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I VESTITI NEL MEDIO EVO
Cosa contenevano i cofani delle spose
La prima impressione leggendo gli inventari dei guardaroba medievali portati in dote o lasciati in eredità è che, a parte certi ricconi stravaganti, quasi tutti allora possedevano un numero di vestiti minore di oggi e che gli abiti duravano, o dovevano durare, di più, venti anni o persino tutta la vita. Ma del resto, fino a cinquant’anni fa, anche le nostre nonne conservavano i vestiti per numerose stagioni.
Cosa contenevano le cassapanche e i cofani delle spose, i bauli da viaggio dei cavalieri e dei mercanti, e anche, ma questo è più difficile saperlo, le ceste dove i poveri mettevano i loro pochi stracci, insieme alle padelle e utensili?
Nella ricca città di Ravenna, un certo Carnevale facendo testamento chiedeva indietro le vesti che molto tempo prima aveva dato alla moglie Agnese.
Dunque cosa teneva nel suo cofano Agnese, moglie di Carnevale il giorno del matrimonio? Un pelliccione nuovo, una cotta - ossia un’ampia tunica con le maniche larghe e lunghe, di panno, pure nuova -, trecce dorate per la testa, un paio di pianelle o ciabattine, una gonna da portare sopra la cotta, una sopravveste detta guarnacca con i bottoni d’argento. E poi una cintura di seta e argento, una borsa in seta e oro e altre cosette. La pelliccia non era uno status symbol; il pelliccione valeva quattro lire contro il completo composto da gonnella e guarnacca stimato in ventidue lire. Oltre alle pianelle le dame portavano anche certi zoccoli alti come i moderni zatteroni e altrettanto traballanti.
Socialmente più elevata di Agnese era la fiorentina Beatrice che lasciò al marito, giudice a Ravenna, alla sorella e ad alcune amiche, sontuosi capi d’abbigliamento: guarnacche di colore rosso cardinale foderate di vaio con bottoni d’argento, gonnelle di velluto verde foderate di pelliccia di scoiattolo, una borsa “alla francese”, scarpe di seta, un filo di perle, anelli d’oro con zaffiro e diamanti, camicie, un completo di taffettà e veli di seta e di cotone.
Il cardinal Malabranca aveva imposto alla fine del Duecento il velo alle donne in segno di modestia ma, come era naturale, esso divenne ben presto oggetto di eleganza e sottile seduzione.
Le belle vesti delle più ricche dame andavano ad alimentare un fiorente mercato dell’usato al quale attingevano le borghesi meno agiate.
Così probabilmente avvenne anche per il ricco guardaroba della nobile Alessandra Macigni Strozzi. Rimasta vedova con cinque figli da allevare, tornò da Pesaro nella città natale da dove Cosimo de’ Medici aveva esiliato il marito e si diede da fare con passione di madre affinché i figli potessero tornare nella città d’origine, come ottenne molti anni dopo. Negli anni della lontananza scrisse ai figli lettere che leggiamo ancor oggi con commozione. In una di queste Alessandra parla al figlio Filippo del matrimonio della sorella che andava sposa a un setaiolo con una dote di 1.000 fiorini. Naturale che la controdote in vestiario offerta dal generoso fidanzato fosse cospicua: una cotta di velluto cremisi “del più bel drappo che si può trovare in Firenze”, una ghirlanda di piume e perle, una sopravveste di velluto rosso con ampie maniche foderate di martora e una cioppa, specie di spolverino rosa ricamato di perle e qualche paio di maniche.
Le maniche meritano qualche attenzione: a volte infatti erano autonome e separate dal vestito così che si potesse metterle su vari indumenti cambiando look. Per questo le troviamo citate isolate negli inventari, maniche di raso o di velluto, gonfie e tagliate, con fessure dalle quali sbucava la camicia sotto indossata. Per averne un’idea guardiamo le due famose “dame sedute” del Carpaccio.
Gli uomini amavano vestirsi di colori e i più giovani sfoggiavano maliziose calzamaglie attillatissime e bicolori abbinate a farsetti corti e stretti, talvolta imbottiti sulle spalle e sul petto per i più esili. Gli uomini più maturi indossavano sopravvesti di pelle, di pelliccia o di panno, nero o verde per lo più, ma sappiamo anche di un riminese - tale Francesco Rambertini - che ne possedeva una azzurro-turchese foderata di bianco. E poi mantelle e mantelline persino di taffettà, con frange e cappucci tutti ricamati o di velluto. E spesso scarpe rosse, anche loro come le loro donne.
Abbiamo parlato finora dei vestiti dei ricchi. Che fossero anche per loro un bene prezioso si deduce dal fatto che erano ricordati nei testamenti, come i terreni, le case e i gioielli, cose da tramandare di generazione in generazione, da conservare, da offrire come garanzie per ottenere prestiti, qualche volta da vendere se arrivavano tempi difficili.
Il consumismo non era contemplato in quella società: il dottore bolognese Giovanni da Sala vendette una veste cremisi e con il ricavato si comperò un terreno di ampiezza ragguardevole.
Gli artigiani
Per i poveri, c’erano soltanto una camicia, un paio di brache e uno di scarpe: i più fortunati ne avevano due e un vestito della festa ereditato e destinato a durare decenni. Rivoltare la veste, ricucirla, tingerla per coprire le macchie, rammendarne i buchi e gli strappi era una pratica diffusa non solo fra i contadini ma anche nel ceto medio. Storie vecchie, che si sono ripetute nelle nostre campagne fino a cinquant’anni fa.
Contrariamente a quel che avviene oggi, i sarti non erano al top nella produzione del vestiario: nella folla degli artigiani che tagliavano e cucivano mantelli e vestiti, braghe e gonnelle, tingevano tessuti, rifinivano cinture, confezionavano cappelli, cappucci e scarpe, il sarto era considerato molto meno di un bravo calzolaio che richiedeva un tirocinio più lungo e maggiori investimenti per la sua bottega.
I colori
Il tintore costituisce un caso interessante: stimato per l’abilità di “fare i colori”, nei quali stava forse il maggior pregio di un abito, fu guardato fino al Trecento con sospetto e non è ancora completamente chiaro il motivo. Era perché la tintura richiedeva molto traffico e sporcava chi ci lavorava o perché la segretezza dei procedimenti e delle trasformazioni inquietava quelli al di fuori delle botteghe? Più tardi l’arte del tintore, così preziosa e insostituibile, l’arte di Calimala, divenne una delle più potenti a Bologna e a Firenze.
Come fare a meno infatti di questi artisti che trasformavano il colore neutro o stinto di un panno in uno splendente cremisi con il chermes o il verzino, in uno smagliante verde con un doppio bagno vegetale, in una gamma di azzurri, dal celestino al blu intenso con l’erba del guado?
Il rosso e il verde erano, sembra, i colori preferiti dalle signore nonostante il verde sia sempre stato considerato un colore difficile.
Oltre al rosso cardinale, amatissimo era lo scarlat, intenso e luminoso. Il termine scarlat all’origine significava un punto di colore qualsiasi purché puro e brillante
Per secoli il blu era stato disprezzato perché conservava una connotazione barbarica, tipica dei popoli che abitavano al di là dei confini settentrionali; poi divenne di gran moda: dopo tutto era il colore del cielo e quindi del manto della Vergine. Il nero, quello profondo e cupo, cominciò da allora a essere considerato la tinta più elegante, ottima per le grandi occasioni, funerali ma anche matrimoni e feste solenni.
Unito all’oro appariva splendido e degno di un re.
I poveri vestivano di bruno.
La segnaletica della distinzione
L’ambiente della corte era il luogo primario di sfoggio, un vero affollato palcoscenico fra il Trecento e il Cinquecento. L’abbigliamento sontuoso serviva non solo a sottolineare l’importanza della corte ma anche a rafforzare l’identità del gruppo cortese nei confronti degli altri, gli esclusi.
Le livree dei servitori erano il primo segno di distinzione: bianca, rossa e verde alla corte di Borso d’Este a Ferrara, nera a quella aragonese, di velluto turchino a Firenze.
Al vertice il Signore e la sua sposa attiravano e incatenavano gli sguardi soprattutto per la magnificenza dei vestiti, abiti di broccato d’oro come quello di Caterina dei Pico per le sue nozze, mantelli di seta bianca fluttuante sulla gonna e la giubba di damasco con perle come quello di Isabella d’Aragona al suo matrimonio con Giangaleazzo Visconti. Annota il cronista: “Isabella era bella e pulita che pareva un sole”.
Per le stesse ragioni sarebbe stato impensabile, ma era per giunta proibito, che i contadini vestissero di seta: i lavoratori comparivano in pubblico in camicia e farsetto, gli uomini, in camicia e guarnello, una specie di tunica, le donne. Questo era il completo giudicato per loro “decente e onesto”.
La “segnaletica della distinzione” era presente anche in città fra i borghesi e i lavoratori urbani. L’uomo maturo e agiato portava un abito lungo e largo, d’inverno foderato di pelliccia, il lucco, mentre la toga veniva riservata ai dottori e ai grandi mercanti; le donne indossavano gonne ampie sopra a scarpe con tacchi sproporzionati che un cronista descrive: “In piazza s. Marco sembra di vedere delle nane convertite in gigantesse”.
(M. T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Quando vestivamo la cioppa, Il Sole 24 Ore, 5 Settembre 1999 N. 242)
Fonte: http://www.consumart.it/download/I_VESTITI_NEL_MEDIOEVO.doc
Sito web da visitare: http://www.consumart.it/
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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