta virginale, appunto segno della virginità che sta per perdere.
Disperazione e lutto, invece, vengono rappresentati dalla chioma sciolta e disordinata, il capello che non è legato, vincolato è segno di supplica, di apertura e disponibilità nei confronti del divino, quindi sono anche indice di disperazione e di preghiera. L’idea del vincolo, del nodo, dell’impedimento è presente anche in contesti molto diversi, come il parto: la donna, racconta Ovidio, deve essere facilitata al parto lasciandole i capelli sciolti. Vi sono credenze popolari che associazione questa regola (espressa non solo attraverso i capelli sciolti, ma anche sciogliendo pettorali, calzari, lacci e bende di ogni tipo), al fatto che il parto non voglia nodi, altri invece pensano che sia solo una precauzione per la testa della partoriente, che ne riceve così beneficio. Penso che la credenza popolare non sia poi così priva di logica, anche fosse solo un atto scaramantico, in quanto non si spiegherebbe altrimenti come mai questa regola debba essere seguita anche da tutti coloro che assistono al parto. Elemento di seduzione ed erotismo è la chioma bionda, le ragazze si tingevano i capelli utilizzando lo zafferano, che dà anche il nome ad una precisa tonalità di biondo, il flavus. Per chi non possa o non voglia tingere la chioma, vi sono le parrucche, meglio se fatte con i capelli delle prigioniere germaniche, come si racconta facesse Messalina. La parrucca bionda veniva usata dalla prostitute, mentre le matrone utilizzavano quella nera. Ma sia Ovidio che Tertulliano affermano che la vera bellezza è costituita dalla chioma sobria, quasi in disordine, una semplicità in realtà studiata e apparente.
«L’uso “alternativo” delle parrucche nell’antica roma: a dimostrazione del passare veloce delle varie mode, esistono alcuni particolarissimi esemplari di busti in marmo nei quali le capigliature sono fatte con delle vere e proprie parrucche intercambiabili, sfilabili e sostituibili con altre più “aggiornate”.


Questo era un ottimo espediente usato dagli scultori per gratificare la vanità delle loro committenti alle quali non piaceva sicuramente vedere il proprio volto con un’acconciatura non più in voga. Solo in alcuni casi, ed in particolare durante il neollenismo adrianeo e l’età antonina, veniva utilizzato addirittura del marmo giallo o nero che enfatizzava anche la tinta della chioma e la metteva in primo piano».
Altro elemento carico di erotismo è il movimento della chioma, come racconta nella storia di Europa, rapita da Giove sotto forma di toro, le cui chiome si muovono al vento. Stessa suggestione è data dall’immagine di Venere che si presenta al figlio Enea sotto l’aspetto di una giovane cacciatrice dai capelli liberi al soffio del vento; oppure dalla corsa disperata di Dafne, inseguita da Apollo che la vuole profanare, e il cui movimento delle chiome al vento è anticipazione sensuale alla sua metamorfosi in pianta di alloro. Anche nella commedia latina il “trucco e parrucco” ha uno specifico scopo identitario, infatti la tipologia del personaggio messo in scena viene rappresentato e identificato attraverso anche un uso determinato del capello e dell’acconciatura, la quale quindi diventa fonte di identificazione delle caratteristiche emotive e psicologiche del personaggio. Prima dell’introduzione delle maschere venivano usate parrucche, a seconda del colore e della tipologia questa poteva segnalare l’età del personaggio, le caratteristiche psicologiche e la professione. Ad esempio «tra le donne di età avanzata, la lupa-lena, secca, alta, strabica e giallastra, ha i capelli ricci e bianchi nel mosaico di Seleucia-Zeugma (fine II-inizi III sec. d.C.) acconciati alla moda del tempo, mentre seguono fogge più convenzionali nel mosaico tardo – ellenistico (…) ed in quello di avanzato III sec. d.C.».  La “vecchia grassa” viene rappresentata con capelli crespi   e tenuti da una fascia, la “giovane chiacchierona”, probabilmente una moglie, ha capelli neri e lunghi a volte velati, la “fanciulla” ha morbide ciocche brune, divise sulla metà del capo e che cadono dietro      le  orecchie, “l’etera7  perfetta” ha le chiome rosse o rossicce, e sfoggia molte diverse acconciature, anche complesse: grandi trecce, ciocche svolazzanti, arricchita dall’uso di colori anche nelle rappresentazioni dei mosaici, la “servetta della moglie ingannata” ha capelli tagliati corti, forse a caschetto, le “colte cortigiane greche” avevano le chiome elegantemente annodate al modo spartano, alle prostitute non erano permesse stola, instita e vittae crinales e per strada dovevano indossare la toga, solo quando dovevano attirare gli sguardi solevano  usare   vesti  trasparenti   ed   eccedevano  in  gioielli ed ornamenti, oltre alla stravaganza dell’abbigliamento  seguiva  quella  dei  capelli:  venivano tinti di biondo oppure era frequente l’uso di
«parrucche germaniche o si connotavano in senso etnico: le Frigie li coloravano di blu, le Siriane li ornavano con la mitra (…). Un grave problema era quando la chioma sfioriva, privando la donna del segno più immediato di bellezza, gioventù e buona salute.»


Alcune acconciature dell’Antica Roma, pur ricordando che le mode si sono susseguite, diversificando soprattutto il periodo storico della prima età repubblicana, dove donne uomini si acconciavano con la massima semplicità, mentre nel corso dei I secolo a.C. i romani, potenti “padroni del mondo”, scoprono lusso e raffinatezza.
«Sino al secolo III a.C. gli uomini portavano barba, baffi e capelli incolti e solo lentamente si venne diffondendo l’uso di radersi barba e baffi e di tagliare i capelli molto corti, portandoli semplici, senza scriminature, verso le tempie. Da quel momento l’uso di radersi il viso, raggiunta la maggior età, sarà la regola per il romano ben educato, mentre la barba incolta caratterizzerà le classi sociali più basse, o, se lunga, la categoria dei filosofi. Verso la tarda età repubblicana i giovani più raffinati, pur tenendo i capelli molto corti, prediligono portare le ciocche, talora opportunatamente arricciate sulla fronte e disposte a ghiera, lavorandole con il calamistrum, strumento già in uso tra i greci e gli etruschi»9
Nel I secolo a.C. era diffusa la cosiddetta pettinatura a melone, testimoniata anche nel mondo greco, che influenzò molto, assieme ai popoli orientali ed egizi, la cultura e la moda romana. Questa pettinatura consisteva in una divisione delle ciocche in linee parallele e ondulate, appiattite con una fascia posta sulla fronte e strette lungo il capo, terminando poi sulla sommità della testa in una corona di riccioli stetti a loro volta, i capelli a lato del capo venivano chiusi in due doppie trecce, incorniciando infine i lati del viso con boccoli che scendevano sul collo.
La pettinatura all’Ottavia utilizzata non solo da Ottavia, sorella di Augusto, ma anche da Fulvia, moglie di Marco Antonio e da Livia, seconda moglie di Augusto. Questo stile ha visto molte modifiche dettate dalla moda e dalla creatività delle donne romane, come ad esempio attraverso l’introduzione dell’uso del calamistrum ai lati del volto, che aiuta nella creazione delle morbide onde che coprono la parte superiore delle orecchie e si congiungono sulla nuca sotto forma di piccolissime trecce o di ciocche ritorte in una crocchia di discrete dimensioni. Sulla fronte, una piccola parte della chioma si avvolge in un ricciolo che viene dapprima ripiegato su se stesso come un cuscinetto, detto nodus, per congiungersi poi con una ciocca, o più spesso con una treccia, che si inserisce nella crocchia.
La moda e i modelli da seguire si diffondono grazie ai ritratti ufficiali dell’imperatore e delle persone a lui vicine, e  attraverso le monete.

 


Alcuni concetti dell’antropologia del corpo

 

«Identità “non è restare presso di sé, bensì avere cura di sé nell’incontrare gli altri (…)”.»

 

L’uomo è anche un corpo. Anzi, potremmo affermare che è soprattutto un corpo, non perché questa sua componente sia la più importante ma perché è sicuramente la prima che vediamo, osserviamo e soppesiamo, è lo strumento con cu ci presentiamo al mondo e agli altri, è una delle principali cause della nostra soddisfazione o insoddisfazione riguardo noi stessi, è quindi l’ arma con cui ci auto-critichiamo e auto-valutiamo, è la prima causa del nostro giudizio sugli altri. Il corpo hai suoi strumenti, le          sue appendici, il suo contatto con il mondo esterno, attraverso le mani, i piedi, i 5 sensi. Attraverso il corpo si definisce e si costruisce la nostra cultura. Al corpo è collegato anche il gesto, ovvero ciò che Marcel Mauss definisce “tecniche del corpo”. Marcel Mauss scrisse il saggio “Le tecniche del corpo”  nel 1950, contenuto nel testo “Teoria generale della magia”, e definisce le tecniche del corpo come «i modi come gli uomini nelle diverse società si servono, uniformandosi alla tradizione, del loro corpo». Ci sono diverse scelte che una persona può fare sul come agire, quali gesti compiere, in che sequenza, con che manualità, con che atteggiamento corporeo, quali strumenti usare e come usarli… ecc. L’autore ci spiega che queste scelte sono dettate dalla tradizione specifica della società che stiamo analizzando.    Ciò che spesso ci sembra banale o scontato non lo è, ciò che crediamo non possa essere fatto in modo diverso da come lo facciamo tutti i giorni, in realtà avrebbe decine e decine di modalità differenti.  Mauss continua la sua analisi e ci racconta che la tecnica del corpo adottata va analizzata sia da un punto di vista storico-culturale (e qui possiamo intuire quanto la tecnologia e il mondo virtuale influiscano su questo aspetto), ma anche osservando il ritmo e la ripetitività dei gesti, che vengono arricchiti dalla ricerca di un contatto attraverso i cinque sensi, che  ci aiuta,  ovviamente  in modo  inconscio,  a riproporre elementi di un passato che possiamo solo ricordare, riformulare, mettendolo in relazione  con il tempo presente. In questo modo la tradizione si crea, attraverso la sua ripetizione, e viene trasmessa. In questo l’uomo si distingue dagli animali: per la trasmissione delle sue tecniche e per la   loro trasmissione orale, il corpo è il primo e più naturale oggetto tecnico e allo stesso tempo, mezzo tecnico dell’uomo. Mauss diceva che le tecniche del corpo sono forme di riconoscimento collettivo e identitario, ma anche modelli per la società, a cui si avvale il singolo individuo nel processo di identificazione all’interno del gruppo e di formazione personale per la sua quotidianità. S comprende così anche come il singolo individuo sia fondamentale per il successo della società nel suo complesso, e quindi quando potere di azione abbiamo, nel bene e nel male. La società serve all’individuo, ma senza l’individuo la società non potrebbe esistere.



Mauss, sempre più ispirato nella sua analisi, ad un certo punto del saggio già citato, ci dice che «abbiamo commesso l’errore fondamentale di ritenere che esistano delle tecniche solo quando ci sono strumenti». In sintesi l’autore  ci dice che ci stavamo dimenticando dell’uomo, e spesso  lo facciamo ancora!     Poi prosegue, «Io chiamo tecnica un atto tradizionale efficace, e vedete che sotto questo aspetto esso non differisce dall’atto magico, religioso, simbolico. Occorre che sia tradizionale ed efficace». Mauss     ci fa comprendere che la tradizione è composta da atti, gesti, azioni del nostro corpo sull’ambiente, azioni condivise dal resto della comunità, creando un continuum fra un gesto e l’altro e arricchendolo così di senso non solo pratico (l’azione determina un risultato, un prodotto) ma anche simbolico e identitario. Lo strumento più efficace per questo scopo è appunto il  nostro  corpo,  che  viene  utilizzato e strumentalizzato (a volte  anche  modificato)  in  modi  tali  da  distinguerci  dal  mondo animale, il quale “sfrutta” il corpo solo da un punto di vista biologico e non individualistico e culturale. l’uomo si distingue per la creazione dell’utensile, per il gesto con questo applicato, per il simbolo legato ad esso, per la sua capacità di addomesticare il tempo e lo spazio (ovvero l’esser riuscito a creare un tempo e uno spazio umani). La creazione di un tempo, legato al gesto, non è altro che la creazione di  un ritmo; non solo un ritmo legato all’azione e alle sue parti scomponibili, ma anche applicabile al mondo che ci circonda: il giorno e la notte, le stagioni, i tempi di azione e di riposo, il rapporto del nostro corpo con la natura, creano un ritmo non più caotico ma cadenzato a intervalli regolari, diventando l’elemento principale della socializzazione umana, l’immagine dell’inserimento sociale. Ricordiamoci   che   la   parola   ritmo   è etimologicamente legata alla parola rito e così possiamo facilmente comprendere perché Mauss ritiene che un atto tradizionale efficace non differisce dalla magia: la magia, il simbolo, il rito, il sacro, sono tutti aspetti che mettono in relazione l’uomo con l’ambiente circostante,  cercando  di  addomesticare  lo sconosciuto per farlo diventare conosciuto. Come disse Ernesto De Martino, la tensione per la fine del mondo implica il rischio di non esserci culturalmente da nessuna parte, questo timore rappresenta per De Martino  una  possibilità antropologicamente  permanente,   che   supera   tutte   le   culture   umane. Nonostante   ciò   la capacità dell’uomo di combattere per esserci e la sua fede in questo orizzonte di speranza e di istinto    di sopravvivenza è fuori discussione:
«Certo il mondo “può” finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo (…) il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta.»
A questo proposito, tornando al corpo e all’antropologia del corpo, si può citare un’altra autrice, Mariella Combi, che scrive:


«In ogni società il corpo, così come è vissuto dal singolo individuo, è impregnato dal simbolismo, dalle reazioni ai rapporti interpersonali e dalle emozioni. E’ un corpo su cui il sociale con i suoi riti e le sue norme, le rappresentazioni fantasmatiche, la magia, la scienza e l’esperienza personale lasciano il segno»

Trattandosi di un elemento culturale, che agisce sulla cultura e a cui a sua volta ne viene influenzato, il corpo, non può essere qualcosa di statico, così come non lo è la cultura. Ovvero, la percezione del corpo e la sua valutazione/svalutazione, si commisura alla cultura e all’epoca storica che si sta vivendo in un determinato territorio. Sappiamo, innanzitutto, che la società fino al Medioevo e al Rinascimento si è basata sul concetto comunitario, il corpo quasi non appartiene all’individuo stesso, il quale si identifica con il gruppo, la comunità a cui appartiene e non tanto con i propri desideri e le proprie esigenze personali. Con la società moderna, invece, strutturata su un incalzante individualismo, un processo di secolarizzazione che lo emancipa dal religioso e dall’attesa che la divina provvidenza decida le sue sorti, padrone della sua vita, del suo destino e anche (apparentemente) della natura, attraverso lo sviluppo della scienza da Galileo in poi, ora l’individuo diventa anche padrone del suo corpo, distaccandosi dalla folla, dalla comunità, perdendo così anche il forte legame con le tradizioni, le credenze popolari, il senso dei valori condivisi dalla comunità, il concetto di “bene comune”, e così via. L’uomo è ora il suo corpo e le sue priorità girano attorno ad esso e a tutto ciò che rappresenta se stesso, tra questi anche il valore esasperato dato all’immagine, a discapito spesso dei contenuti. Come afferma David Le Breton in “Antropologia del corpo e modernità” il corpo è un’ icona che si impone sull’altro superando e contrastando tutte le altre caratteristiche psicologiche ed emotive della persona, la personalità del soggetto viene quindi sostituita dalla sua corporeità. L’autore parla anche di un mondo che perde la funzione di universo di valori, per divenire un universo di fatti. Su questo importante concetto parla anche Mariella Combi, confermando lo stesso punto di vista di Le Breton:
«Nelle società preletterate è il corpo comunitario che unisce i membri, mentre il corpo individuale porta i segni materiali e simbolici delle potenzialità del riconoscimento di questa appartenenza in molteplici modi. Imprimere, incidere tratti sul corpo, sulla carne del singolo significa iscrivere un segno-simbolo condiviso da quella stessa comunità che decide quale deve  essere l’importanza dei segni stessi. Esso indica e permette non solo il riconoscimento dell’uguale o del diverso da sé, l’appartenenza o meno allo stesso gruppo sociale, ma indica soprattutto la condivisione di una stessa elaborazione  simbolica che trova nei segni corporei l’espressione immediata di una comunicazione sulla realtà più generale. (…) Al contrario la società occidentale avendo attuato una scelta che ha tagliato i legami più profondi con il corpo comunitario, ha dissolto lentamente il senso di partecipazione della parte con il tutto. Nel momento in cui il corpo ha significato solo se stesso nella sua singolarità, senza agganci pregnanti con il riconoscimento dell’origine comunitaria e con il suo ruolo di produttore di segni collettivi e condivisi,

ha perso la sua possibilità di rappresentare l’insieme. Permane, come si è detto, l’incidenza dell’iscrizione sociale nell’uso del corpo, nella sua percezione, ecc., ma non più come riconoscimento del “Medesimo” e della globalità»


Un tema molto complesso che nasce dalla riflessione sul corpo, ma che non può essere evitato, è quello della differenza di genere. Non è mia intenzione approfondire l’argomento in questo scritto, in quanto non è l’obiettivo primario che ci siamo posti, ma è necessario almeno un momento di riflessione, una pausa per prendere atto di determinate questioni, sempre più lampanti ai nostri occhi. Come detto poco sopra, l’uomo è cambiato nel tempo e nella storia e cambiando lui ha determinato un cambiamento anche nel mondo circostante, nell’individuo Altro, con cui ci si relaziona, nella cultura e nell’ambiente. I cambiamenti sono inevitabili, la storia e la cultura sono tali proprio perché in perenne dinamismo, ma non sempre i cambiamenti vanno accolti con entusiasmo, è necessario anche essere auto-critici           e ammettere che a volte la strada scelta non è la migliore, è solitamente la più facile, ma non la più condivisa, quella “per il bene comune”. Ecco perché, in questa epoca malata più che mai, è purtroppo necessario e urgente denunciare un incremento delle violenze contro le donne in tutto il mondo. Sicuramente abbiamo intrapreso la strada sbagliata, sicuramente è quella comoda a qualcuno e   dannosa per tutti gli altri. La denuncia, l’autocritica, non devono rimanere come urla silenziose gettate contro vento, ma dovrebbero rappresentare un campanello d’allarme che dovrebbe risvegliare le menti offuscate. E’ ora di cambiare, tornare indietro, recuperare valori e tradizioni e andare anche avanti, ma verso un’altra direzione.
E’ ora di far cadere il velo di Maya.

«Chi pensa la differenza sessuale oggi non contrappone certamente il corpo come dato biologico alla storia e allo spirito. Il pensiero della differenza sessuale si fonda al contrario sull’idea di una corporeità vivente e parlante, pensante e agente, unità di corpo e di anima, situata in un mondo storico e spirituale. Dire questo vuol dire che la differenza sessuale non è solo un fatto psico-fisico, bensì attraversa e coinvolge la vocazione spirituale delle donne degli uomini: la differenza dei corpi è anche differenza spirituale. Questo è uno dei principali profili attraverso i quali la soggettività femminile si rende riconoscibile nel campo della creatività artistica, culturale, filosofica, politica e spirituale in contrasto con l’impersonalità del “neutro”, ossia di creazioni che si suppone abbiano autori senza sesso o indifferentemente sessuati o, ancora più esattamente, di sesso maschile talmente enfatizzato da elevarsi a paradigma universale. Il mito dell’immacolata concezione sta alla radice dell’idea maschile del concetto, secondo Maria Zambrano: una creazione increata, senza nascita, come, appunto, la creazione divina, una creazione dal nulla (e, nell’epoca moderna, spesso del nulla). Pensare la corporeità vivente sessuata (non il puro dato biologico) come elemento che qualifica la presenza di ogni essere umano sulla scena del mondo invita a un’ulteriore riflessione: in che modo un corpo vissuto da una donna si esprime nella vita quotidiana, nel diritto, nella politica, nell’arte, nell’economia, nella filosofia? E’ solo un peso, un limite, un ingombro, o una qualità che si può facilmente occultare, mascherare, travestire, con cui infiniti frammenti o rappresentazioni si può giocare, che si può usare? Oppure, come testimonia la passione femminile


della differenza sessuale, e l’asimmetria con cui storicamente il tema della differenza sessuale, tranne rare eccezioni, è stato pensato soprattutto dalle donne, è un di più, la leva di un’eccedenza, di un andar oltre, una potente e inesauribile riserva di significato? Se si va nel senso di quest’ultima possibilità, in che modo la corporeità vissuta in cui si incarna la differenza, l’essere nati uomo o donna, rinvia a qualcosa d’altro, mette in gioco altro da sé, in quali forme concrete di azione, di conoscenza, di partecipazione alla civiltà umana e alla sua storia? Un primo, fondamentale ostacolo da superare è quello relativo alla facilità con cui la differenza viene pensata in opposizione binaria con l’uguaglianza. E’ vero che la differenza storicamente è stata ed è tuttora fonte di disuguaglianza, ma non ci si rende conto della facilità con cui il valore della differenza viene azzerato non solo dalla disuguaglianza, ma anche dall’egualitarismo che sembrerebbe porre rimedio a quest’ultima.(…) La differenza diventa invece liberatoria quando non significa più devianza che esclude, pietrificazione in una natura e in carattere fissi, ma specificità, variazione, eterogeneità, relazioni di somiglianza e dissimiglianza. (…) La differenza sessuale costituisce dall’interno l’identità di ogni essere umano, uomo o donna, fa differire da sé ogni essere umano e lo fa essere se stesso: uomo o donna. Non si tratta di una mediazione o di una tensione tra due entità, bensì di una ricerca del senso di sé che avviene tra sé e ciò che non si è ancora. La differenza sessuale è il banco di prova dell’identità di ogni essere che conquista ciò che gli è più proprio- esistenzialmente, storicamente- accettando una mancanza, una parzialità, una dipendenza dall’altro da sé. Il dominio, la disuguaglianza appare in questa luce una violenta abbreviazione di   questo percorso dell’elaborazione del senso di sé.»

 

Noi siamo fatti tutti di pezzetti,

e di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni momento va per conto suo.

E c’è altrettanta differenza fra noi e noi stessi che fra noi e gli altri

 


I capelli nei riti di passaggio e nella magia

 

«Orrore dell’informe, orrore dei rifiuti, orrore dei peli e degli odori che possono nascondere, orrore di un elemento organico, di un’entità vivente che sfugge al nostro controllo (…) i peli rigettano l’uomo nello stato della pura animalità, della vita oscura e autonoma degli organi. (…) I peli screscono sul cadavere, si attorcigliano, si aggrovigliano, come i vermi che si vedono brulicare sui corpi dei monumenti funebri che la spiritualità della fine Quattrocento aveva moltiplicato. E anche quando la carne si è decomposta, i capelli restano, setosi e soffici»

 

L’interesse dell’antropologia verso i capelli cominciò fin dall’800, quando i primi studiosi si scontrarono con tribù “primitive” che svolgevano pratiche in cui i capelli venivano posti al centro dell’attenzione. Il capello, la ciocca, viene fatta anche circolare tra queste popolazioni, come vestigia del corpo a cui era appartenuta. Già nel 1850 la collezione di oggetti raccolti da Augustus Henry Lane e poi confluiti nel museo etnografico di Oxford da lui stesso fondato, comprende oggetti quali “crani e capelli tipici”. Nasce così la prima riflessione sui capelli e questa si sviluppa proprio da un punto di vista      magico-religioso, ritualistico e cerimoniale. Le prime ricerche di rilievo si hanno agli inizi del secolo ‘900 grazie a Robert Hertz e Arnold Van Gennep. Secondo Hertz, che scrisse “Rappresentazione collettiva della morte” nel 1907, i riti funebri includono l’uso di capelli, ossa e unghie, oggetti che diventano simboli, in quanto contenitori dell’anima del defunto. Con l’uso di questi scarti corporali,      il cadavere passa da uno stato impuro a quello di reliquia incorruttibile. Ardonld Van Gennep scrisse il celebre “Riti di passaggio” nel 1909 e individuerà il taglio dei capelli in riti funebri, nei matrimoni, nei riti iniziatici per il passaggio di età o di status sociale, ovvero in tutti quegli eventi che cerimoniano le varie fasi dell’esistenza e la transizione fra queste.
«Quel che viene definito “il sacrificio dei capelli” comprende due distinte operazioni: a)tagliare i capelli; b)dedicarli, consacrarli, ovvero sacrificarli. Orbene tagliare i capelli equivale a separarsi dal mondo precedente; dedicare i capelli significa legarsi al mondo sacro, più specificatamente a una divinità o a un demone, di cui si diventa così parenti. Ma questa è soltanto una delle forme di utilizzazione dei capelli nella quale consiste una parte della personalità dell’individuo, esattamente come nel prepuzio e nelle unghie tagliate. Molto spesso questa idea non c’è affatto, e non si dà alcun uso di questi scart. Là dove esiste, invece, essi vengono sotterrati, bruciati, conservati in un sacchetto, affidati a un parente, ecc. Ugualmente il rito di tagliare i capelli o una parte della capigliatura (tonsura) viene impiegato in circostanze assai diverse: si rade la testa del bambino per indicare che entra in un altro stadio, cioè nella vita vera e propria; si rade la testa della ragazza quando si sposa, perché ciò sta a significare il cambiamento di classe d’età; analogamente le vedove si tagliano i capelli per distrugger il legame prodotto dal matrimonio, dal momento che deporre la capigliatura sulla tomba del defunto rafforza il rito. Talvolta è al morto che si tagliano i capelli, sempre per la stessa ragione. Orbene, vi è una spiegazione al fatto che il rito di separazione riguarda i capelli: è che essi, per la loro forma, colore, lunghezza e acconciatura, costituiscono un carattere distintivo sia individuale che collettivo facilmente riconoscibile.»



Anche i primi antropologi quali Edward Tylor e James Frazer intravidero nei capelli una dimensione magica, anche se viene, come era abitudine all’epoca, associata ad una mentalità primitiva e sulla visione che questa aveva del mondo, della natura e delle interconnessioni con il corpo. Da questo punto di vista, Frazer analizzò il taglio delle chiome come psyché o principio generativo della natura, collegando l’analogia con le varie divinità del mondo naturale e lo spirito Keras contenuto nella testa, oltre che con miti e fiabe. In sintesi, per Frazer, che espose le sue teorie nel celebre testo Il ramo d’oro, i capelli recisi sono attorniati da tabù, come altri oggetti del corpo, quali lo sputo, le unghie, il sangue. Come questi diventa “oggetto” del corpo perché può distaccarsene e disperdersi, anche con il pericolo di attacco esterno, nonostante la recisione infatti rimane il legame spirituale, intimistico con la persona e la sua identità, creando un alone magico e superstizioso che accompagna il taglio dei capelli, sia esso rituale o meno. Per questo motivo le ciocche recise, i capelli che rimangono nella spazzola (consuetudine presente ancora nell’Italia contadina del ‘900 inoltrato), vanno seppelliti, custoditi, bruciati, nascosti. Le parti di un corpo, infatti, se finiscono nelle mani di uno stregone, possono ricostruire l’intera identità della persona,  che  può  diventare vulnerabile agli attacchi magici.
«Lo stregone prendeva dei capelli, dello sputo, o qualunque altro rifiuto corporale dell’uomo che voleva danneggiare, lo avvolgeva in una foglia e metteva il pacchetto in una borsa fatta di fili o di fibre intrecciate e seppelliva il tutto con certi riti speciali, dopo di che la vittima deperiva e languiva per venti giorni. Gli si poteva salvare la vita scoprendo e dissotterrando i capelli, lo sputo o quel che fosse, perché appena fatto questo la potenza dell’incantesimo era infranta.»18
Frazer utilizza il termine “rifiuto corporale”, facendo emergere l’ambiguità del termine e del significato dei capelli (così come delle unghie, dello sputo, e così via), quale scarto e/o parte di identità individuale della persona: infatti l’aspetto magico e identitario dello scarto risulta proprio dall’evidente ruolo dell’oggetto-chioma  come  forma  di  potenza,  che  può  tanto  uccidere  quanto  salvare  la     vittima predestinata. Lo scarto che diventa oggetto di potenza e dominio può essere modellato con  della cera fino a plasmare un modello della vittima, laddove questa effigie sia assente, l’involucro stesso (la foglia, il sacchetto..) che contiene i capelli diventa una sorta di amuleto dalla incredibile potenza.   Una  pratica importante per la comprensione di questo atto è l’intreccio di fili  e fibre, la tessitura     cioè trasforma i capelli in oggetto culturale, o, per citare Alessandra Violi, in ordito culturale.
«Una sezione del capitolo sui “Tabù di oggetti” (del “Ramo d’Oro” di J.Frazer n.d.r.) è infatti dedicata a nodi, anelli, o artefatti simili quali corde, reti,cinture e serrature, tutti accumunati da un potere di legare o sciogliere che si manifesta sia nella loro struttura – sono legati, prodotti intrecciando dei fili – sia nella funzione di legatori che essi assolvono nel creare o impedire quella che Frazer chiama “catene corporali e spirituali”. Tale potere, intrinsecamente ambiguo nelle sue oscillazioni tra effetti benefici e malefici, agisce di nuovo sul corpo per magia omeopatica o imitativa – un nodo nei capelli o nelle vesti può per esempio intralciare il parto, mentre l’anello può trattenere la propria anima nel copro o legare a sé quella di qualcun altro - , ma dal corpo sembra anche derivare se teniamo conto ancora una volta della continuità fra questi factitia e i capelli come modello primario per la loro produzione.»
Come disse l’architetto tedesco Gottfried Semper, citato dalla Violi, “il nodo è probabilmente il simbolo tecnico più antico e l’espressione delle prime idee cosmogoniche sorte fra i popoli”. Ricordiamo a tal riguardo l’ampia presenza della figura del Tessitore Primordiale in svariati miti cosmogonici, legando il simbolo del nodo  (dal  greco  gónu)  alla  generazione  (dal  greco  gónos).  Anche  l’immagine  del  Sole, mitologicamente, è stato visto «come un ragno che secerne “capelli” luminosi dalla sua chioma raggiata per dar corpo alla tela del mondo».



Ricordiamo inoltre il mito delle Moire o Parche, che unisce i temi della vita e della tessitura. Alla voce “parche” dell’enciclopedia italiana Treccani del 1935 leggiamo:

«PARCHE (lat. Parcae, da pario, non da pars). - Da principio concepita come singola, al pari della Moira greca (v. moire), la Parca è una divinità che presiede alla nascita (Par[i]ca). Il numero divenne poi ternario con l'aggiunta di Nona  e Decima (Varrone,  in Gellio, III, 16,   10), le due Parche presiedenti ai due mesi in cui termina la gravidanza. L'assimilazione alle Moire greche fissò stabilmente questo numero e suggerì l'etimologia di pars; e con la sostituzione di Morta a Parca (Caesellius, Vindex, in Gell., III, 16, 11) anche le Parche romane divennero le divinità che presiedono al destino dell'uomo dalla nascita alla morte. Nella letteratura latina le Parche sono interamente assimilate alle Moire e compiono la medesima funzione. Catullo (LXIV, 306 segg.) le rappresenta come vecchie tremolanti che filano lo stame della vita e predicono con "veridico canto" l'avvenire di Peleo. Anche in Virgilio sono le dispensatrici del fato e fissano per gli uomini il tempo dell'azione e quello della morte; Orazio sa che la Parca non mendace ha fissato alla nascita il suo destino di poeta (Carm., II, 16, 39) e nel Carme secolare invita le veridiche Parche a     predire ancora buoni fati per Roma. Servio (Ad Aen., I, 26) interpreta le tre Parche un po' diversamente dal significato greco, e in una maniera più vicina alla credenza romana: esse rispettivamente predicono, scrivono e regolano il corso della vita.Non v'è in Roma un culto vero e proprio delle Parche, e non esistono neppure iscrizioni relative alle medeśime; giacché quelle rinvenute nei paesi celtici si riferiscono in realtà a divinità locali, che erano chiamate Matres   o


Matronae (v.). Nei documenti che l'arte ci ha lasciato le Parche vengono raffigurate alla maniera delle Moire (v.)»

Anche Frazer tratta della tessitura, come oggetto-nodo che diventa ornamento, un corpo trasformato in oggetto posticcio che si aggiunge a un altro corpo, si parla qui ovviamente dei talismani, degli amuleti, dei gioielli. Il tema dei gioielli e dei capelli trova un luogo di dialogo comune proprio nell’uso delle chiome come gioielli, usanza diffusa nell’Inghilterra del ‘600 e in generale nell’Europa e nell’America del XIX secolo (precisamente è stata Susan Stewart a indicare il 1560 come l’inizio della storia dei gioielli-reliquia, indicandone come promotore il “locket”, ovvero la creazione di ritratti in miniatura da portare indosso, con inseriti all’ interno del capelli della persona): molto alla moda era infatti l’uso di cinture o cinturini di orologi fatti di capelli intrecciati, ciondoli e medaglioni con all’interno chiome di cari estinti o dell’amato e dell’amata da donare al proprio partner (vedi cap. 9 di questo saggio).
Arnold Van Gennep, nel libro I riti di passaggio tratta molto del tema dei capelli: uno degli esempi di rito di passaggio è quello dell’India vedica, in cui al compimento del terzo anno di età di un bambino ha luogo una cerimonia nella quale avviene il primo taglio di capelli, ogni famiglia porta una sua acconciatura particolare per la quale può essere riconosciuta e questa stessa viene imposta al bambino, in questo modo il suddetto rito diviene al tempo stesso di separazione (il bambino dai 3 anni comincia il suo cammino verso l’autonomia) e di aggregazione alla società famigliare, e quindi anche di riconoscimento dell’individuo-bambino all’interno della comunità di appartenenza.
Nell’ambito invece dei riti di separazione si porta, tra i vari esempi, quello di disfare la pettinatura, tagliare o radere i capelli o la barba.
Quanto l’acconciatura sia indice di stato civile o famiglia di appartenenza, lo racconta Van Gennep citando un passo di E. Doutté da Merrâkech «Quando sono molto giovani, le ragazzine dei Rehamma    (Marocco) portano il capo rasato, salvo i capelli davanti e un ciuffo in alto. Quando giungono alla pubertà, lasciano crescere i loro capelli, mantenendo quelli che sono sulla fronte e attorcigliando gli altri sulla testa. Quando si sposano, li dividono in due trecce che pendono lungo le spalle; ma da quando diventano madri fanno scendere sul davanti le due trecce, al di sopra delle spalle»


I capelli nella fiaba e nel mito

Il capello ha destato fascino e attrazione fin dai tempi più antichi, gli studiosi affermano che anche il velo, e quindi l’abitudine a coprire le chiome, sia il tentativo di trattenere una carica sessuale che va controllata, in quanto la testa, fonte di vita, diventa rappresentante degli organi genitali, tant’è che etimologicamente il termine boccolo viene legato al plurale di bocca, indicando proprio la conformazione anatomica sessuale della donna. Il termine rinvia sia alla conformazione che all’azione di chiusura/apertura, pensiamo infatti al termine in inglese lock che significa sia boccolo che lucchetto o serratura. Leggiamo, ad esempio, dell’uso del velo da sposa nell’antica Roma, dove sia il colore rosso che il suo simbolismo spiegano perfettamente il legame tra la sessualità/verginità della sposa e il velo/chioma.
«Nel matrimonio romano è attestato l’uso del flammeum, un velo di colore fiamma, ossia arancione o giallo o rosso. Questo velo scendeva dal capo della sposa per coprirne la parte alta del volto e, nel corso della cerimonia, veniva sollevato e teso anche sul capo dello sposo. Sul flammeum era poggiata una corona intrecciata di maggiorana e verbena poi sostituita, in età imperiale, da una di mirto e fiori d’arancio: tale corona simboleggiava la vittoria della sposa che, fino a quel momento, aveva protetto la sua verginità dagli attacchi della passione. La presenza del flammeum nell’abbigliamento tradizionale della sposa romana deve probabilmente la sua origine alla flaminica Dialis, la moglie del Flamine Diale, sacerdote di Giove: la flaminica indossava un abito e un velo color fiamma con il quale durante i sacrifici si velava il capo».

«Nell’altra grande riformulazione del modello pagano inaugurata dagli scritti di S.Paolo e Tertulliano il controllo della sessualità soprattutto femminile trova nei capelli lo spazio in cui la regola può apparentemente farsi visibile. La testa, già ritenuta partecipe della vita generativa, si assolutizza per certi versi quale doppio esteriorizzato delle parti intime, che occorre dunque per le donne eufemisticamente velare: “è cosa indecente per l’uomo portare i capelli lunghi, mentre la lunga capigliatura è gloria per la donna (…) perché i capelli le sono stati dati come velo” (S.Paolo, Lettera ai Corinzi, 11, 14-15)»

Anche le fiabe, strumenti carichi di immagini e simboli importanti per la nostra cultura e il nostro linguaggio inconscio e archetipico, raccontano spesso dell’importanza e del ruolo dei capelli nella donna.
«Vi è una naturalità femminile inespressa, che il mito rappresenta nella figura commista della donna animale: sia essa la sirena, l’arpia, l’amazzone o Melusina, la donna serpente che domina l’immaginario medioevale. Figure dell’inconscio, esse ci confrontano con la nostra fantasia onnipotente ma anche con le deprivazioni che il potere maschile ha operato sulle nostre potenzialità. Vi è una mancanza di governo femminile tra donne e di signoria di sé che la fiaba aiuta a disoccultare».25


Vediamo alcune fiabe esemplificative:

 

Alexander Pope Il ratto del ricciolo scritto nel 1712.
Prologo: Un certo Lord Petre ebbe l’ardire di tagliare un ricciolo di Lady Arabella Fermor, creando una diatriba fra le due famiglie, l’accadimento infatti era vissuto come una violazione dell’intimità della fanciulla. Finché un giovane e già celebre poeta ricevette il delicato incarico di scrivere un testo che contribuisse a rasserenare gli animi. L’artista interpellato era il Alexander Pope. L’autore compose un poemetto che per inventiva, passionalità ed estro poetico tocca punte di epicità omerica, diventando però un poema tragicomico. In questo caso però, non si parla di una comune guerra tra famiglie, bensì della guerra tra i sessi. Inutile dire che Il ratto del ricciolo riscosse un immediato, immenso successo di pubblico e suscitò inviperite reazioni nella buona società.

Raperenzolo, fiaba dei Fratelli Grimm, pubblicata per la prima volta nella raccolta Fiabe (Kinder- und Hausmärchen, 1812-1822)

 

Le corde fatte di chiome che fanno salire il principe sulla torre che tiene prigioniera Rapunzel, tracciano il limite tra il dentro e il fuori, l’interno e l’esterno, determinando anche la sua libertà di scelta sessuale, la sua scoperta dell’amore e, d’altro canto, anche il suo legame indissolubile con la strega che l’aveva fatta prigioniera, togliendola all’amore dei genitori.

(…) Raperonzolo divenne la più bella bambina del mondo, ma non appena compì dodici anni, la maga la rinchiuse in una torre alta alta che non aveva scala n‚ porta, ma solo una minuscola finestrella in alto. Quando la maga voleva salirvi, da sotto chiamava:

"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli che per salir mi servirò di quelli."

 

Raperonzolo aveva infatti capelli lunghi e bellissimi, sottili come oro filato. Quando la maga chiamava, ella scioglieva le sue trecce, annodava i capelli in alto, al contrafforte della finestra, in modo che essi ricadessero per una lunghezza di venti braccia, e la maga ci si arrampicava.

Un giorno un giovane principe venne a trovarsi nel bosco ove era la torre, vide la bella Raperonzolo alla finestra e la udì cantare con voce così dolce che tosto se ne innamorò. Egli si disperava poiché‚ la torre non aveva porta e nessuna scala era alta a sufficienza. Tuttavia ogni giorno si recava nel bosco, finché‚ vide giungere la maga che così parlò:


"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli che per salir mi servirò di quelli!"

Così egli capì grazie a quale scala si poteva penetrare nella torre. Si era bene impresso nella mente le parole che occorreva pronunciare, e il giorno seguente, all'imbrunire, andò alla torre e gridò:

"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli che per salir mi servirò di quelli!"

 

Ed ecco, ella sciolse i capelli e non appena questi toccarono terra egli vi si aggrappò saldamente e fu sollevato in alto.

 

Raperonzolo da principio si spaventò, ma ben presto il giovane principe le piacque e insieme decisero che egli sarebbe venuto tutti i giorni a trovarla. Così vissero felici e contenti a lungo, volendosi bene come marito e moglie. La maga non si accorse di nulla fino a quando, un giorno, Raperonzolo prese a dirle: "Ditemi, signora Gothel, come mai siete tanto più pesante da sollevare del giovane principe?" - "Ah, bimba sciagurata!" replicò la maga, "cosa mi tocca sentire!" Ella comprese di essere stata ingannata e andò su tutte le furie. Afferrò allora le belle trecce di Raperonzolo, le avvolse due o tre volte intorno alla mano sinistra, prese le forbici con la destra e "zic zac," le tagliò. Indi portò Raperonzolo in un deserto ove ella fu costretta a vivere miseramente e, dopo un certo periodo di tempo, diede alla luce due gemelli, un maschio e una femmina.

La stessa sera del giorno in cui aveva scacciato Raperonzolo, la maga legò le trecce recise al contrafforte della finestra e quando il principe giunse e disse:

"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli che per salir mi servirò di quelli!"

 

ella lasciò cadere a terra i capelli. Come fu sorpreso il principe quando trovò la maga al posto dell'amata Raperonzolo! "Sai una cosa?" disse la maga furibonda "per te, ribaldo, Raperonzolo è perduta per sempre!" Il principe, disperato, si gettò giù dalla torre: ebbe salva la vita, ma perse la vista da entrambi gli occhi. Triste errò per i boschi nutrendosi solo di erbe e radici e non facendo altro che piangere. Alcuni anni più tardi, capitò nello stesso deserto in cui Raperonzolo viveva fra gli stenti con i suoi bambini. La sua voce gli parve nota, e nello stesso istante anch'ella lo riconobbe e gli saltò al collo.
Due lacrime di lei gli inumidirono gli occhi; essi si illuminarono nuovamente, ed egli poté vederci come prima.


Ricciolo:

Il ricciolo di capelli è un particolare simbolo di identificazione e di manifestazione. In una suggestiva rappresentazione poetica, gli Egizi accostarono il ricciolo alla falce di luna. Il tebano Khonsu, conosciuto quale Signore della ciocca, era rappresentato dal ciuffo di capelli. Nella mitologia greca, bastava solo un ricciolo di capelli della Medusa per atterrire un intero esercito assalitore e indurlo alla fuga; anche le Gorgoni, sorelle della Medusa, presentavano il ricciolo quale attributo.

Medusa: Una delle Gorgoni e l’unica di loro mortale. In principio era una fanciulla bellissima, finché Atena non la sorprese mentre faceva l’amore con Poseidone. Infuriata la dea la trasformò in un mostro. Quando Perseo le mozzò la testa, dal suo corpo uscirono Crisaore27 e Pegaso, il cavallo alato. Atea fissò la testa della Medusa sul suo scudo. Nell’iconografia viene rappresentata come un mostro di terribile aspetto, nella tipica corsa in ginocchio, con la testa cinta di serpenti, zanne di cinghiale, occhi di fuoco e sguardo che rendeva di pietra chiunque la guardasse.

Maria Maddalena: la storia narra che asciugò i piedi di Gesù, dopo averli lavati con l’olio, con i suoi capelli. Quegli stessi capelli che le ricoprirono il corpo durante i suoi anni di erranza e penitenza nel deserto, grazie ad una crescita miracolosa.

« Maria di Magdala era entrata in scena per la prima volta nel Vangelo di Luca come una delle donne che assistevano Gesù e i suoi discepoli coi loro beni. In quell'occasione si era aggiunta una precisazione piuttosto forte: «da lei erano usciti sette demoni» (8, 1-3). Proprio su quest'ultima notizia si è consumato l'equivoco radicale che non l'ha mai abbandonata nella storia successiva. Di per sé, questa espressione nel linguaggio biblico poteva indicare un gravissimo (il sette è il numero della pienezza) male fisico o morale che aveva colpito la donna e da cui Gesù l'aveva liberata. Ma la tradizione, ripetuta mille volte nella storia dell'arte e perdurante fino ai nostri giorni, ha fatto di Maria una prostituta. Questo è accaduto solo perché nella pagina evangelica precedente – il capitolo 7 di Luca – si narra la storia della conversione di un'anonima
«peccatrice nota in quella città», colei che aveva cosparso di olio profumato i piedi di Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli. Si era così, senza nessun reale collegamento testuale, identificata Maria di Magdala con quella prostituta senza nome. Ora, questo stesso gesto di venerazione verrà ripetuto nei confronti di Gesù da un'altra Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione (Giovanni 12,


1-8). E, così, si consumerà un ulteriore equivoco per Maria di Magdala: da alcune tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa con la prostituta di Galilea. Ma non era ancora finita la deformazione del volto di questa donna. Alcuni testi apocrifi cristiani, composti in Egitto attorno al III secolo, identificano Maria di Magdala persino con Maria, la madre di Gesù! E lentamente la sua trasformazione si era talmente allargata che essa, in quegli scritti non canonici, si mutava in un simbolo, ossia in un'immagine della Sapienza divina che esce dalla bocca di Cristo. È per questo – e non per maliziose allusioni a cui saremmo tentati di credere a una lettura superficiale, allusioni trasformate in cialtronesche "evidenze" storiche dal Codice da Vinci di Dan Brown – che il Vangelo apocrifo di Filippo dice che Gesù «amava Maria più di tutti i discepoli e la baciava sulla bocca». Ora, nella Bibbia si dice che «la Sapienza esce dalla bocca dell'Altissimo» (Siracide 24, 3). Strano destino quello di  Maria di Magdala, abbassata a prostituta ed elevata a Sapienza divina!»29

Sant’Agnese: Protettrice della calvizia, eccone la motivazione, legata alla storia della Santa e alla crescita miracolosa dei capelli che la protessero da umiliazione e perdita di identità:

«Finalmente anche chi soffre per la perdita dei capelli potrà avere un santo protettore a cui rivolgere le sue preghiere: Sant'Agnese. A spiegarne il perché e a festeggiarne la ricorrenza sarà il 21 gennaio una conferenza-evento  organizzata a Roma dal dottor Daniele Campo della Società italiana di tricologia (Sitri)."La ragione per cui Sant'Agnese sembrerebbe la santa protettrice ideale sia per le donne che soffrono di calvizie che per i medici tricologi - spiega il dott. Campo - deriva dalla storia della passione della santa". Il 21 gennaio del 304, rifiutatasi di sposare il figlio del prefetto Sempronio, Agnese fu condannata a morte. Poiché la legge romana non consentiva l'esecuzione delle donne vergini, Sempronio costrinse Agnese a camminare nuda per le strade, conducendola in un bordello, "e - come recita la tradizione - mentre pregava i suoi capelli crebbero coprendo il suo corpo". "E non è tutto. Nel 2009 - prosegue il dott. Campo - sulla rivista scientifica 'Dermatology' Kunz et al. pubblicano uno studio condotto presso l'Ospedale universitario di Zurigo su 823 donne sane che lamentano caduta di capelli e su cui è  stato effettuato un tricogramma: ebbene, esiste una periodicità regolare nella crescita e nella caduta dei capelli, con una percentuale minima di telogen effluvium che coincide con il giorno consacrato dalla Chiesa alla celebrazione di Sant'Agnese, il 21 gennaio". E il dott. Campo svela anche la preghiera da rivolgere alla Santa: "Splendida Agnese, giovinetta che nuda sfidasti il martirio protetta contro il carnefice dal tuo coraggio e dalla tua fede e protetta dai tuoi folti capelli dagli sguardi degli empi: intercedi perché il Signore dia equilibrio e sollievo alla sofferenza di coloro che invece perdono la chioma ed aiuta noi che cerchiamo di alleggerirne l'ansia. Signore, con l'intercessione di Santa Agnese che ci fu data come Protettrice, rendici capaci di assumere gli impegni del lavoro quotidiano e facci riconoscere in ogni momento i segni del tuo Spirito. Amen».30

 


Venere: Alessandra Violi in Capigliature analizza minuziosamente La nascita di Venere di Botticelli, riconoscendo come rimandi ad un doppio messaggio, tanto pudico quanto erotizzante, racchiuso nel gesto della Venere che copre le sue intimità con i lunghi capelli, facendo in realtà cadere lo sguardo ancor di più, incorniciando quasi i suoi genitali. Ma il gesto più erotico è racchiuso nel movimento delle chiome e delle vesti, un movimento che rende vitale ed ricco di energia pulsionale un corpo che non è più solo immagine, ma vero e proprio pathos, il movimento della ciocca che si sposta e potrebbe a breve svelare le nudità nascoste. D'altronde abbiamo già detto che il capello racchiude la simbologia del    femminile proprio per via del suo movimento, che si accosta all’immagine dell’acqua, fonte di vita,    base della Creazione secondo tutte le religione, e simbolo del femminile.

 

Il legame del capello con la tessitura è strettissimo, proprio in quanto il capello è stato il primo filo della storia, che ha permesso alla creatività della donna di produrre la più antica tecnologia, dalle infinite e più svariate evoluzioni e declinazione: il nodo e l’atto dell’intrecciare, da cui la tessitura. Infiniti miti e fiabe raccontano questo legame tra la tessitura e il femminile, e le sue simbologie nascoste, basti pensare alle storie di Cenerentola e Rosaspina, o alle immagini epiche di Arianna e Penelope, e tante altre, così tante che non possiamo darne qui una lista completa ed esaustiva.

Arianna: Oltre al conosciuto racconto epico, secondo cui Arianna, figlia di Minosse e sorella del terribile Minotauro, avrebbe aiutato Teseo ad uscire dal labirinto indicandogli la strada del ritorno srotolando un gomitolo di lana, sembra che nella sua forma più antica, di origini minoiche, Arianna fosse una dea venerata solo da donne, dea degli inferi, della germinazione e della vegetazione, solo con l’arrivo dei Greci Arianna fu degradata da divinità ad eroina.

Penelope: Come per Arianna, anche per questa figura simbolica della moglie fedele che tesse e disfa la tela ogni notte, (stratagemma per sfuggire al desiderio sessuale dei Proci), esiste una storia più antica che vede Penelope come dea della primavera, padrona della terra e quindi unica in grado di decidere chi possa esserne il re (Ulisse o i Proci). In effetti la caratteristica di tessere e disfare la tela, indica il potere di agire sulla vita stessa.

Aracne: Aracne era una giovane, abile tessitrice, che decise di sfidare Atena, la quale simboleggia lo spirito stesso di quest’arte, indicando quindi una non lieve dote di presunzione. Aracne tessé una tela magnifica che rappresentava tutto il pantheon greco in pose amorose. Atena, furiosa, tagliò quell’opera e Aracne per la vergogna si impiccò. Il suo spirito, uscito dal telaio, andò nel corpo del primo ragno.


Le Sirene: dal filo del destino alle trame della vita

 

«Il nostro linguaggio è colmo di metafore legate al filare e al tessere, a indicarci forse che la matrice stessa della vita e del pensiero affonda le sue radici in questo intreccio. Anche i miti delle origini e le immagini ci parlano di fusi, pettini, telai, intrecci e nodi. Avviciniamo alcuni di questi e le immagini che li accompagnano. Sul portale di una chiesa a Vouvant in Francia si trovano due immagini della Sirena: una con i tipici attributi, il pettine e lo specchio, l'altra con in mano un fuso è nell'atto di filare. Le Sirene, che sono manifestazione sonora delle dee del destino, vengono rappresentate per questo con il fuso in mano: le Sirene “filano” il destino degli uomini insieme alle Parche. Questo racconto lo ritroviamo scolpito nelle chiese  romaniche.  Platone  nel  X  Libro  della  Repubblica  narra  la  vicenda  del  soldato  Er  che  -  ucciso  in guerra e miracolosamente tornato tra i vivi - fa visita all'oltretomba e ha una visione: “Il fuso ottavo girava sulle ginocchia di Ananke; sull’altro di ciascun cerchio era una Sirena che girava con un’unica armonia. Altre tre donne sedute in  cerchio a distanze uguali una dall’altra, ciascuna su un trono, le Moire, figlie di Ananke (Necessità), vestite di bianco e circondato il capo di bende, Lachesi, Cloto e Atropo, cantavano d'accordo con le Sirene: Lachesi il passato, Cloto il presente, Atropo l'avvenire.” Pettine32 e tessitura La Dea Paleolitica nella sua forma di pesce o serpente viene raffigurata col pettine. Non ha volto, ma i capelli finemente acconciati e il pettine. A volte questi pettini si trovano all’altezza del pube. Si tratta di un potente simbolo rigeneratore che troviamo qui associato alla fertilità della dea. A  volta la Dea ha ali a pettine. Immagine che ritornerà nella scopa della Befana. Nelle fiabe coi pettini ci si difende e pettini o scope appesi alle porte ci proteggono dal male. Questo antico attributo delle divinità femminili è anche uno degli attributi della Sirena. Il pettine utilizzato dalla Sirena è anche quello della tessitura, “il pettine da lino”, il cui nome “seran” riecheggia Sirena e “serranda”, la donna selvaggia spagnola, da cui deriva anche Montserrat - dall'aspetto a denti di sega della montagna - luogo di culto di una Madonna Nera. Il pettine ci mette in relazione con l’aspetto    ctonio e rigeneratore della divinità femminile. Separando fili o capelli, evoca un pensiero differenziato in contatto con la conoscenza attraverso il corpo.
Cintura33, cordone ombelicale e intrecci Nell’iconografia delle Sirene viene sottolineata la linea della vita con la presenza di una cintura e dell’ombelico. L’ombelico è la cicatrice del cordone ombelicale reciso dopo la nascita: segno della nostra dipendenza. Esiste un rituale Maori per cui alla nascita di una bambina si invita il cordone ombelicale appena tagliato a cercare un legno nel bosco per costituire un primo telaio. Il cordone non viene buttato via: ma “tessuto” diventa elaborazione creativa di un legame e della separazione che permette di simbolizzarlo. Esiste un altro ombelico, l’Omphalos
– l’ombelico del mondo - di Delphi che è tutto intrecciato e lo si intreccia nelle cerimonie. È anche luogo di visione. In  una

chiesa in Piemonte tra due Sirene si trova un magnifico intreccio di nodi. Nei rituali di iniziazione delle civiltà indoeuropee l’atto di legare l’iniziato gioca un ruolo importante. Il filo con cui l’iniziato cataro veniva cinto veniva chiamato “il suo vestito”. I fili del telaio sono “corde amuleto” in relazione alla tessitura del fato. La vita è strettamente collegata agli intrecci. Forse per questo continuiamo a rappresentarli e a intrecciare e tessere fili e incontri.»


 


Il ragno:

 

"La creazione cosmogonica è rappresentata dall'atto del tessere ed il tessere presuppone un tessitore che resta continuamente in rapporto con la sua opera, che ne dipende e ne viene continuamente rinnovata".

Il ragno è un artropodo che appartiene all'ordine più vasto degli Aracnidi. Ha il corpo costituito da due parti, unite da un sottile peduncolo: la parte anteriore, detta cefalotorace, è fornita di sei paia di appendici, mentre quella posteriore è sempre priva di arti e contiene le ghiandole serigene dalle quali fuoriesce una secrezione liquida che all'aria si solidifica formando un resistentissimo filo di seta. La simbologia del ragno è ricca e polivalente. Il ragno è la Grande Madre nel suo aspetto di determinare e tessere il destino; simboleggia le dee lunari, detiene i segreti del passato e dell'avvenire, ma al centro della tela rappresenta il sole circondato dai suoi raggi. La ragnatela rappresenta un piano cosmico le cui componenti spaziali si irradiano dal centro: i raggi sono l'essenziale, mentre i cerchi sono l'esistenziale e l'analogo. Il simbolo del ragno si incontra in molte religioni e culture del mondo.   Per  i  cristiani  è  simbolo  del  male  ed  è contrapposto alla "buona ape". In Giobbe (27,18) la casa del ragno è simbolo dell'instabilità e fa parte del retaggio di maledizioni che gravano sul maledetto. Nella religione egizia il ragno è un attributo di Neth: la tessitrice del mondo. Per i Romani ed i Cinesi    il ragno è un segno positivo: per i primi è simbolo di acume e buona fortuna,  per  i  secondi  è associato all'arrivo  di  buone  notizie.  Se  per  gli  Amerindi rappresenta il vento ed il tuono (proteggeva dai malanni), gli Incas dell'antico Perù praticavano, attraverso il ragno, la mantica. L'indovino scopre un vaso nel quale è racchiuso il ragno divinatorio: se nessuna zampa si piega l'auspicio è negativo. Il ragno ha un ruolo demiurgico per molti popoli: in alcune isole oceaniche è considerato il creatore dell'universo; nei miti dell'India si parla del tessitore primordiale e del ragno cosmico. Anonse (il ragno) in Africa occidentale ha preparato la materia di cui è fatto il primo uomo,   ha creato il sole, la luna e le stelle. Il Grande Ragno per gli Ashanti è il creatore dell'uomo, mentre per le popolazioni del Camerun il ragno ha ricevuto il privilegio di decifrare l'avvenire. Animale psicopompo, per i popoli dell'Asia Centrale e in Siberia rappresenta l'anima liberata dal corpo.  Nella mitologia greca rappresenta la punizione divina contro l'arroganza umana. Aracne, principessa libica, si acquistò una grande reputazione nel tessere e ricamare; la sua abilità le valse la fama di essere stata allieva di Atena, la dea delle filatrici e delle ricamatrici. Aracne volle apprendere la sua abilità solo per aumentare il suo talento personale; così sfidò la dea, la quale si travestì da vecchia e le consigliò di essere più modesta. Aracne la ingiuriò, così la dea Atena le si manifestò e la sfida ebbe inizio. Atena ricamò una tappezzeria raffigurando i dodici dei olimpici e ai quattro lati la sconfitta dei mortali che osarono sfidarli.


Aracne filò gli amori poco onorevoli degli dei. Atena infuriata stracciò il lavoro perfetto di Aracne e la colpì con la spola. La principessa fuggì disperata e si impiccò, ma Atena non la lasciò morire trasformandola in ragno. Se l'ego non sa mostrarsi umile nei confronti del Sè la sua punizione è quella di lavorare per sempre, perdendo l'aspetto umano e diventando schiavo della natura immutabile. Anche come strumento dell'inconscio il ragno può assumere significati diversi. Spesso induce disprezzo e la sua attività di predatore (inganna ed avvolge le sue prede) diventa simbolo della donna virago intenzionata a distruggere  l'uomo. Il  lato oscuro ed  inconscio dell'essere  umano assume   la  forma  del  ragno  quale divoratore della capacità riflessiva. A questo proposito racconto il sogno di una persona portatrice di una problematica ossessiva che copre un significativo nucleo psicotico: "La sognatrice è nella sua camera da letto e vede in un angolo del soffitto un ragno che ha le sue sembianze. La sognatrice, nel vedersi ragno, si sente al contempo spolpata e divorata nella sua percezione corporea". Il ragno e la ragnatela quale simbolo del destino sociale a cui può essere condannata la donna appartiene al patrimonio dell'inconscio collettivo. Esso sembra mal digerire che la donna ripeta un ruolo negativo per se stessa e per i suoi figli quali soggetti umani. Il sogno di una bambina di otto anni così si esprimeva: "La sognatrice vedeva una donna giovane che poteva essere sua madre incatenata per le braccia e per i piedi ad una roccia. Un istante dopo la stessa figura materna si trasformava in una ragnatela al vento." E ancora una donna prossima al matrimonio sognava: "Con la madre aveva assemblato le bomboniere da distribuire agli invitati senonchè aprendone una per controllarne il contenuto secondo ordinazione s'accorge che essa contiene un ragno vivo. Mentre apre quella singola bomboniera, accade che sincronicamente tutte le altre bomboniere si aprano da    sole sotto la spinta dei singoli ragni che ciascuna e tutte contenevano". Non crediamo siano necessari commenti alla denuncia radicale dell'inconscio contro  l'accidiosa  ripetizione  di  un  destino femminile di cui l'essere non ha proprio più bisogno. L'attività del tessere la rete può essere associata all'attività dell'inconscio che tiene le fila della vita dell'essere umano. Il suo manifestarsi nel sogno svela pure l'emergere del Sè ed il prosieguo del processo di individuazione; come pure il bisogno dell'uomo di fare sempre più coscienza. Un uomo in età che stava per morire sognò qualche ora prima del trapasso "un filo d'oro". Fu un'immagine che lo rasserenò e pensiamo di conoscerne il  motivo:  quel  filo rappresentava il Sè quale continuità della Vita nella Presenza  Universale e nella universale rete d'oro di tutte le esistenze. Il ragno segnala un lato inconscio della vita che si mantiene legata ad una esasperata "coazione a ripetere", la fatica di qualcosa che non abbia ancora trovato spazio sufficiente per recuperarsi alla dinamica universale. In questo senso la comparsa del ragno può essere interpretata come una richiesta d'aiuto all'uomo affinché si apra ad una dimensione più ampia. Infine è interessante osservare come il simbolo del ragno si stia  modificando presso i giovani assumendo l'immagine dionisiaca di informatore universale , di potente mezzo in grado di raggiungere e risolvere ogni problema e ciò soprattutto grazie alla Spider (l'auto biposto decapottabile), Spider Man (l'uomo ragno dei fumetti) e, ultimo e non ultimo il Ragno e la Ragnatela di Internet.


L’archetipo e l’immaginario

 

I capelli sono senza dubbio collegati ad un archetipo, ovvero ad un’immagine inconscia, ad un modello di cose o idee comuni a tutti, eterno e trascendente, un bacino collettivo di immagini inconsce che fa riferimento al patrimonio storico-culturale dell’intera umanità. I capelli, con il loro legare,     intrecciare, annodare, e così via, si collegano inconsciamente all’immagine della dominazione, e da qui si comprende come mai la sensualità della donna, la sua femminilità, la sua bellezza e la sua personalità, siano legate ai suoi capelli e alla cura dell’acconciatura, in ogni epoca e in ogni cultura. Trattando il tema della violenza sulle donne, tema fondamentale per questo saggio e per la mostra fotografica di Open (h)Air, nonostante si sia scelto di non immortalare immagini violente, ma di parlare di violenza in  modo indiretto e velato dietro l’aspetto tutt’altro che violento delle ragazze che danzano con i capelli al vento. Si è cercato, quindi, di portare fuori un’immagine inconscia, di farla parlare in modo conscio e consapevole, attraverso l’analisi che questo saggio cerca di compiere. I capelli, quindi, come possono parlare di violenza? Perché possono essere oggetto di violenza, anche “non violenta”. Come abbiamo visto fino ad ora i capelli sono presenti in tutte le culture, nei riti di passaggio e di separazione, nelle fiabe e nei miti, nella moda e nell’arte. I capelli hanno una storia e raccontano un archetipo. Il    rapporto tra l’archetipo e la violenza, in questo specifico caso, sta proprio nell’atto del legare e del legame. Se i capelli possono indicare un passaggio da un’ età di fanciullezza a quella adulta o da uno stato di ragazza a quello di moglie o madre, così allo stesso modo, portando all’estremo psicologico questa immagine, i capelli diventano simbolo di dominio e di sopraffazione. Un uomo che vuole  dominare una donna, come è accaduto  e  accade  nella  cronaca contemporanea, potrebbe esprimere questa violenza (o desiderio di violenza) proprio tagliandole i capelli. Abbiamo visto come i capelli siano portatori di identità della persona, il voler quindi conservare una ciocca della propria vittima è come voler tenere legato a sé la vittima stessa. L’ho chiamata violenza non violenta, intendendo tutti quegli atti   ed eventi di cronaca che non vengono catalogati o percepiti come atti violenti e/o di criminalità: per esempio, il feticista che taglia la chioma di capelli di nascosto sull’autobus, come è avvenuto a Bologna recentemente, per poi fuggire via, senza aver commesso un reato quale lo stupro o senza aver   picchiato, rapito o rapinato la donna, ha comunque commesso un atto di violenza e di umiliazione verso quella donna. I capelli, quindi, sono portatori di sessualità e sensualità e per questo possono rappresentare in modo inconscio e silenzioso un desiderio, un impulso dell’uomo che vuole     dominare (sessualmente o nella vita) la donna.
Leggiamo, riguardo all’archetipo del legame, ciò che scrive Gilbert Durand, unendo temi quali il femminile, l’acqua e i capelli:
«La piovra, con i suoi tentacoli, è l’animale che lega per eccellenza. Vediamo scorrere lo stesso isomorfismo lungo i simboli di Scilla,(Scilla, donna il cui basso ventre è armato di sei mascelle canine, come Indra, sono amplificazioni mitologiche della piovra. Cfr. P. Grimal, Dizionario di mitologia greca e latina) delle Sirene, del ragno e della piovra. Il simbolismo della capigliatura sembra poi rafforzare l’immagine della femminilità fatale e teriomorfa. La capigliatura non è connessa all’acqua perché femminile, ma femminilizzata in quanto geroglifico dell’acqua, acqua il cui il sangue mestruale è supporto fisiologico. Ma l’archetipo del legame viene a sovradeterminare surrettiziamente la capigliatura, poiché essa è al contempo segno microscopico dell’onda e tecnologicamente il filo naturale destinato a trasmettere i primi legami. Ritroveremo più avanti le immagini placate degli arcolai e delle conocchie; le filatrici sono sempre valorizzate, le conocchie rese femminili e associate, dal folklore, alla sessualità. (…) Ma soffermiamoci per il momento sul prodotto della filatura: il filo, che è il primo legame artificiale. Già nell’Odissea il filo è simbolo del destino umano. Come nel contesto miceneo, Eliade accosta giustamente il filo al labirinto, insieme metafisico-rituale contenente le idee di difficoltà, di pericolo, di morte. Il legame è l’immagine diretta deli “attaccamenti” temporali, della condizione umana legata alla coscienza del tempo e alla maledizione della morte».


 

Il nodo – legame: Il nodo indica simbolicamente l’obbligazione, l’impegno che nasce da una adesione a una fede o a un gruppo. Designa ciò che lega l’individuo alla sue credenze senza negare l’idea di libertà: il nodo è stretto liberamente. Nel Vangelo Gesù Cristo dice a Pietro: “Qualunque cosa tu legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli”. (…) Secondo una tradizione etimologica che risale a Cicerone, la religione, in latino “religio”, è collegata a “legere”, raccogliere entro una unità, riconoscere, mentre secondo la tradizione che risale a Tertulliano religio deriva da “ligare”, cioè legare. (…) Il nodo e il legame servono a imbrigliare le forze magiche che non devono sfuggire inopinatamente. Nella stregoneria stringe attraverso i poteri dell’incantesimo una persona che dovrà disfare il nodo per recuperare la libertà. (…) Già tra i Greci e i Romani gli ornamenti in forma di treccia, di spirale o di nodo servivano da protezione. In Egitto gli amuleti erano legati da cordicelle annodate. Il “nodo di Iside” che imitava la chiusura della cintura (originariamente delle bende mestruali) della divinità stessa, era un amuleto particolarmente prezioso. (…) I capelli, portatori dell’energia e della vita, formano la materia prima dei nodi più frequentemente praticati in stregoneria insieme con i tessuti. In entrambi i casi gli attributi magici delle persone agiscono a distanza su di loro, e i nodi materializzano la sostanza corporale imprigionata. Al nodo e al legamento si oppone lo snodamento della capigliatura liberamente sparsa. Essendo una linea che si richiude su se stessa stabilendo un contatto fra due estremità, il nodo è collegato all’incrocio e alla croce. (…) Nella tradizione ebraica il rito del taled (scialle di preghiera) e del tsitsit (frange che ornano le quattro estremità del taled) consiste nell’annodare i fili in una maniera tale che il numero dei nodi e dei legami corrispondono numericamente al nome di Dio. (…) Numerose credenze europee sono collegate al nodo: se si scioglie inopinatamente il nodo delle scarpe significa una sventura; è fondamentale il nodo delle cinture da sposa per proteggersi dal malocchio, e così il nodo fatto con le spighe di grano per

salvaguardare la raccolta, o i nodi sciolti per facilitare il parto, che comprendono la scioglitura dei capelli della partoriente, I marinai del nord fanno tre nodi a un pezzo di corda o al loro fazzoletto: il primo nodo per il buon vento, il secondo per imprigionare la tempesta e il terzo per conservare la bonaccia. (…) La definizione che dà il Corano dei maghi è: “coloro che soffiano sui nodi”.

 

 


7.I capelli in diverse culture

 

Curiosando in giro per il mondo e per le culture, nel presente e nel passato, abbiamo trovato tantissimi ambiti in cui i capelli diventano centro di interesse per riti magici, azione sacre e religiose, danze, folklore, e così via. Ecco qui una piccola carrellata di curiosità per comprendere l’importanza e il ruolo fondamentale del capello nella nostra storia culturale e nella percezione di noi stessi, dell’altro e della società a cui apparteniamo, che questa sia conscia o inconscia, non si pretende una descrizione esaustiva di tutte le popolazioni o di tutte le culture, ma semplicemente si desidera porre luce sul fatto che i capelli da sempre e ovunque sono frutto di consapevolezza della propria identità, dell’appartenenza alla propria comunità culturale o religiosa, sia fra le donne che fra gli uomini. I capelli sono quindi fonte di consapevolezza e di pensiero discriminante e speculativo, se non addirittura filosofico, fra tribù sperdute e composte ormai da pochi membri, così come da comunità numericamente forti e presenti in varie parti del mondo, fra popolazione del passato così come del presente.

«Nel mondo antico, questo valore della capigliatura, trova la propria ragion d’essere in una diversa mappa dell’anatomia corporea, che identifica nella testa non la sede del pensiero o della coscienza (posti nel cuore e nei polmoni), ma il contenitore sacro del seme generatore di vita. Il cervello, in particolare la sostanza cerebrospinale, è ritenuto il principale veicolo del fluido seminale, una potenza che anima i singoli corpi e al contempo li trascende, identificandosi con lo spirito immortale e divino la psychè dei greci o il genius dei latini che permea l’intero universo. Per analogia, anche il macrocosmo è quindi provvisto delle sue “teste”, dalla fonte di un fiume alle radici di una pianta fino alla spiga del grano, attributo di Ceres quale dea della fertilità. Finchè i capelli restano, come per Aristotele, il prolungamento del cerebrum da cui si crea la vita (keras, cereo, creo) “perché il cervello è fluido e il cranio ha molte suture”, e l’intero universo - dalle comete o “astri chiomati” descritti da Luciano di Samosata alle chiome arboree di cui parla Omero nell’Odissea - è visto permearsi di psychè nelle sue multiformi capigliature, nessuna degradazione può intervenire a intaccarne la sacralità.»

Cina

per rappresentare il proprio stato civile, le donne sole, o Yimei, portavano i capelli in una treccia, mentre le sposate o Yisa, portavano un ciuffo di capelli annodati nella parte superiore della testa. Questa è una vecchia tradizione che ha origine a Fuzhou, nel sud della Cina. Altra abitudine, diffusa in tutta la Cina, è quella in cui le vedove che non desideravano risposarsi, tagliavano completamente i propri capelli in segno di disinteresse verso l’uomo (e quindi cancellavano la propria carica erotico-sensuale, in segno di rifiuto).


Sempre in Cina, vi è una tradizione che proviene dall'epoca della dinastia Tang, del VII secolo. È costituita da una tecnica di ricamo che utilizza capelli umani come filo. Essendo i capelli del popolo cinese quasi sempre nero, questi ricami sono monocromatici, anche se a volte vengono tinti alcuni capelli prima di ricamarli. Un ricamo di questo genere in Cina è considerato un dono prezioso e un oggetto da collezione.

Danzare con i capelli: Cina e Taiwan: la danza dei Gaoshan

Le  donne Yamei, appartenenti  alla minoranze etnica  Gaoshan (gruppo etnico  cinese  stanziatosi nella costa Est del Taiwan e nella provincia di Fujian, nel Sud Est della Cina), danzano muovendo il capo e scuotendo i capelli in segno di riscoperta della propria forza primitiva, di ottimismo e coraggio. La danza con i capelli è una danza rituale praticata dalle donne Yamei, appartenenti al popolo Gaoshan. Come nella loro antica tradizione, queste donne hanno l’abitudine di ballare alla luce della luna piena, in riva al mare. Il rito prevede che le donne scendano verso la spiaggia, si posizionino tutte in un’unica linea o in cerchio, tenendosi per mano. A questo punto le donne cominciano a cantare antiche canzoni del loro popolo, cominciando a muovere il proprio corpo, scuotendo le anche e i lunghi capelli neri da parte a parte. Continuano con questo movimento, prima lentamente, fino a che i capelli toccano a terra, a questo punto tirano violentemente la testa indietro, scuotendo fortemente i capelli avanti e indietro.     Si narra che il movimento violento della chioma nera alla luce della luna piena, crei dei riflessi tali da essere paragonati ad una fiamma nera. Questo popolo è conosciuto per le sue doti in canto e danza dai tempi più antichi, si dice che tutte le attività svolte assieme, come anche i pasti sempre svolti in comunità, non siano mai privi di canti popolari e danze. Le loro danze simulano e riflettono i movimento e le scene della vita quotidiana: la pesca, la coltivazione, la caccia. Le danze sono sempre collettive, i partecipanti variano da una dozzina e alcune centinaia di persone.

La danza nei Paesi Arabi: il Khaliji

«Il khaliji (termine che in arabo significa "del Golfo") è una danza folkloristica tipica dei paesi affacciati sul Golfo Persico, come l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, il Kuwait, il Qatar, lo Yemen,   il   Bahrain e l'Oman. E' una danza gioiosa, ballata generalmente dalle donne durante le celebrazioni, i matrimoni e le feste, di solito eseguita in coppie o in gruppo. Esistono diversi stili di danza Khaliji, in quanto in ogni regione ne è presente un tipo caratteristico, il più noto è quello conosciuto anche come "danza dei capelli" dove, come suggerisce il nome, i capelli sono grandi protagonisti grazie ai movimenti rotatori della testa. Durante la danza si eseguono pochi movimenti ripetuti per tutta la durata del brano, in genere improvvisati al momento, le movenze sono fluide ed aggraziate. Il khaliji dà il nome ad un tipico passo- base, molto cadenzato. L'abito tradizionale per   la danza khaliji è il Thobe al Nashal,    una veste molto


ampia e lunga, fatta con stoffa semi-trasparente di vari colori e riccamente decorato; la ballerina    gioca con esso durante la danza.»38
Questo tipo di danza, a volte chiamata anche Al Nasha’at, (difficile è però l’interpretazione di questo termine, il quale ricorda sia il nome del lungo abito usato per danzare – thobe Nashaal – ma anche la parola araba Nashaat che significa “capelli” o “fiore che sboccia”) in quanto la parola passo cadenzato viene utilizzato similmente in molti altri paesi, inclusi l’Afghanistan, il Marocco, la Nubia e nel balletto russo. Ciò non è sorprendente se si tiene conto degli avvenimenti storici che caratterizzarono queste regioni. L’ antropologa Melinda Smith suppone che in origine alcuni movimenti rappresentassero azioni quotidiane svolte dai pescatori di perle e che la rotazione dei capelli e il gioco ondulatorio dell’abito fosse ad imitazione delle onde del mare. Questo è verosimilmente credibile in seno alle tribù che vivevano sulle coste affacciate sul Golfo. Nei paesi del Golfo Persico, infatti, l’acqua e i capelli sono collegati simbolicamente fin dai tempi antichi alla fertilità. E’ possibile che nelle zone interne dell’Arabia Saudita le caratteristiche fossero diverse. Altra peculiarità tipica dello stile khaliji è il movimento della testa e dei capelli. Le donne sono molto orgogliose della loro chioma ed alcune ne fanno una amichevole competizione facendola crescere ed esibirla nella danza, inoltre quando danzano le giovani in situazioni come cerimonie e matrimoni, sanno che la loro performance verrà supervisionata dalle donne più anziane, per valutare eventuali matrimoni e fidanzamenti con possibili pretendenti.

Le donne della tribù Chanjiao Miao dal “lungo corno”

I Hmong, anche conosciuti come Miao, sono un gruppo etnico asiatico che vive principalmente nelle regioni montane della Cina del sud (in particolare nella provincia del Guizhou) e nelle regioni del sudest asiatico (Vietnam, Laos, Birmania e Thailandia del Nord). Formano il quinto più popolato dei 56 gruppi etnici riconosciuti ufficialmente dalla Repubblica popolare cinese. Le donne di questa tribù, conosciute come le donne dal “lungo corno”. Questo corno è una sorta di “boomerang” che viene inserito nei capelli raccolti sulla nuca, e attorno ai bracci di questo corno viene intrecciata una grande chioma, fatta sia di capelli finti (di lana e lino la maggior parte) e capelli veri, dei propri antenati. Un enorme accessorio depositato sulla propria testa e che crea una vera a propria scultura a forma di 8, a completare l’opera un nastro bianco che corre attorno alla struttura, assicurandone anche la tenuta nel tempo. Questo abito tradizionale viene indossato durante le festività stagionali ed è segno di rispetto verso i propri antenati. Ogni parrucca viene passato da madre a figlia. Per le donne Miao questo accessorio rappresenta il loro sapere, la loro storia, che non si trova nei libri, ma direttamente sulla loro testa.

India: il Ciudakarana

 


Il Ciudakarana è una cerimonia in cui vengono rasati quasi completamente i capelli dei bambini quando compiono 3 anni, lasciando solo un ciuffo al centro della testa. Questo rito è un antico precetto sacro Indù, fa parte dei 16 riti vedici (Samskāram). Il suo significato simbolico è racchiuso nel fatto che i capelli trattengono tratti indesiderabili dalle vite precedenti, e quindi vanno rimossi per essere purificati. Inoltre questo gesto vuole indicare l’abbandono dell’indipendenza totale alla madre, il bambino infatti comincia ad acquisire le sue prime autonomie. Padre, madre e figlio si siedono attorno ad un fuoco, e mentre la testa del bambino viene rasata, il padre recita dei Mantra sacri, offrendo i capelli alle divinità. Questo rito, di origine vedica, ha più di 4.000 anni di età e viene tuttora praticato nell’India induista.

India, il commercio dei capelli dei templi: Il viaggio dei capelli di una giovane donna indiana. Offerti al tempio e poi trasformati in preziose “hair extension” in Italia, gli stessi capelli torneranno in India per soddisfare la vanità di una donna in carriera di Bombay. Un racconto sul culto della bellezza nell’era della globalizzazione. Un inedito ritratto dell’India d’oggi con le sue contraddizioni, tra modernità, crescita economica e tradizioni millenarie. Per far fronte alle spese del suo matrimonio con la dea Padmavathi, Vishnu si indebitò enormemente con Kubera, il tesoriere degli dei, il quale, in considerazione dell’alto tasso di interesse praticato decise che il prestito sarebbe stato ripagato da centinaia di generazioni nei secoli a venire. Da centinaia di anni i pellegrini che si recano nei templi del sud dell’India donano soldi e gioielli per contribuire a ripagare il debito. Molti non esitano a donare l’unica cosa che possiedono: ogni giorno 40.000 pellegrini si recano al tempio per offrire i loro capelli in un rituale di purificazione. Fino a pochi anni fa i capelli offerti al tempio venivano bruciati o usati per fabbricare materassi. Oggi gli stessi capelli sono diventati una straordinaria risorsa economica. Migliaia di ciocche di capelli vengono spedite in Italia, comprate e trasformate in extension da Mr. Gold, il proprietario della più grande azienda del settore: la ‘Great Lengths’. Le extension esportate dalla società di Mr. Gold sono considerate le migliori sul mercato mondiale e vengono esportate non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, nei Paesi Arabi, in Australia, in Nuova Zelanda e in molti altri paesi, inclusa... l’India.

Punjab, India: il martire del Kesh

Nella religione Sikh, presente soprattutto nello stato del Punjab, in India, vi sono cinque precetti da seguire, chiamati Panj Kakkar o il “Cinque Ks”, in quanto cominciano tutti con la lettera “k”, simbolo di Kakkar. Il primo di questi è Kes, ovvero il precetto secondo cui i capelli non vanno mai tagliati per rispetto della perfezione e dell’armonia creata da Dio. Il non tagliare i propri capelli è quindi un modo di vivere seguendo la volontà di Dio ed è simbolo d appartenenza alla confraternita Khalsa e quindi alla fede Sikh. Questa pratica è seguita dagli uomini, i quali annodano i capelli in un semplice chignon posto


in cima alla testa e poi coperto dal turbante, accessorio che contraddistingue i fedeli al sikhismo. Durante la persecuzione, nel 1745, sotto l’Impero Mughal, in particolare sotto l’Imperatore Muhammad Shah, i Sikh venivano obbligati a tagliare i loro capelli, altrimenti gli veniva imposta al pena di morte. La storia narra di un martire, simbolo dell’importanza data al Kesh dal popolo sikh: Bhai Taru Singh era un rivoluzionario e fu imprigionato dal Khan dei Punjab, Zakaria. Come un segno di sottomissione alla religione mussulmana e la governo mussulmano, gli fu chiesto di tagliare i capelli, ma lui si rifiutò. Dopo essere stato torturato, gli venne fatto uno scalpo in pubblico con i suoi capelli, in questo modo i suoi capelli non sarebbero più ricresciuti. Fu condannato alla pena di morte. Il secondo Kakkar è il Kangha, ovvero il pettine necessario per mantenere la cura e la pulizia della propria chioma. Un sikh deve pettinarsi due volte al giorno e poi legare il suo turbante. Il turbante viene usato come simbolo di identità di questa comunità e della loro coesione sociale, oltre che e protezione dei capelli.


  1. Tendenze d’epoca: gioielli di capelli

 

Risalgono al ‘600 le prime testimonianze relative alla moda di sfoggiare e regalare gioielli fatti con i capelli, annodati, intrecciati o avvolti attorno ad un osso. In Inghilterra John Donne celebra in due diversi componimenti il potere racchiuso nel suo bracciale di capelli: l’immagine che l’autore ne dà è quella del cadavere pronto per essere avvolto nel sudario, nel primo componimento “Il funerale”, o dello scheletro già dormiente nella tomba che sfoggia, al di là del tempo e della decomposizione del corpo, il suo bracciale di capelli. Leggendo queste due poesie si comprende come per l’autore quel bracciale, unico ricordo da portare con sé nella tomba, racchiuda dentro quelle chiome tutta la forza, l’arte, l’energia e l’Anima che l’aveva contraddistinto durante la vita, e oltre a questo anche l’amore che l’ha accompagnato fino alla tomba, un amore unito ancora nell’ultima dimora.

 

Il funerale

Chiunque sia che mi verrà ad avvolgere dentro il sudario. Non turbi, non interroghi     quella ghirlanda Sottile di capelli che m'incorona il braccio; Nessuno tocchi quel segno, quel mistero, È  la mia Anima esterna, viceré di quella Che essendo allora già salita al     cielo L'avrà lasciata a  governare e  preservare queste Membra che sono sue Provincie   dalla dissoluzione.

Poiché se la rete di nervi che il mio cervello dirama Da ogni parte può unire ogni parte    In un unico corpo, questi capelli che un tempo Crescevano forti, traendo arte e energie  Da un cervello migliore, Possono farlo meglio; salvo che lei non volesse che io
Riconoscessi da questa ghirlanda il dolore Come accade, mettendoli in catene, ai condannati a morte.

Qualunque cosa lei abbia voluto dire Seppellite con me quel braccialetto; Poiché io sono  un martire d'amore, potrebbe generare Forme d'idolatria se la Reliquia Cadesse in mani altrui; com'era un segno D'umiltà attribuirle qualità di un'Anima, È prova d'ardimento
seppellire Qualche cosa di te che mi volesti sempre   rifiutare.

 

 


La reliquia

Quando la mia tomba sia dissuggellata Per dare a  un altro ospite  ricetto
(dalle donne le tombe hanno appreso il vezzo di fare più di uno da letto),     e  chi scava intraveda
un bracciale di fulgidi capelli attorno all’osso, non penserà di lasciarci  soli,
in noi vedendo una coppia di amorosi sposi, divisanti in quel mezzo un  modo
di creare per le loro anime un incontro,   nel frenetico ultimo giorno, presso la  tomba,
e  una breve sosta?
Se questo accada in un tempo, in un luogo, dove la superstizione sia sovrana, allora chi ci disseppellirà ci  porterà
dal Vescovo e dal Re, per dare di noi  reliquie.
Tu così sarai una Maria di Magdala E  io, un alcunché di affine,
adorati da tutte le donne, e  da qualche  uomo.
In quel tempo in cerca di miracoli, a  quell’età a venire,
con questo scritto vorrei essere  testimone
dei miracoli operati dall’innocenza del nostro  amore.

 

Ci amammo buoni e  fedeli, senza sapere perché si amava o cosa, senza conoscere la diversità di  sesso
più dei nostri angeli  custodi.
Forse all’incontro, forse all’addio ci si baciava, unico nutrimento,
e mai le mani toccarono quei sigilli lasciati liberi dalla natura,
oltraggiata da più tarde  leggi.


Questi miracoli operammo, ma ora  Dovrei varcare ogni limite di lingua e  di  misura
Per dire che miracolo lei era.

 

Leggendo queste poesie, una di seguito all’altro, si ha proprio la percezione della  concezione di un feticcio quale legante fra il corpo vivo, il corpo morto, e il corpo che  corpo non è più. Come mantenere la propria identi tà e la propria presenza in una morte in cui il corpo necessariamente deperirà, sottostando alle leggi naturali? I capelli sono l’unico elemento corporale che resiste al tempo e alla decomposizione, e portare con sé, fin nella tomba, un feticcio eterno rende eterni anche noi, che lo indossiamo, eterno così sarà anche il nostro legame con il mondo e  con l’Anima  dell’amato/a.
Il monile ci riporta anche al concetto di “presenza –  assenza” nel Mondo, presenza del Sé     e dell’unione tra i due corpi e le due anime degli amanti. Il concetto  di  “presenza  individuale nel mondo” e di “crisi della presenza” sono concetti che l’antropologia ha affrontato, in particolare lo fece Ernesto de Martino, in “Sud e Magia” e nella sua celebre analisi del fenomeno della taranta. Ernesto de Martino, al riguardo   scrive:

«In virtù del piano metastorico come orizzonte della crisi e come luogo di destorificazione del divenire si instaura un regime protetto di esistenza, che per un verso ripara dalle irruzioni caotiche dell’inconscio e    per un altro verso getta un velo sull’accadere e  consente di “stare nella storia come se non ci  si stesse”.     In virtù di tale duplice complementare funzione protettiva la presenza individuale si mantiene nel mondo,  e attraversa i  momenti critici reali o  affr onta le reali prospettive incerte “come se” tutto fosse già deciso  sul piano metastorico secondo modelli che esso esibisce: ma intanto, pur entro questo regime protetto di esistenza, si reintegra il bene fondamentale da proteggere, cioè la presenza individ uale, la quale attraverso il momento critico o  affronta la prospettica incerta ridischiudendosi di fatto ai comportamenti realistici     e ai valori profani che la crisi senza protezioni magica avrebbe, nelle condizioni date, compromesso.»

L’individuo vive una crisi nel mondo reale, non riesce a far aderire la sua personalità, la sua vera identità con ciò che lo circonda, il proprio ruolo va in crisi: una nuova presenza nell’atto magico non è quindi da vedere come una assenza o come una perdita di coscienza, anzi, va letta come un rituale che permette alla persona di sopravvivere al suo disagio, di ricollocarsi nel mondo, dopo questa fase magica di  “presenza
– assenza”, potrà quindi rientrare nel suo ruolo. Il feticcio, l’amuleto, l’oggetto magico che dir si  voglia,


I capelli e la moda

 

Già nell’antichità si ricorreva alla tintura e alla decolorazione dei capelli. Le donne romane, vedendo le bionde chiome delle prigioniere germaniche, ne furono talmente attratte da farle recidere le chiome per creare personali posticci, quali parrucche e trecce. Venivano anche utilizzate sostanze per dotare i capelli di una sfumatura rossiccia, si esponevano al sole per farli schiarire, si tingevano i capelli banchi. Dall’Egitto e dai paesi orientali si importava l’henna, per il color rosso, dalle città germaniche invece veniva importata la pila mattiaca per rendere i capelli biondi brillanti. Si narra che presso il Circo Massimo, a Roma, esisteva un mercato di capelli provenienti dalla Germania e dall’India. La popolazione dei Galli tingeva i capelli di rosso usando cenere di faggio misto a grasso di capra, le donne a volte dovevano utilizzare parrucche per coprire le calvizie dovute all’abuso di queste sostanze non sempre benefiche. Già all’epoca si utilizzavano arricciacapelli in metallo, che veniva scaldato sul fuoco. Queste abitudini non erano solo femminili, ma anche maschili, infatti anche l’uomo usava cambiare il proprio colore dei capelli. Durante il Rinascimento fu in voga soprattutto il colore biondo della capigliatura. Nella Francia del secolo XVI era diffusa la moda di incipriare i capelli con una polvere tratta dalla farina di riso o di grano. Dopo la Rivoluzione Francese parrucche e cipria persero il loro fascino, ma vennero lanciate altre mode e altre ricette per prodotti cosmetici. Ad esempio l’imperatrice Eugenia lanciò la moda del biondo rossiccio. Verso la fine del secolo si diffuse l’uso del biondo ossigenato, grazie appunto all’uso dell’acqua ossigenata. Con la prima guerra mondiale venne inaugurato il taglio dei capelli à la garçonne, una donna che        non esponeva più la sua femminilità solo attraverso l’acconciatura, ma portava fuori la sua personalità di donna forte, indipendente, una donna che deve rivestire dei nuovi ruoli nella società anche a causa della guerra. Ma quanto è importante e ricco di simbolismo il colore dei capelli?
«Se gli uomini considerano con sospetto il cambiamento del colore dei capelli delle rispettive consorti, le donne vivono differentemente questo mutamento. Secondo quanto afferma Grant McCracken “la colorazione dei capelli è uno dei grandi strumenti di trasformazione volontaria della propria esistenza”. A suo avviso, tutte le donne attraversano periodi nei quali vorrebbero avere una personalità diversa, magari più forte, per affrontare stress emotivi, quali divorzi o separazioni, e il cambiamento della tonalità dei capelli potrebbe essere un aiuto in tal senso. (…) In realtà sono tante le motivazioni che inducono la donna a cambiare il colore dei capelli: alcune donne vogliono recidere i legami logori che appartengono al passato e aprirsi alla possibilità di nuove relazioni; altre vogliono costruire un’immagine più matura o dare una battuta d’arresto al tempo che scorre. Preziosissime fonti di informazione sono stati, in questo caso, i parrucchieri che, intervistati, hanno ammesso come “alcuni colori siano più indicativi di un mutamento sentimentale in atto nella donna”. Ed è la tintura rosso rame, su 780 casi analizzati, quella più a rischio di tradimento.»


Secondo McCracken i capelli rossi sono indice di vivacità intellettuale e di forte temperamento.
«In passato la chioma rossa è stata considerata in difetto fisico, un segno capace di suscitare avversione. Soprattutto gli uomini che nascevano con la chioma rossa erano costretti a tingerla, a meno che non volessero offrire una immagine profondamente antisociale. Generalmente questi uomini erano considerati poco virili. Al contrario , le donne dai capelli rossi erano ritenute violente, mascoline, irascibili. Oggi le donne dai capelli rossi sono considerate oggetto dei desideri maschili. Gli uomini sono allarmati e allo stesso tempo intrigati dalle chiome rosso fuoco. Le rosse sanno vivere intensamente le emozioni e lanciano, secondo quanto ritiene McCracken, due segnali agli uomini: da una parte che sono poco disposte a recitare ruoli tradizionali, che hanno bisogno di nuovi stimoli, dall’altra che sono molto sensuali. In altri termini, che bisogna amarle e che non si può fare a meno di loro.»45
Sempre secondo gli studi fatti dagli autori del libro “La moda capelli”, gli uomini preferiscono le bionde, come recita il titolo di un celebre film con Marylin Monroe, probabilmente perché gli uomini trovano più attraente un volto femminile dai tratti infantili. La chioma bionda è associata all’infanzia, in quanto la crescita determina un inscurirsi della chioma; inoltre il colore chiaro dona un aspetto più angelico al volto, per questo studi psicologici hanno determinato che la donna dai capelli biondi è considerata più femminile, bella e delicata. La chioma bionda è inoltre simbolo di verginità, giovinezza, innocenza e fertilità. Secondo McCkraken i capelli bruni appartengono a quelle donne che “catturano i cuori e tolgono il respiro; sono brune le donne che tolgono il respiro”.46 Secondo questo studio il nero è un colore residuale, scelto da chi scarta le altre tonalità, non denota una particolare personalità, preferito da donne timide e riservate. Il castano, invece, sarebbe prediletto dalle donne con un alta stima di sé, che sono consapevoli della loro bellezza, ma non la ostentano. Le donne che scelgono queste tonalità, in definitiva, non vogliono lanciare un messaggio particolare, ma preferiscono lasciare all’osservatore la possibilità di conoscere e poi giudicare, senza farsi etichettare.
Infine i capelli grigi non sono indicatori della fine del proprio io, ma invece indica proprio saggezza e maturità. Il grigio è però un colore ambiguo, se negli anni ’90 è stata una moda per le giovani londinesi, tingersi di grigio i capelli, per la maggior parte delle persone il grigio è indicatore di “fine”. La fine della vita, l’assenza di un futuro, la fine della propria carica sessuale. Al contrario per gli uomini il capello grigio denota fascino e credibilità, potere e interesse, mentre le donne perdono il loro fascino, d’altro canto però per molte donne ostentare i capelli grigi significa anche essere mature, sicure di se stesse e della propria personalità, al di là dell’età e dell’avanzare degli anni. Diventa così una scelta identitaria anche quella di non ingannare l’occhio dell’osservatore sul proprio status biologico. Scegliere il grigio è quindi simbolo di grande libertà di scelta e di una forte individualità.
Anche l’acconciatura, così come il colore dei capelli, è un grande comunicatore. Nella società occidentale dei nostri giorni la donna, così come anche ‘uomo, con i capelli lunghi, sciolti e liberi, comunica


spensieratezza, libertà, spontaneità, esuberanza e vitalità. L’acconciatura molto corta, invece, comunicano un senso di praticità, androginia, combattività, determinazione. La parola “moda” è legata all’acconciatura molto prima che il vestiario, se la moda nell’abbigliamento parte dal Trecento, la moda per i capelli è presente fin dai tempi antichi, a partire dall’Egitto dei faraoni in poi.

I capelli e la tessitura

 

Abbiamo parlato nel capitolo 8 della moda di indossare gioielli fatti di capelli, che diventano, con la loro diffusione, un’abitudine sempre più popolare, al riguardo la Violi infatti scrive:
«La presenza di artefatti in capelli all’Esposizione Universale sancisce in effetti la loro definitiva trasformazione da fenomeno elitario a pratica collettiva e popolare. Al rapporto saltuario e riservato con il gioielliere, reclamizzato in pubblicazioni per addetti ai lavori, si è andato infatti sostituendo un commercio sempre più massificato, evidente nelle numerose pubblicità che da riviste come il “Godey’s Magazine” o il “Peterson’s Magazine” offrono un’ampia gamma di modelli e prezzi per la confezione di gioielli tramite spedizione postale di capelli. (…) Tanto che un numero crescente di manuali specializzati fornisce, soprattutto alle donne, istruzioni sull’arte di tessere e intrecciare da sé il proprio feticcio.»

I capelli, quindi, entrano anche nel mondo della tessitura, unendo due simboli femminili, l’uno legato alla femminilità come archetipo e come immaginario, e l’altro come artigianato e tecnica del corpo: Il lavoro, manuale, di ogni tipo, è innanzitutto composto da un gesto e da una “tecnica del corpo”, usando un termine coniato da Marcel Mauss, il quale scrisse il saggio “Le tecniche del corpo” nel 1950, contenuto nel testo “Teoria generale della magia”. In questo saggio Mauss definisce le tecniche del corpo come «I modi come gli uomini nelle diverse socieà si servono, uniformandosi alla tradizione, del loro corpo».
Ci sono diverse modalità di lavoro, diverse scelte che una persona può fare sul come agire, quali gesti compiere, in che sequenza, con che manualità, con che atteggiamento corporeo, quali strumenti usare e come usarli… ecc. Mauss ci dice che queste scelte non sono mai lasciate al caso e sono invece dettate dalla tradizione specifica della società che stiamo analizzando. Ciò che spesso ci sembra banale o scontato non lo è, ciò che crediamo non possa essere fatto in modo diverso da come lo facciamo tutti i giorni, in realtà avrebbe decine e decine di modalità differenti. Mauss continua la sua analisi e ci racconta che la tecnica del corpo adottata va analizzata sia da un punto di vista storico-culturale (e qui quindi possiamo intuire quanto la tecnologia e il mondo virtuale cambino questo aspetto), ma anche osservando ritmicità e ripetitività dei gesti, che vengono arricchiti dalla ricerca di un contatto attraverso i cinque sensi, che ci aiuta, ovviamente in modo inconscio, a riproporre elementi di un passato che possiamo solo ricordare, riformulare, mettendolo in relazione con il tempo presente. In questo modo   la tradizione si ripete, si consolida, da semplice abitudine o consuetudine diventa vera e propria tradizione, e viene trasmessa.
In questo l’uomo si distingue dagli animali: per la trasmissione delle sue tecniche e per la loro trasmissione orale, il corpo è il primo e più naturale oggetto tecnico e nello stesso tempo, mezzo tecnico dell’uomo. La tessitura, in particolare, è una tecnica del corpo ricca di elementi e simboli che rimandano al femminile,


si dice che sia nata grazie all’inventiva delle donne, proprio partendo dall’intreccio dei capelli, dalla comune e antica treccia. Da qui, passare al nodo, e alle sue infinite implicazioni e alla tessitura è stato solo questione di tempo e creatività. Anche gli uomini, nella storia e nelle varie culture, hanno tessuto e tessono tuttora, eppure nel nostro immaginario, o forse proprio per la sua carica simbolica, è un’attività manuale che riteniamo, a giusto o a torto, appartenente al mondo femminile. In paesi dove la produzione di tappeti è consolidata a volte le donne sono solo le artigiane che aggiustano i tappeti, mentre agli uomini è dato l’onore di fabbricarli.
Ritornando infatti all’analisi antropologica, Mauss diceva che le tecniche del corpo sono forme di riconoscimento collettivo e identitario, ma anche modelli per la società, a cui si avvale il singolo individuo nel processo di identificazione all’interno del gruppo e di formazione personale per la sua quotidianità. La società serve all’individuo, ma senza l’individuo la società non esisterebbe. Mauss, sempre più ispirato nella sua analisi, ad un certo punto del testo dice che «abbiamo commesso l’errore fondamentale di ritenere che esistano delle tecniche solo quando ci sono strumenti». 49In sintesi Mauss ci dice che ci stavamo dimenticando dell’uomo, e spesso lo facciamo ancora! Poi continua, nella stessa pagina, «io chiamo tecnica un atto tradizionale efficace, e vedete che sotto questo aspetto esso non differisce dall’atto magico, religioso, simbolico. Occorre che sia tradizionale ed efficace».
Mauss ci fa comprendere che la tradizione è composta da atti, gesti, azioni del nostro corpo sull’ambiente, azioni condivise dal resto della comunità, creando un continuum fra un gesto e l’altro e arricchendolo così di senso non solo pratico (l’azione determina un risultato, un prodotto) ma anche simbolico e identitario. Lo strumento più efficace per questo scopo è appunto il nostro corpo, che viene utilizzato e strumentalizzato (a volte anche modificato) in modi tali da distinguerci dal mondo animale, il quale “sfrutta” il corpo solo da un punto di vista biologico e non individualistico e culturale. L’uomo si distingue per la creazione dell’utensile, per il gesto con questo applicato, per il simbolo legato ad esso, per la sua capacità di addomesticare il tempo e lo spazio (ovvero l’esser riuscito a creare un tempo e uno spazio umani). La creazione di un tempo, legato al gesto, non è altro che la creazione di un ritmo; non solo un ritmo legato all’azione e alle sue parti scomponibili, ma anche applicabile al mondo che ci circonda: il giorno e la notte, le stagioni, i tempi di azione e di riposo, il rapporto del nostro corpo con la natura, creano un ritmo non più caotico ma cadenzato a intervalli regolari, diventando l’elemento principale della socializzazione umana, l’immagine dell’inserimento sociale.
Tessitura e cappelli si incontrano, riallacciando i fili dell’immaginario, dell’inconscio, dell’identitario e dell’archetipo con la cultura, la tradizione e da qui il campo “del femminile”. Vorrei citare come unico esempio artistico, che a mio avviso ben esprime questo concetto, una serie di opere e performance con capelli (tessuti o ricamati/cuciti), dell’artista a amica Elena Tondi.


Elena Tondi, in arte Kanika, ha studiato all’Istituto Statale d’Arte di Bologna nella sezione di architettura e si è diplomata nel 1960. In seguito ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento di disegno. Ha lavorato per venti anni in uno studio di architettura di Bologna occupandosi prevalentemente di architettura di interni. Nel 1980 ha aperto un suo studio dove ha lavorato nel settore design, architettura di interni e arte. Elena porta avanti la sua ricerca artistica intervenendo attraverso installazioni e performances. L’uso del materiale è prevalentemente quello del filo, tradotto come segno e gesto e con particolare riferimento al rituale della tessitura. Partecipa da molti anni a mostre d’arte in varie città d’Italia e d’Europa. Ha vissuto per diversi anni accanto a Michael Barnett alla “Michael Barnett Energy University” in Italia e a “Energy World” in Francia. L’attività artistica e architettonica, volta sempre a una ricerca interiore, ha trovato una totale fusione con il lavoro e l’energia appresa vicino a lui. Ora vive prevalentemente in una casa di campagna ad Affrico (Gaggio Montano, provincia Bologna), un luogo splendido, dove la natura ha continuato l’opera di fusione con il tutto, attraverso l’unione, la bellezza e la saggezza universale. Recentemente nel giardino ha realizzato un’opera di Land Arto: una grande spirale di pietra “la spirale sacra”.

«La tecnica della tessitura e i rimandi a culture remote sostanziano l’opera di Elena Tondi. Va, a questo punto, ricordato che la pratica del tessere, da sempre connessa al fare femminile, è stata ripresa, quale veicolo estetico, da molte artiste di oggi, e non soltanto in Italia. Elena Tondi usa per i suoi arazzi un materiale estremamente vitalistico e ricco di implicazioni magiche: intreccia i capelli. Ai capelli, aperte del corpo, ma rinnovabile e priva di sensibilità, è stato sempre assegnato un potere misterioso (si pensi alla leggenda di Sansone la cui forza risiedeva nella capigliatura); per lunghissimo tempo la ciocca di capelli, chiusa in un medaglione, è stata pegno d’amore e potente talismano. Proprio rifacendosi a questa diffusa e duratura usanza, Tondi Elena trasferisce il simbolo dal privato al collettivo, tessendo tappeti con ciocche di ogni colore e gradazione, come offerta d’amore universale.»50

Elena, da cosa è nata l’idea di usare i capelli nelle tue opere e nei tuoi progetti?

«La cosa più emozionante e profonda, riguardante i capelli, l’ho vissuta nell’infanzia ed è legata ad una immagine delle donne della mia famiglia. Quando mi trovavo nella casa di montagna (in città questo rito non veniva fatto), le donne nel bagno, la sera, si scioglievano i lunghi capelli, che normalmente erano sempre legati in una treccia o in uno chignon (anni ‘40 circa), si pettinavano e ciò che rimanevano nella spazzola lo raccoglievano e lo mettevano in un sacchettino di       lino custodito nel bagno. Il sacchettino era uno solo, per tutte le abitanti della casa. Le donne non hanno mai dato una spiegazione alle mie domande d bambina.. ma so che in una notte particolare, che non ricordo esattamente quale fosse, d’inverno li bruciavano come in un rito nel camino. Questo mi ha colpito. Le chiome che vengono sciolte e rese libere, curate, pettinate e poi questi capelli che invece venivano raccolti, custoditi e infine bruciati.


Nella mia vita i capelli sono tornati nuovamente nel 1975, mi trovai in Piazza della Mercanzia a Bologna, durante una manifestazione pacifica di donne, fatta di danze, balli, festa... Mi chiesero di fare una performance, perché chi mi conosceva sapeva che stavo lavorando in  campo  artistico attraverso l’uso della  tessitura a  telaio. Mi  misi  con  un piccolo  telaio improvvisato e cominciai a chiedere, a volte timidamente a volte meno, alle persone che passavano, sia  uomini che donne, o che erano lì semplicemente accanto a me, se erano disposti a regalarmi una ciocca dei loro capelli, che avrei tagliato io. Le persone hanno risposto positivamente sorridendo, in modo gioioso, altri invece cambiavano espressione, rispondevano “no” in modo brusco o preoccupato, timoroso.. era molo forte, e sentivo che in questa situazione, in questo contesto, stavo entrando in intimità con queste persone sconosciute, eppure mi sembrava di conoscerle profondamente. Con le persone che accettavano di darmi una ciocca dei loro capelli si stabiliva una connessione profonda, un incontro dell’anima, come se ci conoscessimo da sempre. Esse mi davano attraverso questo gesto un po’ di se stesse. Mano a mano che la tessitura cresceva molte persone si avvicinavano a vedere, incuriosite, mi offrano altre ciocche, mentre altre spaventate, a volte faticavano anche ad osservare ciò che facevo. Successivamente l’artista e critica d’arte Mirella Bentivoglio, mi invitò a Barcellona a ripetere questa esperienza nella galleria d’arte “Metrònom”, durante una mostra collettiva di donne nel 1975. Questa è stata la prima esperienza con i capelli, che mi ha portato durante il mio percorso a realizzare altri progetti con i capelli e la tessitura, ad esempio ho creato un libro, unico, dal titolo “Parole di capelli”: ho cucito parole    con i capelli, cucendoli su un ordito realizzato con    una calcografia su cartoncino.»

Bibliografia:

 

  1. Alessandra Violi “Capigliature. Passaggi del corpo nell’immaginario dei capelli” Mondadori, Milano 2008
  2. Laura Boella, Vittorio Cigoli, Barbara Mapelli, Elena di Raddo, Daniele Perra, Fernando Rotondo “Femminile Plurale.. Percorsi tra identità e differenza”, Tre Lune Edizioni, Mantova 2003
  3. Mariella Combi “Il grido e la carezza”, Sellerio editore, Palermo, 1988
  4. Maria Elisa Micheli, Anna Santucci (a cura di),“Comae: identità femminili nelle acconciature di età romana”, ETS Editore, Pisa, 2011
  5. Arnold Van Gennep, “I riti di passaggio”, Bollati Boringhieri, Torino, ed. del 2012
  6. Gilbert Durand, “Le strutture antropologiche dell’immaginario”, Edizione Dedalo, Bari ed. del 2013
  7. Massimo Baldini e Marica Spalletta (a cura di), “La moda capelli”, Armando Editore, Roma, 2006
  8. Ernesto de Marino, “Sud e magia”, Feltrinelli editore, Milano, 1959
  9. Susan Stewart, “On longing. Narratives of the Miniature, The Gigantic, the Souvenir, the Collection, Duke University Press, Durham, 1993
  10. Elisa Nivola, Maria Erminia Satta, “Tessitura di pace”, Quaderni Satyāgraha, forza della verità, Libreria Editrice Fiorentina, Centro Ghandi Edizione Pisa, Bagno a Ripoli (FI), 2006
  11. Dizionario Iconografico, a cura di Ino Chisesi, edizioni Bur, Milano, 2000
  12. Patricia Monaghan, “Le donne nei miti e nelle leggende. Dizionario delle dee e delle eroine”, Red edizioni, Como, 1987
  13. Dizionario dei simboli, dei riti e delle credenze, a cura di Catherine Pont-Humbert, Editori Riuniti, Roma, 1997
  14. Jonh Donne, “Poesie sacre e profane”, Feltrinelli Editore, Milano, 2000
  15. Giuliana Torre, Rosa Turi, Luisella Veroli, “Autocoscineza tra fiabe e realtà. L’eros nell’immaginario della donna”, Melusine c/o Centro Azione Milano Donne, Milano, 1991

 

Sitografia:

 

  1. http://thehistoryofthehairsworld.com/
  2. http://www.neilmoodie.com/the-long-horn-miao-tribe-a-few-others-according-to-silvs/
  3. http://traditions.cultural-china.com/en/17Traditions5024.html
  4. http://www.silviaraja.com/Danza%20Orientale/FOLKLORE/page.htm
  5. http://www.gabryjamilah.it/index.php/gli-stili
  6. http://akashyadanzadelventre.jimdo.com/nascita-ed-evoluzione-della-danza-orientale/stili- tradizionali-raqs-sharqi-baladi-e-folklore-tribal-e-contaminazioni/
  7. http://www.geagea.com
  8. http://www.universitadelledonne.it/tabet.htm
  9. http://www.laleggepertutti.it
  1. http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-07-21/equivoci-maddalena- 084359.shtml?uuid=AbXFk6FI&fromSearch
  2. http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2013/01/20/Calvizie-ecco-santa- prottettrice-cui-affidarsi_8104887.html
  3. http://gss.revues.org/,
  4. http://www.tessereincontri.org/incontri-e-storie/storie-a-telaio/
  5. http://www.terra.tv.it/index.php?module=pagemaster&func=viewpub&tid=3&pid=18
  6. http://www.tessereincontri.org/incontri-e-storie/storie-a-telaio/
  7. http://bodyart-draconia.net/
  8. http://giulia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=58412
  9. http://www.dailybest.it/2014/09/08/foto-ritratti-schiena-vintage-epoca/#

 

Fonte: http://www.paolaluciani.com/fotografia/wp-content/uploads/2014/08/Open-hair-SAGGIO.pdf

Sito web da visitare: http://www.paolaluciani.com

Autore del testo: Nadia Berti Antropologa, Mediatrice Interculturale e Interreligiosa, Tecnico Yoga e Ayurveda della Fedika http://yogazione.blogspot.it

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