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Ascoltando con attenzione una qualsiasi musica notiamo che essa ci “suggerisce” sempre qualcosa: un bel paesaggio, un ricordo del passato, una emozione (gioia, tristezza, sorpresa, ecc.), un colore. Questa semplice esperienza ci rivela un aspetto molto importante dell’arte dei suoni: la musica è un linguaggio.
Se volessimo descrivere la struttura di questo linguaggio, dovremmo partire innanzitutto individuando i fattori che gli permettono di “funzionare”. Quali sono questi fattori? Per avvicinarci alla risposta, facciamo rapido paragone. Un puzzle è un gioco da tavolo che consiste nel ricostruire una data immagine mediante la combinazione di diverse tessere. Il puzzle “funziona” solamente se tutti i suoi fattori sono presenti. In primo luogo dovremo avere le tessere; senza di esse è proprio difficile – anche volendo – risolvere un puzzle. In secondo luogo dovremo avere un posto adeguato in cui poter lavorare: un tavolo, un tappeto, il pavimento (è sempre meglio una superficie piana). Infine è indispensabile avere bene in mente l’immagine che si deve riprodurre (solitamente è stampata sulla scatola). Quest’ultimo fattore è importantissimo perché ci dice in quale “ordine” devo disporre le tessere.
Quindi possiamo dire che un puzzle, per poter funzionare, necessita di tre fattori: le tessere, che chiamiamo materia prima; una superficie, che chiamiamo luogo; l’immagine da riprodurre, che chiamiamo ordine.
Tornando alla musica, la sua materia prima - il suo corpo - è il Suono; il luogo della musica - il posto cioè in cui essa si muove - è il Tempo (tanto che di un brano possiamo dire che dura 3 minuti, mentre non possiamo dire che è largo 20 cm!); l’ordine - che permette di combinare le tessere musicali in maniera significativa - è la Forma.
Suono, Tempo e Forma sono le “qualità essenziali” della musica, poiché, qualora venisse a mancare una sola di esse, la musica non esisterebbe. Infatti: se mancasse il suono la musica sarebbe muta; se mancasse il tempo, i suoni (o i silenzi) non avrebbero né un inizio né una fine; infine, se mancasse la forma, avremmo una musica disordinata e quindi senza significato; non avremmo dunque linguaggio.
Per capire di più l’importanza di quest’ultima qualità (la forma), proviamo a pensare cosa succederebbe se non esistesse ordine nel linguaggio verbale:
li ttago iocga ortclei eln
La frase appena proposta non avrebbe alcun significato, proprio perché sprovvista di un ordine. Essa sarebbe un insieme disordinato di segni grafici. Ma se io ordinassi correttamente le stesse lettere nello spazio, quell’insieme disordinato di segni grafici darebbe vita ad una frase perfettamente comprensibile:
Il gatto gioca nel cortile
Allo stesso modo, possiamo dire che si ha linguaggio musicale – e quindi significato - quando la forma ordina il suono nel tempo.
Ecco allora la definizione completa:
“la musica è l’arte di combinare i suoni nel tempo secondo una determinata forma, cioè in maniera significativa”.
Ma occorre fare una precisazione. Per poter comprendere qualsiasi forma di linguaggio è necessario conoscere il “codice” utilizzato da questo linguaggio. Se io non conosco il “codice”, non posso comprendere il significato della comunicazione. Prendiamo ad esempio la seguente frase:
Wer den Pfennig nicht ehrt, ist den taler nicht wer!
Se io non conoscessi la lingua tedesca, questa frase (benché ordinata) non mi direbbe nulla. Ma se io conoscessi il tedesco – poniamo che la mia famiglia sia originaria di Monaco – allora potrei perfettamente comprendere il significato di quella scritta, tanto da poterla tradurre ai miei compagni:
Chi non dà valore al centesimo, non merita l'euro!
In musica avviene un po’ la stessa cosa. Finché non conosco il linguaggio musicale, i suoi strumenti, le sue caratteristiche, non posso comprendere i messaggi sonori che essa pone alla mia attenzione.
Cap. 1
La Durata e le Figure Musicali
Pur non sapendo definirlo, sappiamo che il tempo esiste e passa perché è puntellato di avvenimenti: nasciamo, lavoriamo, mangiamo, studiamo, ci innamoriamo… Sono questi avvenimenti che ci fanno sperimentare il tempo; tanto è vero che se non succede nulla, come in certi esperimenti in completo isolamento da qualsiasi forma sociale, la percezione del tempo che passa risulta enormemente travisata. La successione di questi eventi nel tempo dà vita a ciò che chiamiamo comunemente ritmo. Esso è presente in ogni aspetto della vita nostra e dell’universo, dal battito cardiaco fino alla successione delle stagioni. Definiamo il ritmo come il rapporto temporale fra due o più eventi.
Nel tempo musicale gli eventi che si succedono sono i “suoni”.
Essi, articolati con un determinato ordine, cioè con un “ritmo”, danno vita alla musica.
Per poter conoscere il tempo musicale, per poterlo comprendere ed utilizzare, abbiamo bisogno di uno strumento che ci consenta di “misurarlo”, di “contarlo”.
Non è raro trovarsi a muovere il corpo o battere le mani con regolarità, sincronizzandosi con i battiti della musica che ascoltiamo, soprattutto se il carattere ritmico è particolarmente accentuato. Ma perché? Con che cosa ci stiamo sincronizzando?
Ogni brano musicale si svolge su un battito regolare che ne scandisce il movimento, un po’ come un orologio. È su questo battito che noi ci sincronizziamo quando battiamo le mani “a tempo”. Questa pulsazione in musica prende il nome di “pulsazione isocrona”, cioè una successione di
impulsi di eguale durata, che origina un battito costante e regolare. Essa costituisce il nostro “orologio musicale”, quasi un righello, con il quale possiamo misurare il tempo.
I I I I I I I I I I I I I I I Pulsazione isocrona
Ciascun evento temporale possiede una sua “durata”, definita dalla quantità di tempo che intercorre tra il suo principio e la sua fine. Facciamo un esempio: se una partita di calcetto con gli amici comincia alle ore 21.00 e termina alle 22.15, la sua durata risulta essere di 1 ora e 15 minuti.
In musica, per calcolare la durata degli avvenimenti (i suoni), utilizziamo lo stesso sistema. Prendendo come base il nostro orologio musicale - la pulsazione isocrona - possiamo stabilire con esattezza quante “pulsazioni” dura un certo suono.
Se proviamo a scandire queste vocali su una pulsazione isocrona, possiamo infatti definirne la durata musicale
La “a” dura una pulsazione La “i” dura due pulsazioni La “e” dura tre pulsazioni La “u” dura una pulsazione
La durata si definisce dunque come la “lunghezza” temporale dei suoni, calcolata sulla pulsazione isocrona (ad esempio: questo suono dura un battito, due battiti, ecc.)
Per scrivere la durata dei suoni ci serviamo abitualmente delle “note”, mentre per la durata dei silenzi (ugualmente importanti) usiamo le “pause”. Note e pause sono segni grafici che attraverso la loro forma ci indicano la durata dei suoni e dei silenzi. In particolare: le note sono la rappresentazione grafica dei suoni, mentre le pause sono la rappresentazione grafica dei silenzi.
Di seguito riportiamo lo schema di tutte le note e le pause:
Tutte le figure musicali stanno fra loro in rapporto 1:2; vale a dire che ciascuna è il doppio di quella precedente e la metà di quella successiva, come vediamo dalla figura seguente:
Esistono alcuni segni grafici speciali che possono modificare la durata di una nota: il punto di valore, la legatura di valore e la corona. Questi segni servono ad ottenere particolari effetti di tempo, non ottenibili attraverso le figure musicali finora studiate.
Il punto di valore è un puntino posto dopo la nota che prolunga la durata della nota di metà del suo valore. Quindi una semiminima col punto sarà uguale
alla somma di una semiminima più una croma, mentre una minima col punto sarà uguale alla somma di una minima più una semiminima:
La legatura di valore, invece, è una linea curva che lega due note (della stessa altezza) fondendole in una sola nota del valore pari alla somma delle durate iniziali: ad esempio, se lego due semiminime otterrò una minima, mentre legando una semiminima e una croma otterrò una durata pari ad una semiminima col punto:
La corona (o punto coronato), posta su una nota o una pausa, prescrive il prolungamento del loro valore a tempo indeterminato, cioè a piacere.
Cap. 2
La Velocità
Per capire cos’è la velocità dobbiamo fare un piccolo passo indietro. La durata non ci dice propriamente quanto dura un suono, ma quanto dura un suono rispetto alla pulsazione, quindi ci dice la sua durata relativa. La durata effettiva di un suono dipende dalla durata della pulsazione isocrona. Finché non so quanto dura una pulsazione, non posso neanche sapere la durata delle note che abbiamo calcolato su di essa.
È la velocità quel parametro del tempo che ci dice quanto dura la pulsazione isocrona di un brano musicale, che ci dice quanto è “veloce” il brano. Dunque la velocità ci dice la durata della pulsazione isocrona, svelandoci così la durata effettiva dei suoni.
Per scrivere la velocità si possono utilizzare due distinte modalità, che possono comparire da sole o anche insieme. Il primo modo consiste nell’indicare quante volte una pulsazione deve essere battuta in un minuto:
q = 60 (volte al minuto)
In questo caso una pulsazione durerà 1 secondo. Se invece desidero che le la pulsazione duri un po’ meno di un secondo (in questo caso ce ne staranno più di 60 in un minuto) scriverò :
q = 62
Sorge però un problema: per quanto possiamo essere abituati a misurare il tempo (cosa non troppo diffusa) al massimo riusciamo a contare più o meno precisamente intorno al secondo: come si fa ad ottenere tutte le altre possibili sfumature? Esiste un strumento (un tempo meccanico ora elettronico) che serve esattamente a dare all’esecutore la battuta giusta: il metronomo. La parola fu inventata da Johann Nepomuk Mälzel nel 1815 e significa “regola della misura” (dal greco: metron + nomos).
Il modello definitivo a doppio pendolo fu elaborato dall'orologiaio di Amsterdam Dietrich Nikolaus Winkel, che va considerato il vero inventore del
metronomo moderno. Johann Nepomuk Mälzel nel 1816 brevettò lo strumento, modificandolo per ottenere un battito anche sonoro e non solo visivo. Fu così che quest’ultimo passò erroneamente alla storia come l’inventore del metronomo.
Il metronomo è una sorta di pendolo capovolto, con un'asta graduata fra le frequenze 40 e 208 al minuto ed un peso, detto lente, che possiamo spostare lungo quest'asta selezionando le pulsazioni al minuto. Le indicazioni di velocità che precisano il numero di pulsazioni al minuto vengono definite per questo indicazioni metronomiche (indicate con la sigla MM, che sta per Metronomo Mälzel).
Il secondo modo di scrivere la velocità è più libero, meno preciso, ma non per insufficienza di indicazioni. Il compositore vuole appositamente lasciare un margine entro cui l’esecutore possa trovare il tempo nel quale gli sembra che emerga meglio, sotto le sue mani, il carattere più profondo del brano. Questa modalità non si serve di numeri, ma di aggettivi relativamente generici, detti indicazioni di agogica, che consentono un certa libertà interpretativa.
Quali siano i limiti entro cui potersi muovere vengono indicati nuovamente dal metronomo:
Largo 40-60 mm
Larghetto 60-66 mm
Adagio 66-76 mm
Andante 76-108 mm
Moderato 108-120 mm
Allegro 120-168 mm
Presto 168-200 mm
Prestissimo 200-208 mm
Occorre ricordare che l’aggettivo non indica il carattere del brano (un brano con l’indicazione “Allegro” può essere tutt’altro che gioioso), bensì il suo andamento temporale.
Vediamo l’inizio di una Sonata per pianoforte di Joseph Haydn (1732 – 1809): qui i due sistemi sono compresenti.
Durante il trascorrere del brano è possibile che l’autore desideri cambiare improvvisamente o progressivamente la velocità di riferimento. Nel primo caso si usa segnalare a fine battuta che da quella successiva qualcosa cambierà, utilizzando una doppia stanghetta e scrivendo sulla battuta seguente la nuova velocità di riferimento; nel secondo caso invece si useranno delle scritte, o meglio le loro abbreviazioni, che indicheranno un rallentamento o una accelerazione progressivi: rall… o accel….
Cap. 3
Il metro
Il metro è una struttura musicale basata sulla ricorrenza periodica di accenti. Fanno riferimento al metro espressioni come "questo brano è in 4/4 ", oppure “siamo in metro 3/4”, ecc.
Esso è il tentativo di dare un ordine alla pulsazione isocrona, per creare un ritmo costante sopra il quale costruire la musica.
Per fare questo il metro divide la pulsazione in “misure” o “battute”, in cui raccoglie sempre lo stesso numero di battiti. In questa scansione di battiti, l’inizio di una nuova battuta coincide sempre con il ritorno dell’accento, quindi la prima pulsazione della misura è sempre accentata. Inoltre ogni tipo di battuta o misura, ogni tipo di “metro”, ha al suo interno una specifica organizzazione che vedremo più avanti.
La misura è delimitata da stanghette verticali che prendono il nome di
stanghette di battuta.
Esse possono essere semplici o doppie (come si vede dalla figura). La doppia stanghetta di battuta viene utilizzata sia al termine del brano sia, eventualmente, per dividere le diverse parti di esso.
A seconda del numero di pulsazioni o tempi contenuti in ogni misura il metro si dirà:
A seconda del metro, ciascuna pulsazione della battuta può essere composto da “suddivisioni” binarie o ternarie. La suddivisione binaria alterna sempre un battere e un levare, mentre in suddivisione ternaria abbiamo un battere e due levare.
Se il metro ha suddivisione binaria della pulsazione si dice metro semplice, mentre se la suddivisione è ternaria si parlerà di metro composto.
Il tipo di metro viene normalmente segnalato all’inizio del brano con una frazione, detta “indicazione metrica” (da non confondere con l’indicazione metronomica, relativa alla velocità!).
Nei metri semplici, il numeratore della frazione indica la quantità di impulsi contenuti in ogni battuta, mentre il denominatore indica la durata dell’impulso. Ad esempio se trovo la frazione 4/4 lo schema ritmico sarà composto da 4 impulsi della durata di 1/4, cioè di una semiminima.
Nei metri composti, il numeratore indicherà il numero delle suddivisioni totali di ogni battuta, mentre il denominatore designerà il valore di durata di ciascuna suddivisione. Ad esempio, il metro 6/8 avrà 6 suddivisioni da 1/8, cioè del valore di una croma, raccolti in 2 movimenti da 3 suddivisioni ciascuno.
Principali Metri Semplici
2/4= due tempi di semiminima a suddivisione binaria di crome
3/4= tre tempi di semiminima a suddivisione binaria di crome
4/4= quattro tempi di semiminima a suddivisione binaria di crome
6/8= sei suddivisioni di croma raccolte in due movimenti di semiminima puntata
9/8= nove suddivisioni di croma raccolte in tre movimenti di semiminima puntata
12/8= dodici suddivisioni di croma raccolte in quattro movimenti di semiminima puntata
La sincope è uno spostamento di un accento dal tempo forte al tempo debole. Ad esempio un suono che inizia sul tempo debole e si prolunga sul tempo forte, indebolisce quegli accenti che sarebbero forti e rinforza quelli che dovrebbero essere deboli. La forma più diffusa di sincope si ha quando una qualunque nota si trova su un tempo debole fra altre due figure di durata inferiore.
Il controtempo si ha invece quando dei suoni iniziano sui tempi deboli, ma non si prolungano su quelli forti, sui quali sono presenti delle pause.
La sincope si differenzia dal controtempo in quanto nella prima il suono si prolunga sul tempo forte, mentre nel secondo il suono cade solo sul tempo debole lasciando in pausa il tempo forte.
SINCOPE
CONTROTEMPO
Durante lo svolgimento di un brano musicale è possibile incontrare dei gruppi irregolari di note. Sono irregolari poiché la loro esecuzione risulta sovrabbondante o insufficiente rispetto al tempo che dovrebbero occupare normalmente.
La terzina è costituita da un gruppo di tre note il cui valore temporale viene accorciato in modo da corrispondere al valore di due note della stessa specie. La terzina è segnalata dal numero 3 posto al di sopra o al di sotto del gruppo. L’accentazione della terzina è + - -
La sestina è costituita da un gruppo di sei note il cui valore temporale viene accorciato in modo da corrispondere al valore di quattro note della stessa specie. La sestina è segnalata dal numero 6 posto al di sopra o al di sotto del gruppo. Diversamente da quanto si possa pensare, la sestina non è l’unione di due terzine, infatti l’accentazione della sestina raccoglie le note per sottogruppi di 2: + - + - + -
La quintina è costituita da un gruppo di cinque note da eseguirsi nel tempo di quattro figure della stessa specie.
Cap. 4
L’Altezza
L’altezza è quella qualità che distingue i suoni in acuti e gravi, cioè – meno correttamente – alti e bassi. Questi termini derivano dall’istintivo richiamo al profondo, al pesante, al basso di un suono grave e, viceversa, sull’immediata relazione tra la vetta, l’alto, il leggero, il luminoso e l’acuto. Anche l’altezza però, come la durata dei suoni, è una qualità “relativa”; infatti uno stesso suono può essere acuto rispetto ad un suono più grave, ma anche grave se confrontato ad un suono più acuto: i suoni dunque sono più o meno acuti e più o meno gravi sempre in relazione ad altri.
Tuttavia, nel corso della storia, si sono delineati per convenzione un “registro acuto” (il registro delle voci “femminili” e degli strumenti come il violino, il flauto, la tromba, ecc…) e un “registro grave” (il registro delle voci “maschili” e degli strumenti come il violoncello, il trombone, il contrabbasso, ecc…).
L’altezza del suono, per essere scritta con precisione, necessita di tre segni grafici: il pentagramma, la chiave e le note.
Il pentagramma è un sistema di 5 linee orizzontali parallele e 4 spazi che permette di localizzare con precisione le note.
Sia le linee che gli spazi si contano dal basso verso l’alto:
La chiave musicale, invece, è quel segno che ci svela l’altezza di un rigo specifico, svelandoci così l’altezza di tutti gli altri righi e spazi. In origine le “chiavi” non erano altro che i nomi dei suoni riportati all’inizio di un rigo, dal momento che anticamente veniva utilizzato il sistema alfabetico per indicare le altezze (A=la, B=si, C=do, ecc.). Col tempo però esse hanno cambiato forma fino a diventare quelle che oggi conosciamo. É così che dalla lettera “g” (che indicava il sol), si è passati alla moderna “chiave di violino”; dalla lettera “c” (che indicava il do), si è passati alla moderna “chiave di do” e dalla lettera “f” (che indicava il fa), alla moderna chiave di fa.
La chiave di Sol, o chiave di chiave di violino, ci dice che il secondo rigo (quello su cui poggia), sarà il rigo del “sol”:
La chiave di Do, ci indicherà la linea del do:
La chiave di Fa, ci indicherà invece la linea del fa:
Le chiavi di DO e di FA, tuttavia, possono muoversi sul pentagramma, prendendo nomi diversi. Per esempio, la stessa chiave di Fa, se posta sul 4° rigo, viene detta chiave di basso; mentre, se posta sul 3° rigo, viene detta chiave di baritono.
Ecco il prospetto delle sette chiavi antiche con i relativi nomi chiave di violino, chiave di soprano, chiave di mezzosoprano, chiave di contralto, chiave di tenore, chiave di baritono, chiave di basso :
L’insieme delle sette chiavi viene detto “Setticlavio”.
Sopra al pentagramma, dopo la chiave, vengono scritte le note. Esse indicano l’altezza di un suono a seconda della loro posizione sul pentagramma. Per ora utilizzeremo un pentagramma in chiave di violino. Ovviamente più la nota è posta in alto nel pentagramma, più sarà acuta, più è posta in basso, più sarà grave.
Può succedere però che il pentagramma non sia più sufficiente ad indicare l’altezza di un suono; in questo caso vengono utilizzati sopra e sotto di esso i cosiddetti “tagli addizionali”. I tagli addizionali sono dei frammenti di linee che si utilizzano per “ampliare” il pentagramma, quando esso non basta più. Essi stanno sempre fra la nota e il pentagramma e mai oltre la nota che si deve scrivere.
Qualora l’estensione dello strumento sia tale da richiedere un uso eccessivo di tagli addizionali – come per esempio un pianoforte o un organo – si è soliti utilizzare due pentagrammi sovrapposti: uno in chiave di basso (per ospitare le note gravi) ed uno in chiave di violino (per ospitare le note acute). Nella pagina seguente riportiamo la successione completa dei suoni sul doppio pentagramma.
Da dove nascono le sillabe che danno nome ai suoni?
Nell’antichità i suoni venivano nominati in maniera differente a seconda delle culture e delle epoche. Uno dei sistemi che ebbe maggior fortuna fu il sistema alfabetico, nel quale ogni suono era associato ad una lettera dell’alfabeto. Ma le sillabe che oggi utilizziamo per indicare i suoni hanno origine solo all’inizio del secondo millennio. Fu infatti nel 1025 che un monaco benedettino, di nome Guido d’Arezzo, pubblicò un trattato musicale nel quale propose di nominare i suoni utilizzando le sillabe iniziali dei versi dell’Inno a San Giovanni, un antico canto liturgico la cui melodia aveva la particolarità di iniziare ogni verso su un tono immediatamente più acuto di quello precedente. Ecco il testo dell’inno:
Ut queant laxis Resonare fibris Mira gestorum Famuli tuorum Solve polluti Labii reatum
(Innum Sancte Iohannes)
Come si può notare, le sillabe proposte da Guido d’Arezzo erano:
UT RE MI FA SOL LA.
Il sistema fu subito adottato e si sviluppò nel corso dei secoli fino a diventare quello che oggi conosciamo. La sillaba UT fu sostituita con DO all’inizio del XVII secolo da Giovanni Battista Doni per evitare ai cantanti i problemi di pronuncia e fonetica legati alla sillaba “UT”; il SI venne aggiunto nel Rinascimento per completare la successione, e deriva dalle iniziali di “Sancte Iohannes”.
La successione completa di questi sette suoni, più la ripetizione del primo all’acuto, viene definita “ottava” (otto suoni).
Come si vede, abbiamo una successione di 8 tasti bianchi (7 + la ripetizione del primo), che rappresentano i cosiddetti “suoni naturali”: DO RE MI FA SOL LA SI DO’.
In mezzo a questi gradini principali troviamo solitamente dei suoni intermedi, i “tasti neri”, che si pongono ad una altezza mediana rispetto ai due tasti bianchi fra i quali stanno e rappresentano i cosiddetti suoni “alterati”, cioè quei suoni la cui altezza è stata “alterata” da particolare segni musicali, come vedremo più avanti.
La differenza minima di altezza che può esistere fra due suoni del nostro sistema musicale viene chiamata semitono. Sulla tastiera di un pianoforte il semitono si configura come la distanza (in termini di altezza) che intercorre fra un qualsiasi tasto e quello immediatamente successivo o precedente - sia esso bianco o nero. La somma di due semitoni viene definita tono. È di semitono, per esempio, la distanza fra MI e FA, mentre è di tono la distanza fra DO e RE.
Scorrendo la tastiera del pianoforte, possiamo notare la successione di toni e semitoni all’interno dell’ottava: c’è un tono fra DO-RE, RE-MI, FA-SOL, SOL-LA, LA-SI; mentre c’è un semitono fra MI-FA e SI-DO.
Le alterazioni sono segni grafici che servono a variare l’altezza di una nota. Quando troviamo uno di questi segni davanti ad una nota dovremo eseguirla “alterata”, cioè un po’ più acuta o un po’ più grave dell’altezza naturale.
Le principali alterazioni sono tre:
Il diesis alza la nota di un semitono.
Il bemolle abbassa la nota di un semitono.
Il bequadro riporta la nota alla sua altezza naturale dopo una alterazione.
Le alterazioni sono poste prima della nota e sullo stesso rigo o nello stesso spazio della nota alla quale si riferiscono e il loro potere dura fino alla fine della battuta in cui sono comparse. Può succedere tuttavia di incontrare una o più alterazioni subito dopo la chiave, all’inizio del pentagramma. In questo caso siamo in presenza di alterazioni fisse, che agiscono sulle note a cui si riferiscono per tutta la durata del brano. Esse vengono riscritte dopo ogni chiave, su tutti i righi di pentagramma.
La prima specie di alterazioni - quelle di percorso - vengono definite “alterazioni di passaggio”, mentre le seconde sono dette “alterazioni in chiave”.
Le alterazioni possono presentarsi anche in forma “doppia”; in tal caso saremo di fronte alle cosiddette “doppie alterazioni” e l’altezza del suono verrà alterata di 1 tono intero. Ovviamente per annullare i doppi diesis e i dopi bemolle occorre un doppio bequadro.
È grazie alle alterazioni che possiamo dare nome ai suoni intermedi, ai tasti neri del pianoforte, che vengono per questo definiti “suoni alterati”.
Così il tasto nero dopo il Do si chiamerà Do diesis, mentre quello immediatamente precedente al Mi si chiamerà Mi bemolle, ecc. In base a quanto detto, la successione completa dei suoni dell’ottava (comprendente suoni naturali e alterati) risulta essere la seguente:
Questo fenomeno è paragonabile alla somiglianza che c’è nella lingua italiana tra A ed HA. Ambedue infatti “suonano” allo stesso modo pur essendo scritte in maniera diversa. Che cosa mi fa capire (o mi “dovrebbe” far capire…) se stiamo parlando della preposizione A oppure della terza persona singolare del presente indicativo del verbo avere (HA)?
È il contesto. Analogamente, è il contesto musicale (la scala utilizzata, come vedremo più avanti) che stabilisce il nome del suono in questione.
Cap. 5
Intensità
L’effetto dell’intensità è facilmente intuibile, non fosse altro che per l’esperienza che ne facciamo quotidianamente usando il telecomando della tv o i comandi del nostro lettore mp3: si tratta del volume del suono. Parlare di un suono più intenso di un altro è come dire che un suono è più forte dell’ altro, che a sua volta si trova ad essere più debole del primo.
In sintesi possiamo dire che l’intensità è quella qualità che distingue i suoni in forti e deboli. Come ricordato per la definizione di acuto e grave, ancor di più la definizione di forte e piano non può che essere assolutamente relativa e legata a diverse variabili: la sensibilità e capacità dell’esecutore, le possibilità sonore dello strumento, la vicinanza o lontananza dalla fonte sonora, l’acustica della sala, ecc.
La notazione dell’intensità in ambito musicale è sorprendentemente tardiva e cominciò a comparire solo alla fine del XVI secolo.
Questo non significa che precedentemente tutti i suoni venissero realizzati allo stesso livello di volume, ma tutto era affidato all’intelligenza, alla sensibilità, alla conoscenza e condivisione della tradizione da parte di chi eseguiva il canto. Quando l’intensità è diventata “birichina” e i compositori hanno voluto che facesse le “bizze”, andando anche contro le movenze naturali (per eccitare strani colpi di scena, per provocare “affetti” artificiosi in chi ascoltava) si sentì la necessità di indicare l’intensità attraverso dei simboli chiamati segni di dinamica (la forza con cui un suono deve essere eseguito).
Essendo in quel periodo indiscussa la posizione guida della musica italiana, questi segni furono impostati sulla nostra lingua, utilizzando le lettere iniziali degli aggettivi corrispondenti: f divenne quindi il simbolo di forte e p quello di piano. Fissati i due punti di riferimento, ben presto il sistema si ampliò anche in relazione al continuo perfezionamento degli esecutori (soprattutto quelli strumentali) introducendo vari stadi interdi (mf, mezzo forte e mp, mezzo piano) e sforando verso gli estremi ff (fortissimo), fff (più che fortissimo), pp (pianissimo), ppp (più che pianissimo) e ancora oltre, verso le violente esagerazioni della musica del ‘900.
In musica è possibile anche modificare l’intensità di una frase in maniera graduale, per questo esistono segni di variazione progressiva dell’intensità (il passaggio, per esempio, da un piano ad un forte senza far sentire sbalzi di volume).
Esse sono realizzate tramite segni detti forcelle (simili ai simboli matematici di maggiore e minore) che possono essere aperte (verso una intensità maggiore) o chiuse (verso una intensità minore) e con le abbreviazioni cresc. (crescendo) dim. (diminuendo).
Cap. 6
Il timbro
Il timbro è quella qualità che definisce il “colore” del suono. Abbiamo suoni più scuri, più chiari, più caldi, più dolci, più aspri, più pungenti, ecc. In effetti, se proviamo a suonare lo stesso suono (uguale in altezza e intensità) con strumenti diversi, per esempio pianoforte e violino, otterremo “colori” differenti. Questo perché ciascuno strumento ha un proprio “timbro”, grazie al quale riusciamo a distinguere se a suonare è un violoncello, un oboe o una chitarra. La stessa cosa avviene con le voci umane: ciascuno ha un proprio timbro di voce ed è per questa ragione che riusciamo a riconoscere la voce di chi conosciamo anche senza vederlo.
Il timbro si scrive generalmente con la semplice indicazione all’inizio della partitura dello strumento esecutore, attraverso l’abbreviazione del suo nome. Se invece voglio indicare all’esecutore di cambiare timbro al suo strumento (pizzicato, sul ponticello, sfiorando con le dita le corde le pianoforte, cantando una a invece che una u, suonando con l’archetto un piatto, ecc.) o introducendo materie aggiuntive che cambiano anche la forma stessa dello strumento (per esempio la sordina, o il pianoforte “preparato”) posso indicarlo direttamente in partitura attraverso indicazioni dalla forma molto libera, purché comprensibile.
Cap. 7
Acustica
Che cos’è un suono? Domanda alla quale è facile rispondere con frasi fatte, generiche e quasi sempre astrattamente legate a sfuggenti sensazioni: in realtà il suono è un fenomeno fisico studiato approfonditamente e misurabile quantitativamente con precisione.
La scienza che studia il suono si chiama acustica. Essa divide la vita del suono in 4 momenti:
Produzione
Il suono viene prodotto dalla vibrazione di un “corpo elastico”, che costituisce la cosiddetta fonte sonora. Per vibrazione si intende il movimento delle microscopiche particelle che costituiscono il corpo. Queste particelle si chiamano molecole: esse sono invisibili ad occhio nudo ed hanno la facoltà di subire leggerissime oscillazioni, qualora vengano
sollecitate. Questi movimenti di particelle non alterano la composizione
del corpo, tuttavia, a fronte di una sollecitazione potente, è possibile che la vibrazione sia talmente ampia da diventare visibile ad occhio nudo. In questo movimento ogni particella tende ad oscillare come un pendolo, spostandosi e ritornando alla posizione originaria. L’elasticità di un corpo è esattamente la capacità che un corpo ha di muoversi a livello molecolare. Benché tutti i corpi siano capaci di muoversi a livello molecolare, alcuni risultano maggiormente elastici di altri. Questo perché ciascun materiale ha una capacità specifica di entrare in vibrazione, diversa dagli altri. L’elasticità è dunque quella proprietà della materia legata alla sua struttura molecolare, che consiste nella capacità (sviluppata a differenti livelli) di tornare nella posizione iniziale dopo una perturbazione, una sollecitazione. Questo “rientro” progressivo produce una serie di sommovimenti regolari (suono) o irregolari (rumore) dette vibrazioni, attraverso le quali noi possiamo compiere l’esperienza dell’ascolto.
In sintesi: il suono viene prodotto quando, a seguito di una sollecitazione esterna, un corpo elastico (quindi qualsiasi corpo) entra in vibrazione a livello molecolare.
Propagazione
Una volta che la fonte sonora è entrata in vibrazione, essa tende a “contagiare” tutto ciò che è a diretto contatto con lei. Questo fenomeno di contagio viene chiamato “propagazione”. Analogamente a quanto succede quando lanciamo un sasso nell’acqua, le onde sonore tendono a propagarsi concentricamente in ogni direzione.
Perché avvenga la propagazione della vibrazione occorre però che vi sia almeno un corpo a contatto con la fonte sonora. Infatti qualora la fonte sonora fosse isolata, circondata dal vuoto, la vibrazione non potrebbe propagarsi e il suono non sarebbe udibile. Dunque per far giungere la vibrazione dalla fonte sonora al ricevente, occorre una materia - detta “mezzo propagante” - che permetta la trasmissione del suono.
Detta trasmissione avviene attraverso il fenomeno del movimento coatto - movimento forzato - delle particelle. Per capire meglio cos’è il movimento coatto facciamo un esempio. Pensiamo ad un autobus pieno di gente nel quale una grossa signora, pressata dalle persone che le stanno accanto, decida di scendere. Per farsi spazio e raggiungere l’uscita, comincia a spingere e a sgomitare tutti quelli che sono vicino a lei, trasmettendo loro il movimento (almeno fino a quando qualcuno non decidesse si abbatterla).
La vibrazione si trasmette normalmente allo stesso modo, cioè attraverso il sommovimento della materia che confina con la fonte e con il ricevente. Normalmente il mezzo di trasporto più comune è l’aria, che ci fa il piacere di spostarsi, portandoci il suono.
N.B. La trasmissione del suono – come vedremo più avanti - non è mai istantanea, anche se nella maggior parte dei casi abbiamo questa impressione. Infatti essa necessita di tempo per compiersi e questo tempo di trasmissione dipende dal tipo di materiale che compone il mezzo propagante. Più è denso il materiale, più sarà alta la velocità di trasmissione; meno è denso il corpo, più sarà lenta la propagazione. Questo avviene per una ragione molto semplice: se le molecole sono vicine (maggior densità), la vibrazione impiegherà poco tempo per passare dall’una all’altra; viceversa, se le particelle sono distanti (minore densità), la vibrazione impiegherà più tempo. La velocità di trasmissione dunque è proporzionale alla densità del mezzo propagante. L’aria, per esempio, trasporta la vibrazione ad una velocità di circa 340 metri al secondo - 1224 chilometri all’ora - mentre il ferro trasporta il suono a circa 18.000 km orari.
Ricezione
Il suono giunge al nostro orecchio, detto “organo ricevente”, che attraverso varie strutture interne svolge una triplice funzione: ricevere le vibrazioni, amplificarle e trasformarle in impulsi elettrici da inviare al cervello. Lo stimolo dunque nell’orecchio cambia natura: non è più di carattere cinetico, ma elettrico (e questo permette al nostro cervello di non dover vibrare ad ogni suono ricevuto).
La vibrazione viene “captata” dal padiglione auricolare e scorre lungo il canale uditivo giungendo al timpano. Al di là del timpano si trova una catena di tre ossicini (martello, incudine e staffa) che trasportano la vibrazione nella coclea, un canale a forma di chiocciola. All’interno della coclea è presente un liquido che comincia a muoversi all’arrivo della vibrazione. Il liquido mette in movimento delle piccole “ciglia” (Organo del Corti); esse trasformano la vibrazione in impulsi elettrici e attraverso il nervo acustico inviano al cervello i dati raccolti.
Valutazione
Si tratta evidentemente dell’azione conclusiva affidata al cervello nel quale la vibrazione fisica originaria, trasformata nelle varie fasi, arriva a diventare “sensazione”. Evidentemente ci avventuriamo nel campo misterioso e affascinante dalla psicoacustica: la sensazione è intimamente
legata alla inafferrabile singolarità dell’individuo ed è difficile affermare che i vari concetti usati con scontata disinvoltura (acuto, grave, forte, piano, chiaro, scuro...) corrispondano con esattezza a determinate sensazioni. Il cervello riesce a distinguere tre qualità principali del suono: l’altezza, l’intensità e il timbro.
Velocità di propagazione del suono
Per velocità si intende lo spazio che percorre una vibrazione sonora nell’arco di un secondo. La velocità di propagazione del suono nell’aria fu stabilita a Parigi nel 1738 e poi nel 1822 dai membri dell’Accademia delle Scienze e si venne alla conclusione che la velocità del suono (in questo caso nell’aria) aumenta con l’elevazione della temperatura. Alla temperatura di 0 gradi, la velocità di propagazione nell’aria è di 330 metri al secondo, ma
se la temperatura sale a 16 gradi, la velocità aumenta fino ad arrivare a 340 metri al secondo. Per quanto riguarda la velocità di propagazione nei liquidi, gli scienziati Colladon e Sturm, nell’esperimento operato sul lago di Ginevra, trovarono che nell’acqua, la trasmissione del suono avviene più velocemente che nell’aria. Altri esperimenti sui gas, dimostrarono invece che, quanto più la loro densità è maggiore, tanto più la velocità di propagazione risulta bassa. Nei solidi invece, la velocità di propagazione è maggiore che nell’aria, specie per i metalli. Occorre tenere ben presente che la temperatura di un corpo influisce notevolmente sulla sua struttura interna e quindi sulla densità, determinando velocità differenti. In altre parole, possiamo dire che uno stesso corpo trasmette la vibrazione a velocità differenti al variare della sua temperatura.
In conclusione affermiamo che la velocità del suono dipende dal grado di elasticità e densità del corpo, ed esse crescono o diminuiscono al variare della temperatura.
Riflessione del suono
Il fenomeno della riflessione si ha quando un’onda sonora incontra un ostacolo, urta contro di esso, rimbalza sul medesimo e retrocede formando due angoli: uno d’incidenza e l’altro riflesso. L’angolo di riflessione è sempre uguale a quello di incidenza ed è per questo
che possiamo calcolare con assoluta precisione la direzione che il raggio sonoro prenderà dopo la riflessione. Le onde che giungono dalla fonte sonora vengono dette “onde dirette”, mentre quelle generate dalla riflessione vengono dette “onde riflesse”. Dalla riflessione del suono derivano due effetti acustici molto particolari: il riverbero e l’eco.
Si parla di riverbero quando la riflessione genera un rafforzamento del suono simile ad una risonanza. Il riverbero è particolarmente apprezzabile
all’interno di una stanza. In questo caso, le onde dirette che arrivano al ricevente si sommano alle onde che si riflettono sulla parete, creando una sovrapposizione delle vibrazioni. L’eco invece è quel fenomeno di riflessione che si produce quando la distanza è tale da far sentire il riverbero nettamente staccato del suono emesso, creando una “ripetizione”. Questo avviene perché, a causa della notevole distanza, il tempo che impiega l’onda sonora ad “andare e tornare” è tale da farci percepire distintamente le onde dirette e quelle riflesse.
Ogni suono è caratterizzato da un certo numero di vibrazioni emesse
nell’unità di tempo che è il secondo. L’altezza del suono dipende precisamente dal numero delle vibrazioni al secondo, cioè dalla frequenza che si misura in Hertz. Tanto più numerose sono le vibrazioni, tanto più alta è la frequenza, tanto più acuto sarà il suono. Possiamo immaginare la vibrazione come un’onda: è la lunghezza dell’onda a determinarne il numero, quanto più l’onda è lunga tanto meno ce ne staranno in un secondo, tanto più bassa sarà la frequenza.
Nel primo caso siamo in presenza di un’onda di frequenza 9 Hertz (infatti sono presenti 9 oscillazioni nell’arco di un secondo), mentre nel secondo la frequenza sarà di 4 Hertz. Il suono più acuto fra i due presi in considerazione sarà il primo perché la sua frequenza è maggiore.
Il nostro orecchio ha dei limiti fisiologici naturali che non permettono di percepire suoni che oltrepassano certe frequenze: per questo motivo ai di sotto dei 16 Hertz l’orecchio umano non è in grado di sentire vibrazioni che pure esistono e che prendono il nome di infrasuoni. Parallelamente, la stessa cosa avviene al di sopra dei 20.000 Hertz, la zona degli ultrasuoni. I limiti della percezione uditiva sono molto diversi per le varie specie animali, che normalmente superano di molto verso l’acuto le possibilità umane (per questo motivo cani, gatti, uccelli sembrano reagire a impulsi acustici che a noi sfuggono).
Come abbiamo visto, in definitiva l’altezza del suono è determinata dalla lunghezza d’onda della vibrazione. Per trovare l’elemento che determina la seconda qualità del suono, l’intensità, occorre partire dalla semplice constatazione che un’ onda non possiede solo la dimensione orizzontale (la lunghezza, appunto), ma anche quella verticale: la sua ampiezza. È proprio l’ampiezza d’onda a incidere sull’intensità del suono. Quanto più l’oscillazione dell’onda è ampia, cioè quanto più vibra, tanto più il suono sarà intenso.
Dal punto di vista fisico l’intensità viene misurata in decibel (dB). Nella tabella che segue sono riportati alcuni livelli indicativi di dB.
Decibel |
Evento |
300 |
Krakatoa, Indonesia (1883) |
250 |
All'interno di un tornado |
180 |
Motore di un missile a 30 m |
150 |
Motore di un jet a 30 m |
140 |
Colpo di fucile a 1 m |
130 |
Soglia del dolore |
120 |
Concerto Rock; Discoteca |
110 |
Motosega a 1 metro |
100 |
Martello pneumatico a 2 m |
90 |
Camion pesante a 1 m |
80 |
Aspirapolvere a 1 m |
70 |
Traffico intenso a 5 m; radio ad alto volume |
60 |
Ufficio rumoroso, radio |
50 |
Ambiente domestico; teatro a 10 m |
40 |
Quartiere abitato di notte |
30 |
Sussurri a 5 m |
20 |
Respiro umano a 3 m |
16 |
Soglia dell'udibile |
0 |
Silenzio |
N.B. L’altezza della vibrazione dipende a sua volta dalla forza, dalla violenza con cui il corpo viene eccitato: un auto che si schianta ai 200 all’ ora produce una vibrazione e uno spostamento d’aria ben superiore alla signora che parcheggiando ai 7 km orari striscia ogni giorno la fiancata all’ingresso del garage.
Ecco un grafico riassuntivo delle due qualità dell’onda sonora finora affrontate:
Nella maggior parte dei casi, ciascun suono prodotto dalla voce o da strumenti musicali (eccetto qualche eccezione) è sempre accompagnato da vibrazioni aggiuntive, che il più delle volte sfuggono all’udito, ma che gli conferiscono un particolare “colore”, un particolare timbro. Il suono è dunque l’insieme di tante vibrazioni, di cui la più imponente (la più forte) viene chiamata suono “fondamentale” mentre lealtre (tutte più deboli, al punto che non riusciamo a distinguerle dal suono
principale) sono vibrazioni secondarie chiamate suoni armonici, o semplicemente armoniche.
I suoni armonici sono, dunque, suoni secondari emessi insieme al suono fondamentale e sono sempre più acuti e meno intensi rispetto ad esso.
Ecco la sequenza di suoni secondari che accompagnano il DO
Occorre precisare che i suoni armonici sono fissi, vale a dire che la loro sequenza rispetto ad un determinato suono (un DO) con uno strumento o con un altro sarà sempre la medesima.
Come mai allora un DO eseguito da un tenore è diverso da un DO eseguito da un corno?
Perché la forma del corno è evidentemente diversa dalla forma dell’uomo così come la materia del corno è evidentemente diversa dalla materia dell’uomo. La forma e la materia dello strumento infatti fanno “risuonare” alcuni armonici a discapito di altri, ne sottolineano alcuni e ne penalizzano altri. Ne deriva uno “spettro armonico” che risulta diverso per ciascuno strumento e per ciascuna voce. Guardiamo ad esempio lo spettro di un LA 440 Hz eseguito da un violino e quello dello stesso suono eseguito da un pianoforte
In sintesi: lo spettro degli armonici assume caratteristiche differenti a seconda della forma e della materia dello strumento che è in grado di far “risuonare” alcune armoniche meglio di altre. L’onda sonora risultante sarà la somma dell’onda fondamentale con le vibrazioni armoniche e avrà forme diverse a seconda dello strumento produttore (e quindi del timbro).
Anche con la nostra voce possiamo produrre “timbri” diversi, modificando la postura della gola e della bocca, oppure “sforzando” il suono per ottenere una voce più rock… È quello che accade quando, per divertirci, proviamo ad imitare la voce di un amico o di un personaggio famoso.
Cap. 8
Gli strumenti musicali
Gli strumenti musicali sono così numerosi e diversi fra loro che si è soliti suddividerli in categorie, in gruppi omogenei. Sono stati i tedeschi Curt Sachs e Erich Hornbostel, musicologo il primo e etnomusicologo il secondo, a raccogliere nelle famiglie che oggi conosciamo i più diversi strumenti musicali. Agli inizi del ‘900 essi operarono una classificazione basata sulla diversa materia vibrante che produce il suono.
Arrivarono ad ottenere quattro famiglie diverse di strumenti musicali: Cordofoni, Aerofoni, Membranofoni e Idiofoni.
Questa classificazione venne completata negli anni ’50, con l’aggiunta di una nuova categoria di strumenti che di lì a poco sarebbero entrati di diritto nella storia della musica occidentale: gli Elettrofoni.
Cordofoni
I Cordofoni (comunemente detti strumenti “a corda”) sono strumenti musicali che producono suono grazie alla vibrazione di corde tese tra due punti.
Gli strumenti cordofoni sono solitamente dotati di una cassa di
risonanza che ne amplifica il suono. Al loro interno i cordofoni si possono distinguere per il diverso meccanismo di produzione del suono. Esistono cordofoni “a pizzico”, come arpa, chitarra e clavicembalo; a “sfregamento”, come violino, viola, violoncello e contrabbasso; e “a percussione”, come pianoforte, clavicordo e cimbalom.
Aerofoni
Sono strumenti musicali che producono suono attraverso la messa in vibrazione dell'aria, direttamente indotta da una sollecitazione esterna (come la pressione del fiato o quella di un mantice…).
Al loro interno gli aerofoni si possono distinguere per il diverso meccanismo di produzione del suono. Esistono aerofoni “a imboccatura semplice” (flauto diritto, flauto traverso, ottavino, flauto di pan, ocarina), “ad ancia semplice” (clarinetto, sassofono), “ad ancia doppia” (oboe, corno inglese, fagotto, controfagotto), “a mantice” (organo, zampogna, cornamusa, fisarmonica), “a bocchino” (tromba, trombone, tuba, corno).
Idiofoni
Sono strumenti che producono suono grazie alla vibrazione del materiale stesso di cui sono fatti. Il tipo di suono prodotto può essere ad altezza determinata o indeterminata, a seconda degli strumenti.
Al loro interno gli idiofoni si possono distinguere per il diverso meccanismo di produzione del suono. Esistono idiofoni “a percussione” (legnetti, triangolo, nacchere, piatti, xilofono, glockenspiel), “a scotimento” (sonagli, maracas), “a raschiamento” (guiro), “a pizzico” (scacciapensieri), “a frizione” (armonica di bicchieri).
Membranofoni
Sono strumenti che producono suono grazie alla vibrazione di una membrana tesa.
Solitamente i membranofoni sono dotati di un risuonatore, o cassa di risonanza, che ha la funzione di amplificare il suono. Fanno parte di questa categoria il tamburo militare (o rullante), i timpani, il tamburello basco, i bongos, ecc…
Elettrofoni
Sono strumenti che producono o elaborano il suono grazie ad impulsi elettrici. Si possono suddividere in elettrofoni “a oscillatori” (sintetizzatore), “a generatori elettromagnetici” (organo hammond), “semielettronici” (chitarra elettrica, basso elettrico), “digitali” (campionatore,
sequencer).
Cap. 9
La Melodia
Si chiama “melodia” la dimensione orizzontale di un brano musicale; potremmo definirla come successione lineare di altezze e durate. Essa procede sempre un suono alla volta, un suono dopo l’altro, così come una linea procede punto dopo punto. Il passaggio da un suono a quello successivo si chiama “intervallo”.
L’intervallo è la differenza di altezza fra due suoni e può essere armonico o melodico. Nel primo caso i due suoni sono sincronici, cioè eseguiti simultaneamente, nel secondo invece sono diacronici, eseguiti uno dopo l’altro.
Ogni intervallo ha due caratteristiche che lo determinano: il numero
d’intervallo e il tipo d’intervallo.
Per calcolare il numero d’intervallo occorre partire dalla prima nota e contare fino alla seconda. Normalmente la prima nota nominata è quella più grave, quindi se chiedessi che intervallo è DO-FA occorrerebbe partire dal DO contando “uno” e si arriverebbe al FA sul numero quattro. Si tratta dunque di un intervallo di quarta. Per calcolare il numero d’intervallo quindi non si fa caso al numero di semitoni compresi, ma si fa riferimento esclusivamente ai nomi delle note: DO-RE è un intervallo di seconda come SI-DO. Per questa ragione, anche se risulta strano, mentre DO-DO# è un intervallo di prima, DO-REb (stessi suoni in gioco; REb l’enarmonico di DO#) è un intervallo di seconda.
DO-SOL = 5°
LA-SI = 2°
MI-SOL= 3°
DO-RE# = 2°
Come si può notare, sia DO-RE che DO-RE# sono intervalli di 2°. Questo ci dice che non basta il numero d’intervallo per specificare nel dettaglio e con precisione l’ampiezza della distanza fra i due suoni.
Occorre infatti specificare anche il tipo d’intervallo. Il tipo d’intervallo si calcola in relazione alla distanza in toni e semitoni presente fra i due suoni. Vediamo ora come calcolare gli intervalli di seconda.
INTERVALLI DI SECONDA
Quando un intervallo di seconda è di un tono intero siamo in presenza di una seconda maggiore; se invece la distanza fra i due suoni è di semitono, siamo in presenza di una seconda minore. Esistono però altre due possibilità. Se la distanza fra i due suoni è di 1,5 toni, l’intervallo sarà di seconda eccedente. Al contrario, quando la distanza risulta essere di 0 toni, si parla di seconda diminuita.
DO-RE = 2° da 1 tono = 2° Maggiore (M) DO-REb = 2° da 1 semitono = 2° minore (m)
DO-RE# = 2° da 1,5 toni = 2° eccedente (ecc.) DO-REbb = 2° da 0 toni = 2° diminuita (dim.)
INTERVALLI DI TERZA
Gli intervalli di terza si comportano in maniera analoga a quelli di seconda. Quando una terza è di 2 toni, sarà Maggiore; quando è di soli 1,5 toni si dice minore. Avremo una terza eccedente in presenza quando fra i due suoni vi sono 2,5 toni; la terza diminuita sarà invece quella da 1 tono.
DO-MI = 3° da 2 toni = 3° Maggiore
DO-Mib = 3° da 1,5 toni = 3° minore
DO-MI# = 3° da 2,5 toni = 3° eccedente
DO-Mibb = 3° da 1 tono =3° diminuita
INTERVALLI DI QUARTA
Gli intervalli di quarta non sono mai né maggiori né minori; essi, nella forma base si dicono “giusti”. Un intervallo di quarta si dice giusto quando contiene 2,5 toni. Non potendo parlare di maggiore e minore, al variare della distanza avremo subito un intervallo eccedente o diminuito. Quindi un intervallo di quarta è eccedente quando fra i due suoni vi sono 3 toni interi; un intervallo di quarta è diminuito quando fra i due suoni sono presenti “solo” 2 toni.
DO-FA = 4° da 2,5 toni = 4° Giusta
DO-FA# = 4° da 3 toni = 4° eccedente
DO-Fab = 4° da 2 toni = 4° diminuita
Tuttavia nel calcolo delle quarte possiamo agevolmente utilizzare una legge che semplifica notevolmente i passaggi. Sappiamo infatti che: in assenza di alterazioni, tutti gli intervalli di quarta si dicono giusti, tranne FA-SI che risulta eccedente.
Sulla base di questa semplice legge, quando un intervallo giusto viene allargato di un semitono, esso diventa eccedente (attenzione! Per allargare un intervallo posso seguire due direzioni: alzare di un semitono la nota acuta o abbassare di un semitono la nota grave). In pratica, se do-fa è una quarta giusta, do-fa# e do bem-fa sono due quarte eccedenti.
Quando un intervallo giusto viene ristretto diventa diminuito. Per questo
do#-fa e do-fa bem sono due quarte diminuite.
INTERVALLI DI QUINTA
Gli intervalli di quinta si comportano in tutto e per tutto come quelli di quarta. Senza stare a calcolare i toni e i semitoni, diremo perciò che: in assenza di alterazioni, tutti gli intervalli di quinta si dicono giusti, tranne SI-FA che risulta diminuito.
Anche qui, se aumento di un semitono la quinta giusta, otterrò una quinta eccedente; diversamente, se restringo una quinta giusta di un semitono, ottengo una quinta diminuita.
DO-SOL = 5° Giusta SOL-RE# = 5° eccedente LA-Mib = 5° diminuita
Possiamo ora sintetizzare quanto abbiamo detto finora sugli intervalli con una tabella:
-2 SEMITONI |
-1 SEMITONO |
NATURALE |
+1 SEMITONO |
|
Diminuito |
Giusto |
Eccedente |
Diminuito |
Minore |
Maggiore |
Eccedente |
Ecco dunque, riassumendo, le quattro regole auree per il conteggio dell’ampiezza di un intervallo:
Cap. 10
L’Armonia
Si chiama “armonia” la dimensione verticale di un brano musicale; potremmo definirla come il rapporto musicale simultaneo fra più voci (o melodie). I suoni, sovrapponendosi nel tempo, producono degli “insiemi” sonori, che vengono definiti “accordi”.
Triadi maggiori e minori
Un accordo è la sovrapposizione simultanea di almeno tre suoni e si costruisce partendo da un suono fondamentale (che dà il nome all’accordo) e sovrapponendo ad esso due suoni per intervalli di terza. Se l’accordo è composto di soli 3 suoni viene chiamato “triade”, mentre se è composto da 4 suoni viene chiamato “quadriade”. Le triadi principali che possiamo
incontrare sono la triade maggiore e la triade minore. Esse differiscono per la disposizione dei propri intervalli
interni. Infatti
entrambi sono costruiti con un suono fondamentale, la sua terza (il suono che sta ad un intervallo di terza) e la sua quinta (che sta
ad un intervallo di quinta giusta rispetto alla fondamentale e ad un intervallo di terza rispetto al secondo suono), ma se l’intervallo fra primo e secondo suono è di terza “maggiore” avremo una triade “maggiore”, se è di terza “minore” avremo una triade “minore”.
Triadi eccedenti e diminuite
Se alzo di un semitono la “quinta” di una triade maggiore, ottenendo un intervallo di 5° eccedente con il suono fondamentale ottengo una triade eccedente;
Se abbasso di un semitono la “quinta” di una triade minore, ottenendo un intervallo di 5° diminuita con il suono fondamentale ottengo una triade diminuita;
Quadriadi: l’Accordo di settima
L’accordo di settima è una quadriade, cioè un accordo di 4 suoni. Esso si forma aggiungendo un ulteriore suono a intervallo di 3° minore dalla 5°, quindi ad un intervallo di 7° minore rispetto al suono fondamentale.
I rivolti delle triadi
Finora abbiamo presentato gli accordi sempre in stato fondamentale, ossia con il suono fondamentale al basso, ma è possibile trovare ed utilizzare gli accordi anche “rivoltati”, cioè in una forma diversa da quella fondamentale.
Esistono due tipi di rivolto delle triadi: il primo e il secondo rivolto. Se troviamo al basso, al posto della fondamentale, la terza dell’accordo, saremo di fronte ad una triade in 1° rivolto; se al basso troviamo invece la 5° dell’accordo, saremo al cospetto di una triade in 2° rivolto.
Dunque una triade può presentarsi in 3 forme diverse:
Cap. 11
Le scale
Per comprendere il concetto di scala può essere utile partire da quello che il termine stesso ci suggerisce: una scala serve per passare da un piano ad un altro, da un’altezza ad un’altra, attraverso una serie di gradini. Allo stesso modo la scala musicale è il passaggio da una nota (un’altezza) alla sua ottava (doppio di vibrazioni) attraverso una serie di gradini, i gradi. Le scale possono procedere verso l’alto (scale ascendenti) o verso il basso (scale discendenti).
Se vengono utilizzati tutti i dodici gradi a disposizione (i dodici semitoni) ci troviamo di fronte ad una scala detta cromatica, generalmente utilizzata solo per ottenere effetti di scivolamento. Normalmente invece non tutti i suoni a disposizione vengo utilizzati: esistono vari tipi di scale che possono usare solo cinque suoni (pentatonica), sei (esatonali), scale che escludono dei suoni (scale difettive) e infine esiste la nostra scala, la scala diatonica, che utilizza solo sette dei dodici suoni a disposizione.
Scala Maggiore Naturale
La scala maggiore è la scala formata dalla naturale successione dei suoni di una ottava.
Questa scala maggiore prende il nome dal primo suono, il primo gradino: il do. È la scala di Do maggiore. essa è caratterizzata da una particolare successione di toni e semitoni che le conferisce quel carattere che ci risulta così familiare:
DO RE MI FA SOL LA SI DO’
Scale Maggiori Derivate
Sull’esempio della scala di do maggiore, esiste una scala maggiore costruita su qualsiasi altro suono dell’ottava. Tuttavia occorre fare molta attenzione perché è possibile ottenere una scala maggiore solo ricostruendo la stessa sequenza di toni e semitoni presente nella nostra scala “madre”, quella di Do maggiore.
Per questo dovremo “aggiustare” la successione naturale dei suoni servendoci delle alterazioni.
Gli unici intervalli da correggere rispetto alla successione di note naturali sono quelli tra VI e VII grado (mi – fa) e tra VII e VIII grado (fa – sol). Infatti naturalmente fra mi e fa abbiamo un semitono, mentre secondo la sequenza dovremmo avere un tono. Allora allarghiamo il nostro intervallo
alterando il fa, risolvendo così tutti i nostri problemi. Infatti con il fa# avremo sia il tono tra VI e VII grado, sia il semitono tra VII e VIII grado.
La scala di sol maggiore, quindi, utilizza quindi solo una alterazione: il fa#.
Cap. 12
Alterazioni in chiave e Tonalità
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, ciascuna scala necessita di particolari alterazioni per poter essere corretta. Per questa ragione, una volta che ho deciso quale scala utilizzare per un brano musicale, posso segnare le alterazioni proprie della scala direttamente dopo la chiave di inizio pentagramma.
Queste alterazioni vengono chiamate “alterazioni in chiave” e vanno ripetute ogni riga del pentagramma.
Le alterazioni in chiave hanno un ordine fisso di apparizione
I diesis in chiave procedono per quinte ascendenti: FA-DO-SOL-RE-LA- MI-SI. Come possiamo notare dalla figura però, vengono segnati nelle seguenti posizioni standard:
I bemolli in chiave procedono per quinte discendenti: SI-MI-LA-RE-SOL- DO-FA. Anche i bemolli hanno posizioni standard:
Quindi, se ho 3 diesis in chiave, essi saranno necessariamente il FA il DO e il SOL, mentre se ne ho 1, esso sarà necessariamente un FA. La stessa cosa vale per i bemolle.
L’ordine delle alterazioni è molto importante, perché un ordine diverso di apparizione darebbe vita a scale errate. Quindi l’unico modo per ottenere delle successioni funzionanti è quello di alterare i suoni con questo ordine, per non trovarmi ad utilizzare successioni irregolari e quindi inutilizzabili.
La tonalità di un brano dipende dalla scala che utilizzo ed è individuabile già dalle alterazioni in chiave.
Se utilizzo la scala di Do maggiore, sarò generalmente in tonalità di Do maggiore oppure della tonalità relativa minore (la scala minore che nella forma naturale utilizza gli stessi suoni della scala di do maggiore), cioè La minore. Ecco la tavola delle tonalità:
Può succedere tuttavia che un brano sia impostato su una tonalità diversa da quella presumibile osservando le alterazioni di chiave. In questo caso occorrerà fare attenzione alle alterazioni di passaggio e alla struttura armonica della composizione.
All’interno dello svolgimento di un brano musicale può accadere – in realtà è frequentissimo – che il compositore voglia cambiare tonalità in corso d’opera. Queste “migrazioni” vengono chiamate modulazioni. Ovviamente, la modulazione segue regole ben precise, che servono a raggiungere la nuova tonalità con “passaggi” il più possibili graduali. La modulazione dunque deve procedere per passaggi “giustificati”. Quando questo non avviene, chi ascolta percepisce una scollatura, uno “strappo” nel discorso musicale. Talvolta però il compositore può utilizzare una modulazione improvvisa proprio per ottenere questo effetto di “stacco”. Le modulazioni più semplici sono quelle che portano alle tonalità “vicine”. Sono così definite le tonalità del IV e V grado della scala di partenza, oppure la sua tonalità relativa minore. Se siamo in tonalità di Do maggiore, saranno “vicine” le tonalità di La minore (relativa minore), Fa maggiore (IV grado) e Sol maggiore (V grado); tutte le restanti tonalità sono definite “lontane”.
Fonte: http://www.liceomalpighi.it/didattica/pforlani/downloads/APPUNTI%20DI%20MUSICA%20-%20Libro%20di%20testo%20per%20le%20classi%20prime.pdf
Sito web da visitare: http://www.liceomalpighi.it
Autore del testo: SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO “M. MALPIGHI”
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