Christoph Willibald Gluck

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Christoph Willibald Gluck

Il riformatore dell'opera: Christoph Willibald Gluck
Christoph Willibald Gluck ha diritto alla fama soprattutto come colui che avviò la prima grande riforma nell'opera. In effetti è piú famoso come riformatore che come compositore. Scrisse una cinquantina di opere, ma solo una - Orfeo e Euridice - è rimasta sempre in repertorio, anche se ogni tanto vengono riprese l'Alceste e le due Ifigenie. Lavorando quasi esclusivamente per il teatro, Gluck non compose musica strumentale che valga la pena di ricordare. Pochissime, seppure, delle sue prime opere sono arrivate fuco a noi. Fu lento a maturare nella pienezza del suo talento. e solo a quarantotto anni compose l'Orfeo. Fino allora aveva scritto, senza insofferenze, una lunga serie di opere che seguivano le convenzioni stabilite. Niente avrebbe fatto pensare che ne era scontento, nessun segno, in esse, che con l'Orfeo sarebbe venuto qualcosa di cosí spettacolosamente e radicalmente nuovo.
Se non si fosse mai incontrato con un librettista che lo stimolasse, con ogni probabilità non avrebbe mai composto musica a livello di un Orfeo e non avrebbe riformato niente. Ranieri da Calzabigi (1714-1795) fu per Gluck ciò che Lorenzo da Ponte fu per Mozart. E i due poeti ebbero molte cose in comune. Furono entrambi avventurieri, viaggiatori. intriganti, politicanti e di pochissimi scrupoli. Furono entrambi drammaturghi ed entrambi profondi intenditori di teatro musicale. Entrambi arrivarono a Vienna nel momento piú opportuno. Calzabigi vi comparve nel 1761 e in realtà fu lui a suggerire la riforma a Gluck con il libretto di Orfeo e Euridice; e Gluck era abbastanza generoso per riconoscere in tutta la sua portata il contributo del collaboratore:
Se la mia musica ha avuto un certo successo, credo sia mio dovere riconoscere che ne vado debitore a lui, poiché fu lui che mi permise di sviluppare le risorse della mia arte ... Quale che sia il talento di un compositore, egli produrrà sempre e soltanto musica mediocre, se il poeta non risveglierà in lui quell'entusiasmo senza il quale i prodotti di ogni arte non possono che essere fiacchi e senza vita.
Fino al 1762, l'anno della prima esecuzione di Orfeo e Euridice, Gluck aveva ottenuto qualche successo, ma era considerato piú un buon professionista che quell'enfant terrible (di mezza età) che si rivelò poi. Nacque a Erasbach, nell'Alto Palatinato, il 2 luglio 1714. Il padre era ispettore forestale al servizio di grandi nobili, e la famiglia si spostava continuamente. Non si sa molto dell'infanzia di Gluck. Sembra che ricevesse una buona istruzione, e sapeva suonare il violino, il violoncello e il clavicembalo. È dimostrato che andò all'università, a Praga. A ventidue anni si recò a Vienna e poi a Milano, dove studiò con il famoso Giovanni Battista Sammartini (1701-1775). Si trattenne in Italia otto anni e qui compose la sua prima opera, Artaserse, nel 1741. Rappresentata nel dicembre di quell'anno a Milano ebbe successo, e fu seguita da una serie di opere oggi completamente dimenticate. Sono andate perdute perfino le partiture.
Come Haendel, Gluck fu cosmopolita. Andò a Parigi per un breve soggiorno e poi a Londra, nel 1745. A Londra compose, per l'Opera italiana, La caduta de' giganti e Artamene. Gli furono commissionate da lord Middlesex, e questo dimostra che godeva già di una certa fama. A Londra, inoltre, fece amicizia con Haendel, il quale, si dice, dichiarò che il proprio cuoco conosceva il contrappunto meglio di Gluck. Considerando che il cuoco di Haendel, Gustavus Waliz (o Walz), cantava come basso ed era un musicista preparato, può darsi che in quell'affermazione ci fosse del vero. Ma certo Gluck, con la preparazione che aveva, doveva essere in grado di affrontare le complicazioni di una fuga. Il fatto è che non si interessò mai in maniera particolare al contrappunto, che è altra cosa dall'affermare che non avrebbe saputo cavarsela. Dato che pensava in termini di omofonia (contrapposta al contrappunto), è diventato articolo di fede in certi ambienti parlare di una sua inferiorità tecnica. Cosí sir Donald Tovey, pur mettendo in evidenza la costante ispirazione di Gluck, tenne a dire che «la sua tecnica abituale era e rimase mediocre». Ed era vero, se la si misura col metro dello smisurato talento di un Bach o di un Haendel..Ma questo non aveva niente a vedere con quanto si proponeva Gluck. Può darsi che sapesse della battuta sarcastica di Haendel, e può darsi di no. Certo è che rimasero in buoni rapporti, e negli ultimi anni della sua vita Gluck tenne un ritratto di Haendel nella camera da letto. Lo mostrava ai visitatori dicendo: « Ecco il piú ispirato maestro della nostra arte. Quando apro gli occhi, al mattino, li poso su di lui con reverenza e devozione, e come tale lo riconosco ».
Le varie peregrinazioni portarono Gluck ad Amburgo, dove diresse una compagnia viaggiante dell'opera all'italiana che visitò, tra le altre città, Lipsia e Dresda. Nel 1749 era di nuovo a Vienna, e l'anno dopo sposava la figlia di un ricco mercante. Da quel momento in poi noti ebbe piú preoccupazioni finanziarie, e questo lo mise in una posizione di privilegio rispetto ai compositori del tempo. La sicurezza finanziaria fu senza dubbio alla base del suo spirito di indipendenza sempre piú accentuato - qualcuno la chiamava arroganza - e della sua ostinazione. È facile mandare all'inferno tutti quanti quando non bisogna preoccuparsi delle conseguenze. Gluck compose indefessamente e si fece anche una certa fama come direttore. Nel 1752 fu nominato Kapellimeister della corte imperiale di Vienna, e nel 1754 direttore dell'orchestra del principe Hildburghausen. Nel 1756 fu fatto cavaliere dal papa Benedetto XIV, dopo di che volle essere chiamato a tutti i costi Ritter von Gluck o, in Francia, Chevalier Gluck. In quegli anni compose una serie di opere ormai completamente dimenticate: portavano titoli come Ezio, Issipile, Le cinesi, La danza e Antigono.
Se fu dall'incontro con Calzabigi che scaturí la scintilla della sua riforma, bisogna anche dire che una esigenza di riforma era nell'aria. L'opera era diventata pura formula, consolidata da una parte dai libretti di Metastasio e pregiudicata dall'altra dalle stramberie dei cantanti. Pietro Metastasio (1698-1782) fu particolarmente famoso negli ambienti musicali per i suoi ventisette drammi per musica. Nella maggior parte li scrisse quando era poeta della corte imperiale a Vienna, carica che tenne dal 1730 al giorno della morte. Questi ventisette drammi furono musicati piú di mille volte dai compositori del diciottesimo secolo. Alcuni furono talmente apprezzati da essere messi in musica addirittura da settanta compositori diversi. Non c'è da stupirsi se il pubblico assisteva a un'opera nuova con una vaga sensazione di déjà vu. I libretti di Metastasio si basavano su vicende della mitologia e della storia antica, avevano numerosi personaggi e una trama molto accurata. Tovey li definisce ben costruiti e logici, « uno schema musicale molto razionale, secondo il quale si arriva a ogni situazione con un procedere naturale e scorrevole del dialogo e dell'azione, contrassegnato a ogni crisi dei sentimenti o a ogni possibile pausa di riposo da un quadro in cui il sentimento può essere espresso con un'aria e con pochi versi di pregnante poesia, tali che consentono di ripetere le parole in uno schema musicale con buoni effetti melodici ».
Tutto ciò può essere vero. Ma l'opera metastasiana, tutta l'opera italiana del tempo, anzi, era una successione di a solo e di duetti dominati da cantanti che vociavano incessantemente trilli. e gorgheggi improvvisati su qualche vocale. E i cantanti a quei tempi erano signori della creazione che spiegavano altezzosamente al compositore che cosa doveva fare e che non esitavano a modificare la musica per adattarla alla personalità e allo stile vocale loro. L'azione teatrale doveva interrompersi ogni tanto per dargli modo di avvicinarsi alle luci della ribalta e stupire il pubblico con le loro pirotecnie vocali. Dai compositori, poveri disgraziati, si levavano ogni tanto proteste e invocazioni alla riforma. Già nel 1720 il compositore italiano Benedetto Marcello nel Teatro alla moda fece la satira dell'opera all'italiana. In un brano sono illustrati i rapporti tra compositore e cantante: « Caminando il Compositore con Virtuosi, particolarmente CASTRATI, darà sempre loro la mano dritta, starà con cappello in mano, un passo indietro... Incalzerà e lenterà il tempo dell'Arie a genio de' VIRTUOSI, dissimulando qualunque loro indiscretezza, col riflesso che la propria Riputazione, Credito ed Interesse sta in le lor mani; che perciò gli cambierà, occorrendo, Arie, Recitativi, Diesis, Bmolli, Bquadri, ecc. ».
I tempi erano maturi per la riforma. Altri fattori si aggiungevano alle intrinseche assurdità dell'opera barocca. Il barocco veniva sostituito da un nuovo classicismo e si tendeva adesso alla semplicità e non all'elaboratezza dell'ornato. Nel 1760 i musicisti avevano completamente rotto con la complicata magnificenza barocca e scrivevano nello stile galante, uno stile semplice e melodico privo di contrappunto. Il pensiero dell'epoca era influenzato da Rousseau, che presentò il suo ideale della natura e della naturalezza nella Nouvelle Héloise (1760) e nell'Émile (1762). Johann Joachirn Winckelmann, in una famosa storia dell'arte greca (1764), reintrodusse l'ideale classico in Europa. Le sue conclusioni - la bellezza vuole che i particolari siano subordi nati al tutto, la vera arte consiste nell'armonia e nella armoniosa proporzione - influenzarono grandemente il pensiero estetico dell'illuminismo. Gluck, stimolato dai libretti di Calzabigi, fece per l'opera ciò che Winckelmann predicò per l'arte e Rousseau per l'uomo (Gluck, che ovviamente aveva letto Rousseau, parlava sempre di un ritorno alla natura nella sua musica, intendendo per natura non soltanto alberi o cieli ma la vita com'è realmente vissuta). Abbandonando l'opera barocca con i suoi abbellimenti, ornamenti e vocalizzi, si rivolse agli ideali classici di purezza, equilibrio, semplicità, addirittura austerità. Ma non fu sempre coerente nel suo pensiero. In venticinque anni, dopo l'Orfeo e Euridice, compose altre tredici opere. Di queste, solo sei erano opere « riformate » mentre le altre erano scritte nel vecchio stile barocco. Nondimeno fu lui a far mutare rotta all'opera, e le sue idee portarono a Wagner e oltre.
Come primo passo mise al loro posto i cantanti, e lo fece in due maniere. Una, insistendo perché rimanessero nel personaggio per tutta la durata dell'opera; l'altra modificando o abolendo l'aria col « da capo ». I cantanti non potevano piú improvvisare all'impazzata durante la ripresa della prima parte. Dovevano cantare cosí com'era scritto; e Gluck, collerico e imperioso, il direttore piú esigente dei tempi suoi, dirigeva personalmente le sue opere per assicurarsi che le cose andassero come voleva lui. Nelle sue opere riformate le arie sono molto piú brevi che nell'opera barocca, e il recitativo è notevolmente aumentato. Il recitativo è un parlato intensificato, di natura declamatoria, contrapposto all'aria cantata. È usato come espediente per favorire l'azione teatrale e la caratterizzazione, e fa da ponte tra le parti cantate dell'opera. Gluck eliminò quasi il vecchio « recitativo secco », in cui l'accompagnamento è ridotto a un accordo o due suonate dal cembalo. Usò invece il piú espressivo «recitativo accompagnato», dall'accompagnamento strumentale alquanto elaborato. Fece dell'ouverture una parte del dramma, si sforzò di rendere realistici i sentimenti e di sviluppare i personaggi, e cercò di ottenere una unità drammatica completa.
Tutto questo era nuovo nella teoria dell'opera. In una lettera al " Mercure de France, nel 1773, Gluck illustrò con chiarezza i suoi intendimenti: « L'imitazione della natura è il fine riconosciuto che ogni artista deve porsi. È ciò che anch'io mi sforzo di ottenere. Sempre semplice e naturale come posso farla, la mia musica tende alla massima espressività e cerca di rafforzare il senso della poesia. È per questo motivo che non mi servo di quei trilli, di quelle colorature e cadenze di cui gli italiani fanno uso cosí abbondante ». Ribadí il punto sul " Journal de Paris " nel 1777: « Ero convinto che le voci, gli strumenti, tutti i suoni e perfino i silenzi, [nella sua musica; dovessero avere un solo scopo, e precisamente quello dell'espressione, e che l'unione di musica e parole dovesse essere cosí intima da far apparire il libretto non meno fedelmente modellato sulla musica che la musica sul libretto ».
L'Orfeo e Euridice si attiene piú fedelmente di ogni altra opera di Gluck a questi ideali. I fili della trama sono chiari (addirittura senza neppure il minimo di azione, hanno deplorato alcuni studiosi), la poesia è semplice ma elevata, la musica è spoglia di ogni superfluità, perfino delle superfluità armoniche. Gluck fu poco dotato di inventiva come armonista, e usò timidamente modulazioni e cambiamenti di tonalità.
La versione originale dell'Orfeo, del 1762, era in italiano, e Orfeo era un contralto maschio. Era la sola cosa convenzionale dello spartito. I musicologi hanno sottolineato che mai, nella storia dell'opera, si ebbe un cosí drastico cambiamento di stile. In un primo momento l'Orfeo risultò troppo nuovo per il pubblico viennese, ma non ci volle molto perché si guadagnasse entusiastici ammiratori. La successiva opera riformata di Gluck fu l'Alceste, anche questa in italiano, del 1767. È nella prefazione all'Alceste che Gluck espose le sue teorie. Si tratta di uno dei piú famosi documenti della storia musicale, e merita di essere ricordato qui in una versione sostanzialmente completa:
Quando intrapresi a scrivere la musica dell'Alceste, risolsi di spogliarla interamente di tutti gli abusi che vi avevano introdotto la malintesa vanità dei cantanti o la troppo grande compiacenza dei compositori che per tanto tempo hanno sfigurato l'opera all'italiana e fatto del piú mirabile e bello degli spettacoli il piú ridicolo e noioso. Mi sono sforzato di restringere la musica al suo vero ufficio, che è quello di servire la poesia per l'espressione e di seguire le situazioni della trama, senza interrompere l'azione o soffocarla con una inutile superfluità di ornamenti; e ho creduto che questo si dovesse fare al modo in cui i vividi colori servono la pittura corretta e ordinata, con un contrasto bene assortito di luci e di ombre utile ad animare le figure senza alterarne i contorni. Perciò non voglio bloccare un attore nel pieno del dialogo per aspettare un noioso « ritornello », né farlo indugiare nel bel mezzo di una parola, su una vocale favorevole alla sua voce, né consentirgli di sfoggiare l'agilità della sua bella voce in un passaggio troppo tirato per le lunghe, né aspettare che l'orchestra gli dia tempo di riprendere fiato per una cadenza. Non ritengo mio dovere sorvolare alla svelta sulla seconda sezione di un'aria le cui parole potrebbero essere le piú appassionate e importanti, solo per ripetere regolarmente quattro volte quelle della prima parte, e finire l'aria dove il senso non vorrebbe solo per la comodità di un cantante che vuol dimostrare di saper variare a suo capriccio e in piú maniere un passaggio; insomma, ho cercato di abolire tutti quegli abusi contro cui hanno protestato invano il buon senso e la ragione.
Ho ritenuto che l'ouverture dovesse informare gli spettatori della natura dell'azione che si va a rappresentare e formarne, per cosí dire, l'argomento; che gli strumenti concertati dovessero essere introdotti proporzionatamente all'interesse e all'intensità delle parole, evitando l'aspro contrasto tra l'aria e il recitativo nel dialogo, per non interrompere irragionevolmente un periodo e non disturbare inutilmente la forza e il calore dell'azione.
Inoltre, ho creduto che ogni mia fatica dovesse essere rivolta alla ricerca di una bella semplicità, e ho evitato di fare mostra di difficoltà a spese della chiarezza; né ho giudicato desiderabile scoprire novità se questo non era naturalmente suggerito dalla situazione e dall'espressione; e non c'è norma che io non abbia ritenuto giusto mettere volontariamente da parte per amore dell'effetto desiderato.
Questi sono i miei principi. Per buona fortuna i miei progetti furono mirabilmente favoriti dal libretto, in cui il celebre autore, escogitando un nuovo disegno drammatico, alle fiorite descrizioni, ai paragoni innaturali, a una morale fredda e sentenziosa aveva sostituito un linguaggio sentito, passioni forti, situazioni interessanti e uno spettacolo infinitamente vario. Il successo dell'opera ha giustificato le mie massime, e il consenso universale di una città cosí illuminata ha reso chiaramente evidente che la semplicità, la verità e la naturalezza sono i grandi principi della bellezza in tutte le manifestazioni artistiche...

Dalla terza collaborazione Calzabigi-Gluck derivò nel 1770 l'opera Paride ed Elena. Poi Gluck si rivolse a Parigi, dove c'era grande curiosità per le sue opere. Nel 1774 fu rappresentata all'Opéra l'Ifigenia in Aulide. A Parigi ebbe il non trascurabile appoggio di Maria Antonietta. Era stata allieva di canto di Gluck a Vienna, e lui non esitava, all'occorrenza, a far cadere con disinvoltura il suo nome. Una volta, scontento di una prova dell'Ifigenia, disse a voce alta: « Andrò dalla regina e le dirò che è impossibile rappresentare la mia opera. Poi salirò in carrozza e me ne tornerò dritto a Vienna ». Riuscí a ottenere ciò che voleva, come sempre. L'Ifigenia fu seguita qualche mese dopo dalla versione francese dell'Orfeo, in cui un tenore sostituí il castrato. (Oggi si sente di solito la versione italiana originale, in cui un mezzo soprano o un contralto fanno la parte del contralto maschile.) Gluck tradusse in francese anche l'Alceste.
Gli anni parigini furono movimentati dalla rivalità con Niccolò Piccinni (1728-1800) un abile compositore italiano che arrivò a Parigi nel 1776. Piccinni si era subito conquistato un gruppo di seguaci che si sentivano molto piú a loro agio con le sue opere tradizionali che con la classica austerità di Gluck. Ci furono grandi polemiche, e Parigi si godette lo scontro non meno di quanto s'era goduta la Querelle des bouffons nei primi anni della seconda metà del secolo. Questa prima controversia aveva avuto anch'essa a che vedere con l'opera. Alcuni avevano sostenuto che la vecchia opera alla francese di Jean-Baptiste Lully (1632-1687) era il solo, logico indirizzo dell'opera francese; altri invece avevano affermato con uguale fervore che la salvezza poteva darla soltanto l'opera all'italiana. Rousseau si era dichiarato a favore di quest'ultima, dicendo che il francese non era una lingua musicale e che perciò l'opera alla francese non poteva che essere un'assurdità. I parigini non presero meno sul serio la polemica tra Gluck e Piccinni. Si racconta che quando due persone facevano conoscenza si domandassero come prima cosa: « Siete gluckista o piccinnista? ». Benjamin Franklin, che a quel tempo si trovava a Parigi come Commissario dei neonati Stati Uniti d'America, ascoltava sbalordito le due fazioni che, come scriveva:
discutono calorosamente dei meriti di due musicisti stranieri, uno cousin, l'altro moscheto; e in questa disputa sprecano il loro tempo, apparentemente indifferenti alla brevità del tempo, come se fossero sicuri di vivere ancora un mese. Popolo felice! pensavo io, tu vivi senza dubbio sotto un governo saggio, giusto e mire, poiché non hai torti pubblici di cui dolerti, né argomento da contendere se non delle perfezioni e delle imperfezioni della musica straniera!
Con tutto questo Gluck e Piccinni rimasero in buona, benché verso la fine dell'affaire si insinuasse nei loro rapporti una certa nota di asprezza. L'impressione generale era che fosse Gluck a riportar vittoria, specialmente dopo l'Armilla del 1777 e l'Ifigenia in Tauride del 1779. Alcuni osservatori, in ogni modo, tentarono di appianare con diplomazia le cose dicendo che Gluck era superiore nella tragedia e Piccinni nella commedia. L'ultima opera importante di Gluck fu Echo et Narcisse anch'essa presentata per la prima volta nel 1779. Nel 1781 ebbe un attacco apoplettico e trascorse i suoi ultimi anni a Vienna, dove tenne corte ma non compose più.
Gluck fu un uomo duro e dominatore, provvisto di un temperamento esplosivo e di un particolare talento per farsi strada. Nelle memorie di Johann Christoph voti Mannlich, pittore di corte a Parigi, si trova una buona descrizione del compositore. In un primo momento Mannlich ne era rimasto un po' deluso. « A vederlo, con la sua parrucca tonda e il grande mantello, non lo si prenderebbe mai per un importante personaggio e un genio creatore. » Gluck, ci dice Mannlich, era di statura leggermente superiore alla media (che a quei tempi significava essere alti sul metro e sessantacinque) « tarchiato, forte e muscoloso ma non corpulento. La testa era tonda, il volto rubicondo, largo e butterato dai vaiolo. Gli occhi erano piccoli e incavati ». (Il dottor Charles Burney concordava con questa descrizione e diceva che Gluck era « rozzo nella figura e nell'aspetto ».) Mannlich commenta anche la natura « eccitabile » e la pericolosa franchezza, tale da diventare sgarbatezza, del musicista. « Chiamava le cose con il loro nome e perciò, venti volte al giorno, offendeva le orecchie sensibili dei parigini, usi all'adulazione. » I francesi lo giudicavano molto scortese. « Era gran mangiatore e bevitore, » continua Mannlich. « Non negò mai di essere avido e amante del denaro e rivelava non poco egoismo, particolarmente a tavola, dove era abituato a reclamare le porzioni migliori. »
Non solo i parigini lo consideravano rozzo. Come direttore era il Toscanini del tempo, una specie di sergente irascibile, e i musicisti tremavano davanti a lui, quando non si rifiutavano di suonare nelle sue orchestre. Era un perfezionista capace di far ripetere un passaggio venti o trenta volte prima di dichiararsi soddisfatto. Tale era l'ostilità esistente tra lui e i suoi orchestrali, a Vienna, che piú di una volta dovette intervenire l'imperatore in persona. Si pettegolava che quando preparava un'opera nuova, Gluck era costretto a offrire paga doppia ai musicisti per indurli a suonare per lui. Dovette avere un orecchio straordinario, e la sciatteria con cui si suonava, generalmente, a quel tempo lo faceva impazzire di rabbia. Diceva che se gli davano venti livres per comporre un'opera, dovevano dargliene ventimila per provarla. Grazie a Mannlich, che assistette alle prove dell'Aulide, possiamo farci un'idea di quello che succedeva:
Andava su e giri come un pazzo. Ora erano i violini a sbagliare, ora gli strumenti a fiato che non sapevano esprimere al modo giusto le sue idee. Mentre dirigeva, si interrompeva di colpo cantando la parte con l'intonazione desiderata. Poi, dopo avere diretto per un poco, fermava gli orchestrali urlando con quanto fiato aveva: «Non vale nulla!». Con gli occhi della mente vedevo violini e altri strumenti scagliati contro la sua testa...
Ma benché detestasse la cosa, Gluck ci teneva a preparare personalmente le sue opere. Sapeva che cosa sarebbe successo se le avesse affidate ad altre mani. Cogne faceva osservare al duca di Braganza nella dedica dei Paride ed Elena « quanto più ci si sforza di ottenere la verità e la perfezione, tanto più sono necessarie precisione ed esattezza ». Solo il compositore, osservava giustamente, può ottenere il risultato voluto. « Non ci vuol niente a trasformare la mia aria " Che farò senza Euridice „ in un saltarello per burattini: basta un minimo cambiamento d'intonazione... Perciò la presenza del compositore quando si esegue questa musica è necessaria come la presenza del sole nelle opere della natura. Egli è la vita stessa, è l'anima della sua musica, e senza di lui tutto è confusione e oscurità. »
Con i cantanti era altrettanto brusco, e li accusava continuamente di strillare, di mancare di gusto e di abilità musicale. Gluck, insomma, cosí testardo, indipendente, privo di tatto, metteva a dura prova tutti. Diceva sempre le cose che non doveva dire. Considerandole retrospettivamente, possiamo dire che erano invece proprio quelle che era giusto dire. Fu molto avanti rispetto ai suoi tempi come fenomeno sociologico. Ma questo non rendeva piú facile, agli amici, la convivenza con lui. Una volta fu in vitato a Versailles dal re. Tornato a Parigi cenò da un duca. « Vi è piaciuta l'accoglienza del re? » volle sapere l'aristocratico. Gluck brontolò che immaginava doverne essere lusingato, ma aggiunse: « Se scrivo un'altra opera a Parigi, preferisco dedicarla all'esattore generale delle tasse, perché lui può darmi ducati invece di complimenti ». Costernazione tra gli ospiti del duca, che si affrettò a cambiare argomento. C'era qualcosa di beethoveniano nella natura di Gluck, ed egli pretendeva che le cose del mondo andassero come piaceva a lui. Cosí, trattando con l'Opéra, non chiedeva ma imponeva certe condizioni. « Devo avere almeno due mesi, dal mio arrivo a Parigi, per preparare i cantanti; esigo carta bianca per ordinare tutte le prove che ritengo necessarie: non voglio sostituti, e se un cantante si ammala bisogna tener pronta un'altra opera. Ecco le mie condizioni, senza le quali terrò l'Armida per il mio piacere. » Nessun altro compositore, in Europa, avrebbe potuto imporre diktat del genere.
Ai contemporanei non sfuggi che Gluck aveva rivoluzionato l'opera. Il dottor Burney, che gli fece visita nel 1772, osservò: «Il Chevalier Gluck semplifica la musica ... Fa tutto il possibile per tenerla casta e sobria». E altrove: «La sua invenzione non ha eguali, io credo, in nessun compositore vivente o scomparso, particolarmente nel quadro drammatico e negli effetti teatrali». Burnep era pieno d'ammirazione sconfinata per l'uomo non meno che per la sua musica, e al proposito ci ha tramandato un episodio delizioso. Una volta andò a trovare il «cavaliere » per salutarlo: « Erano quasi le undici quando arrivai eppure, da vero, grande genio, era ancora a letto».
Gli altri compositori gli invidiavano i suoi successi, e ne avevano anche un po' paura. Era un lottatore pericoloso. Leopold Mozart raccomandò al figlio di tenersi alla larga da Gluck. Le loro strade si incrociarono quando Mozart si recò a Parigi nel 1778. Tornarono a incontrarsi a Vienna, e Mozart lo definí un «grand'uomo». Quale fosse la posizione rispettiva dei due musicisti, a occhi ufficiali, lo dice il fatto che Gluck riceveva 2000 fiorini come compositore della Reale e Imperial Corte di Vienna. Quando Mozart gli successe, ebbe un'elemosina di 800 fiorini. Leopold Mozart, uomo eternamente sospettoso e pronto a vedere complotti dappertutto, si convinse che Gluck era geloso di Wolfgang e che si era messo alla testa di una cabala che si proponeva di impedire al figlio di farsi strada.
Su Mozart, Gluck, come musicista, ebbe un'influenza solo superficiale. La si nota principalmente nell'« opera seria » di Mozart, l'Idomeneo. Una volta ogni tanto, come nel lento del Quartetto in re maggiore per flauto, una melodia fa pensare a Gluck. Lo spirito gluckiano fu molto piú pronunciato nelle opere di Spontini, Cherubini e, fino a un certo punto, nel classicismo dei Troiani di Berlioz. Debussy notò quell'influenza nell'opera di Berlioz e scrisse che « ricordava Gluck, che egli amò svisceratamente ». Berlioz effettivamente venerava Gluck e da studente dedicò ore e ore a copiare e mandare a memoria le sue opere. « Il Giove del nostro Olimpo fu Gluck. All'Opéra, Berlioz fu come un cane da guardia pronto ad abbaiare appena i direttori ritoccavano un'opera del suo beniamino o si discostavano in qualunque modo dalla partitura. Dopo Berlioz, non si nota piú, si può dire, un'influenza diretta di Gluck sulla musica europea. La ricchezza di colori della musica romantica e il bianco classicismo di Gluck non potevano andar d'accordo. Gli studiosi moderni tendono a collocare Gluck piú alla fine che all'inizio di un periodo. È significativo il giudizio di Donald Grout, fila sua A Short History of Opera: «Gluck fu, come Haendel, piú alla fine che all'inizio di un'opera. Egli riassume il classicismo dell'opera seria come Haendel riassume quello dell'opera barocca». Ma c'è ancora qualcosa da dire di Gluck e della sua influenza. Egli indicò la strada per l'opera come dramma musicale, come sintesi totale in cui canto, testo, azione, danza e scenografia dovevano essere unificati in termini piú o meno eguali. In questo senso, è l'antenato spirituale di Richard Wagner.
Harold C. Schonberg (da I GRANDI MUSICISTI, traduzione di Vittorio Di Giuro, ed. Mondadori, 1972)

 

Fonte: http://www.resmusica.it/doc/Il%20riformatore%20dell'opera.doc

Sito web da visitare: http://www.resmusica.it

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