Storia del trucco e del costume Medioevo

Storia del trucco e del costume Medioevo

 

 

 

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Storia del trucco e del costume Medioevo

IL MEDIOEVO

INQUADRAMENTO GENERALE

 

Con Medioevo s’intende l’età intermedia tra l’antica e la moderna.
Secondo l’accezione più diffusa è il periodo compreso fra la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476) e la scoperta dell’America (1492).

 

CANONE ESTETICO

In quest'epoca la bellezza fisica è considerata dominio del Maligno, pertanto rappresentata solo come attributo della Madonna e dei santi.
In particolare la bellezza maschile non è attributo valorizzato come nel periodo classico: il corpo risulta di conseguenza nascosto da strati di abiti, ampiamente panneggiati quasi a celarne la vera forma. Sono rappresentati nudi solo i progenitori o il Cristo in croce i cui corpi esprimono la sofferenza legata al peccato (Fig. 64).

Il corpo della donna, su cui grava il peccato di Eva, è considerato fonte di perdizione e perciò l’avvenenza fisica ritenuta appannaggio del Male.


L’austera morale medioevale impone nuovi canoni estetici: il corpo della donna deve essere esile   e
acerbo per dimostrarne la castità e la purezza, con i fianchi stretti, il seno appena abbozzato, ma il ventre prominente, indice di un futuro fecondo come madre.
L’incarnato riluce del candore di un giglio o della neve, proprio a sottolineare la natura virginale della donna.
Nell’iconografia medioevale prevale la rappresentazione mistica e ieratica della figura femminile: la donna viene svuotata di ogni connotazione sensuale e ritratta esclusivamente nella sua sacralità, tanto che ad essere rappresentate sono soprattutto Madonne e sante, sempre legate al ruolo salvifico che esse svolgono (Fig.65).

 

Nel periodo XI - XII secolo d.C. era considerata di moda la bocca piccola, le donne ambivano ad avere   occhi    grandi    e    tondeggianti    con    sopracciglia     ad    arco    e    pelle    bianchissima.
Per riuscire ad avere uno sguardo, il più seducente possibile, le donna più ardite si pitturavano di blu o di verde le palpebre, e usavano dei prodotti argillosi stemperati    in    acqua. Ovviamente la Chiesa condannava queste pratiche e  già durante i primi secoli del cristianesimo: San Cipriano consigliava alle giovani donne, per evitare la dannazione eterna, di non adornarsi con gioielli e di non cambiare il colore dei capelli né di  acconciarli tanto che anche le parrucche erano malviste perchè si temeva  che  potessero  impedire  alla  benedizione    di

giungere sulla testa.
Anche gli uomini però non erano esenti di ingiurie   se

si scoprivano a curarsi capelli, la barba, o se si facevano il bagno; ma, ironia della sorte, in seguito, con le crociate e l'intensificarsi delle rotte mercantili in Oriente, furono reintrodotti prepotentemente trucchi, unguenti, pomate e profumi. Nell'epoca feudale poi, il modello culturale cortese si diffuse ampiamente   come   pure   l'ideale   di   bellezza   nordica   con   le   narrazioni   dei   trovatori   che


pubblicizzavano la fama di bellissime castellane. Fu così che si diffuse il modello di bellezza femminile normanna: carnagione chiara, occhi azzurri e capelli biondi.

 

IL TRUCCO

 

Ma anche se la Chiesa si opponeva il Medioevo ebbe le sue mode che cambiavano nel corso dei secoli; per sottolineare la spiritualità si allungarono le linee degli abiti femminili: il polsino svasato delle    maniche    diventò    uno    strascico,    e    la    vita    si    alzò    sin    sotto    il    seno.         La moda di allora imponeva un seno piccolo, un corpo flessuoso e adolescenziale, mani allungate e volto  ovale     (Fig.66). Le sopracciglia venivano rasate del tutto, come anche la fronte che in questo modo risultava più ampia; il volto, le mani e i denti dovevano essere bianchissimi (Fig.67).
Con l’utilizzo di questi artefici, i volti risultavano privi di intensità ed espressività, che oggi noi ricerchiamo con il trucco e con l'uso sapiente delle matite, per cui le donne ricorrevano ad un velo  di rosso sulle gote,mentre le sopracciglia depilate venivano ripassate con il nero. In occasioni speciali uomini e donne ingaggiavano addirittura pittori professionisti che dipingevano i loro volti con i colori ad olio o a tempera.

 

 

 

Riguardo trucco e abbigliamento le prostitute dovevano farsi riconoscere: a Padova nella seconda metà del Trecento dovevano indossare un berretto rosso mentre a Bologna e a Firenze dovevano


portare  un sonaglio attaccato al copricapo, a Milano potevano sfoggiare gioielli e tessuti pregiati mentre a Brescia lo sfarzo era permesso principalmente per rendere più attraenti le prostitute e scoraggiare gli uomini a praticare la sodomia, una  pratica molto diffusa   allora. Le prostitute si truccavano quotidianamente gli occhi di marrone, verde, turchese o grigio e delineavano le  palpebre conuna   riga  nera. In tale contesto si inserì con prepotente autorevolezza il primo trattato di cosmetica della storia datato al XIII sec e fu ritrovato a Madrid: il "De Ornatu Mulierum" (Sui cosmetici delle donne) comunemente noto come “Trotula Minor” della medichessa della Scuola Medica Salernitana Trotula De Ruggiero.
Il “Trotula Minor”, più antico manuale estetico prodotto da una donna medico per altre donne e aspiranti medici è un trattato che insegna alle donne come preservare e migliorare la propria bellezza e come curare le malattie della pelle mediante una serie di precetti, consigli e rimedi naturali. Nell’esposizione l’autore nomina spesso le mulieres salernitanae ad autorevole esempio, dà lezioni di make-up, suggerisce come nascondere le rughe, rimuovere gonfiori da viso e occhi, depilare il corpo, schiarire la pelle, nascondere le macchie e le lentiggini, lavare i denti ed eliminare l’alitosi, tingere i capelli, fare la ceretta, curare labbra screpolate e gengiviti. Fornisce inoltre indicazioni per preparare ed utilizzare unguenti ed erbe curative per il viso e i capelli e dispensa consigli per migliorare il benessere mediante bagni di vapore e massaggi. Nell’opera, la cosmesi  non risulta un aspetto frivolo: al contrario, secondo il concetto di bellezza di Trotula la donna deve raggiungerla per entrare in accordo con la filosofia della natura, per cui la sua arte medica era ispirata alla bellezza come estrinsecazione di un corpo in salute e in armonia con l’universo.
Il lavoro riporta 96 piante e derivati, 20 preparati di origine animale e derivati, 17 minerali, e 6 preparati misti, quali ingredienti per 63 ricette totali, in grado di ottenere altrettanti rimedi a scopo cosmetico e/o medicinale.
Le numerosissime ricette riportate nell’opera di Trotula attestano l’esistenza di un’importante cosmesi medievale. In particolare, la seconda parte del trattato include capitoli che contengono ricette e specifica ingredienti e dosaggi, procedure per la preparazione, modo di applicazione, e risultati attesi. Per esempio, di seguito è riportata una delle ricette di Trotula che spiega come accentuare il colore delle gote: “si prendano radici di brionia rossa e bianca, le si lavino, e tritino finemente e le si mettano ad essiccare. Di poi le si riducano in polvere e si mescolino ad acqua di rose, e con un panno di cotone o di lino molto sottile, si unga il viso che acquisirà un certo rossore. Per la donna che mostra un colorito bianco naturale, le si dona un colorito rosaceo se le occorre


rossore, così che con un tipo di pallore finto o mascherato il colorito rosso appaia come se fosse naturale”.
Per fare biondi i capelli, Trotula propone una tintura ottenuta con la corteccia di sambuco, fiori di ginestra, zafferano e tuorlo d’uovo; oppure un altro unguento con api incenerite in un barattolo e mescolate ad olio e latte di capra. Mentre per allungare i capelli e tingerli di nero, raccomanda un unguento ottenuto facendo bollire in olio la testa e la coda di una lucertola verde. Per quanto riguarda il make-up del viso e delle labbra, suggerisce una miscela di miele, cetriolo ed acqua di rose, bollite fino a divenire la metà del volume iniziale. Secondo i consigli di Trotula il trucco sulle labbra va applicato strofinando la corteccia delle radici dell’albero della noce e cospargendoci sopra un colore artificiale, ottenuto con albume e prezzemolo, e alla fine cenere di allume. Per schiarire il viso Trotula consigliava, invece, un unguento di cera ed olio.
La gran parte delle piante menzionate nel trattato ed anche le altre utilizzate dalla Scuola  Salernitana per le preparazioni sperimentali erano inizialmente spontanee nell’area poi, soprattutto a partire dal XIV sec., furono coltivate assieme ad altre piante introdotte, nei Giardini della Minerva  di Salerno.
Da un confronto con gli attuali cosmetici, si evince chiaramente che quelli medievali erano molto più grassi (erano soprattutto unguenti), poiché venivano di solito preparati con grassi animali e ciò permetteva ai principi attivi in essi contenuti di esplicare la loro azione a livello topico sulla pelle per un lungo periodo di tempo. I cosmetici moderni invece sono preparati in emulsioni (creme, latte, sieri) offrendo all’utilizzatore una migliore gradevolezza del prodotto.
Tuttavia, la gran parte dei derivati vegetali riportati nel trattato sono ancora oggi utilizzati nei cosmetici moderni.
È difficile identificare anche tutte le malattie cutanee riportate nel trattato, a causa della nomenclatura dell’epoca e l’uso del latino. Ad esempio nel Medioevo “scabbia” era il nome associato a numerose malattie cutanee, incluso eczema, psoriasi, acne e vaiolo. I buoni risultati ottenuti trattando il cuoio capelluto con aceto per l’eczema seborroico o per la psoriasi lasciano pensare però che, quando Trotula menziona detti trattamenti per la “scabbia grave”, quasi certamente si faccia invece riferimento proprio ad eczema seborroico e psoriasi. È quindi poi di conseguenza difficile valutare approfonditamente l’efficacia dei rimedi trattati.
Comunque, al tempo, tutte le patologie pruriginose del viso (acne, eczema, psoriasi, tinea, impetigine) erano attribuite alla presenza sottocutanea di vermi e questi erano genericamente denominati scabbia.
Trotula descrive nel suo trattato un primordiale “scrub” facciale: consiglia di utilizzare un detergente esfoliante preparato con briciole di pane per levigare la pelle del viso.


Quando nomina i vermi sottocutanei “che talvolta provocano la caduta dei capelli”, probabilmente allude alla seborrea che si manifesta con acne sul viso ed alopecia androginica sul cuoio capelluto. Qualche rimedio è chiaro, come l’uso di metodi fisici per la depilazione (gomma arabica, mastice del lentisco), del mercurio per le infestazioni, e il miele come idratante. È interessante notare che oggigiorno nel XXI secolo ancora utilizziamo cosmetici basati su moltissimi principi attivi già menzionati nel trattato medievale, mentre i derivati di origine animale non lo sono più.
Trotula volse il suo interesse non solo sui problemi della cute, ma anche sulle affezioni oculari ed orali. Lo sbiancante dei denti può, secondo lei, essere ottenuto con metodi meccanici come lo strofinio del marmo.
Viene descritto anche una specie di peeling primitivo (probabilmente per l’acne post-parto) sfruttando l’effetto irritante della cipolla, infati, l’effetto anti-acne è dovuto all’alto contenuto in essa di allina e miscele simili allo zolfo43. Attualmente è noto che la cipolla possiede anche un effetto antiaging poiché contiene acqua (90%), proteine (1,5%), e vitamine, quali B1, B2, e C insieme a potassio, polisaccaridi, come anche peptidi, flavonoidi, ed oli essenziali e vi sono state inoltre ritrovate anche prostaglandine a rivelare anche il loro effetto antiinfiammatorio.
L’aiuto di Trotula alle donne si esplica anche in un altro campo: l’uso di agenti astringenti e tinture rosse, consigliato dalla medichessa per far sembrare vergine una donna che non lo è più.
Da un punto di vista storico, l’opera di Trotula è molto importante anche per lo studio delle  tendenze estetiche del Medioevo, come pure delle condizioni sociali delle donne. È davvero impressionante scoprire, grazie a tale testo, come molti problemi estetici avvertiti dalle donne dell’epoca siano gli stessi tutt’oggi quali la crescita dei peli, la calvizie, le tinture per capelli, il melasma, le rughe. Ma altre condizioni, quali ad esempio la cellulite non sono proprio considerate perché il modello di bellezza femminile era differente da quello attuale.
A tal proposito è interessante notare che, nonostante sia risaputo che l’ideale medievale di bellezza femminile fosse incarnato nella donna normanna dai capelli biondi, la pelle chiara e gli occhi azzurri, invece, nell’opera di Trotula, sono riportati metodi per scurire i capelli e qualche metodo estetico arabo, confermando ulteriormente il ruolo chiave della Scuola Medica Salernitana di cerniera e sintesi tra le tradizioni mediche dell’area mediterranea.
Nel Medioevo, per quanto l’uso del trucco diminuisca notevolmente, inizia a svilupparsi la convinzione che un viso bianco sia simbolo di nobiltà, mentre un viso scuro sia la prova di un  lavoro all’aria aperta, quindi di appartenenza a una classe sociale più bassa. Le donne utilizzavano quindi varie paste per schiarirsi il viso: ossidi di argento o mercurio misti a grasso, oppure biacca, allume (alluminio e potassio), borace (sodio e boro), limone, aceto e bianco d’uovo. Con l’avvento del  feudalesimo  si  mantiene  la  preferenza  per  incarnati  chiari,  ottenuti  anche  con  argilla


polverizzata o canfora, ma si introducono altri due importanti “must”: la fronte alta, che veniva depilata, e guance più scure, ottenute con polvere di zafferano.

 

ABBIGLIAMENTO

 

ABITI FEMMINILI

 

Dagli atti e dalle cronache di epoca federiciana sappiamo che l'abito femminile era composto da tre capi: la camicia (testimoniata a Bari a partire dal 1021 con il nome di càmiso), la tunica (o  gonnella) e la guarnacca(sopraveste).
La camicia, detta anche interula o sotano era una specie di sottoveste lunga fino ai piedi, confezionata solitamente, per i vestiti più semplici, in lino e cotone leggero. Il tessuto variava a seconda delle possibilità economiche della cliente, le donne di alto rango sociale tendevano a impreziosire gli abiti con guarnizioni ricamate o liste di tessuto frappato (in frange) lungo i bordi e la scollatura, solitamente quadrata. La camicia era priva di bottoni, ed erano sconosciute le tasche. La moda dei bottoni in oro, argento e pietre preziose nasce in Francia nel XIII secolo per poi diffondersi lentamente in tutta Europa.

 

 


Sulla camicia le donne infilavano la tunica, un abito lungo, di tradizione bizantina dalle maniche molto larghe, che spesso aveva dei profondi spacchi sui fianchi per lasciare intravedere la camicia sottostante di diverso colore. Le tuniche delle donne nobili erano confezionate in zendàli (seta simile al taffetà), broccati (velluti impreziositi da fili d'argento e d'oro), e applicazioni di perle e pietre preziose. Tessuti che di certo le donne del popolo e delle campagne non potevano assolutamente permettersi. Queste ultime adoperavano tessuti semplici come lino e cotone, d'inverno si coprivano con abiti in lana, il cui modello di base rimane lo stesso (Fig.67, 68, 69).

 

 

La guarnacca era una sopraveste, aperta sul davanti, con maniche ampie pendenti fino all'orlo foderate di pelliccia, il pelo infatti era rivolto verso il corpo, mentre il lato esterno veniva ricoperto di tessuto.
Gli abiti femminili erano fermati in vita da cordoncini annodati o cinture di stoffe ricamate e ornate di laminette d'oro o dipinte con smalti.
Accessori fondamentali erano i copricapi, il modello più diffuso era la corona turrita, una fascia circolare su cui si appoggiavano merli con applicazioni di pietre e perle.
A Venezia nel XIII secolo nasce un copricapo che avrà molta fortuna in tutto il Medioevo l'hennin,  a forma di cono rigido, in velluto o in seta, al cui vertice veniva applicato un velo o un pizzo. Le  fate delle fiabe di origine medievale, infatti, vengono tutt' oggi rappresentate con questo copricapo. La vera novità della prima metà del Duecento è la tunica che si allunga sul dietro a formare lo strascico:
(…) di canno ti vististi lo 'ntaiuto (strascico)/ Bella di quel jorno son feruto (…)


così cantava Cielo d'Alcamo nel noto Contrasto, sottolineando la particolarità dell'abito della donna amata.

ABITI MASCHILI

 

Gli abiti maschili nei primi secoli del basso medioevo non si differenziano molto da quelli femminili:
La tunica, a tinta unita, poteva essere di varie lunghezze, per i poveri non doveva superare il ginocchio. Priva di bottoni, la tunica prevedeva una scollatura a punta sul davanti.
Sulla tunica gli uomini infilavano la guarnacca, sopraveste senza maniche con cinture di vario tipo in metallo o corda, un capo della cintura pendeva fino all'orlo. In inverno si adoperavano lunghi mantelli trattenuti sul petto da lacci, novità di origine franca.
Tuttavia rimase l'uso di indossare sopra la tunica, in inverno, un giubbotto di pelle con il pelo verso l'esterno.
Accanto a tessuti pregiati come il velluto e la seta, il basso medioevo eredita la passione per le pelli e le pellicce, largamente usate in epoca altomedievale. Il commercio e la produzione del cuoio rimasero, dunque, uno dei settori principali anche dell'economia tardo medievale.

 

Scena cortese con Federico II che porge una rosa ad una dama, affresco, Bassano del Grappa, Palazzo Finc

La grande necessità di materia prima, cioè di pelli di animali di diverso tipo, veniva soddisfatta dall'utilizzo delle pelli degli animali macellati per uso alimentare, in prevalenza agnelli e capre. Ma la richiesta sempre maggiore di capi d'alta sartoria e di qualità superiore, fecero crescere l'industria dei pellami pregiati: di bufalo, cavallo, camoscio, cammello, coniglio, cervo, lupo. Il commercio del pellame pregiato avveniva prevalentemente per  via mare, o attraverso i  fiumi nell'Europa    centro-


settentrionale. I principali mercati e punti di rifornimento erano la Spagna, il Nord d'Africa, l'Oriente e le Fiandre, in Italia avveniva prevalentemente la conciatura e la lavorazione del pellame grezzo o semi lavorato.

 

 

Gli abiti adoperati per l'inverno come cappe e mantelli erano, nella maggior parte dei casi, imbottiti o predisposti ad esserlo. Le cappe femminili, ampie ed avvolgenti avevano la superficie fra le spalle e la cintura rivestita con pance di vaio, noto anche come scoiattolo siberiano, animaletto dalla pelliccia pregiata. L'uso delle pellicce di vaio e di candido ermellino distingueva l'élite delle corti, mentre le pelli di agnello e montone erano diffuse tra nobiltà minore e cavalieri.

 

I capelli venivano portati dall'uomo di media lunghezza, con la frangia a metà della fronte e,fermati da cerchi, venivano raccolti in piccole cuffie (Infulae).

Nonostante la loro diversità, le calzature potevano venire raggruppate in due categorie: scarpe e stivaletti (Fig.72-73-74). Le prime in stoffa o pelle, avevano la forma delle attuali pantofole e si portavano in casa o infilate negli stivali. I secondi, di cuoio spesso, simile alle calzature di sci, si chiudevano alla caviglia con un gran numero di stringhe e asole.


 

Le calzature erano confezionate in cuoio e in genere con pelle d'agnello. I poveri adoperavano zoccoli in legno o generalmente pianelle; le raffinate scarpe a punta in tessuto colorato e suolate all'interno erano esclusiva delle classi sociali elevate. Accessori importanti nella moda maschile erano le borse realizzate in cuoio, in forma rettangolare (scarselle), trapezoidale (elemosiniera), a forma di bisaccia, tipologia particolarmente usata dai pellegrini in viaggio, o sotto forma di eleganti valigie per la clientela raffinata. Le scarselle venivano legate alle cinture, confezionate in cuoio con applicazioni metalliche.
Nel XIV e XV secolo la moda francese ha larga diffusione in Italia, anche se il popolo rimane comunque estraneo alle trasformazioni del gusto. I più recettivi, in questo senso, sono sicuramente la borghesia e l'aristocrazia, che alla moda raffinata unirono la ricercatezza negli arredi delle case.


Le trasformazioni più importanti sono legate ai tessuti adoperati, molto più ricercati, molto più preziosi: gli abiti diventano fastosi. Velluti, broccati, damaschi e seta, questi sono i materiali più utilizzati. Per le donne resistono le guarnacche, ora senza maniche, aperte sui fianchi, mostrano il colore dell'abito sottostante. Il capo viene imprigionato da pettinature sempre più complicate, a  volte bizzarre: semplici corone stilizzate legate al viso da un velo o da una retina che contiene i capelli, cerchi metallici con velo, o turbanti di velluto imbottiti posizionati di traverso sulla fronte.  A partire dal XV secolo si diffuse la moda della cuffia con i prolungamenti, tipo corna, ai due lati del volto, che nei casi eccessivi, potevanoraggiungere i trenta cm di lunghezza.


 

A partire dal Quattrocento gli abiti maschili si accorciano, le calze si allungano fino ai fianchi e diventano bicolore, viene indossato al posto della tunica il giustacuorelungo o meno lungo, scollato fino alla vita ma con un largo risvolto in tessuto diverso trattenuto da un cordoncino che passava negli occhielli. Si diffonde la moda per le maniche tagliate verticalmente che permettono alla camicia sottostante di uscire.
Gli abiti erano spesso imbottiti con fieno che allargavano spalle e torace, la vita stretta da cinture con borchie metalliche. Gli abiti più ricchi presentavano i risvolti in pelliccia. Per gli uomini si diffonde la moda dei cappelli la cui varietà è per l'epoca impressionante: turbanti, coni, a cilindro con la tesa larga, a cuffia, cappucci, berretti di pelle e di tessuto (il velluto è il materiale più adoperato). Il copricapo più diffuso era sicuramente il mazzocchio, cappello con un lembo  appuntito che scendeva sulle spalle. Per le donne si diffonde l'uso del cerchio di borra (lana grezza) coperto da un panno colorato che gira a fascia intorno alla testa.


Gli abiti femminili subiscono nel XV secolo un radicale cambiamento: nasce il bustino attillato e alto, irrigidito da stecche di legno o avorio; la scollatura diventa profonda. Dal bustino si staccava la gonna drappeggiata e arricciata, spesso rialzata con ganci d'oro o d'argento. Le maniche lunghe erano attaccate alle spalle con cordoni che spesso terminavano con fermagli, infilati in occhielli aperti nell'abito. Come nell'abito maschile, si diffonde l'uso dei tagli sulle maniche verticali e orizzontali da cui usciva a sbuffi la camicia. Lo strascico degli abiti importanti si appesantisce e si allunga.


 

La differenza tra un abito raffinato e un abito mediocre non era dato dal modello quanto dal colore. Nel XIV e XV secolo alcuni colori come il verde erano adoperati esclusivamente dagli esponenti  dei ceti alti, cortigiani e signori. Alle popolane era vietato l'uso di colori sgargianti, anzi nella maggior parte dei casi gli abiti poveri si distinguevano dal colore grezzo, tessuti cioè che non avevano subito la tintura, uno dei momenti più delicati della manifattura delle stoffe.
Chi poteva, invece, indossava abiti dai colori decisi: il più prezioso era lo scarlatto, il morello era un colore paonazzo scuro, il lionato (giallo fulvo) era molto ricercato e l'alessandrino (azzurro screziato) andava per la maggiore.
Anche i tessuti indossati in realtà rivelavano l'origine sociale di chi li indossava: il panno balveto  era adoperato dagli operai, il bianchetto dai frati, il perso (di color nero tendente al rosso) dai cavalieri e il vergato (tessuto rigato) era destinato ai servi, ai messaggeri e ai garzoni.
Nel Quattrocento prevale il tessuto lavorato (velluto e seta in prevalenza) con decorazioni floreali, che all'astrattezza delle figurazioni orientali univano la tendenza naturalistica dell'arte occidentale.  Il motivo più ricorrente era quello del frutto del melograno, unito al cardo e al fiore di loto.
Le scarpe per gli uomini potevano essere a punta o a forma quadrata nell'estremità, diffusi erano gli stivaletti in pelle alti al polpaccio. Le donne preferivano scarpe basse chiuse alla caviglia o  allacciate con un passante; dalla Francia si diffonde l'uso della pantofola.
L'abito non era indispensabile solo per evidenziare la categoria sociale di appartenenza, a volte diventava  necessario  per  emarginare  o  etichettare  determinate  categorie  "umane"    considerate


pericolose: le meretrici, i lebbrosi e gli appartenenti a minoranze etnico-religiose come gli ebrei e i saraceni erano obbligati ad indossare i segni distintivi dell'infamia.
Per quanto riguarda le meretrici, disprezzate a causa del lavoro condotto, per ovvi motivi, ma ben tollerate all'interno della società,l'Imperatore Federico II imponeva, nel suo Regno, la netta separazione fra le donne oneste e quelle pubbliche obbligando queste ultime ad indossare una veste corta sfrangiata nel basso affinché fossero immediatamente riconoscibili e non fossero confuse con le altre donne. In Francia invece le prostitute erano costrette ad indossare, sull'abito o fra i capelli, un nastrino rosso (anguilette), questo segno distintivo aveva una duplice funzione: distinguere la donna dalle altre "oneste" e garantire ai clienti una fornicazione qualificata.
Alla pari di tutti gli altri marginali anche il lebbroso era costretto ad indossare i segni della  diversità: il suo passaggio era annunciato da lontano dal suono di sonagli o dal rumore provocato dalle maniglie mobili di ferro della battola; era inoltre obbligato ad indossare un cappuccio e un colletto di stoffa bianca, affinché la sua diversità fosse immediatamente visibile.
Nel 1221 l'Imperatore emanò le Assise di Messina in cui presentava l’editto generale riservato ai giudei affinché portassero abiti particolari per distinguerli dai cristiani, i tratti distintivi erano il colore celeste per gli abiti e l'obbligo di portare la barba solo per gli ebrei adulti. Questa legge non era certo una novità, infatti già nel 1215 il IV Concilio Lateranense aveva emanato delle norme per isolare le comunità ebraiche da quelle cristiane, obbligando Ebrei e Saraceni ad indossare abiti particolari:" …costoro di ambedue i sessi, in ogni provincia cristiana e in ogni momento siano segnalati agli occhi del pubblico come ebrei e saraceni per mezzo del tipo del loro abito".
Part. affresco castello della Manta, metà XV secolo

 

Nonostante la loro diversità, le calzature potevano venire raggruppate in due categorie: scarpe e stivaletti (Fig.72-73-74). Le prime in stoffa o pelle, avevano la forma delle attuali pantofole e si portavano in casa o infilate negli stivali. I secondi, di cuoio spesso, simile alle calzature di sci, si chiudevano alla caviglia con un gran numero di stringhe e asole.


GLI ECCLESIASTICI

Nel Medioevo, ma anche oggi, non tutti gli ecclesiastici svolgevano le stesse funzioni, avevano lo stesso rango o la medesima importanza e siccome nel Medioevo l'abito aveva un alto valore simbolico,  i   diversi   gruppi   si   differenziavano   anche   per   la   veste   che   indossavano.   Così, ad esempio, i Frati Minori o francescani, indossavano una tunica color grigio, cinta in vita da una            corda                e   sandali senza                       calze                  (Fig.79). Anche per i monaci ed i frati di altri ordini l'abito da indossare era stabilito dalla regola che seguivano che ne fissava forma, tipo di  stoffa  e  colori.  In  ogni  caso  si  trattava  di  abiti  semplici ma funzionali, adatti al lavoro anche manuale che essi dovevano affrontare.

Se volgiamo lo sguardo alle più alte cariche della Chiesa la situazione appare molto diversa.  Vescovi e cardinali provenivano spesso da famiglie ricche e potenti con potere sia spirituale che materiale: si circondavano di un seguito di cavalieri riccamente vestiti con stoffe preziose che spesso riproducevano i colori dello stemma famigliare del loro signore.
Nella vita pubblica indossavano l'abito ecclesiastico, che nel caso dei cardinali era rosso, ma spesso anche abiti preziosi e gioielli di gran valore.


ACCONCIATURE

 

In Europa è soprattutto a partire dal Medioevo che sono comparsi in capo alle donne accessori e gioielli fastosi, spesso volti a ostentare lusso e opulenza e contemporaneamente dal XV secolo inoltre sono apparse in Italia molte fogge di pettinature rendendo la testa uno dei veicoli privilegiati delle mode del periodo.
Dietro a questi ornamenti era presente una moltitudine di significati, infatti essa era riconosciuta come la parte del corpo maggiormente degna di riguardo, in quanto sede delle facoltà intellettuali. Nella cultura occidentale una particolare considerazione verso il capo è da sempre presente, tant’è vero che proprio sulla testa sono posti i simboli distintivi del potere spirituale e temporale quali la mitria vescovile e la corona regale. Inoltre, secondo la gerarchia del pensiero medievale e rinascimentale era considerato maggiormente lecito decorare ciò che la natura stessa ha posto più in alto: i piedi e le gambe erano, infatti, considerati inferiori gerarchicamente. Tramite accessori e gioielli, il capo diveniva così emblema del proprio rango, del gusto e della sensibilità alle mode e questo specialmente per quanto riguarda le donne, esposte quasi come dei manichini viventi per esibire lo status della famiglia di appartenenza.



Fig.80, Proposte di acconciature medioevali.

 

Le dame del XV secolo erano ben consce di questo ruolo sociale, e facevano della loro testa un vero e proprio campo di rappresentazione: grazie a un sistema di ornamenti, i cui materiali, colori e forme erano codificati nella normativa suntuaria, il capo femminile era in grado di comunicare   una


miriade di significati, legati soprattutto alla condizione sociale e personale, a manifestazione del privilegio e agio economico, ma anche sudditanza, lutto o marginalità.
La pettinatura variava anche secondo l'età: le fanciulle e le donne più giovani portavano i capelli divisi da una riga al centro e due trecce che scendevano sul petto, talvolta lunghe fino alle ginocchia, o ulteriormente allungate da pendenti appesi a ciascuna estremità mentre le donne adulte portavano i capelli raccolti e spesso coperti da fasce di stoffa o foulard.
Dopo il 1200 la moda delle lunghissime trecce tende a scomparire per lasciare il posto a capelli più corti      tenuti      fermi      da      un       cerchietto       e       lasciati       liberi       sulle       spalle.   Le vedove e le suore portavano il soggolo, un ampio copricapo di tessuto leggero che nascondeva completamente i capelli, le tempie, il collo e la parte superiore del petto (Fig.80).

 

I CAPELLI DEI RE MEROVINGI

 

All'inizio del regno di Carlo Magno nel secolo 8º (700- 800 d.C.), si stabilì una forte alleanza con il Papa di Roma, fondando il Sacro Romano Impero Germanico. Carlo Magno portò nel suo regno i vecchi costumi romani, e gli uomini cominciarono a usare i loro capelli più corti e più meticolosamente curati. Il taglio di capelli corti e ben pettinati era più o meno "romano", in opposizione al paganesimo barbaro dei periodi precedenti e più in sintonia con il cristianesimo.


I CAPELLI DEI RE CAROLINGI:

 

Nei pressi del 10° secolo (901-1000 d.C.), la Chiesa Cattolica iniziò ad emettere editti contro la lunghezza dei capelli degli uomini, e la necessità di coprire con veli le teste delle donne.
Nel 1073, il Papa Gregorio VII vietò l'uso di barba e baffi tra il clero, i sacerdoti poi, cominciarono a dare istruzioni alla popolazione raccomandando di radersi la barba per essere un buon cristiano. Nel 1096 l'arcivescovo di Rouen annuncia che “gli uomini che portavano la barba sarebbe stato scomunicato dalla Chiesa” e il re inglese Enrico accetó nel 1130 di tagliare i capelli e la barba, sotto la pressione della Chiesa. Da allora, e fino al 15 ° secolo, era raro vedere barbe negli uomini. Immagini di Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia e poi dei re d'Inghilterra, sono rappresentate solo con i baffi, anche se tra i Normanni l'uso di barbe erano molto importante per individuare i maschi maturi dai giovani.
Dal 11 ° secolo in poi, era molto popolare l’ "acconciatura alla paggio", un taglio di capelli con frangia e capelli corti sopra le orecchie fino al collo.
Nel famoso arazzo di Bayeux, una tela di 224 piedi di lunghezza, realizzata in Normandia, in Francia, nel 11 ° secolo, che racconta la storia della conquista delle isole britanniche 'dai francesi


normanni, sono raffigurate immagini che mostrano come gli uomini utilizzati i capelli alla quel tempo.

 

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Il De Ornatu Mulierum di Trotula si mostra essere un testo molto importante anche per la cura e l’ornamento dei capelli perché riporta ricette, applicazioni anche per la cura di patologie del cuoio capelluto e per abellire la chioma secondo i gusti del tempo.
In questo antico trattato è creduto che la seborrea e la forfora siano state prodotte da vermi che crescono sotto il cuoio capelluto, e al fine di eliminarli era consigliato lavare i capelli con aceto, acqua di rosmarino, ortica, menta, timo e altre erbe. E tutto questo, in ogni caso, ha contribuito alla igiene capillare e alla salute del cuoio capelluto.


PER I CAPELLI BIONDI:
Per colorare i capelli in modo che sia d'oro: prendi la corteccia esterna del noce e la corteccia interna del medesimo albero, cuoccile in acqua, e con quella stessa acqua stempera allume e galle, e con queste sostanze stemperate ungi la testa, dopo averla lavata, e sovrapponendo delle foglie, e legando con una fascia per due giorni, potrai così effetuare la colorazione. Inoltre, pettina la testa perché ciò che è attacatto ai capelli vada via come superfluo. Poi applica la tintura che si fa con croco orientali, sangue di drago, ed alcanna, della quale la maggior parte serà stemperata con un decoto di bresiglio; e consentono alla donna di rimanere così per tre giorni, ed il quarto giorno lasciarla sia lavata con acqua calda, e non potrà mai essere rimossa con facilità”.
Prendere la scorza mediana del sambuco, fiori di ginestra, croco, e tuorli di uova; queste sostanze cuocciano in acqua e si raccolga la materia che vi rallegerà, sopra e quindi siano spalmati i capelli”.
Chiudi in una pentola nuova il maggior numero possibili di api, ed in tal modo bruciale, tritale con olio, e quindi ungi la testa; por lo stesso scopo è efficace la agrimonia, tritata con latte di capra”.
PER I CAPELLI ROSSI:
"Se una donna vuole avere i capelli rossi e folti, se li lavi spesso con questa lavanda: aggiungi della celidonia a trucioli e foglie di bosso; aggiungi ancora agrimonia cotta a lungo; dopo di che bisogna prendere una pentola dal fondo minutamente bucherellato, con sopra, ben aderente, un panno bianco su cui si dispone uno strato di cimino, un altro di paglia tritata con prevalenza d'orzo, un terzo di trucioli o foglie di bosso; la quarta zona la fornisca l'ipia, la quinta la celidonia; quindi si disponga un filtro duplice, triplice o quadruplice, costituito da sabbia fine, polvere di liquirizia, cenere di frassino o di vite. L'acqua va colata attraverso la pentola suddetta e i capelli, lavati spesso con questa lavanda, vanno avvolti finché siano asciutti. Così, in breve tempo, diventeranno meravigliosamente belli. Quando è il momento di pettinarli, vanno sparsi sopra questi ingredienti, ridotti in polvere fine: chiodi di garofano, noce moscata, rosa essiccata, galanga, e ancora costo, pepe, cardamomo, cannella. Dopo aver lavato i capelli con questi ingredienti aggiungendo acqua di rose, si pettini avendo cura di inumidire anche il pettine. Se si aggiunge muschio, se ne acquisterà in pregio".
PER I CAPELLI NERI:
"E siste un ritrovato saraceno per rendere i capelli neri: prendi la buccia di una melagrana molto dolce, trítala e falla bollire in aceto o in acqua, poi cólala. Al liquido così ottenuto aggiungi polvere di galla e di allume in grande quantità, in modo da renderlo una poltiglia assai densa e la donna impregni i suoi capelli con questa sorta di pasta. Poi si stemperi della crusca con olio e si ponga al fuoco in un recipiente fino a che la crusca sarà completamente abbrustolita: la donna sparga questa sostanza sul capo fino alla radice dei capelli, poi lo bagni e di nuovo impregni  i capelli con la pasta suddetta e la lasci in la testa per tutta la notte perché i capelli si ungano meglio, poi li lavi e saranno tutti neri". “Prendere una lucertola e stacatte la testa e la coda; lo cuoccia bene in olio comune e con tale olio unga la testa”.


PER LA CRESCITA E FOLTEZZA DEI CAPELLI:
"Prendi pane d'orzo con la crosta, macinare con sale e grasso d'orso. Ma prima, bruciare il pane d'orzo. Con questa miscela ungere la testa, e il pelo crescerà. Al fine di rendere i capelli folti, prendi agrimonia e corteccia di olmo, radice di verbena, radice di salice, abrotano, i semi di lino bruciati e polverizzati, e radice di canna. Cuocciano tutte queste cose in latte di capra o in acqua e lavare la testa (che prima sarà rasata)".
DEPILAZIONE:
"Per diventare tutta morbida e liscia, senza peli dalla testa ai piedi, una donna per prima cosa deve recarsi ai bagni pubblici; se non e'e abituata, faccia un bagno di vapore in questo modo: prendi tegole e pietre al calor bianco, mettile dentro una stufa e la donna ci si sieda sopra. Oppure, in altro modo: prendi tegole calde o pietre nere calde e mettile in una stufa o in una buca scavata per terra: poi versaci sopra acqua calda in modo che si sviluppi vapore e la donna ci si sieda sopra tutta avvolta in panni per sudare. Quando abbia ben sudato, entri in acqua calda e si lavi con la massima cura; poi esca dal bagno e si asciughi bene con un telo di lino. Poi si unga tutta con la seguente crema depi- latoria: prendi della calce viva passata per bene al crivello e mettine quattro once in un vaso di terracotta e falla cuocere finche diventi poltiglia; poi prendi un'oncia di ossido di arsenico e fa' cuocere ancora e senti con una penna se e cotta a sufficienza: attenta che non cuocia troppo e che non resti troppo a lungo sul- la pelle, perche ustionerebbe terribilmente. Ma se capitasse che la pelle fosse ustionata a causa della crema depilatoria, prendi del populeone, stemperalo con olio di rosa, o di viola, o con succo di sempreviva e applicalo finche il bruciore non si plachi e poi ungi con balsamo bianco, finche I'irritazione sia scomparsa".


 

Fonte: http://www.agenziaformazionelavoro.com/wp-content/uploads/2014/01/Storia%20del%20trucco%20acconciatura%20e%20abbigliamento%20attraverso%20le%20opere%20d%20arte.pdf

Sito web da visitare: http://www.agenziaformazionelavoro.com

Autore del testo: Dott.ssa Clara Chierici

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