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Psicanalisi della moda, l’abito e il linguaggio del corpo
Di Mariapia Bobbioni
Presentato al convegno dell’Accademia delle Tecniche Conversazionali a Milano il 4 .12. 2014
L’abito è una estensione dell’inconscio in quanto corpo vuoto che si appoggia sul corpo definibile “pieno”.
L’abito si fa parola e diviene un tratto identitario, considerando il pensiero di Lacan per cui là “dov’è l’anima, è il corpo”.
E’ di speciale interesse l’invenzione di quest’uomo per cui l’inconscio si struttura come un linguaggio e dunque il soggetto va ascoltato alla lettera senza perdersi in meandri su cosa c’è dietro o davanti, o si nasconde. Ma semplicemente per il significante o il suono della parola che rinvia a nuovi significanti. Così ha fatto intendere l’enigma del femminile e l’impossibilità di rivelare tutto.
Lacan parla della struttura soggettiva, dicendo appunto che il soggetto è formato da una triade, immaginario, simbolico, reale, e ho compreso che la donna, quando indossa un abito o lo va ad acquistare, mette in gioco il suo fantasma e, cominciando a vedere il suo immaginario, porta con se qualcosa di un sentimento, di un’idea, che possa non essere assolutamente vera, ma che è verissima per lei stessa.
Offro un breve racconto: un’ analizzante, per tutta la vita, per il discorso della madre su di lei, aveva creduto di avere gambe impresentabili; non è difficile intuire che le gambe rappresentano il movimento, la solidità, lo ”stare sulle proprie gambe” come si dice comunemente. Quel pensiero materno aveva creato nella figlia una serie di fantasmi per cui essa non riusciva ad avere iniziative lavorative, assumersi responsabilità, - e può sembrare bizzarro questo per un pensiero sulle gambe-, ebbene si, e naturalmente non esistevano le gonne. Dopo anni di lavoro, in cui tutto questo è stato elaborato, una bella mattina, e ricordo ancora la mia emozione, la ragazza si presentò con una gonna un poco longuette e intravidi che non erano gambe poi così da nascondere. Fu il segno dell’inizio della guarigione. Questo era il fantasma creato e nell’articolazione, nella concatenazione delle parole la persona si permise uno spostamento concretato in un gesto e nella scelta di un nuovo indumento.
Procedendo nell’analisi della triade di cui si è fatto cenno, il soggetto è fatto anche di reale e di simbolico. Il reale è ciò che noi possiamo cogliere solo in parte e come fa notare Lacan viviamo dedicando molto tempo a controllare, ma poi la vita fa come vuole lei. La donna può domandarsi: “Esco per una sera curiosa, e poi chissà
cosa accadrà con quell’abito”. Il simbolico è la relazione con l’altro, con il mondo; e il soggetto rinvia il suo posizionamento; si pone cosa dire di sé, quale tratto offrire all’altro. Mi devo recare a un colloquio di lavoro: ”Cosa indosso? Un tailleur e forse rischio di inviare un’immagine troppo maschile? Non spaventerò l’interlocutore?” spesso si chiede la donna.
Un’altra voce può chiarire il concetto di simbolico attraverso l’abito. Un’ analizzante che si recava in prima liceo si chiedeva come offrire l’immagine di sé il primo giorno di scuola e si interrogava sulla sua posizione simbolica nella sua relazione con il nuovo mondo. Il racconto della ragazza dopo il debutto evidenziò una grande frustrazione perché si recò con tacchi alti, golfino scollato in modo eccessivo, ed era l’unica perché le sue compagne, davvero alla moda, avevano jeans strappati, scarpe da ginnastica maltrattate e piumini griffati. Lavorando su questo evento emerse qualcosa di molto interessante perché la ragazza, inconsciamente, aveva risposto al desiderio della madre di avere una figlia già adulta, ovvero fisicamente tradotta in una specie di lolita. Nella realtà la madre era donna sola, separata e un poco abbandonica con grande difficoltà ad affrontare il reale e gli eventi esterni imprevedibili e poco elaborabili per lei. Chiedeva quindi alla ragazza in modi indiretti e confusi di crescere rapidamente per divenire una partner concreta ed efficiente, per sollevarla dalle responsabilità, per lei insostenibili, dell’essere madre.
Questa trascrizione inconscia era passata sul corpo attraverso l’abito, direi proprio in modo carnale creando poi l’inevitabile sconfitta nel simbolico della giovane.
Come vedete si sta parlando di psicanalisi della moda; uno dei testi fondanti per questo tipo di studio è: “la psicanalisi della moda“ della Lemoine Luccioni, edito da Bruno Mondadori nel 2002 che è la traduzione del saggio “La Robe “ che l’autrice scrisse nel 1983 edito da Seuil. La studiosa offre un pensiero sull’abito come un supplemento che svolga una funzione importante sia in relazione all’identità , sia al desiderio. Una piccola immersione di questo argomentare si è fatta con l’esperienza sottile e raffinata delle due donne in analisi; si potrebbe dire per ambedue le figure che stare nel vestito corrisponde allo stare in una pelle simbolica che stacca l’individuo dall’abisso del vuoto. Per la prima analizzante la “riscoperta” delle sue gambe le ha consentito di uscire da una perdita di sé come soggetto incapace di agire e per la seconda il ritrovarsi in un “corpo pieno” non suo l’ha costretta a comprendere quale fosse il rischio di cadere in un vuoto identitario, ovvero di non permettersi di essere un’adolescente.
Lasciando le due donne ci si può orientare agli scenari della modernità nei quali siamo tutti inclusi; di particolare interesse è la riflessione di Giampaolo Lai nel suo
saggio “Baratto di corpi”, denso sulla moda in cui lo sguardo è protagonista e mi ha stimolato inoltre a ricordare, a proposito dello sguardo, che il vestito è anche un supplemento rispetto al desiderio perché non è il nudo che attrae ma il velo. Lo sguardo non è attirato dal corpo nudo, ma dal vestito che è fatto per essere guardato, come dimostra l’indicazione feticista del desiderio maschile. Il velo dell’abito salva il desiderio perché mantiene la distanza. Ecco un aspetto che andrebbe approfondito perché gli scenari attuali abbandonano la distanza; l’eccesso di protagonismo e l’inno all’onnipotenza ravvicina tutto e fa credere che tutto si possa avere subito e senza limiti.
Come ben si sa la psicanalisi non lavora sull’io forte, si orienta al desiderio del soggetto che purtroppo è spesso diviso, di cui sembra facile parlare, ma non è così perché il desiderio, in questa specie di fluttuazione, si relazione al principio di piacere e alla “mancanza ad essere” che riguarda ogni individuo. La frustrazione e la castrazione sono concetti base che Freud ha trasmesso e ha suggerito come passaggi inevitabili per la formazione soggettiva.
L’individuo non può esimersi di misurarsi con questi aspetti se intende tenere lontana la perversione, tratto molto diffuso nella nostra epoca.
Non è difficile osservare che il male e il disagio della società si annodino su queste parole. Il concetto di limite è concepito quasi come vuoto inutile perché riconduce a quel frammento del tragico al quale l’uomo non può evitare di sottrarsi, sebbene si impegni nella negazione. Così la sofferenza si nega nell’eccesso di narcisismo e nella forzata cancellazione della decadenza come Foucault ha evidenziato.
Fonte: http://www.nodifreudiani.it/sites/default/files/Psicanalisi%20della%20moda,%20l%E2%80%99abito%20e%20il%20linguaggio%20del%20corpo.pdf
Sito web da visitare: http://www.nodifreudiani.it
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