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INQUADRAMENTO GENERALE
La Grecia, pur essendo una nazione, non divenne mai uno stato, e si organizzò secondo una visione municipalistica (le polis), che garantiva una più diretta partecipazione alla vita politica delle classi sia aristocratiche sia borghesi. Tale libertà si rifletté significativamente nella produzione artistica infatti, se all’artista viene riconosciuta la libertà, esso può variare la propria visione dell’arte, e, di conseguenza, può raggiungere obiettivi diversi, e migliori, rispetto agli artisti delle generazioni precedenti. Al contrario, se il clima politico non è basato sul principio delle libertà individuali, appare evidente che anche l’artista non gode di quel fervore di ricerca e perfezione individuale, che, da sempre, rappresenta una motivazione fondamentale per i progressi dell’arte.
La nostra conoscenza dell’arte greca è decisamente parziale, dato che molta produzione artistica è totalmente scomparsa e noi ne abbiamo una vaga conoscenza solo attraverso le fonti.
Del tutto ignota è ad esempio la pittura: le fonti storiche ci parlano di famosi pittori le cui opere erano oggetto di grande ammirazione al loro tempo. È da considerare che la pittura, sia quella pratica su muro sia quella mobile su supporti lignei, è molto più fragile rispetto ad altre opere d’arte: una statua può anche sopravvivere millenni sotto terra o in fondo al mare, ma non può certo conservarsi in analoga situazione un dipinto o un affresco.
Le uniche testimonianze pittoriche che ci sono giunte dall’antichità sono frutto sempre di casi eccezionali: o si tratta di dipinti realizzati in tombe o sono il frutto di eventi straordinari, quali i casi di Pompei ed Ercolano, la cui particolare sorte, legata all’eruzione del Vesuvio, ci ha consegnato affreschi e mosaici che in condizioni normali sarebbero stati anch’essi distrutti.
Un discorso diverso si può fare per la produzione scultorea:
anch’essa è andata in gran parte perduta ma, pur non avendo più molti originali, le opere greche ci sono note grazie alle numerosissime copie di epoca romana. Da esse, pur con le dovute considerazioni che trattasi pur sempre di copie, è stato possibile ricostruire il percorso storico e l’evoluzione stilistica dell’arte plastica greca.
In sintesi, possiamo suddividere l’arte greca in tre periodi fondamentali:
il periodo geometrico (XI-VIII sec. a.C.): in cui predomina uno stile astratto e decorativo, ottenuto con motivi geometrici. Anche la figura, sia umana che animale, venne resa con una geometrizzazione costruttiva, che tendeva a rendere le varie parti di un corpo a figure elementari quali il triangolo, il trapezio, il cono, il cilindro, la sfera, eccetera.
Questa stilizzazione e geometrizzazione, permane nella produzione greca di fatto fino al VII secolo
circa, quando la statuaria greca comincia per la prima volta a cimentarsi nella produzione monumentale e non più nella limitata produzione di idoletti di ridotte dimensioni. È il periodo in cui la cultura greca guarda ad oriente, ispirandosi a modelli egiziani e babilonesi. Ciò le permette di superare il suo orizzonte, fino a quel momento di limite provinciale, per avviarsi a quella radicale evoluzione che la porta ad essere il nuovo baricentro della produzione artistica del Mediterraneo.
il periodo orientale (prima metà del VII sec. a.C.): in questo periodo, sotto l’influenza delle grandi culture orientali, si iniziò a produrre la grande statuaria e l’architettura monumentale dei templi. Nella figura eretta prevale la posizione stante di evidente
derivazione egiziana (Fig. 16).
il periodo arcaico (650-480 a.C.): è il periodo in cui iniziò a mostrarsi l’autonomia del gusto greco, nel momento in cui le influenze orientaleggianti erano pienamente superate. Di questo periodo sono soprattutto le statue dei kouroi e delle kore, fanciulli di ambo i sessi che rappresentano probabilmente portatori di offerte alle divinità. La produzione si orienta secondo tre stili fondamentali: il dorico, lo ionico e l’attico. Il primo, che si sviluppa nell’area occidentale della
Grecia, si orienta ad una forma massiccia e di grande impatto volumetrico; lo stile ionico assunse invece caratteristiche più slanciate e raffinate; lo stile attico, che si sviluppò ovviamente ad Atene, rappresenta una sintesi di volumetrie doriche e raffinatezze estetiche ioniche (Fig. 17, 18, 19).
il periodo severo (480-450 a.C.): fase di transizione dal periodo arcaico a quello classico, in cui emergono le grandi figure di scultori quali Mirone, ed inizia la grande statuaria in bronzo. Periodo definito “severo” per una caratteristica singolare: le statue smettono di sorridere. In pratica nelle statue realizzate fino al 480 a.C. nei volti delle statue gli scultori cercavano di evidenziare la forma plastica della bocca tirando in fuori le labbra e accentuando le fossette al loro punto di congiunzione. In questo modo le statue avevano inevitabilmente un aspetto sorridente. Quando infine si decise di abbandonare questa tecnica del modellare le bocche, le statue smisero di sorridere. In realtà il periodo severo fu importante nell’evoluzione della statuaria greca non per questo particolare, ma perché in questa fase inizia quella grande ricerca che portò al periodo classico. È il periodo di Mirone che introduce nuove forme e tecniche di rappresentazione, quali la ricerca del movimento. È anche il periodo in cui gli artisti greci iniziano la produzione delle sculture in bronzo secondo la tecnica della fusione a cera persa (Fig.20, 21).
il periodo classico (450-400 a.C.): coincide con l’età di Pericle, con la realizzazione sull’acropoli di Atene del Partenone e con l’attività di grandi scultori quali Fidia (Fig.23) e Policleto. È il momento di maggior equilibrio estetico dell’arte greca, ed è quello che è stato sempre considerato di maggior perfezione. Con loro si raggiunse in pratica quell’equilibrio della rappresentazione che sembra il coronamento del sogno greco: ottenere il pieno controllo della rappresentazione plastica. Policleto fu inoltre l’inventore di importanti norme che saranno di fondamento per tutta la statuaria posteriore: la posizione a chiasmo (che sostituisce finalmente la rigida simmetria della posizione stante) e la regola del canone, utile per il proporzionamento della statue che raffigurano figure umane (Fig.22).
il periodo del secondo classicismo (400-323 a.C.): è il periodo in cui si assiste ad una svolta significativa nella statuaria greca, alla progressiva ricerca di un espressionismo maggiore meno legato alla pura forma estetica. È il periodo di grandi artisti quali Skopas, Prassitele e Lisippo (Fig.24- 25- 26). Ed è anche il periodo in cui un nuovo senso di decadenza sembra incrinare la eroica perfezione dei modelli classici. Si assiste in pratica ad una nuova ricerca in cui alla perfezione formale si coniuga la introspezione psicologica, elemento finora assente nella statuaria greca.
A questo periodo si dà, di solito, il nome di arte ellenistica. Esso va convenzionalmente dalla morte di Alessandro alla battaglia di Azio, quando i romani divennero i padroni assoluti di tutte le principali aree in produzione ellenistica. La vita della polis è superata in quella più vasta degli stati e l’arte è chiamata a celebrare gli ideali religiosi, celebrativi dei vari re e principi.
CANONE ESTETICO
L’arte greca si lega indissolubilmente con il concetto di classico. Al termine classico, più che l’individuazione cronologica di un periodo storico preciso, va richiesto il contenuto estetico di una particolare visione dell’arte. Il classico, possiamo dire, si lega al concetto di perfezione assoluta. È classica un’arte non derivata da un gusto individuale e soggettivo, ma ispirata a valori universali ed eterni.
L’arte greca arrivò ad un simile risultato durante la fase detta «periodo geometrico» nella quale si affermò una nuova visione del manufatto artistico, in cui prevaleva la volontà di affidarsi alla matematica e alla geometria. Lo spirito matematico, pur quando si esaurì tale fase, rimase una costante della visione artistica greca, anche nei periodi successivi.
Vi era, in questo atteggiamento, le premesse per lo sviluppo del razionalismo greco.
In questa fase, la produzione artistica, ridotta a sperimentazioni geometriche, finì per produrre oggetti e rappresentazioni del tutto antinaturalistiche, in cui prevaleva una schematizzazione geometrica di tipo quasi astratto.
L’inversione di tendenza avvenne nel cosiddetto «periodo orientale», quando l’arte greca venne a spostarsi sul piano del confronto con le arti orientali, arti in cui prevaleva la rappresentazione volumetrica e la produzione della grande statuaria. L’arte greca iniziò a convertirsi al naturalismo, ma senza perdere il suo essenziale spirito matematico.
Uno dei concetti guida del naturalismo greco è la proporzione. Gli artisti greci non si limitano ad osservare il corpo umano. Lo misurano, per individuare i rapporti numerici, che esistono tra una parte e l’altra, e tra le singole parti e il tutto. Arrivarono così a definire che, in un corpo perfetto ed armonico, la testa, ad esempio deve essere l’ottava parte dell’altezza.
Dopo di che, la statua, indipendentemente dalla sua dimensione, risulterà proporzionata, se rispetta il medesimo rapporto. Ossia:
rapporti della rappresentazione = rapporti della realtà
L’arte greca classica cerca di rappresentare la realtà, depurata da qualsiasi forma di soggettivismo sia percettivo sia interpretativo. Giunge così nella statuaria, a risultati che, sul piano della fedeltà anatomica, non ha eguali.
Il concetto di proporzione fu alla base dell’istituzione del canone di Policleto, ma fu anche alla base degli ordini architettonici. Canone ed ordini divennero, quindi, strumenti normativi che fissavano le leggi e gli ambiti in cui poteva muoversi la creatività artistica. Essi contribuirono molto a definire l’omogeneità stilistica dell’arte greca, pur restando un astratto strumento matematico.
Ma il concetto di classico va oltre: l’artista greco non vuole rappresentare l’individuo ma l’uomo, ossia il limite perfetto a cui può giungere la forma umana. E a ciò, giunge per approssimazioni successive: sceglie le parti migliori, che riesce ad individuare nei singoli individui, e le assembla.
Un simile atteggiamento portò alla formulazione del mito, come racconto archetipo, in cui non importa la verità ma la verosimiglianza, dove ciò che conta non è il ricordo di un fatto particolare, ma l’espressione di un significato universale. La rappresentazione dell’uomo ideale, non è altro che una ricerca del mito.
Ma, oltre che forma, il corpo umano è anche movimento. Può modificare il proprio aspetto in base alla posa, all’espressione del viso, ai gesti che compie. Ed anche qui, il classico è tale perché ricerca il momento di maggior armonia formale. Quell’istante, che prende il nome di momento pregnante, di grande concentrazione interiore, o di assenza di emozioni, che rendono eterno un singolo istante. Proporzione ed armonia: queste sono le due ricette principali dell’arte classica. E da allora, nel successivo sviluppo dell’arte occidentale, sono divenute le caratteristiche di qualsiasi «classico».
IL TRUCCO
Il cosmetico più diffuso nell'antica Grecia era indubbiamente la biacca (pigmento inorganico costituito da carbonato basico di piombo) che dava alla pelle un colore bianco, copriva i leggeri inestetismi e uniformava la colorazione della pelle. Per dare colore si usava invece il rosso del minio (ossido di piombo di colore arancione), oppure quello che si otteneva da una pianta, l'anchusa tinctoria, o dal phukos (un'alga marina) applicato sulle labbra e sulle guance con un pennello, mentre su ciglia e sopracciglia si passava un leggero strato di polvere nera di antimonio (Fig. 27, 28).
L'uso di questi belletti era tuttavia vietato durante il lutto e le cerimonie legate ai misteri di Demetra. Nell'antica Grecia la cura del corpo era soprattutto l'arte dell'unzione e dei massaggi, che diventavano talmente raffinati da individuare, per ogni parte del corpo, unguenti diversi: lavanda per il corpo e rosa per il viso.
I Greci adoravano i profumi. Teofrasto fu probabilmente il primo scrittore greco a trattare della profumeria: il suo lavoro principale era sulla Botanica, mentre le sue opere minori riguardavano la profumeria dove per esempio, definisce il profumo composto (distinto cioè dal profumo di fiore) come un profumo artificialmente e deliberatamente prodotto. Egli descrisse anche le materie prime impiegate nella preparazione dei profumi.
ABBIGLIAMENTO
L'abbigliamento dell'antica Grecia era generalmente di carattere molto semplice, spesso costituito da un unico rettangolo di stoffa, non cucito, ma drappeggiato intorno al corpo, con stili pressoché identici sia nell'abbigliamento maschile che in quello femminile (chitone). L'unico capo a fare parte unicamente del guardaroba femminile era il peplo. Tale moda rimase praticamente invariata nel corso degli anni, in cui cambiarono soltanto i tessuti ed i materiali utilizzati ed il modo in cui essi venivano indossati, a seconda del quale era possibile distinguere il diverso ceto sociale dell'indossatore.
ABBIGLIAMENTO MASCHILE
L'abito nazionale degli uomini greci era il chitone, lunga tunica, cucita su un lato e fermata sulle spalle da bottoni, o da una cucitura, e molto simile al suo corrispettivo femminile (Fig.29).
Nel corso degli anni il chitone fu relegato ad abito per le circostanze formali e le cerimonie solenni, e sostituito a partire dal V secolo dal più pratico chitoniskos, lungo sino alle ginocchia e fermata in vita da una cintura. Gli schiavi invece ne indossavano una versione meno pregiata, e fissata su una sola spalla, in modo permettere loro maggiore comodità nel lavoro. La versione destinata ai bambini invece era lasciata libera senza cintura, così come quella indossata dai soldati al di sotto delle corazze. Materiale maggiormente diffuso era la lana, e soltanto in rare occasioni il lino. Il chitone corto (fino alle ginocchia), a differenza del chitone podères, è il vestito di tutti i giorni indossato da quanti (cacciatori, soldati, eroi impegnati nelle loro quotidiane fatiche, servi, artigiani), costretti a far movimento, abbisognano di una veste che non ostacoli la loro attività (Fig. 30)
L'himation era il mantello utilizzato tanto dagli uomini quanto dalle donne, indossato al di sopra della tunica, semplicemente appoggiato sulla spalla e fatto ricadere sul fianco. Poteva eventualmente anche essere ripiegato a quadrata ed appoggiato sulla spalla, oppure portato appoggiato da una spalla all'altra, privo di cuciture o spille. In ogni caso, i modi in cui l'himation poteva essere drappeggiato erano innumerevoli, e spesso indicativi della posizione sociale e della professione di chi lo indossava (Fig.31, 32, 33).
Il tribonio di provenienza spartana era un mantello più ruvido e più grezzo, che lasciava scoperte le gambe, e fu adottato come divisa distintiva dei filosofi.
La clamide (o anche claina) era un corto mantello di tessuto leggero, di utilizzo prettamente militare, che veniva fissato sulle spalle o intorno alla gola da un fermaglio. L'utilizzo della clamide si diffuse anche fra i Romani e i goti e rimase in uso sino al 300 d.C. La chlamys era un mantello da equitazione (e da viaggio) e come tale era comunemente indossato dai ragazzi nell’età dell’efebìa (un periodo di formazione militare della durata di tre anni, collocabile dai diciotto ai vent’anni). La chlamys compare spesso in combinazione col pètasos, un cappello a larghe tese frequentemente calzato dai viaggiatori, attributo, tra l’altro, del messaggero degli dèi Hermés (Fig. 32).
ABBIGLIAMENTO FEMMINILE
Abito nazionale delle donne greche era invece il peplo, rettangolo di stoffa (generalmente lana) che veniva drappeggiato intorno al corpo sino a formare una sorta di tunica, che lasciava le braccia scoperte, e veniva fermato in vita da una sorta di cintura. Comunemente il peplo veniva rimboccato al di sopra della cintura, creando un effetto simile a quello di una moderna blusa. L'utilizzo del peplo come vestito unico è attestato sino alla seconda metà del VI secolo, quando fu sostituito dal chitone, ed il peplo divenne una specie di mantello o come camicia da notte o abito casalingo. Il peplo tuttavia fu continuato ad essere usato come abito unico dalle donne spartane. I colori più diffusi di tale abito erano quelli naturali come il bianco o lo zafferano (Fig. 33, 34, 35).
Il chitone, di origini ioniche, era costituito da due teli rettangolari sovrapposti e cuciti insieme sui lati. L'abito veniva fermato in vita da un cordone o una cintura, e fissato sulle spalle, inizialmente da spille fibule, ed in seguito da vere e proprie cuciture. Dal chitone ionico era possibile, tramite spille appuntate nella parte superiore dell'abito, ricavare anche delle maniche, ed era generalmente lungo sino ai piedi, a differenza del chitone dorico, che invece poteva essere anche più corto, ed era cucito soltanto su un lato. Il chitone era sempre vestito insieme ad un mantello, che poteva essere o il peplo o l'himation (Fig. 37, 38).
L'himation era un mantello comune ad entrambi i sessi, al punto che lo stesso mantello poteva essere indossato indifferentemente dalla moglie o dal marito. Col tempo l'himation femminile assunse qualche differenza, ottenuta da qualche maggiore decorazione, o con bordi frangiati.
Poteva essere indossato intorno alla testa, oppure fatto passare da sotto l'ascella alla spalla opposta. Pochissime notizie sono giunte relative all'utilizzo di biancheria intima nella Grecia antica. Si sa per certo che le donne utilizzassero una fascia di tessuto a mo' di reggiseno, chiamata stròphion. Alcune fonti riportano che spesso esso è indicato anche con i nomi di tainìa o di mìtra, molto probabilmente a seconda della forma e della grandezza dell'indumento (Fig. 39).
In linea generale si possono distinguere due tipi di calzature: “stivaletti” in pelle di diversa altezza che, comunque, fasciano e chiudono interamente il piede (embàdes, endromìdes, kòthornoi) e sandali (krepìdai e blàutai) (Fig. 40,
Per quanto riguarda gli embàdes, termine generico che “descrive” una calzatura nella quale il piede letteralmente “entra” (embàino significa entrare), si tratta di stivaletti in pelle, talvolta raffigurati senza lacci, caratterizzati, in alto, da un risvolto (ptèryx): quest’ultimo manca nell’endromìs la quale, per il resto simile a un embàs, poteva fasciare il polpaccio
(endromìs bassa) o sfiorare il ginocchio (endromìs alta). I kòthornoi sono invece calzari di origine orientale larghi e comodi (fasciano interamente il piede e risalgono talvolta la gamba fino al polpaccio). Calzari femminili per eccellenza, adatti a camminare in ambienti chiusi, domestici, anche gli uomini, per ciò stesso tacciati di effemminatezza, non mancano di calzare kòthornoi. La krepìs è invece un sandalo che lascia trasparire il piede dietro un reticolo spesso molto semplice di legacci che non supera mai le caviglie.
Le dita del piede sono generalmente mantenute ferme da una correggia che passa fra il pollice e l’indice. Il tallone è protetto da una serie di legacci in pelle che si staccano dalla suola. Talvolta, invece, le krepìdai sono chiuse da un reticolo di legacci (polyschidés) che avvolge tutto quanto il piede. Le blàutai sono invece sandali maschili di lusso, come i sandàlia delle donne, caratterizzati, come i krepìdes, da un sistema di cinghie. Sul tondo interno della kylix a figure rosse, del Pittore di Brygos, databile al 490-480 a.C. circa è raffigurato un giovane, disteso su di una klìne, in atto di cantare. Il giovane, prima di sdraiarsi a banchetto, si è tolto le scarpe: il ceramografo le raffigura effettivamente sotto la klìne. Non si tratta di sandali bensì di calzari privi di allacciatura e di risvolto, simili a endromìdes. Si noti, inoltre, il bastone da passeggio, nodoso e con l’estremità superiore ricurva, che il banchettante ha appoggiato dietro la klìne. Sui vasi compaiono bastoni di ogni tipo, muniti di impugnature ricurve o a testa di stampella: di lunghezze variabili, sono spesso alti fino alle spalle e oltre (in questo caso i personaggi vi si appoggiano con le ascelle e il bastone viene raffigurato obliquo). Il bastone da passeggio era considerato un segno di benessere sociale. Si trattava di un accessorio quasi indispensabile nella tenuta di un Ateniese alla moda.
I principali centri di produzione di calzature si trovavano in Sicilia, nel Mar Nero, la Cirenaica e l'Asia minore, in cui i calzolai si occupavano tanto della conciatura delle pelli quanto della fabbricazione delle scarpe. La colorazione, avveniva con le stesse tecniche utilizzate per i tessuti, attraverso l'applicazione di cortecce vegetali, pigmenti di origini minerale o metallica e terra rossa. in oltre i greci usavano come vestito la tela.
COPRICAPI
I copricapi nell'antica Grecia avevano una funzione meramente pratica, ed erano principalmente utilizzati per proteggere l'indossatore dai raggi del sole, durante il lavoro nelle campagne, o per proteggere dal freddo. Le fattezze di tale copricapo potevano variare a seconda del luogo e della regione. La kausίa era un lungo cappello di feltro piatto, di origine
macedone, mentre il berretto frigio era un copricapo conico con la punta ripiegata in avanti, di origine anatolica (Fig. 41).
L'unico cappello destinato alle donne era invece il krήdemnon, di forma simile al petaso maschile. Infine il polos era un copricapo di forma cilindrica o quadrangolare, tipico nelle rappresentazioni delle divinità femminili, ed effettivamente impegnato in cerimonie.
Tra gli accessori del vestiario femminile non mancano infine cuffie (sàkkos) per raccogliere i capelli.
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MATERIALI
Il materiale più utilizzato nella tessitura dei capi di abbigliamento era la lana. Più esotico e costoso era ritenuto invece il cotone, importato dall'Oriente. Anche il lino era utilizzato, principalmente nella realizzazione delle divise militari che necessitavano di essere più leggere e più pratiche.
Per i vestiti più costosi e raffinati era impiegato il bisso, una specie di seta naturale marina, ricavata da un filamento che secernono alcuni molluschi.
I colori maggiormente presenti nell'abbigliamento erano, ovviamente, il bianco naturale dei tessuti, ma anche alcune colorazioni naturali come il giallo o il turchese.
Meno comune era il rosso, in quanto la tecnica di colorazione impiegata, prevedeva l'utilizzo della porpora, e rendeva notevolmente più alti i costi di produzione. Tuttavia il rosso era il colore che veniva indossato dalle etere e dai ballerini, quindi, in ogni caso era ben poco diffuso.
PETTINATURE E ACCONCIATURE
Le donne dell'età classica avevano tendenzialmente i capelli molto lunghi che amavano portare con una scriminatura nel centro: le morbide ciocche erano poi raccolte sulla nuca e legate con nastrini, diademi, spilloni o cerchi metallici oppure trattenute all'interno di retine a loro volte adornate da pietre preziose. Il tipo di reticella più usato era la Calantica che svolgeva la doppia funzione di fascia e velo.
Molto popolare era inoltre incorniciarsi il volto da trecce che potevano anche essere lasciate libere sulle spalle. Le trecce, così come i capelli lunghi, rappresentavano un must delle acconciature femminili nell'antica Grecia e le donne aristocratiche avevano membri della servitù assunti per pettinarle e intrecciare le loro chiome. Le più eccentriche decidevano infine di tingersi i capelli di nero intenso tendente al blu in modo da ottenere riflessi metallici. La maggioranza degli uomini greci invece optava per i capelli "a giardino", ovvero ricci corti che circondavano la testa mentre coloro che decidevano di portarli più lunghi li legavano in un nodo sulla fronte chiamato Crobilos. Anche i capelli avevano la loro importanza: ne sono testimonianza le numerose rappresentazioni della classica acconciatura "a pieghe"; inoltre, era assai frequente la colorazione dei capelli, specialmente in biondo, o la loro profumazione con il nard (lavanda) (Fig. 42, 43).
Fig. 42, Acconciature.
Fonte: http://www.agenziaformazionelavoro.com/wp-content/uploads/2014/01/Storia%20del%20trucco%20acconciatura%20e%20abbigliamento%20attraverso%20le%20opere%20d%20arte.pdf
Sito web da visitare: http://www.agenziaformazionelavoro.com
Autore del testo: Dott.ssa Clara Chierici
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