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STORIA DELLA MUSICA
SCHEDA 1
Ai primi del XVI secolo la musica praticata negli ambienti ecclesiastici e negli ambienti aristocratici europei pensata prevalentemente in termini di melodie sovrapposte, secondo procedimenti sedimentati e sviluppati da almeno quattro secoli con i termini polifonia o contrappunto; proprio per realizzare opere ben più complesse, a “strati”, la scrittura si era andata modificando: dalla notazione neumatica (VIII – XI secolo) in cui i segni grafici (neumi) indicavano soltanto l’andamento ascendente o discendente delle melodie senz’alcuna precisazione riguardo al ritmo, si passo gradatamente ad un sistema di notazione che permetteva di precisare sia l’altezza esatta delle note attraverso l’suo del tretragramma divenuto poi pentagramma (XII secolo ) sia attraverso la messa a punto di una notazione mensurale (XII-XIV sec) che permetteva di indicare la durata delle note e che prevedeva la distinzione fra modi perfecti (cioè ritmi ternari ) e modi imperfecti (cioè ritmi binari).
Lo stile polifonico cinquecentesco si può ricondurre ad alcuni principi fondamentali. Uno dei cambiamenti più vistosi rispetto all’epoca medievale consiste nella tendenza all'equiparazione delle diverse voci del complesso polifonico: alla sovrapposizione tipicamente medievale di melodie ben differenziate, individualmente caratterizzate e talora dotate di un testo verbale diverso, si sostituisce gradualmente una compagine tendenzialmente omogenea con forti caratteri di somiglianza fra le varie melodie. A tal fine si fece sistematico l’uso della tecnica dell’imitazione, procedimento consistente appunto dell’imitare con una diversa voce dell’ordito polifonico una melodia intonata poco prima da un’altra voce.
Un altro principio chiaramente emergente riguarda i rapporti fra consonanza e dissonanza. Nel Medioevo i musicisti distinsero chiaramente i due termini, ma li usarono con grande libertà e varietà. A partire dal XV secolo il problema conobbe invece una soluzione sistematica e semplice: quella del predominio della consonanza e della riduzione della dissonanza a una sorta di «accidente» da trattare con precauzione
Accanto ai generi praticati da tempo in ambito liturgico – la messa e il mottetto – il vero fenomeno caratterizzante della cultura italiana cinque-seicentesca fu costituito dall’enorme fortuna del madrigale.
Il termine cominciò ad essere utilizzato intorno al 1530 per indicare componimenti musicali su testi poetici, concepiti per lo più a quattro voci e caratterizzati, sin dall'inizio, da una
marcata volontà di tradurre in musica il significato delle parole. Nella sua forma-tipo il madrigale può essere in effetti definito come una composizione polifonica su un testo poetico relativamente breve (poteva essere ad esempio un sonetto): dal punto di vista formale la sua è una struttura durchkomponiert, cioè “aperta” , non strofica e priva di riprese o ritornelli, determinata in primis dal testo letterario che veniva musicato frase per frase ogni frase avendo un suo senso compiuto dall'inizio alla fine. L'effetto doveva essere quello di una sorta di “recitazione musicale” del testo poetico, massimamente fedele all'intonazione delle parole, al loro ritmo, al loro carattere espressivo, ma doveva anche in un certo senso «amplificare» quel testo, moltiplicarne le potenzialità letterarie implicite, se non altro perché il testo veniva
«recitato » da tutte le voci che partecipavano al canto. La continuità della recitazione era assicurata dal fatto che, tranne per effetti particolari (ad esempio interruzioni o pause volute) ogni frase veniva conclusa da una cadenza alla quale partecipavano solo alcune delle voci, mentre le altre contemporaneamente iniziavano a intonare la frase successiva. Ne derivava una sorta di forma a incastri a suture continue, che si concludeva solo alla fine della
«recitazione».
Nel sorgere di questo genere influì non poco il petrarchismo diffusissimo delle corti signorili italiane soprattutto grazie a Pietro Bembo e alle sue Prose della volgar lingua (1525): l’assunzione di Petrarca quale modello supremo della lirica portava con sé, oltre all’idea dell’esperienza d’amore come vicenda di perfezionamento spirituale e passaggio obbligato per cogliere il senso della bellezza e della bontà divina, la proposta di una poesia dotata di specifiche qualità musicali.
Verso l’ultimo ventennio del secolo, il madrigale venne ad incarnare più di ogni altra forma, le esigenze di sentimentalità e di espressione degli «affetti» che caratterizzavano il tardo rinascimento: un suo tratto distintivo divennero procedimenti di fono-simbolismo denominati “madrigalismi”, che miravano proprio a tradurre in musicalmente il significato di certe parole-chiave. I maggiori autori di madrigali in questo stile, affermatosi verso la fine del Cinquecento, furono Luca Marenzio, Gesualdo da Venosa e, nelle sue prime raccolte, Claudio Monteverdi.
Il primo ventennio del Seicento vede prolungarsi la straordinaria fortuna di questo genere e il suo accompagnare le tendenze del nuovo gusto, e le trasformazioni linguistiche: nascono così madrigali a una, due o più voci con l’accompagnamento di strumenti ( il cosiddetto “basso continuo”) i cui massimi esempi sono contenuti nelle ultime raccolte di Monteverdi, i libri VII e VIII: lo stesso Monteverdi chiamò questi suoi madrigali concertati, cioè pensati per voci e strumenti. Nell’Ottavo e ultimo libro monteverdiano troviamo esempio di un altro sottogenere: quello del madrigale rappresentativo, il cui testo prevede personaggi, dialoghi e un’azione immaginaria che si snoda attraverso l’intreccio polifonico. Gli autori più celebrati in questa ulteriore derivazione furono Orazio Vecchi e Adriano Banchieri.
Anche quest’ultimo sottogenere, malgrado la sua tendenza verso il grottesco e il caricaturale, rimaneva nell’alveo comune di fruizione che aveva caratterizzato tutta la produzione madrigalistica fin dall’origine. Grazie alla sua complessità e alla sua continua sottile aderenza al testo verbale, il madrigale infatti non era nato come musica da spettacolo, era piuttosto un tipo di composizione che si addiceva ad ambienti aristocratici: eseguito da poche persone che sedevano, «a tavolino», ognuno leggendo la propria parte sugli appositi libretti, il madrigale veniva eseguito per il piacere di chi cantava e di pochi eletti ascoltatori. E, quasi sempre i cantori erano più che professionisti della cappella, raffinati musicisti dilettanti che abbondavano nelle corti ma esistevano anche al di fuori di quelle negli ambienti del1'intellettualità borghese. Tant'è vero che non è infrequente trovare tracce di società culturali o «accademie » i cui membri si univano proprio per il piacere di queste esecuzioni musicali.
Tutto ciò spiega anche le fortune economiche dell'editoria che stampava quantità enormi di testi madrigaleschi scritti dai maestri italiani. In effetti il repertorio madrigalistico del Cinquecento e dei primi decenni del Seicento ci è stato tramandato quasi integralmente nelle edizioni a stampa. Se in precedenza la musica polifonica era stata copiata e fatta circolare attraverso eleganti e lussuosi codici realizzati a mano per qualche illustre personaggio, gran parte delle opere musicali cinquecentesche (soprattutto nella seconda metà del secolo) furono diffuse attraverso la stampa e nella forma dei libri-parte, cioè tanti fascicoli quante erano le parti vocali, comodamente utilizzabili dai singoli cantori e stampati in piccole dimensioni.
Carlo Gesualdo principe di Venosa ( Napoli, 1560-1613).
Sospirava il mio core, madrigale a 5 voci ( dal III libro, 1594)
Sospirava il mio core per uscir di dolore un sospir che dicea:
«L’anima spiro!». Quando la donna mia più d’un sospiro anch’ella sospirò
che parea dire:
«Non morir, non morire!»
Consumata fra Napoli e Ferrara, la vicenda artistica di Carlo Gesualdo principe di Venosa (Napoli, 1560 -1613) fu segnata da un dramma familiare ( l’uccisione della moglie sorpresa in flagrante adulterio), dalla frequentazione di Torquato Tasso e da un’indole inquieta e tormentata che si tradusse nello stile visionario dei suoi sei libri di madrigali a cinque voci. Sospirava il mio core, tratto dal terzo libro edito nel 1594, esemplifica il modo in cui a fine Cinquecento il madrigale riesce ad incarnare le inquietudini, le nuove esigenze espressive di un’epoca di crisi.
Il testo viene musicato frase per frase dall'inizio alla fine, senza riprese e senza ritornelli e la musica tende a rendere ancora più accesa la temperatura affettiva le testo. Il brano si apre con un evidente madrigalismo: una pausa che spezza la linea melodica iniziale (so - spirava) e che traduce in termini sonori immediati l’incipit del testo. Le voci si “inseguono” attraverso la tecnica dell’imitazione ritrovandosi in corrispondenza della parola “dolore”; procedono quindi omoritmicamente (cioè tutte con lo stesso ritmo) in corrispondenza del terzo verso (un sospir che dicea ), si separano nuovamente nel verso seguente, con cui si chiude la prima sezione musicale che corrisponde alla fine del primo periodo sintattico del testo. Nei tre versi seguenti le cinque voci si ricongiungono di nuovo, le loro linee marciano con lo stesso ritmo, per poi ancora separarsi negli ultimi due versi, ripetuti con urti dissonanti e con una linea ascensionale che culmina in corrispondenza del «non morir» con la nota più acuta di tutto il brano, da cui viene una forte sottolineatura dell’esclamazione conclusiva.
La forma a incastri e suture continue si conclude alla fine della «recitazione» all’insegna di una forte compenetrazione fra veste musicale e verso poetico, intesa sia come fedeltà alla scansione della parola sia come esaltazione del significato verbale. Nella sfida all’immaginazione sonora lanciata dal madrigale, nel suo proposito di illustrare a volte letteralmente il senso e le immagini racchiusi nella parola, sembra di scorgere l’ebbrezza di una musica che dà sfogo alla sua ansia di fondersi, di essere parte inscindibile ed essenziale della poesia e dell’arte del suo tempo» (Montecchi, 1998).
Lamento della ninfa (testo di Ottavio Rinuccini)
dal VIII libro di Madrigali guerrieri e amorosi, 1638
Ninfa Tre voci maschili
Non havea Febo ancora recato al mondo il dí, ch'una donzella fuora del proprio albergo uscí.
Sul pallidetto volto
scorgeasi il suo dolor, spesso gli venia sciolto un gran sospir dal cor.
Sí calpestando fiori errava hor qua, hor là, i suoi perduti amori cosí piangendo va:
«Amor .. dicea, il ciel
dov’è, dov'è la fè mirando, il piè fermo, ch'el traditor giurò?»
«Fa' che ritorni il mio amor com'ei pur fu,
Miserella
o tu m'ancidi, ch'io Miserella, ah più no, no,
non mi tormenti più.» tanto gel soffrir non può.
«Non vo' più ch'ei sospiri se non lontan da me,
no, no che i martiri Ah, miserella più non darammi affè.
Perché di lui mi struggo, Miserella ah più no, no tutt'orgoglioso sta,
che si, che si se'l fuggo
ancor mi pregherà? tanto gel soffrir non può Miserella
Se ciglio ha più sereno colei, che'l mio non è,
già non rinchiude in seno,
Amor, sí bella fè. Miserella ah più no, no tanto gel soffrir non può
Né mai sí dolci baci
da quella bocca havrai, Miserella ne più soavi, ah taci,
taci, che troppo il sa.»
Sí tra sdegnosi pianti spargea le voci al ciel; cosí ne' cori amanti mesce amor fiamma e gel.
Il Lamento della Ninfa appartiene ormai alla fase crepuscolare del madrigale, e la sua forma costituisce un archetipo della scena-lamento utilizzata nei melodrammi seicenteschi. Il madrigale d’altronde come genere era ormai avviato negli anni trenta del Seicento verso un irresistibile declino: l’Ottavo libro è in effetti l’ultimo fatto stampare da Monteverdi in un’epoca in cui egli era maestro di cappella della Basilica di San Marco a Venezia, pochi anni prima di comporre i suoi melodrammi per i teatri della Serenissima. L’intonazione del testo di Ottavio Rinuccini, dà luogo ad un madrigale concertato (voci più strumenti) sorretto da un accompagnamento strumentale su un basso ostinato, tecnica che deriva dalla musica per danza. Ma si tratta al tempo stesso di un madrigale rappresentativo, non più pensato per
dei fruitori che sono anche esecutori, ma per un pubblico che assiste all’esecuzione ma non vi prende parte. Per questo nella partitura Monteverdi fece precedere il testo da precise indicazioni esecutive:
Modo di rappresentare il presente canto. Le tre parti che cantano fuori del pianto de la ninfa si sono così separatamente poste [sono infatti stampate a parte ] perché si cantano al ritmo de la mano. Le altre tre parti che vanno commiserando in debole voce la Ninfa si sono poste in partitura, acciò seguitano il pianto di essa, qual va cantato a tempo del affetto del animo, e non a quello de la mano».
Le istruzioni volute da Monteverdi rimandano ad un atteggiamento già richiesto in altre opere precedenti : il compositore voleva insomma che non si seguisse la rigida scansione della battuta ma l'interiore «tempo del affetto del animo».
«Di questa banale canzonetta Monteverdi fece una scena canora di respiro tragico. L'idea (geniale) fu quella di estrapolare dal testo strofico rinucciniano il discorso diretto (in prima persona) della Ninfa dal discorso indiretto (in terza persona), di trattare l'uno come un lungo, lamentoso monologo (che ignora le leggi strofiche) affidato al soprano, l'altro come un
«coro» di tre voci maschili che sullo sfondo di un ideale palcoscenico sonoro, commiserano con interiezioni compassionevoli la disperazione della Ninfa abbandonata. [...] Un basso ostinato di un passacaglio (schema melodico-armonico fisso, quattro note discendenti La- Sol-Fa-Mi), si ripete impassibile per 34 volte: contro questo sfondo rigido, spoglio, rudimentale, il canto sinuoso, erratico, smarrito della Ninfa urta, collide, confrica, provoca dissonanze e durezze. […] L’efficacia del lamento della Ninfa fu enorme e immediata. Pubblicato un anno dopo l’apertura dei primi teatri d’opera a Venezia, esso fu la sorgente di decine di arie-lamento teatrali su basso continuo» . (Bianconi 1982)
Si noteranno anche qui, come in Gesualdo, alcuni evidenti madrigalismi che però hanno luogo solo nella parte polifonica, cioè quella delle tre voci maschili: nella seconda strofa la frase «scorgeasi il suo dolor» viene resa da un aspro urto dissonante e il successivo «gran sospir» è reso da una pausa inserita fra le due parole; nella quarta strofa invece la frase
«errava or qua or là» si traduce in voluto “sparpagliamento” delle tre voci maschili.
SCHEDA 2
Il melodramma ai suoi albori: L’Orfeo di Claudio Monteverdi
Il melodramma è una composizione teatrale in versi che, anziché essere semplicemente recitata, viene interamente cantata dagli attori-cantanti con l’accompagnamento di strumenti: come dice il suo nome, è appunto un dramma cantato ( dal greco melos “canto” e drama “azione”), in ciò distinto da ogni altra forma di teatro con musica sviluppatasi nella civiltà occidentale. Poiché si avvale di scenografie, e spesso, di azioni coreografiche, il melodramma può essere considerato una delle manifestazioni artistiche più complesse elaborate dalla cultura italiana. Frutto della collaborazione di un poeta che scrive il libretto, cioè il testo in versi della vicenda da rappresentare, e di un musicista, che riveste le parole di musica, esso è una creazione tipicamente italiana. Come forma teatrale e come genere letterario, infatti, il melodramma nacque in Italia alla fine del XVI secolo, e tra il Seicento e il Settecento conquistò strati sempre più vasti di pubblico.
Il primo melodramma a noi interamente pervenuto è l'Euridice, con musiche di Jacopo Peri e testo di Ottavio Rinuccini, rappresentato — per iniziativa e spese del ricco mecenate Jacopo Corsi — il 6 ottobre 1600 a Palazzo Pitti a Firenze, in occasione delle nozze di Enrico IV di Francia con Maria de’ Medici.
Contrariamente a quanto è stato spesso sostenuto in passato, il genere da cui nacque questa nuova forma artistica non fu la tragedia ma il dramma pastorale ( con i suoi modelli eletti costituiti dall’ Aminta di Tasso e dal Pastor fido di Guarini) che al quel tempo riscuoteva larghissimo successo e la cui ambientazione arcadica sembrava pienamente consona. Se i sottotitoli più utilizzati per le opere rappresentate nei primi decenni del Seicento sono «favola pastorale» o «favola boschereccia», i soggetti sono prevalentemente mitologici, ricavati in massima parte dalle Metamorfosi di Ovidio. Il difetto principale della nuova forma teatrale era la sua mancanza di naturalezza, e i soggetti pastorali giustificavano l’infrazione delle leggi della verosimiglianza, perché a divinità mitiche come Orfeo, Dafne, Flora poteva accordarsi l’idea di dialogare cantando: «la lontananza, spaziale o temporale o ideale, tempera l’inverosimiglianza del recitare cantando, anzi conferisce all’eloquenza di codesti personaggi una tanto maggior nobiltà e magnificenza» (Bianconi, 1982)
Lo stile di canto che caratterizzò le esperienze fiorentine viene di solito designato col termine di “recitar cantando”: si tratta di una sorta di declamazione musicale che non aveva ovviamente nulla a che fare con la musica greca, ma che aveva piuttosto legami con il tipo di melodia che caratterizzava il madrigale di quell’epoca.
Si trattava insomma di un canto che tendeva a “imitare” le inflessioni della recitazione, stilizzando musicalmente gli accenti e le durate delle sillabe, la direzione ascendente o discendente dell’intonazione e, nell’emissione vocale, il dosaggio dell’intensità e del timbro. Questo modo di cantare, che prese presto il nome di stile recitativo, veniva accompagnato da strumenti come clavicembalo, organo, liuto o chitarrone, viola da gamba o violone con la tecnica del basso continuo (v. più avanti)
La vocalità declamatoria dello stile recitativo veniva ritenuta la più efficace per esprimere gli “affetti” del testo poetico; per realizzare l’obiettivo di una melodia che «pigliasse forma di cosa mezzana» tra il parlare e il cantare il recitativo veniva sempre intonato sul ritmo libero dei versi sciolti. Nei primi melodrammi però il “recitar cantando” veniva di tanto in tanto interrotto da un certo numero di pezzi chiamati arie: si tratta di un tipo di canto che adattava le parole ad un metro musicale regolare con pulsazioni isocrone, uno stile vocale lineare, quasi sempre strofico, derivato dalla vocalità semplice delle villanelle o anche da forme di danza, e per il quale si impiegavano testi poetici strofici. Questi pezzi venivano impiegati per dare maggior spicco a certe situazioni sceniche, effusioni particolarmente patetiche o gioiose dei personaggi, prologhi, cori.
In questa prima fase della storia del melodramma un capitolo importante si svolse alla corte dei Gonzaga di Mantova, strettamente legata da rapporti diplomatici a quella fiorentina: qui nacque il melodramma più significativo di quel tempo, L’Orfeo, opera di colui che può ben dirsi il maggior compositore italiano del Seicento, Claudio Monteverdi (1567–1643). Rappresentato per la prima volta nel Palazzo Ducale di Mantova nel febbraio del 1607, L’Orfeo si ricollegava alle vicine esperienze fiorentine: l’autore del libretto Alessandro Striggio fu sicuramente a Firenze in quel fatidico 1600 e si ispirò evidentemente allo stile di Rinuccini. Il soggetto scelto fu d’altronde lo stesso delle prime rappresentazioni fiorentine: la storia di Orfeo, figlio di Apollo che con il suo canto riesce a commuovere gli dei infernali a farsi restituire la sua amata Euridice era considerata quanto di più appropriato per illustrare la potenza della nuova forma di spettacolo. L’Orfeo di Striggio-Monteverdi però, rispetto ai precedenti realizzati a Firenze, superava lo stadio teorico-sperimentale, offrendo per la prima volta la concreta rappresentazione musicale di situazioni drammatiche, attraverso la varietas delle forme e delle risorse: recitativi, arie (alcune di grande virtuosismo vocale), cori, “sinfonie” strumentali, episodi di danza, capaci di rendere differenziata ed efficace la rappresentazione scenica. Inoltre, per la prima volta nella storia dell’opera, Monteverdi indicò nella partitura a stampa gli strumenti da impiegarsi. L’organico rispondeva a precisi criteri drammaturgici: le scene pastorali connotate dalle sonorità giulive dei flauti e flautini, le scene infernali dai timbri cupi dei tromboni, viole da gamba, organo, i balli dai violini.
E’ da rilevare inoltre che L’Orfeo condivide con altre edizioni a stampa dei primi del Seicento dal punto di vista grafico alcune novità fondamentali. Prima di tutto le varie voci non sono più scritte separatamente, ma organizzate, oggi diremmo, in partitura, cioè disposte l’una sull’altra. Durante tutto il corso del XVI secolo la musica vocale veniva stampata a parti separate: se ad esempio si doveva pubblicare un madrigale a 5 voci, le cinque parti che lo costituivano venivano scritte in cinque libretti diversi, uno per ciascun cantore, a ogni cantore eseguiva la sua parte senza avere sott'occhio le parti degli altri. Questa prassi indica qual era, secondo il pensiero musicale dell'epoca, il modo di esecuzione ideale: polifonia pura affidata a sole voci. In realtà ciò corrisponde solo parzialmente alla pratica effettiva. Di fatto gli strumenti venivano costantemente usati nella musica cinquecentesca, e non unicamente da soli, ma anche assai spesso mischiati alle voci, come dimostrano i documenti musicali, letterari e iconografici (pitture o disegni).
Quando verso la fine del secolo si fecero i primi esperimenti di stile recitativo, esplicitamente e polemicamente antipolifonici, l’uso di sostenere il canto con strumenti d'accompagnamento divenne, in un certo senso, necessario, ma si inscrisse in una tradizione ormai lungamente sperimentata. Un’ulteriore novità caratterizza da questo punto di vista le partiture del primo Seicento: il basso continuo. Una pratica che fu inaugurata dalla pubblicazione (1602) dei Cento concerti ecclesiastici con il basso continuo per sonar nell'organo, di Lodovico Grossi da Viadana. Nella tradizione sacra esisteva in effetti da tempo l'uso di accompagnare le voci con l'organo durante il rito ma l’espressione «basso continuo» proposta da Viadana ebbe fortuna e rimase a indicare una prassi che per un secolo e mezzo caratterizzo tutta la musica europea, vocale, strumentale, sacra o profana. Le parti degli strumenti che accompagnavano (strumenti in grado di suonare accordi come clavicembalo, organo, liuto o chitarrone, e strumenti dalla tessitura grave come viola da gamba o violone) non venivano scritte integralmente, ma venivano indicate in modo semplificato, ossia con la sola parte melodica del basso, nel presupposto che i suonatori sapessero aggiungere da sé gli accordi necessari per sostenere la voce. A questo sistema grafico, che presuppone l'esistenza di una pratica improvvisativa già diffusa, alcuni testi aggiungevano un ulteriore artificio tecnico: l'indicazione abbreviata dell'accordo mediante numeri che dovevano facilitare l'improvvisazione e obbligare i diversi esecutori alla scelta di uno stesso accordo (basso numerato). Una prassi che sussiste nell’odierna musica leggera, dove ci si limita spesso a scrivere in lettere sopra o sotto la melodia la nota che costituisce il basso fondamentale e con un numero il tipo di accordo che l’armonizzazione richiede (ad esempio «Sol 7» indicherà l’accordo di sol maggiore con l’aggiunta di una settima) . Nell’esempio seguente riferito al brano dell’Orfeo di Monteverdi di parla più avanti, la parte del basso continuo è quella indicata con la freccia: si noteranno i numeri 3 e 4 apposti sull’ultima nota del rigo ad indicare appunto un accordo di terza seguito da un accordo di quarta.
L’Orfeo (1607)
Favola mitologica che riprende il mito di Orfeo, figlio di Apollo e della musa Calliope, che divenne espertissimo nell’arte del canto e nell’uso della lira. Orfeo sta per sposare Euridice e i pastori e le ninfe scendono dai monti per celebrare l’evento con canti e balli. Ma queste manifestazioni di gioia sono interrotte da un annuncio funesto: Euridice è morta, morsa da un serpente. Orfeo allora decide di scendere negli inferi e di commuovere le divinità infernali per far tornare in vita Euridice. Plutone si lascia convincere e consente che Euridice sia rilasciata ad Orfeo a condizione che questi la conduca fuori degli inferi senza guardarla. Con un canto di ringraziamento Orfeo si incammina verso il mondo dei vivi seguito dalla sua sposa; ma ben presto è assalito dal dubbio che Euridice non lo segua e quando sente un rumore misterioso , non può più vincere i suoi timori e si volta. A questo punto i due amanti vengono separati, e mentre Euridice scompare nelle tenebre, Orfeo viene misteriosamente spinto verso la luce. Nell’ultimo atto Orfeo vaga per i boschi piangendo la perdita della sua amata, ma Apollo discende dal cielo ed invita il figlio ad ascendere con lui al cielo: qui non solo potrà ammirare di nuovo le sembianze di Euridice ma potrà godere “diletto e pace”.
ATTO II -
Schema metrico : quattro quartine di ottonari ABBA CDDC EFFE GHHG
ORFEO
1
Vi ricorda o boschi ombrosi
De’ miei lunghi aspri tormenti Quando i sassi ai miei lamenti
2
Rispondean fatti pietosi
Dite, allor non vi sembrai Più d’ogni altro sconsolato ? Or fortuna ha stil cangiato
3
Et ha volto in festa i guai
Vissi già mesto e dolente Or gioisco, e quegli affanni Che sofferti ho per tant’anni
4
Fan più caro il ben presente.
Sol per te bella Euridice, Benedico il mio tormento;
5
Dopo il duol vie più contento,
1
Vi ricorda o bosch’ombrosi : vi ricordate, boschi ombrosi
2
Quando i sassi …fatti pietosi : quando persino i sassi, presi da pietà, facevano eco ai miei lamenti
3
Or fortuna … ha volto in festa i guai : adesso la fortuna ha cambiato corso e ha tramutato le pene in gioia
4
Or gioisco…il ben presente : ora gioisco, e quei tormenti che ho sofferto per tanti anni rendono più preziosa la felicità del
presente
Dopo il mal vieppiù felice
Poco dopo giunge una messaggera che dà a Orfeo il triste annuncio: Euridice è morta
Schema metrico: settenari e endecasillabi sciolti
MESSAGGIERA
1
Pastor, lasciate il canto, Ch’ogni nostra allegrezza in doglia è volta
ORFEO
D’onde vieni ? ove vai? Ninfa, che porti ?
MESSAGGIERA
A te ne vengo, Orfeo, Messaggiera infelice,
Di caso più infelice e più funesto: La tua bella Euridice…
ORFEO
Ohimè, che odo?
MESSAGGIERA
La tua diletta sposa è morta
ORFEO
Ohimé!
MESSAGGIERA
In un fiorito prato
Con l’altre sue compagne
2
Giva cogliendo fiori
Per farne una ghirlanda a le sue chiome
3
Quand’angue insidioso
Ch’era fra l’erbe ascoso
Le punse un pié con velenoso dente. Ed ecco immantinente
4
Scolorirsi il bel viso e nei suoi lumi
5
Sparir que’ lampi, ond’ella al sol fea scorno
Allor noi tutte sbigottite e meste
Le fummo intorno, richiamar tentando Gli spirti in lei smarriti
Con l’onda fresca e con possenti carmi, Ma nulla valse, ahi lassa,
Ch’ella i languidi lumi alquanto aprendo E te chiamando, Orfeo,
Dopo un grave sospiro
Spirò tra queste braccia; ed io rimasi Piena il cor di pietade e di spavento
5
duol : dolore
1
Allegrezza in doglia è volta : la nostra allegria si è tramutata in dolore
2
Giva : andava
3
angue : serpente
4
lumi: occhi
5
Sparir que’ lampi, ond’ella al sol fea scorno : sparire quella luce
che era un’offesa al sole
Il posto che Monteverdi occupa nella storia del melodramma è di importanza capitale, malgrado siano solo tre le opere appartenenti a questo genere che ci sono pervenute in forma completa. L’esperienza che il compositore cremonese fece in precedenza sul terreno del madrigale ( i cinque libri dati alla luce prima del 1605, altri tre fino al 1638), portò a progressiva definizione l’idea un linguaggio musicale in grado non solo di dare efficace espressione alle immagini verbali — conquista del madrigale già da lungo tempo — ma anche di graduare discorsi ed “affetti” in situazioni più ampie e complesse.
Dopo l’enorme successo della “prima” mantovana, L’Orfeo fu ripreso in altre città italiane attraverso varie rappresentazioni che ne decretarono la posizione di capolavoro capostipite del nuovissimo genere.
Monteverdi in effetti era ben più conscio dei suoi colleghi fiorentini che lo spettatore, per seguire un’azione teatrale, doveva cogliere con immediata chiarezza le caratteristiche principali dei personaggi e delle situazioni: perciò dopo aver presentato l’ambiente pastorale nel primo atto, All’inizio del secondo Atto introduce una grande aria di Orfeo su un testo strofico, Vi ricorda o boschi ombrosi, che ha la funzione di evidenziare i tratti fondamentali del protagonista, cantore e mitico creatore della musica, appartenente al mondo pastorale. Qui Orfeo canta la sua felicità ricordando i dolori e le lacrime del tempo in cui Euridice non corrispondeva il suo amore. Su quattro quartine di ottonari a rima incrociata, la melodia si ripete identica in ogni strofa, pur variando però le sue inflessioni espressive. Naturalmente in questo pezzo “chiuso” il rapporto testo-musica è molto più generico rispetto a quanto accade nei brani in stile recitativo. Emerge però il senso già moderno in cui vengono impiegati gli strumenti dell’orchestra, sia in unione col canto, sia nei ritornelli che intervallano le quattro strofe.
Il recitativo con cui poco dopo la Messaggera annuncia ad Orfeo la morte di Euridice (“Pastor, lasciate il canto”) costituisce una delle scene più drammatiche dell’opera e contiene un ampio ventaglio di effetti tipici attraverso i quali si mira a toccare la sensibilità emotiva lo spettatore: dall’uso di pause nei momenti più commoventi (Orfeo: Ohimé!) ai contrasti di ritmo tra parti con pronuncia veloce a cui seguono parti lente o viceversa ( Messaggera: Le punse un pié con velenoso dente. Ed ecco immantinente...); dall’uso di linee melodiche ascendenti, che raggiungono un culmine e poi ridiscendono (Messaggera: Ma nulla valse, ahi lassa), ai bruschi mutamenti di profilo, (Orfeo: D’onde vieni? ove vai?) fino alle ripetizioni che imitano il parlato di chi è preso da una grande scossa emotiva (Messaggera: E te chiamando, Orfeo).
I temi della mitologica antica e il mondo fiabesco dell’epica rinascimentale costituiscono i soggetti abituali delle tragédies Lyriques di Lully. Vi si celebrano le virtù dell’amore disinteressato, della fedeltà, del coraggio e della gloria, ideali cavallereschi proposti all’ammirazione della nobiltà francese. I temi scelti da Lully e Quinault sono «altrettante allegorie favolose di un sovrano divinizzato e idolatrato, di un nuovo Apollo che conduce una politica europea aggressiva ed è acclamato in patria come il pacificatore del mondo, come nuovo Pericle e Augusto. I prologhi sono espliciti al proposito. Decifrare nella trama delle tragédies lyriques di Quinault e Lully le allusioni intenzionali e preterintenzionali alla vita di corte di Versailles diventa un giuoco di società prediletto dall’aristocrazia e dagli intellettuali di Parigi» ( Bianconi 1982)
Jean-Baptiste Lully
Atys (1676)
Prologue
Schema metrico: alessandrini, ottonari e senari ABABCB CDEDE
LE TEMPS
En vain j’ay respecté la célebre memoire Des heros des siècles passes;
C’est en vain que leurs noms si fameux dans l’Histoire Du sort des noms communs ont été dispenses:
Nous voyons un Heros dont la brillante gloire Les a presque tous effaces
CHOIR DES HEURES
Ses justes loix, ses grands esploits Rendront sa memoire éternelle; Chaque jour, chaque istant
Ajoute encore à son nom éclatant Une gloire nouvelle
Nel caso di Atys, il cui libretto fu redatto da Quinault sulla base dell’episodio narrato nelle Metamorfosi di Ovidio, si narrano le vicende dell’amore contrastato del pastore frigio Ati, devoto alla dea Cibele alla quale ha fatto voto di castità, e di Sangaride, promessa sposa del re.
Il prologo di Atys si svolge nel palazzo del Tempo. Il dio appare in mezzo alle dodici ore del giorno e dalle dodici ore della notte e constata che la gloria di Luigi XIV supera quella degli eroi del passato, mentre dal dea Flora esalta l’inverno perché la primavera porta le campagne militari che allontanano il re.
La condotta melodica di questo brano mostra quanto sfumata sia, nella concezione di Lully, la distinzione tra fra recitativo ed aria, o meglio, per dirla alla francese, fra récit e air. Quest’ultima è melodicamente più rilevata ed in essa vi si trovano ripetizioni più o meno frequenti dei versi più significativi. Nel caso qui proposto il trapasso fra récit e air è reso più evidente nel passaggio di consegne tra la parte del Tempo – più statica e caratterizzata da un ritmo irregolare misto di misure binarie e ternarie che dipendono dal tempo della dizione dei versi ( soprattutto dei primi due ) — a quella del coro, in cui i versi vengono ripetuti varie volte, l’andamento melodico appare più lineare e il ritmo è più regolare. Lo stile di canto però in entrambi i casi è quasi esclusivamente sillabico, e non vi reperisce nessuna traccia dei vocalizzi e delle diminuzioni in uso nel melodramma italiano del tempo.
Tutto il resto dell’opera d’altronde mostra chiaramente quanto al confronto con l’opera italiana nella tragèdie lyrique di Lully fosse meno rilevante la funzione dei cantanti, ai quali vengono affidate parti piuttosto brevi, prevalentemente di carattere recitativo; al contrario numerosi sono gli ensembles e i cori, di grande varietà formale e timbrica.
Nell’opera vengono espunti tutti gli episodi secondari, trama e stile risultano molto omogenei e l’intensità drammatica sembra crescere lentamente da un atto all’altro senza che vi sia alcuna soluzione di continuità.
All’inizio del Seicento un notevole processo di trasformazione modificò lo strumentario medievale, facendo salire alla ribalta strumenti come l’organo, il clavicembalo e il liuto, strumenti polifonici, grazie ai quali la musica strumentale poteva riprodurre le tecniche in uso nella musica vocale da secoli. Intanto però si andarono perfezionando progressivamente gli strumenti ad arco da cui, sul finire del secolo, verranno sviluppi più consoni alla nuova sensibilità monodica, con la nascita del violino.
L’organo, strumento liturgico per eccellenza già dal Trecento, soprattutto nei paesi nordici ampliò notevolmente le sue possibilità grazie all’introduzione di più tastiere e all’estensione della pedaliera. Il clavicembalo, strumento diffuso nelle corti nobiliari piccole e grandi, di forma simile a quella di un pianoforte ma con le corde pizzicate anziché percosse, conobbe i maggiori centri di produzione in Italia e nelle Fiandre: gli strumenti italiani erano lunghi e leggeri, caratterizzati da sonorità limpide e squillanti; gli strumenti fiamminghi invece erano più pesanti e massicci con sonorità profonde nei bassi. Derivazioni “domestiche” del clavicembalo erano il virginale, in uso soprattutto in Inghilterra, e la spinetta. I liuti e le viole erano strumenti di comodo maneggio, dalle sonorità chiare e delicate, che si adattavano bene per accompagnare le voci o per adattarvi composizioni polifoniche vocali: nel Cinquecento ormai questi strumenti erano in uso praticamente presso tutte le classi sociali in grado di fare della musica sia tra le pareti domestiche sia in occasione di feste e banchetti.
Durante il Trecento e il Quattrocento gli strumenti furono largamente utilizzati in buona parte del repertorio vocale delle cappelle, ma con modalità e organici su cui abbiamo solo notizie molto approssimative. Anche dopo che la polifonia ebbe acquisito uno stile integralmente vocalistico, l'esecuzione, soprattutto della musica profana ma anche di quella liturgica, comportava abitualmente l'uso degli strumenti a supporto o in sostituzione delle voci, almeno quelle più gravi per le quali non casualmente veniva sovente omessa l'indicazione delle parole del testo. A confermare quanta parte la strumentalità svolgesse nella vita musicale di quei tempi e come la stessa nozione di stile a cappella racchiuda in realtà molte incognite circa la sua concreta realizzazione sono gli organici delle cappelle stesse, dove gli strumentisti sono spesso più numerosi e meglio pagati dei cantori. Tuttavia prima del Quattrocento assai rari furono i brani strumentali tramandati attraverso la scrittura, forse perché all'epoca quasi nessuno si preoccupò di sprecare tempo e pergamene per un genere musicale plebeo e basato su regole improvvisative che si tramandavano oralmente.
Solo nel Cinquecento, per gli effetti concatenati della diffusione della stampa, del notevole perfezionamento delle tecniche costruttive degli strumenti e del prestigio crescente di cui godeva l'abilità esecutiva, la musica strumentale sia solistica sia di gruppo si affermò su scala più vasta e in modi qualitativamente diversi, acquistando la dignità di genere artistico autonomo, dotato di competenze, repertori e stili sempre più svincolati dalla musica vocale. In effetti l'uso di strumenti o anche di musiche solo strumentali aveva sempre dovuto fare i conti con un modello ideale predominante secondo il quale la musica delle classi colte veniva primariamente immaginata per le voci. Che poi le voci di una polifonia potessero essere anche affidate a strumenti era questione di pratica quotidiana o di opportunità contingente; ma che esse venissero fondamentalmente pensate come «voci » nel senso di voci umane, è altrettanto certo. Solo in occasione di danze o musiche di accompagnamento per solennità rituali gli strumenti godevano di una funzione esplicita e di una indipendenza dichiarata.
Ma in musiche strumentali «pure» occorreva una sorta di architettura astratta che le organizzasse formalmente e ne giustificasse la forma. Queste “architetture” sonore seguirono dunque inizialmente due grandi modelli preesistenti: quello della danza e quello della polifonia vocale.
La grande abbondanza di fonti documentarie sulla pratica sociale del ballo e la relativa scarsità di testi musicali scritti, sono indizi sicuri del fatto che le musiche per il ballo, di diverso tipo a seconda dei vari ceti sociali, erano quasi sempre eseguite da complessi che le imparavano per tradizione orale. La comparsa di stampe musicali contenenti danze (particolarmente significative quelle pubblicate in Francia e nei Paesi Bassi dagli editori Attaingnant, Susato, Phalèse) indica come a poco a poco la moda dell'esecuzione di tali musiche si diffondesse anche tra le classi più elevate. Aldilà della rilevanza estetica che gran parte di queste raccolte avevano, l’importanza storica della musica per danza fra Cinquecento e Seicento è enorme perché da essa dipende in buona misura la nuova sensibilità che porta al passaggio dalla modalità alla tonalità. «La corporea fisicità dei movimenti coreografici genera per assimilazione una periodicità di movenze e gesti melodici, ritmici, armonici: quella forza di gravitazione che istituisce nessi tonali rudimentali ma tenaci tra i gradi basilari del tono (primo, quarto, quinto grado) ha una valenza accentuativa irresistibile, che si ripercuote sulla fraseologia melodica». (Bianconi, 1982)
Nel Cinquecento le danze, anche quelle effettivamente ballate, venivano spesso collegate in una successione che abbinava “bassa danza” e “alta danza”, cioè balli più statici e “passeggiati” con balli più dinamici e “saltati”. Così era per le coppie pavana-gagliarda o passamezzo-saltarello, rispettivamente in tempo binario e ternario. Se ne ha un esempio nel Passemezzo e Salterello Giorgio, (7 traccia 5) proveniente da una raccolta di danze fatte copiare in Inghilterra dal conte di Arundel al suo ritorno dall’Italia nel 1560: si tratta di balli eseguiti a Firenze durante le feste di Carnevale, con arrangiamenti che dimostrano uno
stile estemporaneo e risalgono probabilmente al terzo decennio del secolo. Il titolo fa riferimento ad una canzone popolare il cui motivo viene ripreso da entrambe le danze, col loro ritmo caratteristico che rimanda, rispettivamente, al tipo della “bassa danza” (cioè una danza più lenta e nella quale i piedi sono più vicini al terreno ) e all’“alta danza” ( una danza in cui sono presenti i salti): al ritmo binario e al tempo moderato del passamezzo si affianca il ritmo ternario e il tempo mosso del saltarello. In entrambi i casi troviamo un semplicissimo frammento, una successione accordale che viene riproposta numerose volte con leggere variazioni della linea melodica o con strumenti diversi. La strumentazione qui ricreata liberamente dagli interpreti utilizza in mescolanze omogenee le principali famiglie di strumenti utilizzate nel primo Cinquecento: a pizzico ( clavicembalo, spinetta, liuti, arpa), ad arco ( viole), a fiato (flauti, cromorni e cornetti ) e a percussione (tamburi).
Connessa con la danza, è un'altra forma musicale importante: quella della variazione. Anche qui siamo di fronte a una eredità parzialmente dovuta alla tradizione popolare, accolta e sviluppata in ambito colto. Non solo le musiche per danza prevedevano, come s'è detto, esecuzioni variate con aggiunte di tipo improvvisativo, ma spesso le stesse coppie pavana- gagliarda e simili si basavano sul principio della variazione, quando presentavano un'unica melodia che veniva eseguita prima in tempo binario e poi in tempo ternario, con gli opportuni adattamenti. Senza parlare di balli come la passacaglia e la ciaccona , basati sulla ripetizione quasi ossessiva di brevi schemi armonico-ritmici che si prestavano ad ogni sorta di ornamentazioni. Schemi di questo tipo vennero incorporati nella tradizione colta in cui l'uso di variazioni o partite (diferencias in spagnolo) si diffuse ampiamente. Se ne ha un esempio magnifico già nelle Cento Partite sopra passacagli di Girolamo Frescobaldi ( traccia 6)
La pratica consueta della esecuzione su strumenti di polifonie vocali, fornì la base di un altro percorso di sviluppo dei generi strumentali. Nella grande varietà di forme e generi, non ancora ben distinti da convenzioni diffuse e denominazioni precise cominciarono a emergere brani strumentali che traevano i propri statuti costitutivi proprio dalle forme vocali: il ricercare per strumenti a tastiera e soprattutto la canzona da sonar destinata «ad ogni sorta di strumenti». Il primo di questi due generi tendeva ad organizzarsi sullo schema del mottetto, strutturandosi per sezioni ciascuna introdotta da un ingresso delle voci in imitazione; la Canzone era di struttura analoga a quella del ricercare, ma di carattere diverso perché non legato ad austeri esempi di polifonia sacra bensì al più disinvolto genere profano della Chanson francese.
Un posto tutto particolare merita poi il genere musicale della toccata, che fra tutti i menzionati è quello che più si allontana dal modello della polifonia vocale e della danza, trovando soluzioni espressamente suggerite dallo strumento, e per questo definibile come un genere idiomatico. Inizialmente la toccata – la cui denominazione si riferisce all’idea di “toccare”, e dunque “assaggiare” le sonorità di uno strumento - è indirizzata al liuto, al cembalo o all’organo ed è costituita da una serie di accordi collegati fra loro da rapide figurazioni virtuosistiche, per lo più a scala. Verso la fine del Cinquecento soprattutto nei due libri (1598-1600) dell'organista veneziano Claudio Merulo (1533 - 1609) la toccata acquista ampie proporzioni e alterna episodi liberi e virtuosistici con altri polifonici di stile imitativo.
Nella prima metà del Seicento la musica per soli strumenti, forte della ricca esperienza dell'epoca precedente, conosce un lungo e fecondo periodo di sperimentazione e conclusione del quale si affermeranno in tutta Europa i solidi schemi formali della fuga, della sonata, del concerto, della suite, e di altri generi che sanciranno definitivamente la legittimazione della sua autonomia.
GIROLAMO FRESCOBALDI, Toccata IX dal I libro di Toccate (1615)
Canzon francese dal Primo libro delle Canzoni (1628)
Nelle opere di Girolamo Frescobaldi, la musica strumentale dimostra già un notevole grado di complessità con capolavori la cui fantasia inventiva supera quella di ogni altro e che peraltro si applica ad un’ampia varietà di generi. L’influenza di Frescobaldi fu duratura e di notevole portata, soprattutto nel campo della musica per tastiera: ai suoi esempi si ispirarono schiere di musicisti italiani e stranieri come Bernardo Pasquini, Jacob Froberger , Bach e Handel. Oltre ai due libri di Toccate (1615 e 1627), fantasie, ricercari, canzoni, capricci, variazioni, si presentano nelle numerose raccolte per organo e cembalo pubblicate dal compositore ferrarese, dal Primo libro delle Fantasie del 1608 alle Canzoni alla francese uscite postume nel 1645: tutti generi ampiamente noti alla tradizione cinquecentesca, ma tutti trattati con una capacità inventiva alla quale la musica del Cinquecento non era avvezza. Soprattutto dal madrigalismo maturo di Monteverdi e di Gesualdo sembra venire a Frescobaldi una sensibilità espressiva, un’estrema sottigliezza nella resa degli “affetti” che si realizza mediante arditezze linguistiche e sofisticate tecniche contrappuntistiche.
Nelle maggiori opere di Frescobaldi la varietas, principio poetico fondamentale dell’estetica barocca, si combina con una forte volontà discorsiva: la musica parla e canta al pari della musica vocale, come mai forse era accaduto; gli “affetti” che essa agita sono generici ma non meno intensi, configurando una vera “retorica” musicale. Nella prefazione alle Toccate per tastiera Frescobaldi dichiara di averle concepite in modo che «siano copiose di passi diversi et di affetti»; l’autore chiede che vengano eseguite con lo stesso atteggiamento «che veggiamo usarsi nei madrigali moderni», cioè assecondando «i loro affetti, o senso delle parole»; mutuando direttamente termini ed espressioni da quell'ambito madrigalistico e vocalistico. In un brano come la Toccata IX del primo libro di Toccate assistiamo ad un vero e proprio “discorso” musicale in cui possiamo senza fatica individuare exordium, expositio, confirmatio¸ conclusio, parti della dispositio secondo i principi della retorica classica tramandati da Cicerone e Quintiliano. La toccata ha in effetti un incipit esitante e introduttivo: è l’esordio di una conversazione fra più voci, rappresentate idealmente dai diversi registri della tastiera. La conversazione verte su due brevi temi:quello che si ascolta immediatamente nel registro acuto e la breve figura di tre note che viene subito dopo ripetuta in imitazione fra le varie voci.
A questa sezione - l’expositio - segue un dialogo alquanto più concitato tra le voci rappresentate dalle due mani nel quale la figura b) è ancora chiaramente percepibile (confirmatio); il dialogo si fa sempre più intenso per poi placarsi in un’ulteriore sezione più distesa e meditativa, destinata a far posto ad una parte conclusiva dove la dialettica cresce in concitazione man mano che si va verso la fine del brano.
In questa come in altre composizioni di Frescobaldi la polifonia imitativa si alterna con brillanti e fantasiosi passi virtuosistici in stile di toccata, con invenzioni melodiche memori delle tradizioni di canto del madrigale e della monodia. La varietas agisce anche nelle Canzoni da sonare dove Frescobaldi costruisce i suoi disegni formali alternando le varie sezioni secondo criteri di analogia o di contrasto e utilizzando caso per caso il principio della molteplicità dei termini oppure quello del monotematismo; ma i temi impiegati nel corso della composizione vengono raramente ripetuti uguali: a ogni ripresa Frescobaldi tende a elaborarli, a modificarli con continue e sottili varianti. Nelle Canzoni, destinate a vari strumenti, l’alternanza di passi con ritmi contrastanti, declina in altro modo il principio dell’ordine nella diversità, la barocca «concordia discors».
Qui l’articolazione è più netta che nelle Toccate, facendosi vera e propria divisione in sezioni, scandite da una alternanza tra andamenti veloci e andamenti lenti, ritmi binari e ritmi ternari. Questo principio, sviluppato gradualmente sarà destinato a diventare cardine di ogni struttura di ampio respiro nel campo della musica destinata ai soli strumenti. Nella Prima Canzone franzese tratta dal Primo libro delle Canzoni ad una, due, tre e quattro voci (1628), concepita per due parti - uno strumento melodico accompagnato dal basso continuo - la divisione in sezioni segue una logica di alternanza tra andamenti veloci e andamenti lenti, ritmi binari e ritmi ternari. Il discorso parte con una breve frase del basso che costituisce il “tema” di una vera e propria conversazione fra le due voci: il motivo iniziale infatti viene
variato e modificato ma resta sempre come nucleo di un dialogo basato sul principio dell’imitazione. La scrittura non è virtuosistica, ma evidentemente dialogica “affettuosa” (nel senso seicentesco di “espressione degli affetti”) improntata al principio fondamentale della varietas, come si può facilmente constatare dallo schema a cui essa è riconducibile
L’evoluzione della cultura strumentale italiana si accompagnò nel corso del Sei-Settecento ad un’intensa espansione dell’opera dei maestri liutai bolognesi e lombardi che condusse al perfezionamento definitivo degli strumenti ad arco destinati a soppiantare gli strumenti a fiato, ed in particolare il flauto dritto, nelle preferenze del pubblico italiano. Nell’ambito di questa famiglia strumentale il violino impose presto la sua supremazia secondo un processo parallelo a quello verificatosi nella musica vocale in cui le voci più alte ( soprani e castrati ) avevano assunto il maggiore risalto. Nel secondo Settecento le sonorità strumentali diventano così più costanti: mentre nelle composizioni del primo Seicento si usava contrapporre strumenti ad arco e a fiato, a pizzico e a tastiera, spesso mischiati ella voce in sontuosa varietà sonora, nelle convenzioni settecentesche prevalgono nettamente gli strumenti ad arco.
Gli archi – e il violino in particolare - furono in effetti i veri protagonisti, in questa fase della storia, dei due generi principali che contraddistinguono l’ambiente italiano, cioè la Sonata e il Concerto. Il termine “sonata” nel corso del XVI secolo veniva sovente impiegato per riferirsi a una composizione affidata a strumenti, in opposizione al termine “cantata” che invece era riferito a brani vocali. Nel corso del Seicento il termine venne precisandosi, sempre più spesso usato per brani strumentali destinati a pochi strumenti, in ciò dunque diversi dai “concerti” e dalle “sinfonie” destinati invece a gruppi più o meno ampi. Nella sua organizzazione la Sonata prese le mosse dalla Canzone da sonar, che pur nello stato fluido delle forme seicentesche, è rappresentata dal già citato esempio di Frescobaldi: un brano strumentale vivace nelle sue idee melodiche, diviso in sezioni, capace di utilizzare procedimenti imitativi ma anche ritmi di danza, abile nell'alternare temi o varianti tematiche.
Si tratta all’inizio di un modello comportamentale assai elastico, aperto a una grande quantità di variabili formali e stilistiche. Ma verso la metà del secolo questa possibilità di scelte tende a trovare una organizzazione più ordinata e compatta in coincidenza con la progressiva sostituzione del termine “canzone», con il termine Sonata che sancisce ormai il distacco dalle origini vocali. Il nuovo genere vedrà emergere alcune caratteristiche:
sonata da chiesa e sonata da camera.
nettamente definite, come atti di una pièce teatrale, quelli che si chiameranno da allora in poi
movimenti o tempi
La Sonata costituì il terreno su cui venne germogliando un ulteriore genere, quello del Concerto, soprattutto in relazione ad alcuni aspetti formali tipici: la strutturazione in più tempi, la diversa caratterizzazione degli adagi e degli allegri, l'utilizzazione di modelli di derivazione contrappuntistica e di danza. Il termine — che oggi viene comunemente usato per indicare l’esibizione pubblica di cantanti, strumentisti, orchestre ecc. — deriva dalla sua etimologia latina l’idea di “andare d’accordo” : si dice «andare di concerto» quando c’è appunto un’intesa. Inizialmente – nel Cinquecento — questa parola venne usata per brani intonati insieme da voci e strumenti. Poi nel corso del Seicento il termine venne a definire una composizione puramente strumentale affidata a un complesso relativamente ampio, nella quale ciascuna parte veniva eseguita da più strumentisti
Al processo di formazione dello stile del concerto contribuiscono centri musicali diversi, per lo più situati nel Nord Italia.
Dopo i decenni di sperimentazione e di assestamento, a fine secolo dalla scuola bolognese si staccò con forza un compositore destinato ad acquisire un’enorme fama presso i contemporanei: Arcangelo Corelli le cui opere portarono a compimento in maniera esemplare linee di tendenza comuni ai compositori dell'epoca. Tale esemplarità è dovuta a ragioni diverse: anzitutto egli, caso abbastanza singolare in quegli anni, non si dedicò forse mai ai generi allora predominanti della musica vocale; in secondo luogo egli costruì il suo linguaggio sulla base di un'accorta sintesi di esperienze diverse; infine non è da sottovalutare, nel quadro della «rappresentatività» corelliana, la stretta dimestichezza del musicista con la nobiltà e 1'intellettualità romana: con la regina Cristina di Svezia, brillantissima mecenate e promotrice di cenacoli culturali, con i cardinali musicofili Benedetto Pamphili e Pietro Ottoboni, con gli ambienti letterari dell’ Accademia dell'Arcadia attraverso i quali si stava imponendo in quegli anni un gusto razionalistico per l'ordine e la compostezza stilistica, in evidente reazione alla esuberanza barocca.
Su generi musicali rappresentativi di linee di tendenza diffuse, la Sonata e il Concerto, si applica il carattere di fondo dello stile corelliano che è il risultato di un'ormai secolare elaborazione di tre grandi modelli di architettura sonora: la polifonia vocale, la musica da ballo e il canto solistico. Il primo modello imprime alle sonate e ai concerti tardo-seicenteschi l’impronta dello stile imitativo che emerge particolarmente in certe parti della composizione (ad esempio agli inizi dei tempi allegri, soprattutto nei generi da chiesa) e attraverso il quale Corelli avvia un processo di semplificazione e purificazione della scrittura polifonica cinquecentesca; il secondo modello caratterizza esplicitamente alcuni dei tempi delle sonate e dei concerti che portano titoli di movimenti di danza, e - più in generale - conferisce alle composizioni brillantezza, vivacità e piacevolezza; il terzo modello innerva lo stile corelliano di specifici caratteri di espressività: la vocalità del melodramma, della cantata, dell'oratorio,
concepiva infatti la melodia come uno strumento di potenziamento delle emozioni implicite nella parola, secondo i principi della « teoria degli affetti ». Anche la musica strumentale (in particolar modo gli adagi, ma non solo) era impregnata di moduli melodici di derivazione vocale: progressioni, sincopi, dissonanze, pause, ampi salti, drammatizzavano il linguaggio conferendogli spesso una soma di implicita gestualità.
Un tratto particolarmente caratteristico dello stile di sonata e di concerto così come viene realizzato da Corelli (e che sancisce la sua fama) è costituito dalla semplice ma ormai chiarissima organizzazione della tonalità che viene affermata attraverso il gioco imitativo proteso al raggiungimento di punti tonali certi, la ripercussione ravvicinata di accordi di tonica, le progressioni armoniche ( ripetizione in senso ascendente o discendente di piccole frasi ), la razionale distinzione dei piani tonali, organizzati per lo più sul bilanciamento fra la tonalità d'impianto, su cui sono costruiti gli episodi iniziali e finali del movimento, e la tonalità della dominante, che compare di solito verso la metà del brano. Nelle composizioni in modo minore l'alternanza avviene più spesso fra la tonalità minore e la sua relativa maggiore. Altre tonalità secondarie possono essere toccate, ma i pilastri fondamentali, all'epoca di Corelli, sono ormai sempre chiaramente fissati. All'interno di questo semplice itinerario tonale si inseriscono i vari episodi, ciascuno delimitato da una cadenza. Il gioco dei temi gode di una certa fluidità e libertà: ad esempio, negli allegri la proposta melodica iniziale viene subito ripresa in imitazione dalle varie voci; da questa idea di partenza, o da certi suoi tratti, scaturiscono altre idee secondarie che anch'esse vengono riprese ed elaborate e costituiscono materiale per gli episodi che via via si susseguono nel brano.
Corelli, attivissimo ai suoi tempi come compositore e violinista, fu prudentissimo nel pubblicare le sue opere, che correggeva, limava e selezionava con attenzione prima di dare alle stampe. Il risultato di questa scrupolosa cura fu costituito dalle sole sei raccolte, che costituiscono tutto il corpus corelliano, ciascuna composta di 12 brani e definita da un numero d’opera progressivo (secondo l’uso invalso nel secondo Seicento che sarebbe rimasto in vigore nella musica strumentale fino al primo Novecento: le prime quattro (1681- 1694) contengono Sonate a tre, «da chiesa» (opera I e opera III, connotate da uno stile più contrappuntistico e da movimenti più solenni) e da camera (opera II e opera IV, connotate da uno stile tendenzialmente omofonico e da movimenti di danza ). L'opera V contiene Sonate per violino solo e basso continuo (sei da chiesa e sei da camera) pubblicate nel 1700.
Arcangelo Corelli, Sonata a tre op. III n.2 : Grave-Allegro
Nella terza raccolta data alle stampe da Corelli nel 1689, vengono riunite dodici Sonate da chiesa che presentano ad un massimo grado di esemplarità le caratteristiche di un genere del quale Corelli fu considerato in seguito il maestro per eccellenza. La seconda Sonata è articolata in quattro movimenti, secondo una successione tipica dello “stile da chiesa”: Grave
– Allegro –Adagio – Allegro. Il Grave iniziale ha funzione introduttiva, un exordium intenso e meditativo, dall’incedere lento con pause profonde e significative, nel quale le tre parti sembrano graduare la pulsazione sonora ( minime al primo violino, semiminime al secondo violino, crome al basso continuo). Secondo la prassi della sonata da chiesa il movimento seguente è il più complesso della composizione. L’eredità della “canzone da sonar” polifonica qui è massimamente percepibile. Le tre parti sono perfettamente equiparate e danno luogo ad un tessuto dialogico reso omogeneo dai rimandi ai nuclei tematici. All’inizio le tre parti espongono il tema entrando sfalsate, una dopo l’altra e ricorrendo alla tecnica dell’imitazione (il secondo violino risponde per moto contrario); tutto il gioco dialogico del brano è intessuto intorno a quanto propone il primo violino nelle prime tre misure: una breve sigla melodico-ritmica che rimbalza più volte fra le tre parti, trasposta e variata.
Il secondo esempio qui proposto è tratto invece dall’opera Quinta. «Il primo gennaio 1700, all’alba di un nuovo secolo, vedono la luce in Roma delle sonate che porranno la pietra tombale su quello stile che molto più tardi sarà definito”barocco”: Arcangelo Corelli (…) pubblica con una splendida e curatissima incisione in rame 12 sonate «a violino e violone o cimbalo» in cui la ricerca di essenzialità e senso delle proporzioni illustrano come meglio non si potrebbe i nuovi ideali estetici legati alla nascente Accademia dell’Arcadia. Rifuggendo dalle stravaganti asimmetrie, dalle bizzarrie e dai facili effetti a sorpresa che sovente si manifestavano nelle sonate a solo degli autori del XVII secolo, il musicista romagnolo riesce a proporre all’Europa un nuovo modello formale puro, equilibrato, ricco di distillata sostanza musicale» (Gatti 2004).
Nell’opera quinta Corelli si serve delle stesse tecniche e degli medesimi stilemi utilizzati nelle precedenti raccolte di Sonate a tre. Anche qui compare una distinzione fra stile “da chiesa” rappresentato dalle prime sei Sonate e “stile da camera” rappresentato dalle Sonate VI-XII; in queste ultime trovano spazio danze precedute da “Preludi” iniziali. Si tratta di danze che, naturalmente, sono lontanissime dalla pratica del ballo e che sono intese come «arie dal movimento regolato», cioè pretesti per la costruzione di forme musicali quadrate.
La giga, come tutte le danze della raccolta, si articola in due sezioni ripetute secondo lo schema AA/BB; tale articolazione lascia emergere in modo evidente un’organizzazione della tonalità di apollinea limpidezza: nella prima sezione il discorso segue una direttrice che dalla tonalità della tonica (LA) arriva alla tonalità della dominante (MI); nella seconda sezione dalla tonalità della dominante si ritorna alla tonalità della tonica, un ritorno che viene sottolineato dalla ripresa quasi identica dell’incipit. Ritroviamo qui sviluppati i principi strutturali già individuati nella Canzone franzese di Frescobaldi : l’idea di fondo è quella di un dialogo fra le “voci” del violino e del basso continuo, costruito su un semplice motivo di base. Ma rispetto all’esempio frescobaldiano in questo elegante movimento di danza domina una esemplare chiarezza discorsiva, una limpidezza e un gusto per le simmetrie che ci fa rammentare l’appartenenza di Corelli all’Arcadia. La chiarezza viene raggiunta attraverso il nitido gioco imitativo tra le due parti, la ripercussione ravvicinata delle note e degli accordi di tonica (cerchiata in rosso) e di dominante ( cerchiata in blu), .
Altro tratto tipico della scrittura di Corelli, che diverrà tipico di tutta quest’epoca è l’uso delle progressioni. Una tecnica comunissima che consiste nella ripetizione di un brevissimo frammento melodico, detto “modello” ripetuto su un grado della scala ascendente o discendente. Pur nella sua brevità la giga è attraversata da molte progressioni; ne troviamo un esempio semplice poco più avanti quando il violino presenta una figurazione che si ripete per cinque volte sul basso che parte dalla tonica (la) e scende di grado fino al do.
A principi simili si rifanno anche i Concert grossi raccolti nell’’opera VI (stampata postuma nel 1714 e che rappresenterebbe la tardiva selezione di brani di epoche precedenti nati in occasioni disparate). Rispetto alle Sonate, i Concerti corelliani appaiono più ampi e complessi, con movimenti maggiormente articolati: questa differenza si spiega soprattutto in
base alla dialettica tra il gruppo del Concertino ( costituito da due violini e violoncello ) e il gruppo del Concerto grosso ( che comprende un organico più ampio e indefinito ), gioco di ispessimenti e alleggerimenti, di “pieni” e di “vuoti” che sviluppa magistralmente il principio dialogico delle Sonate, fino a diventare per i posteri uno dei tratti “esemplari” della raccolta corelliana. ( 7 traccia 11)
Nel solco corelliano si collocò l’opera di Antonio Vivaldi che in incarnò i caratteri tipici dello “stile italiano” — chiarezza discorsiva, semplicità strutturale, immediatezza melodica
— con grande inventiva. Operista prolifico, autore di musica vocale sacra e profana, Antonio Vivaldi si è visto assegnare dalla storia il ruolo, non del tutto esatto, di “inventore” del concerto solistico, genere che si affiancò al concerto grosso, per poi sostituirlo intorno alla metà del Settecento. Nonostante questo genere offra solo un'immagine parziale della sua opera e del suo armamentario stilistico, esso ha monopolizzato l'attenzione del pubblico e degli studiosi; dal punto di vista storico questa preminenza quasi assoluta è giustificata almeno in parte dal fatto che negli altri generi il suo apporto ai gusti dell'epoca fu di gran lunga minore.
Ordinato sacerdote nel 1703, Vivaldi fu presto dispensato dal celebrare messa per le sue cattive condizioni di salute; entrò allora come insegnante di violino nel Ospedale della Pietà dove rimase fino al 1740. Era questo uno dei quattro istituti veneziani dove, a somiglianza dei conservatori napoletani, trovavano assistenza gratuita orfani, illegittimi e malati. In quel conservatorio, esclusivamente femminile, era famosa l’attività musicale delle
«putte», che si esibivano le domeniche e i giorni festivi, nascoste alla vista del pubblico da una fitta grata: per esse Vivaldi compose la maggior parte delle sue musiche sacre, delle sue cantate e soprattutto dei suoi concerti, ai quali fu più legata la sua fama. Il catalogo dei concerti vivaldiani conta circa 500 numeri, quasi la metà dei quali per violino solo; soltanto
84 furono pubblicati vivente l’autore in raccolte edite ad Amsterdam, le più diffuse e conosciute raccolte furono l’Estro armonico op.3, pubblicata nel 1711 e Il cimento dell’armonia e dell’invenzione op.8, edita nel 1725. Dunque poco più dell’'80% dei concerti di Vivaldi rimasero manoscritti; la fama del compositore però venne, oltre che dalle stampe olandesi, proprio dai concerti tenuti con cadenza settimanale all'Ospedale della Pietà che attraevano spesso un pubblico internazionale ( occorre ricordare che Venezia era una delle mete d’obbligo del Grand Tour )
Lo schema architettonico del concerto vivaldiano è pressoché fisso: solo tre movimenti, secondo la successione tempo veloce - tempo lento - tempo veloce, che si svolgono mediamente nel breve arco di una decina di minuti. Il tempo lento – affidato al solista spesso col solo supporto del basso continuo – si ispira alla tenera cantabilità di un'aria; i tempi veloci invece adottano ed elaborano quella forma «a ritornello» già riscontrabile in Torelli e Albinoni. Affidato al «tutti» il ritornello è la riproposizione intera o parziale dell'idea esposta in apertura, lungo un percorso che tocca tonalità diverse per ritornare infine a quella di partenza. Quattro, cinque o più ritornelli incorniciano saldamente i brillanti episodi del solista spalleggiato dal basso continuo o da interventi degli archi, in un dualismo che viene sottolineato affidando al «solo» una materia melodica autonoma rispetto al «tutti»: una struttura chiara, semplice, immediatamente percepibile.
La struttura dunque semplifica ulteriormente il modello corelliano ed entro questo solido contenitore, capace di ospitare varianti pressoché inesauribili, Vivaldi costruisce il suo stile più conosciuto. In primo piano c'è quell'incedere ritmico così caratteristico e trascinante, la cui scansione quasi inesorabile esalta un tratto che era già tipico e rinomato della musica italiana. Ma Vivaldi punta soprattutto sul protagonismo del solista, cui sono affidate figurazioni melodiche ricche di una fantasia e bizzarria talvolta imprevedibili, passaggi dal virtuosismo funambolico dove ricorrono tutte le risorse disponibili della tecnica violinistica di allora. Sul piano della costruzione musicale lo stile di Vivaldi utilizza, semplificandolo, il linguaggio corelliano con moduli ricorrenti – progressioni, iterazioni ostinate, armonie statiche, omofonia, unisoni – che contribuiscono a rendere inconfondibile il suo profilo e sono visibilmente indirizzati al fine primario dell'immediatezza discorsiva ed espressiva. Bisogna poi sottolineare uno spiccato gusto per la ricerca timbrica e l’invenzione di sonorità nuove, con accenti, ribattuti, tremoli, effetti vuoto-pieno, dinamiche accentuate.
Semplicità e chiarezza formale, grande inventiva melodica, marcato gusto per la ricerca timbrica, invenzione di sonorità nuove: le doti che rendono celebre Vivaldi in Europa si manifestano in pieno nella sua opera ottava intitolata Il cimento dell’armonia e dell’invenzione: una raccolta che si apre con i quattro Concerti delle Stagioni, preceduti da sonetti esplicativi, probabilmente redatti dallo stesso Vivaldi, in cui lettere in maiuscolo segnalano gli effetti o gli eventi che la musica riproduce. Qui la materia sonora è organizzata secondo la struttura tipica che si è descritta — con i movimenti veloci ancorati alla regolare alternanza di ritornelli orchestrali e di episodi solistici e i movimenti lenti basati sullo schema dell’aria — ma in essa agiscono in modo determinante i criteri descrittivi che conducono Vivaldi ad una libertà espressiva inaudita, proprio attraverso la ricostruzione di atmosfere naturalistiche e di effetti bizzarri e coloriti.
Ad esempio nel movimento centrale del concerto n. 4, l’Inverno, la descrizione della pioggia porta ad un’organizzazione sonora a tre strati: il canto disteso del solista, gli arpeggi pizzicati dei violini che rimandano all’immagine della pioggia che batte sui tetti e le figurazioni nervose dei bassi che rimandano al crepitio del fuoco. Nel primo movimento invece la descrizione dell’ambiente viene realizzata con semplici ma efficaci “gesti” musicali”: gli accenti marcati dati dai trilli nel primo “tutti” rendono l’”agghiacciato tremar”; rapide figurazioni del violino introducono “l’orrido vento”; quindi il ritornello successivo con le sue
note ribattute in velocità dà il senso del “correr battendo i piedi”; un’ulteriore invenzione timbrica consistente nel rapidissimo “tremolo” affidato all’ultimo episodio solistico ha il ruolo di rappresentare il verso “e pel soverchio gel battere i denti”.
Concerto op.8 (“Il cimento dell’armonia e dell’invenzione”) n.4 “L’inverno”
( Le lettere si riferiscono al Sonetto riprodotto nella pagina seguente )
I, Allegro non molto |
A |
[00] |
“Orrido vento” ( Episodio solistico: veloci arpeggi) |
B C
D |
[0’36] |
Ritornello ( Tutti) |
|
[2’57] |
II Largo
|
E |
|
la musica per clavicembalo di François Couperin
Innumerevoli specie di danze e successioni di danze si praticarono in tutta Europa nel corso del Cinquecento. Le sequenze di due danze determinarono gradualmente l’abitudine di raggruppare i balli in una successione più ampia detta Suite (che in francese significa appunto «successione»). Le danze più utilizzate erano : l’Allemanda, in tempo moderato e ritmo binario; la Corrente di movimento vivace e ritmo ternario; la Sarabanda, danza lenta di origine spagnola, in ritmo ternario; il Minuetto, danza elegante in ritmo ternario; la Giga, danza rapida di origine inglese, spesso posizionata alla fine della Suite. La diffusione di questo genere si sviluppa nel corso del Seicento lungo una direttrice nella quale il rapporto con la danza non esiste ormai quasi più e si può parlare ormai di “danze non danzate”.
'
Latteggiamento consueto del virtuoso strumentale che adibisce i modelli metrici, armonici e melodici
delle musiche da ballo ad un uso esclusivamente sonoro e cameristico (e non coreico) inclina volentieri verso l'elaborazione artificiosa, la dissimulazione sottile del modello, la sua sublimazione nel giuoco delle figure e dei passaggi idiomatici: il musicista si impossessa della musica da ballo e, riproducendola sul suo strumento, tende a denaturarla, a farne il mero oggetto d'un trattamento esecutivo e compositivo al quale consegna l'interesse artistico del brano; complicandola o raffinandola, egli ne attutisce la fisionomia originaria. Il processo è spinto all'estremo nelle suites di danze dei cembalisti francesi di fine secolo, ma a metà secolo le suites d'un allievo di Frescobaldi, Johann Jacob Froberger, ne prefigurano l'ordito dipanato in arpeggi diffusi: il movimento di danza è stilizzato in un gesto melodico e sonoro soffuso ed evocativo, immagine remota della corporea mobilità di danze come l'allemanda, la corrente, la sarabanda, la giga, che a metà Seicento hanno dimesso ormai da almeno un paio di generazioni ogni comportamento danzereccio (Bianconi 1979 )
Fu in Francia che queste “danze non danzate” divennero presto una componente essenziale della musica strumentale destinata al consumo aristocratico e borghese. Anche in questo caso l’impronta di Luigi XIV, si impresse direttamente e indirettamente anche sul piano della musica strumentale; la marcata predilezione del “Re sole” per la danza produsse l’effetto di catalizzare l’interesse e la fantasia dei compositori per questo genere di musica estendendone notevolmente l’uso e la portata. diede forme e caratteri nuovi alla musica per danza. Danze già conosciute ma poco usate come l’Allemande, la Gavotte e la Gigue divennero di gran moda, altre danze come la Corrente, la Sarabande, la Bourrée cambiarono i propri connotati “francesizzandosi” per merito principalmente di Lulli al quale spettò anche l’invenzione di una nuova forma, destinata ad un successo secolare, come il Minuetto.
In Francia un altro aspetto importante riguardava l'eredità della musica per liuto e il suo innesto nella nuova produzione per clavicembalo. Fino all'epoca di Luigi XIII il liuto godette del favore indiscusso della nobiltà francese che si dilettava non solo di ascoltarlo, ma di usarlo essa stessa come suo strumento di diletto domestico. Ma dalla seconda metà del Seicento il liuto venne a poco a poco soppiantato dal clavicembalo in questa funzione di strumento familiare. Si trattava di due strumenti molto diversi nella forma e nella tecnica
'esecuzione, ma di suono non dissimile. Il repertorio delle Suites di danze, così amato dai liutisti del XVII secolo, poteva bene adattarsi alla possibilità del nuovo strumento e trarre nuovo alimento dalle sue più ampie possibilità foniche. Tra i primi autori francesi di suites per clavicembalo il più noto fu Jacques Champion de Chambonnières: nelle sue musiche abbondavano i segni di abbellimento ( trilli di vario tipo, mordenti, gruppetti ) e gli effetti del cosiddetto style brisé (stile spezzato), espressione che denotava una scrittura tipica del repertorio liutistico francese caratterizzata da figurazioni arpeggiate e da note in successione rapida.
François Couperin,
La superbe ou la Forqueray
La figura maggiore in questo percorso fu però quella di François Couperin ( 1668-1733) , detto “le Grand” per distinguerlo dallo zio omonimo e dagli altri numerosi musicisti della sua famiglia. La sua produzione, emblematica della cultura francese, si incentrò soprattutto nelle opere destinate al clavicembalo: per questo strumento — in Francia ormai arrivato al suo massimo grado di potenzialità e perfezionamento tecnico — Couperin scrisse ventisette Suites, da lui denominate Ordres, riunite in quattro libri che pubblicò dal 1713 al 1730. Nell’opera dei clavicembalisti francesi precedenti la suite si era definita come una struttura alquanto elastica nella quale al nucleo formato generalmente dalla successione allemanda, corrente, sarabanda e giga, si potevano aggiungere altre danze come gavotta, minuetto, ciaccona, passacaglia e rigaudon.
Couperin prese le mosse da questa tradizione: ciascun Ordre comprendeva più brani, in forma di danza talvolta dotato d'un titolo riferito al carattere della composizione. Il carattere popolare delle danze venne il più delle volte completamente trasfigurato in una gravità malinconica, un incedere elegante ed aristocratico in cui l’unica traccia del carattere originario si rinviene nel modulo ritmico ripetuto o variato con un’infinità di variazioni eleganti, ricche di quegli abbellimenti (agrements) che caratterizzavano il gusto francese. Sottratti in parte all’improvvisazione degli esecutori, trilli, mordenti, appoggiature, gruppetti ed altri elementi decorativi, notati attraverso una serie di segni convenzionali, avevano conosciuto un’ enorme applicazione nell’opera dei clavicembalisti francesi perché attraverso di loro lo strumento, incapace di prolungare la durata dei suoni e di variarne l’intensità, era messo in grado di tenere le note e di sottolineare momenti espressivi particolarmente importanti. Si veda per esempio già nel primo libro (terzo ordre) il brano intitolato La favorite, una “ciaccona”, danza di probabile origine messicana in ritmo ¾, diffusasi in Spagna alla fine del Cinquecento, che richiamava nella figurazione e nel ritmo, la sensualità delle danze creole.
Costruita secondo lo schema formale del Rondeau - con un refrain che ricorre e dei couplets che vi si alternano - la pièce di Couperin ha un carattere nobile e malinconico, in cui resta del carattere originario il modulo armonico-ritmico del basso discendente ripetuto ossessivamente.
Nella produzione più matura di Couperin i riferimenti espliciti alle danze divennero meno frequenti e prevalse sempre più decisamente la “descrizione” e il ‘ritratto’ (anche se alla base della maggior parte dei brani rimanevano, occulte, forme di danza stilizzate). In ciò si può vedere il chiaro riflesso delle teorie estetiche di Nicolas Boileau e di Jean Baptiste Dubos, che nel quadro di una concezione dell’arte come imitazione della natura, portavano a considerare la musica strumentale come “pittura sonora”, imitazione degli stati d’animo, ma anche dei fenomeni naturali e finanche capace di “ritrarre” caratteri e personaggi. In Couperin – che si rivolgeva dichiaratamente ad un pubblico dal «gusto squisito» - i titoli straordinariamente vari, hanno fondamentalmente connotazioni descrittive, riferendosi a persone, caratteri, sentimenti, animali, argomenti allegorici e mitologici, soggetti paesaggistici, elementi burleschi. Se in alcuni brani come Les ondes, Le Rossignol en amour troviamo la rappresentazione onomatopeica e naturalistica, in altri pezzi Couperin portava a livelli di estrema raffinatezza l'arte del ritratto psicologico e della descrizione per cenni e per allusioni, già presente nella musica liutistica precedente. La predisposizione al ritratto interiore, all'osservazione psicologica dei moti più intimi aveva già attratto l'attenzione di alcuni raffinati scrittori francesi come La Bruyère negli gli ultimi anni del regno di Luigi XIV che avevano trasformato la “grandeur” in ripiegamento melanconico sotto l'influenza della favorita del re, l'austera Madame de Maintenon
Quella di Couperin è un’arte sottile e raffinatissima, di impatto non immediato; un’arte che tocca regioni nascoste, cerca di cogliere il pensiero interiore, aspira non tanto alla descrizione quanto all'evocazione. Quest’'interpretazione è suggerita dallo stesso Couperin quando dichiara nella prefazione che «i titoli rispondono ad idee che ho avuto; mi si dispenserà dal renderle esplicite». Molti brani sono considerati delle specie di ritratti psicologici e moltissimi titoli sono semplicemente caratteri o stati d'animo: è il caso della Superbe ou La Forqueray. Si tratta in realtà di un’Allemande posta in apertura del diciassettesimo Ordre, costruita secondo la tipica struttura tonale bipartita, AABB, dove la prima parte segue un percorso dalla tonica do minore alla dominante SOL , e la seconda parte segue un percorso inverso. Il titolo si riferisce ad un carattere (la superbia) ma anche ad un personaggio noto nell’ambiente musicale parigino, Jean-Baptiste Forqueray, celebre violista da gamba, noto appunto per il suo carattere superbo, e “ritratto” attraverso un tratto caratteristico: la tessitura bassa, che rimanda appunto alla viola da gamba, con una linea del basso grave, pesante che ha il suo terreno d’azione nella zona più estrema del clavicembalo, e nei profili melodico-armonici tormentati, ricchi di abbellimenti, che conferiscono profondità alle due linee.
La cosiddetta “opera seria” era nei primi decenni del Settcento il genere di spettacolo largamente preferito dall’aristocrazia e dalla borghesia cittadina di gran parte d’Europa. Le vicende che vi si raccontavano riguardavano per lo piu protagonisti eroici e altolocati, dell’antichità; re, regine, cortigiani, condottieri, usurpatori, spesso personaggi storici, a volte mitologici, a volte anche biblici; amori infelici, tradimenti, riconoscimenti, travestimenti, vittorie, e sconfitte ne costituivano il nucleo essenziale. La grande varietà di situazioni non deve tuttavia trarre in inganno sulla effettiva varietà dello spettacolo. Infatti gli intrecci erano nella sostanza standardizzati: l'amore rappresentava la forza motrice di tutti gli eventi e il dovere morale - soprattutto raffigurato negli obblighi regali del buono e giusto governo dello stato - era una forza altrettanto importante ma spesso incompatibile con il legame amoroso; il lieto fine, in cui gli intrecci venivano risolti con buona pace di tutti, era d'obbligo e doveva includere anche un insegnamento morale, un esempio di virtù che conferisse allo spettacolo una dignità etica e politica.
Nei teatri impresariali i costi erano molto spesso più alti degli incassi, per cui gli impresari s'ingegnavano come potevano per cercare di coprire i frequenti deficit; non si accontentavano di organizzare feste, balli, lotterie o altri giochi d'azzardo, ma cercavano d'indurre o di costringere gli stessi autori a collaborare alla riduzione dei costi, a volte lesinando sulle loro paghe. Il peso finanziario maggiore era costituito, infatti, dai cantanti che erano ormai diventati la maggior attrazione per il pubblico medio; perciò i direttori di teatro premevano su musicisti e librettisti affinché diminuissero il numero dei personaggi, che dopo il 1720-30 si fissò attorno ai sei-sette. La voce di soprano era la preferita e le parti da affidare a soprani erano perciò in genere più numerose che quelle di contralto o di tenore o di basso. Ciò aveva favorito l'abitudine a far interpretare anche le parti maschili da soprani o contralti e soprattutto dai castrati, che continuarono ad essere per tutto il Settecento i prediletti dal pubblico, nonostante le numerose voci che si levarono nella seconda metà dal secolo, contro questa barbara usanza. L'esistenza di bambini evirati prima della pubertà per sfruttare le loro particolari doti vocali e per conservarne il timbro dolce a acuto risale ancora al Cinquecento quando venivano usati in particolare nella Cappella papale. Tuttavia fu solo nel Settecento che il fenomeno dei castrati assunse un'importanza determinante nell'opera: essi divennero spesso grandi divi ammiratissimi dal pubblico. Alcuni di essi assursero a fama internazionale come Carlo Broschi detto Farinelli, il più celebre; ma l'elenco anche solo dei più rinomati sarebbe assai lungo: Bernacchi, Carestini, Caffarelli, Gizziello, Guadagni e molti altri si disputarono la celebrità puntando chi al più spericolato virtuosismo, chi al sentimentalismo e comunque offrendo un contributo fondamentale alla creazione di quel particolare fenomeno
che fu il belcantismo, uno stile di canto che privilegiava sopra ogni altra cosa il virtuosismo, inteso non solo nella capacità di cantare figurazioni rapide, di aggiungere diminuzioni e ornamenti alle linee vocali, ma anche nella qualità di emissione vocale che mirava ad ottenere suoni morbidi, omogenei nel passaggio dalle zone gravi alle acute.
Tanto il dramma per musica quanto la commedia in musica basavano lo svolgimento della vicenda sul medesimo meccanismo: l’alternanza ormai regolare di recitativi e arie. Queste due forme rappresentano le polarità dominanti della drammaturgia del melodramma settecentesco: nel recitativo ci sono i dialoghi che conducono avanti l'azione e assumono la funzione di fornire le necessarie informazioni all'uditorio; ad esso si alternano stasi dell'azione, le arie, dove il cantante può fare sfoggio del suo virtuosismo. Questa distinzione fra azione in dialogo, momento “dinamico” dove la vicenda procede, e riflessione o espressione di stati d’animo, “momento statico” in cui il cantante ha spazio per il virtuosismo, si riflette nell'organizzazione verbale e nella struttura dei versi dei libretti. Le parti d'azione sono in recitativo, più breve di quello del primo Seicento, organizzato sempre in versi sciolti, non rimati, con alternanza di settenari ed endecasillabi: qui i personaggi, soli o in gruppo, descrivono e ragionano di ciò che accade o è accaduto. Due sono i tipi di recitativo, quello secco e quello accompagnato: nel primo caso la recitazione è piu rapida, sostenuta appena da pochi accordi del clavicembalo; nel secondo piu estesa o ariosa e quindi alla voce si uniscono più strumenti.
Terminato il dialogo, un personaggio si separa dal gruppo, portandosi nella zona del proscenio ( parte anteriore del palcoscenico); qui egli interpreta, riflette, analizza in termini puramente musicali tutto ciò che concerne la situazione: può esserci un momento di confusione, che genera spesso le cosiddette "arie di paragone", può esserci il momento della gelosia ("aria di gelosia"), o la disperazione per l'abbandono in carcere ("aria con catene") o l’ira rabbiosa (“aria di furore”), e tanti altri “affetti”. L'aria non è però l’individuale, precisa espressione di un sentimento del personaggio; al contrario essa offre una raffigurazione astratta, generale e impersonale, che il cantante rappresenta musicalmente, ma non vive con immedesimazione.
La struttura poetica archetipica dell'aria prevede due strofe, per lo più di quattro versi (non mancano però sestine ed altre eccezioni); i metri più frequenti sono il settenario e l'ottonario, meno frequenti, seppur non rari, il quinario e il senario, più raro il decasillabo, rarissimo il novenario. Un melodramma del primo Settecento poteva prevedere anche più di cinquanta arie, che venivano distribuite ai personaggi in funzione della loro importanza ma spesso anche in funzione della fama del cantante ( e non di rado i compositori erano costretti ad aggiungere delle arie per le richieste dei cantanti desiderosi di maggiore “visibilità”): la vicenda in effetti doveva soprattutto permettere al musicista di inserire un certo numero di arie nei
punti strategicamente piu adatti, e queste venivano appunto distribuite fra i vari interpreti a seconda della loro importanza e fra i vari tipi di emozioni o sentimenti che esse dovevano raffigurare.
All’inizio del Settecento i librettisti erano attenti a conciliare le arie con le entrate e le uscite dei personaggi. Il loro movimento, che nel secolo precedente era alquanto casuale, doveva essere regolato dalla cosiddetta liaison des scènes, derivata dalle convenzioni del teatro classico francese di Racine e Molière: la successione degli episodi era organizzata in modo tale che scene consecutive (ricordiamo che il cambiamento di scena, intesa come unità minima della sequenza teatrale, era determinato appunto dall’entrata o dall’uscita di uno e più personaggi) avessero sempre almeno un personaggio in comune. La liaison si interrompeva solo con la mutazione di scena, ossia con il cmabiamento del quadro scenico che avveniva a vista, senza che calasse il sipario. Ben presto la collocazione dell'aria fu spostata alla fine dell'episodio narrato, cioè dopo i dialoghi in stile recitativo, per far sì che il cantante, ricevuta la sua dose d'applausi, uscisse di scena e permettesse il cambio dei personaggi presenti.
Intorno al 1730 la grande maggioranza delle arie operistiche italiane erano ormai arie col da capo, secondo una forma che godeva di grande favore sia presso i cantanti sia presso il pubblico. La loro struttura era abbastanza semplice ma non perciò meno efficace: le prime due parti si adattavano a due strofe poetiche, ben distinte musicalmente da una modulazione ( dominante e o relativa maggiore/minore); dopo la seconda parte veniva ripetuta la prima (era appunto questo il da capo) e qui il cantante si esibiva con infiorettature, improvvisazioni, colorature e cadenze virtuosistiche che variavano il brano; dal da capo dipendeva in buona parte il successo dell'aria perche in essa il cantante aveva pieno agio di mostrare la sua bravura, il suo estro e la sua abilità.
Il pubblico settecentesco ammirava soprattutto il cantante e le sue doti vocali e non ricercava la capacità di realizzare scenicamente un personaggio e questo portò ad un enorme sviluppo del virtuosismo vocale. Per la sua struttura il melodramma settecentesco era dunque una sorta di meccanismo narrativo astratto in cui la consistenza dell'intreccio e del dramma veniva sostanzialmente sacrificata al fascino irresistibile della musica, e le voci dei castrati giocavano probabilmente un ruolo primario in questa fascinazione: esse ci vengono descritte da cronisti dell'epoca come dolcissime, penetranti, flessibili, agili ma certamente non corrispondevano al timbro naturale della voce umana e dunque erano forse capaci di quel particolare senso di straniamento e di irrealtà che la struttura stessa dello spettacolo a sua volta favoriva.
Georg Friedrich Händel Giulio Cesare in Egitto (1724) (Libretto: Nicola Francesco Haym )
Dopo aver battuto Pompeo a Farsalo, in Grecia, Cesare lo insegue in Egitto. Qui viene accolto da una folla esultante. Cornelia, la moglie di Pompeo, e suo figlio Sesto vengono ad implorare la sua clemenza. Cesare si appresta a perdonare il suo nemico quando giunge Achilla, generale di Tolomeo, che gli fa portare la testa decapitata di Pompeo.
( Recitativo)
ACHILLA
La reggia Tolomeo t’offre in albergo Eccelso eroe, per tuo riposo, e in dono
Quanto può dare un tributario trono
CESARE
Ciò che di Tolomeo
Offre l’alma regal, Cesare aggrada
ACHILLA
Acciò l’Italia ad adorarti impari
In pegno d’amistade e di sua fede Questa del gran Pompeo superba testa Di base al regal trono offre al tuo piede ( Uno degli Egizi svela il bacile,
sopra il quale sta il capo tronco di Pompeo)
CESARE
Giulio che miri ?
SESTO
Oh Dio che veggio?
CORNELIA
Ahi lassa ! Consorte! Mio tesoro!
CURIO
Grand’ardir!
CORNELIA
Tolomeo barbaro traditor!
Io manco, io moro
( Sviene)
CESARE
Curio, su, porgi aita
A Cornelia che langue
(piange)
CURIO
Che scorgo? Oh stelle ! Il mio bel sole esangue ?
ACHILLA
(Questa è Cornelia ?
Oh, che beltà, che volto!)
SESTO
Padre! Pompeo!
Mia genitrice! Oh Dio !
CESARE
Per dar urna sublime Al suo cenere illustre
Serbato sia sì nobil teschio
ACHILLA
Oh dei !
CESARE
E tu involati, parti! Al tuo signore Di’ che l’opre de’ regi
Sian di bene o di mal, son sempre esempio
SESTO
Che non è re, chi è re fellon, chi è un empio
ACHILLA
Cesare, frena l’ire…
CESARE
Vanne! Verrò alla reggia
pria che oggi il sole a tramontar si veggia
( Aria )
CESARE
Empio dirò, tu sei: togliti agli occhi miei, sei tutto crudeltà.
Non è di re quel cor, che donasi al rigor
che in sen non ha pietà.
Quinta opera destinata alla Royal Academy, Giulio Cesare è emblematica del periodo di maggior fulgore sulle scene londinesi della produzione di Haendel.
La prima rappresentazione al King’s Theatre — che ebbe come protagonisti alcuni autentici divi del tempo come il soprano Francesca Cuzzoni nei panni di Cleopatra, il Senesino nei panni di Cesare, il contralto Anastasia Robinson in quelli di Cornelia — fu accompagnata da un’accoglienza trionfale che si perpetuò anche negli anni seguenti (riprese si ebbero nel 1725, 1730, 1732). Un simile eclatante successo si spiega anche con la natura del libretto che Nicola Haym, collaboratore abituale di Haendel, ricavò abilmente riutilizzando un testo precedente di Giovanni Francesco Bussani: la storia d’amore fra due tra i più famosi personaggi della storia antica, intrecciata agli intrighi di potere che coinvolgono altri personaggi realmente esistiti come Pompeo e Tolomeo, aveva un’enorme capacità di attrazione sul pubblico dell’epoca. Händel inoltre riuscì a dare sbalzo eccezionale ai personaggi principali: Cesare appare ora meditativo, ora combattivo, ora appassionato; la figura di Cleopatra — che inizialmente vuol servirsi di Cesare contro Tolomeo ma poi se ne innamora e diventa alla fine regina d’Egitto al suo fianco — viene dipinta attraverso un grande ventaglio di arie che ne seguono l’evoluzione. Anche le altre figure presenti nell’opera hanno una fisionomia fortemente caratterizzata.
La scena terza del primo atto illustra bene la distinzione fra il recitativo, momento “dinamico” dove la vicenda procede, e l’aria, “momento statico” cui invece è affidata l’ espressione degli stati d’animo, conseguenti agli avvenimenti. La prima parte della scena presenta infatti un recitativo secco, organizzato in versi sciolti, di varia misura ma con prevalenza di settenari ed endecasillabi: qui i personaggi assistono e in diverso modo reagiscono ad un avvenimento sconvolgente come l’esposizione del capo mozzato di Pompeo, che Tolomeo ha fatto assassinare per ingraziarsi Cesare. Come nel Seicento il ritmo, l’intensità e le curve lineari della musica sono variabili, irregolari, e seguono l’espressione della recitazione.
Al termine del dialogo un solo personaggio avanza sulla scena, Cesare, la cui reazione di rabbia nei confronti di Tolomeo e del suo generale Achilla si esprime in due terzine di settenari e attraverso una tipica “aria di furore”. La struttura è quella tipica dell’aria col da capo: la prima strofa è in do minore e presenta una linea vocale molto mossa, che riprende più volte i versi del testo con uno stile di canto virtuosistico, prevalentemente vocalizzato, che richiede dal cantante una notevole agilità; nella seconda strofa , sulla stessa impronta motivica, si realizza una subitanea modulazione alla relativa maggiore Mi bemolle che, nello sviluppo, termina con una cadenza sull’accordo di Re ( dominante della dominante di do minore ), un momento di forte tensione armonica, sottolineato dal silenzio dell’orchestra, dove il compositore lascia il cantante del tutto solo dandogli la libertà di improvvisare figurazioni e vocalizzi a suo piacere. Dopo questa seconda parte viene ripetuta la prima, e qui nel “da capo” l’interprete (un soprano che sostituisce l’originario castrato ) segue l’usanza del tempo di Händel inserendo diminuzioni e ornamenti che variano la linea vocale.
Nella cultura luterana la musica aveva un'importanza primaria: Lutero infatti aveva voluto creare i presupposti perché si sviluppasse un canto religioso comunitario, sentito come qualcosa di proprio e non di imposto dall’alto. Il gregoriano e il canto polifonico furono sostituiti da nuovo materiale tratto da varie fonti, per lo più di carattere popolare. I canti della liturgia, o corali raccolti dallo stesso Lutero, che poi provvide a scrivere anche nuovi testi, erano infatti “travestimenti” di canzoni popolari profane, semplici e facilmente memorizzabili. Nella prefazione alla sua raccolta di canti Lutero aveva espresso la sua fiducia nel potere educativo ed intrisecamente religioso del canto: questa apertura nei confronti della musica determinò l’impulso caratteristico dei paesi protestanti verso l’educazione musicale e verso la pratica del canto corale fin dalla più tenera età. Nelle chiese cattoliche la musica era altrettanto presente, ma aveva funzioni liturgiche e seguiva tradizioni stilistiche diverse, se non altro perché non era legata al canto dei corali.
La musica tedesca del periodo tardo-barocco al contrario di quella francese, che era fortemente unitaria, si sviluppa sulla base di modelli diversi: così si parla ad esempio di uno stile nord-tedesco legato alla conservazione del gusto tradizionale per la complessità polifonica e all'elaborazione del corale luterano ( rappresentante maggiore ne era a fine Seicento Dietrich Buxtehude ) e di uno stile delle zone meridionali molto più sensibile alle innovazioni importate dall'Italia ( rappresentato invece da Johann Pachelbel ). Forse proprio a causa di queste carenze sul piano dell'autoidentificazione nazionale i musicisti tedeschi erano assai più aperti di tutti gli altri musicisti europei alle differenze di scrittura, e assai più capaci di assimilare le novità che venivano dall'estero. Non a caso negli ultimi decenni del Seicento essi elaborarono la teoria dei tre stili, quello italiano, quello francese e quello tedesco. Alla diffusione dello stile italiano contribuirono fin dagli inizi del secolo sia alcuni eminenti compositori tedeschi che vennero numerosi a studiare in Italia (da Schutz che frequentò Giovanni Gabrieli e Monteverdi, a Froberger che fu allievo di Frescobaldi, a Muffat che fu alla scuola di Corelli) sia i musicisti italiani che furono molto apprezzati (e ben pagati) in alcune corti tedesche. Nella seconda metà del Seicento la fama delle musiche che si eseguivano a Versailles spinse molti principi tedeschi a mandare i loro musicisti nella capitale francese a studiare presso Lully. Lo stesso Muffat fu a Parigi dopo essere stato a Roma.
La peculiare situazione della cultura musicale tedesca costituisce una base fondamentale per comprendere il senso complessivo dell’opera di Johann Sebastian Bach Le capacità di sintesi e di assimilazione che il musicista dimostrò in tutta la sua carriera, e che non vennero mai meno neppure negli anni della maturità quando la sua maestria compositiva non aveva certo bisogno di stimoli e suggerimenti, avevano radici significative nella sua stessa concezione della musica. Si trattava di una concezione personale che però aveva antecedenti nell'ambiente culturale. Da un lato infatti la musica, nella tradizione luterana, è dono di Dio e strumento specifico della lode di Dio, e non solo la musica scritta appositamente per il culto, bensì anche la musica del mondo, quella non dedicata alle funzioni liturgiche. In secondo luogo la musica non è una pratica mutevole, obbediente alle trasformazioni imposte dai gusti di ogni epoca, ma è una dottrina, un’Ars nel senso antico del termine, cioè un sapere immutabile del quale il musico ha il compito d'impadronirsi. Su questi due pilastri della concezione di musica che l'epoca gli tramandava, Bach costruì il fondamento della sua esistenza professionale e più ancora della sua stessa esistenza di uomo. Della sapienza compositiva facevano parte a buon diritto non solo gli strumenti tecnici (regole come quella dell'armonia o del contrappunto, principi formali come quelli della fuga o del concerto e via dicendo) ma anche gli strumenti espressivi codificati dalla « teoria degli affetti». Copiose tracce di ricorsi al valore simbolico di particolari procedimenti musicali sono diffuse in tutte le opere di Bach, particolarmente in quelle che mettono in musica un testo verbale, ma anche in altre, come certi corali per organo, in cui il testo verbale è solo implicito.
Inseguendo dunque il supremo ideale di una musica concepita come scienza Bach si allontanava gradualmente dalle tendenze che nella prima metà del secolo XVIII si venivano diffondendo in tutta Europa. L'eleganza, lo spirito critico, il «buon gusto», la moda, il piacere del bel canto, che a poco a poco vennero accettati come elementi di novità e modernità nella società colta dell'epoca, erano valori assai lontani dalle austere premesse morali di cui la sua musica si sostanziava. Ciò spiega l'isolamento in cui egli cominciò gradualmente a trovarsi, la fama relativamente scarsa di cui godette in vita, i giudizi che il suo ex allievo Johann Adolf Scheibe scriveva su di lui negli anni Trenta accusandolo di ampollosità, di artificiosità, di innaturalezza, e infine l'oblio in cui le sue opere caddero per più di cinquant'anni.
Johann Sebastian Bach
Concerto brandeburghese n.4 : III movimento, Presto
Lo stile italiano domina nelle composizioni orchestrali, fra le quali il gruppo più noto di quel periodo è costituito dai sei Concerti brandeburghesi, così definiti nel secolo scorso dal musicologo Philip Spitta, perché Bach li dedicò nel 1721 «a sua altezza
reale Christian Ludwig margravio del Brandeburgo ». In realtà il titolo usato da Bach è semplicemente Six concerts avec plusieurs instruments. In essi dunque Bach usa la parola “concerto” e usa i principi del concerto diffusi dai musicisti italiani (articolazione in tre movimenti secondo la successione veloce-lento-veloce, gioco di soli-tutti, principio dialogico, scrittura idiomatica per gli strumenti ) ma tratta questi principi con la grandissima inventiva, in una sorta di illustrazione panoramica delle diverse prassi barocche del concertare, che vengono sintetizzate in forme nuove e personali. Così in alcuni casi il gruppo dei soli ( il “concertino” secondo l’uso italiano) è arricchito da una timbrica fastosamente policroma basata su un uso degli strumenti a fiato di gusto e consuetudine tedesca (Concerti 1 e 4); in altri casi dal concertino emerge uno strumento solo a cui sono affidati ampi interventi virtuosistici che rendono dubbia la distinzione fra concerto grosso e concerto solistico (Concerti 2 e 5); altrove l'orchestra è divisa in tre o più gruppi contrapposti che richiamano l'antica prassi policorale (Concerti 3 e 6). In ogni caso le combinazioni e gli intrecci strumentali, così come il continuo lavoro polifonico, sono assai più ricchi che non nella tradizione del concerto all'italiana.
Il Quarto dei Sei Concerti Brandeburghesi, , per esempio, prevede un organico che alla massa del ripieno contrappone un concertino di tre strumenti diversi dalla norma corelliana: un violino solista e una coppia di flauti dritti. Il modo in cui Bach struttura il dialogo fra l’orchestra e questo piccolo gruppo — all’interno del quale il violino ha un ruolo di leader con ampie digressioni indipendenti, mentre ai flauti spetta un compito più concertante — è sintomatico del suo modo di rielaborare il modello italiano del concerto, che perde qui la sua caratteristica “semplicità” per assumere una forma ben più complessa rispetto agli standard dell’epoca.
L’ultimo movimento è particolarmente emblematico giacché invece del consueto Allegro del modello italiano, abbiamo una struttura di fuga con il soggetto che, all’inizio, viene intonato progressivamente dalle diverse parti dell’organico: iniziano le viole, seguite dai violini secondi e primi, poi ancora dal basso e infine dai due flauti. Dalle cellule di questo breve motivo si sviluppa tutto il brano. In questo si può vedere uno degli aspetti più avveniristici dell’arte di Bach: la rigorosa coerenza della composizione, scaturente da un’idea sviluppata in tutte le sue potenzialità, rimarrà il tratto identitario della tradizione tedesca, destinata con i grandi rappresentanti del classicismo viennese, a diventare il vero fulcro della musica dell’Ottocento.
Il gioco contrappuntistico, rigoroso e coinvolgente, nel Quarto concerto alterna sezioni di “tutti” e sezioni solistiche in modo più libero ed elaborato che nei modelli italiani: gli interventi del ripieno non sono mai dei veri e propri “ritornelli” alla maniera vivaldiana perché ogni volta il tema viene presentato in modo diverso; d’altro canto le tre parti solistiche si combinano in modi sempre nuovi: all’inizio i due flauti si rinviano il tema
mentre il violino si limita ad accompagnarli, ma a metà movimento i due strumenti a fiato finiscono per cedere il passo ad un libero sfogo del violino solista che, pur accompagnato dal tema affidato alla sezione del ripieno, si produce in una cadenza virtuosistica.
Preludio e fuga n. 2 dal “Clavicembalo ben temperato”, Libro I
Al periodo di Köthen appartengono anche testi che Bach iniziò a comporre per l'istruzione dei suoi figli e della nuova moglie. Nasce così una serie di opere che continuerà anche negli anni seguenti, pensate in forma di esempio didattico, e capaci di manifestare al massimo grado quell'idea «oggettiva» dei sistema delle norme musicali che era tipica del pensiero di Bach. Per il figlio Wilhelm Friedman nacque un Clavier-Büchlein (si potrebbe tradurre, “Libretto di musiche per strumento a tastiera”) iniziato nel 1720 che conteneva una cinquantina di pezzi suoi e altri di altri autori. Lo scopo non era solo quello di raccogliere pezzi per lo studio del clavicembalo, ma anche di fornire modelli ed esercizi per la composizione. Ma la raccolta di gran lunga più ambiziosa e importante è quella intitolata Das Wohltemperierte Clavier, (1722) la cui traduzione italiana comune è Il clavicembalo ben temperato, dove in realtà il clavicembalo dovrebbe essere sostituito dal più generico «tastiera»: una sorta di “trattato” sul temperamento equabile che è anche, contemporaneamente, una esemplificazione delle possibilità formali dei generi del preludio e della fuga.
Das Wohltemperierte Clavier è una raccolta composta da 24 preludi e fughe ordinati per tonalità progressive ( n.1 in Do maggiore, n.2 in do minore, n.3 in do diesis maggiore, n.4 in do diesis minore, n. 5 in Re maggiore , ecc.). L’impianto della raccolta è dunque concepito come una dimostrazione scientifica della possibilità di comporre in 24 diverse tonalità una volta che la tastiera venga accordata col sistema temperato, basato sulla divisione dell'ottava in 12 semitoni uguali. La validità del sistema era stata teoricamente studiata dal fisico Werkmeister nella seconda metà del Seicento ed era stata poi sperimentata da alcuni musicisti tedeschi dei primi vent'anni del Settecento con brani composti in tonalità inusitate che si dimostrarono perfettamente accettabili per 1'orecchio. Ma la raccolta di Bach è la prima che possieda un carattere compiutamente sistematico. La «scientificità » del suo assunto non si riferisce tuttavia solo all'accordatura del clavicembalo, bensì anche alla grande varietà di possibilità formali che l'opera intende esemplificare per la «gioventù musicale ansiosa di apprendere». L’esempio del Preludio e Fuga n.2 in do minore giova ad illustrare solo i tratti più generali che caratterizzano i brani della raccolta.
Il preludio, sviluppatosi nel corso del Cinquecento, prima come sinonimo della toccata, poi come brano introduttivo per strumento solo, viene in effetti utilizzato da Bach in un ampia gamma di declinazioni: stilizzazioni di danze, arie e ariosi, invenzioni polifoniche, brani in forma di concerto o di sonata bipartita, o in forma di studi per il movimento continuo delle dita. Quest’ultimo è appunto il caso del Preludio qui registrato, una sorta di “moto perpetuo” che impegna sullo stesso piano entrambe le mani. La fuga, genere di origine trecentesca, toccò forse il suo apogeo nell’opera di Bach che ne fece il terreno privilegiato della ricerca contrappuntistica. Si tratta di un brano strumentale, basato su due brevi idee tematiche dette soggetto e controsoggetto. All’inizio di una fuga si assiste all’ingresso delle varie voci ( a seconda dei casi due, tre, quattro ) in successione l’una dopo l’altra e ciascuna di queste voci presenta il soggetto, al quale si intreccia il controsoggetto che viene intonato dalla voce che ha esposto il soggetto contemporaneamente all’imitazione di questo da parte della voce subentrante. L’esposizione della fuga qui registrata si presenta schematicamente così
Soprano |
Soggetto Controsoggetto |
Contralto |
Soggetto Controsoggetto |
Tenore |
Soggetto |
Questa parte iniziale detta esposizione, viene poi seguita da uno svolgimento, nel quale si dà spazio ad episodi costruiti sugli elementi costitutivi del soggetto e del controsoggetto ( divertimenti), e a una riesposizione di questi ultimi in tonalità della tonica. Anche nella fuga, quindi, la forma del discorso musicale prende vita da cellule molto piccole, predisposte per combinarsi ed intrecciarsi, secondo le tecniche contrappuntistiche padroneggiate da Bach come forse nessun altro compositore della storia.
“So ist mein Jesus” dalla “Passione secondo Matteo”
All’epoca di Bach, nella Settimana Santa le chiese di Lipsia solevano intonare le narrazioni della passione di Cristo utilizzando appunto questo genere ai fini di una
Gli episodi corali e orchestrali di ampio respiro fanno delle passioni bachiane grandiosi affreschi sonori di dimensioni michelangiolesche. Rispetto alla Passione secondo san Giovanni nella Passione secondo Matteo, il carattere spettacolare è ulteriormente accresciuto dall’impiego di due orchestre e due cori, dal ricorso a strutture drammatico-musicali fortemente suggestive come per esempio “l’aureola” data da un sottofondo degli archi che accompagna sempre gli interventi di Gesù Cristo. Bach compose la Passione secondo Matteo per le celebrazioni del 1727. Il testo è diviso in due parti: alla fine della prima parte si colloca l'episodio del bacio di Giuda e della cattura di Cristo. A questa narrazione succede il commento qui registrato, affidato a due cantanti e al coro.
(Soprano e contralto):
So ist mein Jesus nun gefangen.
(Coro II )
Laßt ihn, haltet, bindet nicht!
(Soprano e contralto ) Mond und Licht
Ist vor Schmerzen untergangen, Weil mein Jesus ist gefangen.
(Coro II) :
Laßt ihn, haltet, bindet nicht!
( Soprano e Contralto)
Sie führen ihn, er ist gebunden.
(Cori I e II):
Sind Blitze, sind Donner in Wolken verschwunden?
Eröffne den feurigen Abgrund, o Hölle, Zertrümmre, verderbe, verschlinge, zerschelle mit plötzlicher Wut
den falschen Verräter, das mördrische Blut!
(Soprano e contralto):
Così, Gesù adesso é fatto prigioniero!
( Coro II)
Lasciatelo, fermatevi, non lo legate!
( Soprano e contralto) La luna e il sole sono tramontati,
perché il mio Gesù é prigioniero.
( Coro II):
Lasciatelo, fermatevi, non lo legate!
(Soprano e contralto): Lo portano via, é legato!
(Cori I e II ):
I fulmini e i tuoni sono forse scomparsi tra le nubi?
O inferno, apri il tuo infuocato abisso! Annienta, distruggi, inghiotti, rompi con improvvisa violenza il falso traditore, il sangue omicida!
In questo brano la continuità quasi impassibile delle pulsazioni ritmiche contrasta con la drammaticità degli eventi, come se la loro immensa portata storica e teologica richiedesse una sorta di oggettività espressiva e non fosse compatibile con gesti troppo umani. Il canto delle due soliste continua imperterrito anche quando il coro interviene con le sue invocazioni. L'unico stacco ritmico deciso si ha solo con l'ultimo intervento del coro. Anche questo secondo episodio è caratterizzato da pulsazioni regolari, ma qui si tratta di un inesorabile ritmo veloce e martellato, che non dà tregua: è la pronuncia terribile delle maledizioni contro Giuda.
Soprano e contralto iniziano in imitazione: la prima voce annuncia la cattura di Gesù, e la seconda ribadisce e potenzia il pietoso annuncio. La melodia del soprano (e di rincalzo quella del contralto) è un esempio caratteristico di quelle "melodie lunghe" che Bach amava, intendendosi per "lunga" una melodia che resta in sospensione per molte unità di tempo e non conclude se non dopo un percorso la cui fine viene lungamente attesa. In questo caso la sospensione è legata al melisma sulla parola "gefangen" (preso).
Il verso successivo, invece, è cantato in omoritmia dalle due voci che scandiscono il momento del dolore ("ist vor Schmerzen") scendendo passo passo, con una "figura" musicale chiamata "appoggiatura"(le due note discendenti su ognuna delle quattro sillabe) che per la retorica degli affetti dell'epoca simboleggiavano appunto il pianto o il dolore.
In tutto l'episodio i suoni sono organizzati in tre strati sovrapposti che si mescolano
continuamente: quello dei due flauti (che inizialmente anticipano il tema delle due voci), quello
dei due strumenti ad arco (violino e viola) e quello delle due voci. Il loro continuo e impassibile intreccio è interrotto tre volte dalla violenta invocazione del coro.
Nell'episodio successivo gli interventi in imitazione delle quattro voci tendono a creare progressivamente un magma sonoro sempre più fitto nel momento in cui vengono invocati i fulmini e i tuoni. Successivamente, fino alla fine , tutte le voci pronunciano le parole insieme, in omoritmia, per scandire con il massimo di rabbia la maledizione a Giuda.
Tanto la parte delle due voci soliste è pietosa e tenera, quanto quella del coro è tre- mendamente aggressiva. La dolcezza del brano solistico è dovuta anche alla leggerezza dell'insieme che, come si può facilmente notare, è tutta nel registro alto perché, cosa del tutto inconsueta, non è accompagnato dal basso continuo (probabilmente per rendere più aereo il suono delle due voci femminili). Il basso invece accompagna l'ultima parte del coro con note oscure e velocissime che contribuiscono a creare la sua atmosfera furiosa. ( Baroni, 2004 )
Pur non avendo mai scritto musica teatrale, dunque Bach, riusciva pienamente a recuperare fino in fondo il senso originario del binomio musica-parola, producendo risultati emozionanti e coinvolgenti, di qualità musicale altissima, sulla base della retorica degli affetti, che proprio in Germania era stata sistematizzata da teorici come Kirchner e Mattheson.
Stile galante e stile sentimentale sono però solo due volti, i più evidenti, di una realtà musicale in trasformazione sotto molti profili, in cui a poco a poco emergono quelle tendenze che la musicologia otto-novecentesca avrebbe definito poi come “stile classico”. Tendenze che cominciano a fondersi e a emergere in alcune composizioni di Haydn degli anni sessanta e poi a diffondersi su vasta scala alla fine del decennio seguente sull’onda del successo dello stesso Haydn e del più giovane Mozart. Haydn, Mozart e poi Beethoven sarebbero stati presto individuati come i campioni di quello che si sarebbe definito classicismo viennese, perché tutti e tre, pur non essendo viennesi di nascita, avevano eletto la capitale austriaca come loro sede. In effetti per una settantina d'anni, cioè dal periodo della prima maturità di Haydn e della nascita di Mozart fino a quello della morte di Beethoven a di Schubert (rispettivamente 1827 e 1828) Vienna fu uno dei centri europei più fecondi di attività e di iniziative, più ricchi di straordinari talenti creativi. Il riformismo dell’imperatore Giuseppe II (1765-1790), la vita concertistica ricca e la fiorente editoria musicale, le grandi tradizioni già in atto fin dal Seicento, la solidità della sua scuola, la favorevole posizione di punto di mediazione fra la civiltà musicale italiana e quella tedesca, la presenza di personaggi prestigiosi come Pietro Metastasio, la vivacità del suo mondo intellettuale costituiscono il retroterra privilegiato di questa fioritura di talenti.
Il processo di acquisizione di Haydn, Mozart e Beethoven come essenza stessa del Classicismo musicale fu naturalmente postumo; tale acquisizione dovuta alla storiografia ottocentesca si riferisce – assai più che alle specifiche tendenze letterarie e pittoriche del Neoclassicismo settecentesco — alla natura stessa dell'idea di classicità, ossia a un concetto che migra lungo la storia dell'arte e della cultura e che sta al di sopra di ogni circoscrizione stilistica o cronologica. In questo senso, “Classicismo musicale” ha assunto, per così dire, il significato di grembo, di momento d'origine della modernità musicale, assumendo contorni più precisi man mano ci si è distanziati da esso. Il traslato — insieme metonimia e sineddoche — per cui «musica classica» è diventata, nel linguaggio corrente, l'espressione usata per indicare l'insieme della tradizione colta della musica occidentale, è la migliore testimonianza del carattere paradigmatico assunto da questa breve e fondamentale epoca della storia musicale europea.
Lo “stile classico” ha le sue fondamenta in uno stabilizzarsi di procedure e formule ereditate dalla musica del passato che, giunte a maturazione, vengono esplorate nelle loro molteplici implicazioni poetiche ed espressive. Stilisticamente e storicamente si tratta di un momento di grande permeabi- lità, dove lo sguardo aperto sul passato si connette nei maggiori compositori a una naturale disponibilità verso il futuro. E, insomma, un punto di equilibrio nella storia musicale dell'Europa moderna — un equilibrio instabile, tanto più miracoloso in quanto posto in concomitanza con una profonda trasformazione del mondo e del pensiero. Circostanza, questa, che si aggiunge alle altre già ricordate, nel motivare l'attribuzione del titolo di «epoca del Classicismo», il più ambito per qualunque età della storia delle arti, a questo momento della storia musicale.
Accanto alle questioni di ordine culturale, l'età musicale classica presenta una trasformazione di segno più profondo, che avviene al livello più interno del linguaggio e dell'organizzazione compositiva, in stretta connessione col ridisegnarsi della mappa dei generi e degli stili musicali.
Le linee portanti di tale trasformazione possono riassumersi in alcuni punti:
Per quanto riguarda il primo punto, occorre dire che con Haydn, Mozart e soprattutto, Beethoven il linguaggio musicale trova motivazioni e significati in se stesso, svincolandosi da ogni residuo legame con la parola. Questo processo viene realizzandosi senza alcuna formulazione teorica, è frutto esclusivo del lavoro compositivo; non riceve insomma nessun contributo esterno dalla cultura letteraria o filosofica come avviene invece per il melodramma.
La maggior dignità assunta dalla composizione strumentale porta con sé anche il superamento e l’ abbandono della prassi del basso continuo. La tendenza inarrestabile alla definizione di testi musicali sempre più compiuti in se stessi e sempre meno lasciati all’integrazione creativa dell’esecutore, conduce a scrivere per esteso tutte le parti, anche quelle del basso ( solo del teatro musicale la pratica del basso continuo sopravviverà fino al primo decennio dell’Ottocento ). Il concetto di “testo” musicale, cioè di discorso compiuto, coerente, coeso, porterà d’altronde con sé anche un’idea di unicità, di originalità che porterà ad una più consapevole definizione di opere dotate di caratteri specifici, più ampie ed elaborate nelle proprie dimensioni.
Ecco dunque definirsi un nomenclatura che rimarrà in vigore per quasi due secoli con generi delimitanti aree ben perimetrate dell’arte musicale:
1) la Sinfonia, composizione in più movimenti per un’orchestra abbastanza ampia, erede del Concerto di gruppo e della Sinfonia d’opera scarlattina;
Tutte queste forme strumentali vennero articolandosi stabilmente in tre (sonata e concerto) o quattro movimenti (sinfonia, quartetto), secondo la successione tipica Allegro-Adagio-Minuetto (eventuale) – Allegro. Fin dal periodo trascorso a Eisendstadt Haydn portò ad una sintesi straordinaria le svariate tendenze della cultura musicale del suo tempo dando fisionomia stabile a generi nei quali si sarebbe incanalata la produzione cameristica e orchestrale fino ancora alla metà del Novecento. Quartetti, Sinfonie, Sonate, Trii furono nelle mani di Haydn vennero plasmandosi sulla base di un criterio architettonico che prevedeva:
Questa successione rispondeva ad un preciso obiettivo comunicativo ponendo il brano di maggior impegno fruitivo all’inizio e via via stemperando la complessità nel corso degli altri due o tre movimenti.
Il tardo Settecento dunque rappresentò in questo senso il traguardo di un secolare processo di definizione e trasformazione delle forme strumentali, progressivamente precisate nella destinazione strumentale e nella loro nomenclatura, come si può vedere nello schema della pagina seguente.
Il temporaneo assestamento di stilemi che caratterizza la fine del Settecento discende dall'ormai universale adozione dei principi teorici dell'armonia tonale sviluppatisi nel corso del secolo. L'effetto forse più consistente di questa relativa solidità di impianto, sta nella scoperta e nella messa in atto delle enormi potenzialità espressive e costruttive racchiuse in un meccanismo armonico basilare quale il bipolarismo fra tonica e dominante, ossia il rapporto particolarmente forte e privilegiato fra il I e il V grado della scala tonale. Grazie agli sviluppi dell'armonia, questa polarità si rivela essere un vero e proprio generatore di tensione armonica di cui l'arte del comporre è ora pienamente padrona, sfruttandola e valorizzandola con tecniche sempre più raffinate. Questo asse preferenziale non è certo una novità, esso infatti rappresenta l'evoluzione dell'antica simmetria bipartita propria della suite e della sonata da camera. Una formula che, mutuando un andamento a volte già rintracciabile nelle danze rinascimentali, presentava non di rado, anche nell'ambito di un'armonia modale, una prima sezione svolgentesi dal I al V grado e una seconda sezione con percorso inverso, dal V al I grado. La crescente ricchezza delle risorse armoniche e l’ampliamento dei percorsi modulanti reso possibile dall'adozione del sistema temperato, condussero nel corso del Settecento all’aumento della complessità di questa sintassi costruttiva che, proprio grazie alla potenziata capacità di accumulare e generare tensione divenne comune alla quasi totalità dei generi dell'epoca. In particolare, il trattamento del rapporto tonica-dominante rappresenta la struttura portante dello stilema musicale forse più significativo di quel periodo: la «forma sonata». Più che uno specifico modello formale, la «forma sonata» rappresentò un codice non scritto ma largamente diffuso di organizzazione sintattica. Il suo successo si fondava su una sostanza armonica e strutturale particolarmente ricca e plasmabile e quindi idonea a quell'allargamento del ventaglio espressivo verso cui il gusto del tempo mirava concordemente.
La valorizzazione del contrasto fra le due aree tonali principali ebbe il suo strumento essenziale in quello che fu forse il vero protagonista dello stile classico: il tema. L'individuazione e l'elaborazione sempre più accurata e articolata di temi musicali dal profilo netto e inconfondibile, la loro accresciuta caratura emotiva e psicologica, tale da farli assimilare quasi ai personaggi di un dramma puramente strumentale, conferì alla tecnica di sviluppo e di elaborazione tematica un rilievo inedito sia sotto il profilo costruttivo, sia nel senso di un potenziamento espressivo. La meta- morfosi, la liricizzazione o la drammatizzazione della sostanza tematica furono gli strumenti coi quali il tragitto armonico di avvicinamento e di allontanamento dalle tonalità della tonica e della dominante divenne una sorta di avventura pensata quasi in termini di metafora teatrale o letteraria. Il contrasto, la tensione fra le due tonalità principali poteva identificarsi, come spesso accadde, in altrettanti temi dal carattere ben differenziato. Altre volte, invece, la presenza delle idee tematiche poteva rispondere a criteri diversi, condurre a un maggiore o minore affollamento di temi, oppure conservarsi fedele a un'idea unitaria (caratteristica che fu molto ammirata in Haydn). Di norma – nonostante l'«allegro di sonata» continuasse a presentarsi per lo più in una veste formale bipartita,
la vocazione espressiva di questa materia armonico-tematica prese a focalizzarsi sull'esordio modulante della seconda sezione, aumentandone il peso e dilatandolo fino a fargli assumere la fisionomia di un episodio centrale - lo «sviluppo» - racchiuso fra due episodi simmetrici posti in apertura - «esposizione» - e in conclusione - «ripresa».
Nei primi decenni dell'Ottocento – quando l'elaborazione tematica si presentava ormai come il fulcro della nuova tecnica compositiva – si cominciò a interpretare questa struttura bipartita, al cui interno era cresciuto un nuova sezione, in termini di architettura tripartita. La definizione più tipica della Forma-sonata, tramandata dai trattati scolastici si configurò in questo modo
SCHEDA 11
Haydn e la Sinfonia classica
Il genere della sinfonia ebbe i suoi prodromi nella pratica di eseguire brani strumentali all’inizio dei melodrammi. Tali brani – denominati stabilmente già da Alessandro Scarlatti «Sinfonie» - avevano erano composti di tre tempi ( veloce – lento – veloce ). A inizio Settecento in Italia la sinfonia cominciò a diffondersi anche come genere autonomo, di musica strumentale “da camera”. Verso la metà del Settecento in Germania – soprattutto a Mannheim e a Berlino – il genere della sinfonia assunse nuovo spessore, spesso contemplando oltre ai tre movimenti del modello italiano un quarto brano in forma di minuetto collocato in terza posizione.
Le 104 sinfonie haydiniane contribuirono in modo decisivo, nella loro evoluzione, alla determinazione della struttura del genere ma anche alla definizione dell’orchestra moderna. Nella reggia di Eisendstad, Haydn faceva eseguire i suoi lavori in una sala di circa 150 mq, con un’ orchestra di circa venti elementi. A Londra, con una sala più grande, l’orchestra per la quale furono concepite le ultimi dodici sinfonie contemplava dai 35 ai 60 membri. L’aumento del numero dei componenti si accompagnò ad una trasformazione della struttura dell’orchestra che condusse alla determinazione di un corpo formato da venti-venticinque strumenti ad arco (violini, viole, violoncelli, contrabbassi ) più i legni, talvolta disposti a coppie ( flauti, oboi, clarinetti, fagotti), ottoni ( corni, trombe, tromboni) e percussioni (timpani).
In precedenza ( ed ancora nelle prime sinfonie scritte ad Eisendstadt ) ai fiati era di solito assegnata la funzione di “raddoppio” degli archi, nell sue opere più mature invece agli strumenti a fiato Haydn, seguito e poi superato in questo aspetto da Mozart, richiede una partecipazione costante al discorso con parti melodiche sempre più importanti.
Parallelamente all’allargamento dell’organico, l’evoluzione del pensiero di Haydn nel campo della Sinfonia muove da un’impostazione iniziale ancora ibrida, con elementi del concerto derivati dai modelli vivaldiani ( parti solistiche ancora rilevate, passaggi in progressione ), per giungere alla fisionomia già ben precisata delle Sinfonie degli anni Settanta, nelle quali non ricorrono più passi solistici e la sintassi della forma-sonata appare ben individuata. Anche le proporzioni vennero facendosi progressivamente più ampie, di fronte ad un pubblico che dalla dimensione elitaria ed aristocratica si stava cominciando a spostare verso la dimensione borghese rappresentata dalle associazioni concertistiche parigine e londinesi.
Sinfonia n.101 in re maggiore “The Clock” (1794): I movimento
Il modo in cui Haydn utilizza il principio costruttivo della “forma-sonata” trova un esempio evidente nel movimento di apertura della Sinfonia n.101 “The clock” la cui struttura è così schematizzabile ( i numeri tra parentesi quadre fanno riferimento al cd ) :
Adagio - Introduzione (prefigurazione dei temi A e B )
[00]
Presto - Esposizione: primo gruppo tematico (A) - tonalità della tonica (RE magg)
[2’17] Esposizione: secondo gruppo tematico (B) – tonalità della dominante (LA magg)
[3’03] Ripetizione integrale dall’Esposizione
[3’42]
Sviluppo : elementi tematici di A e B – tonalità della dominante (LA magg)
[5’04]
Ripresa: primo gruppo tematico (A) con variazioni – ritorno a tonalità della tonica (RE magg.) [6’25] Ripresa: secondo gruppo tematico (B) con variazioni – tonalità della tonica (RE magg.) [6’51] Coda: ultima ricomparsa del tema A
L’introduzione in minore crea un’atmosfera di tensione, preannunciando un primo tempo basato su idee eroiche: è in realtà un effetto di suspence tipico di Haydn che si diverte a sorprendere l’ascoltatore con un tradimento della sua attesa . Con un improvviso cambiamento di rotta compare invece una frase saltellante, gaia e vivace che dà inizio ad un movimento estremamente coerente ed equilibrato organizzato secondo il principio della forma-sonata, le cui tre sezioni, esposizione, sviluppo, ripresa hanno qui quasi esattamente la stessa estensione.
Attraverso questo tipo di organizzazione del materiale, la composizione assume un'entità globale in cui elementi melodici, ritmici, armonici, di timbro, di tessitura, d'intensità, di peso sonoro convivono insieme fino a creare un'unità individuale, una sorta di «personalità» sonora che si impone per le sue caratteristiche inconfondibili; ciò avviene anche grazie alla cosiddetta elaborazione motivico-tematica, cioè il lavoro attraverso cui un tema viene elaborato, trasformato, sviscerato nelle sue possibili implicite conseguenze. E’ questa una tecnica di cui Haydn si dimostra maestro e che è evidente in questa Sinfonia presa in esame; tutto il materiale del movimento è presente infatti in embrione nelle battute iniziali dove gli archi espongono una semplicissima successione scalare ascendente seguita da un movimento discendente che si avvolge su sé stesso; si tratta in sostanza dei nuclei dei due temi principali A) e B ) che nella prima parte vengono “presentati” in quella che si definisce esposizione e che ( come di norma ) dalla tonica procede verso la dominante La tecnica eleborativa si evidenzia in pieno nella parte centrale della composizione che prende il nome di sviluppo. Qui i due temi principali vengono rielaborati, intrecciati, fino ad apparire chiaramente come due rami di un unico tronco su uno sfondo armonico caratterizzato da modulazioni e da una direzione che conduce sull’accordo di dominante: è il momento traumatico delle incertezze, delle tensioni, della perdita di stabilità, che viene superato nella sezione seguente in cui i gruppi tematici ricompaiono nella loro forma originaria, entrambi nella tonalità della tonica: si tratta della ripresa che acquista funzioni di stabilità raggiunta e di approdo conclusivo.
Beethoven è il compositore che segna il passaggio da un’era all’altra nella storia della musica. E’ il primo grande musicista che ha alle spalle la Rivoluzione francese di cui condivide gli ideali di fratellanza, libertà e giustizia; è il primo grande musicista del tutto libero da vincoli feudali, al quale riesce ciò che non era riuscito a Mozart: vivere della propria arte; è il primo grande musicista- intellettuale che ha una solida cultura classica ma che conosce bene anche Kant, Goethe, Rousseau, Schiller; è il primo musicista-vate, per il quale la musica, considerata in cima a tutte le attività umane, deve indicare agli uomini un ideale di felicità da raggiungere.
«A prima vista, il carattere di Beethoven ha molti tratti da Sturm und Drang, con abissi di depressione, intemperanza emotiva, stravaganze, sbalzi di umore ( Goethe affermò : «Egli è purtroppo una personalità assolutamente sfrenata»). Si ritrovano in lui di volta in volta molte costanti della sua generazione: l'attrazione-repulsione per Napoleone Bonaparte (come Kleist, Grillparzer, Hegel), la smania dell'eguaglianza giuridica con l'aristocrazia, l'amore intellettuale per l'Inghilterra, patria della democrazia e della libertà (in confronto all'Austria di Metternich), la passione per il mondo classico, la fiducia nel miglioramento dell'umanità». (Pestelli 1979 ).
Nell’insieme l’opera di Beethoven presenta un aspetto generale meno consistente di quella di Mozart e Haydn con tre grandi blocchi di lavori: 32 Sonate per pianoforte, 9 Sinfonie e 16 Quartetti per archi. La drastica riduzione delle opere trova una spiegazione nella condizione sociale del musicista: svincolata dall’occasione immediata e dal “servizio” per un mecenate, ogni creazione nasce da una sua propria motivazione. Netta vi è la preminenza dello strumentale sul vocale con un solo lavoro teatrale, Fidelio. Il processo creativo del musicista può dividersi in tre periodi, seguendo una ripartizione avanzata già dalla storiografia ottocentesca ( von Lenz, 1852):
Questa distinzione risponde sostanzialmente al vero anche se naturalmente ha il difetto di essere troppo schematica rispetto ai mutamenti stilistici che avvennero in maniera più complessa.
Fra le composizioni del «primo periodo» scritte nell'ultimo decennio del Settecento, si annovera una notevole quantità di lavori fra cui i sei quartetti dell'opera 18, la Prima sinfonia, i primi tre Concerti per pianoforte a orchestra e le prime quattro Sonate per violino e pianoforte. Ma sono soprattutto le Sonate per pianoforte (le prime 15 di 32) ad assumere il ruolo trainante. Proprio
come pianista Beethoven si era imposto a Vienna fin dal suo arrivo nel 1792 : il suo modo di suonare e di improvvisare in pubblico apparvero sconvolgenti e gli permisero rapidamente di imporsi all’attenzione anche come compositore. Bisogna ricordare che la Sonata non era genere da concerto pubblico ( Beethoven per. esempio non eseguì mai sue Sonate) ma che la sua diffusione viaggiava attraverso l’enorme espansione in atto del mercato editoriale destinato al consumo privato di musica pianistica. In questo genere Beethoven diede prova di mantenere ferme alcune delle caratteristiche dello stile classico: la frase periodica e articolata, la forma- sonata intesa come azione drammatica per mezzo della tensione fra la tonica e la dominante, ( con un rispetto assoluto della regola principe secondo cui tutto ciò che si è sentito nella dominante deve ritornare alla tonica nel corso della Ripresa ) ; architetture con il punto culminante al centro; struttura e tipologia dei movimenti. Beethoven sembrava in certi casi voler fondere la tecnica di Haydn di espansione del discorso da piccoli nuclei con l’abilità mozartiana nel padroneggiare i rapporti tonali e i temi secondari.
Ma nelle prime composizioni emerge anche lo stile inconfondibile che distingue le opere di Beethoven da quelle di tutti i contemporanei. Anzitutto si tratta della qualità dell'invenzione tematica, che si fonda sulla tendenza a trascurare quei residui di maniera elegante, di tornitura sottile, di gusto di corte, che ancora erano presenti in alcune delle opere di Haydn e di Mozart. In Beethoven il gesto si fa più imperioso a in certi casi assume addirittura tratti di rudezza plebea. In ogni caso i temi tendono a concentrare la loro energia in poche mosse essenziali.
Lo schema costruttivo è quello classico della forma-sonata, ma le contrapposizioni tendono a emergere con maggiore chiarezza e in qualche caso a delineare contrasti fra un primo tema di carattere più affermativo e un secondo tema di natura più sognante, mentre la stessa concisione tematica tende per sua natura a caricare di nuovi significati gli episodi di raccordo a soprattutto quelli di sviluppo. A loro volta alcuni adagi si distinguono per una singolare densità a forza meditativa. Le novità di queste proposte stilistiche furono immediatamente notate dal pubblico a dalla critica dell'epoca che in qualche caso le accusarono di «stranezza», in altri casi le trovarono invece cosi affascinanti a significative da trasformarle in mode, come accadde ad esempio alla Sonata per pianoforte in do minore op. 13 “Patetica” che, subito dopo la sua pubblicazione avvenuta nel 1799, fu più volte sottoposta ad arrangiamenti e imitazioni.
La fantasia e l’attenzione di Beethoven furono fortemente attratte in quegli anni dagli avvenimenti francesi e dalle idee rivoluzionarie: egli divenne così in musica il rappresentante della borghesia emergente, nella sua titanica impresa di trasformare l’assetto politico dell’Europa sottraendo il monopolio del potere alle classi aristocratiche. La società colta di lingua tedesca aveva partecipato idealmente alle vicende della rivoluzione che si svolgeva in Francia e ancor più da vicino aveva vissuto le imprese napoleoniche, se non altro perché Napoleone aveva invaso e sottomesso l'Impero austriaco. Napoleone tuttavia, era di fatto il grande diffusore delle idee rivoluzionarie in Europa, e nei paesi da lui sottomessi i sostenitori delle nuove idee lo accoglievano trionfalmente. La borghesia emergente, nella sua titanica impresa di trasformare l'assetto politico dell'Europa sottraendo il monopolio del potere alle classi aristocratiche, nutrì spesso la sua fantasia di immagini combattive ed eroiche, che si ispiravano talvolta ai grandi esempi della romanità e che Napoleone evidentemente sollecitava. Certi aspetti dell'arte di quegli anni sono caratterizzati appunto da queste immagini eroiche antiche, soprattutto nei generi artistici più alti e solenni: nella tragedia, ad esempio, nella scultura e nella pittura celebrativa, o anche nell'Opera.
Forse il maggiore tributo agli ideali eroici dell’epoca fu la Sinfonia n.3”Eroica” del 1804, inizialmente dedicata a Napoleone (dedica cancellata quando quest’ultimo si incoronò imperatore dei francesi) , con la quale Beethoven creò un modello di “Sinfonia grande” caratterizzata dalla gestualità enfatica, dalle proporzioni colossali ( quasi un’ora di musica), modello che rimase ambitissimo per tutto il secolo. L’ascoltatore è investito da una imponente massa sonora, dall’ampiezza dell'apparato orchestrale, con un discorso che è caratterizzato dalla partecipazione di tutti gli strumenti. Ma non solo per questo la Terza Sinfonia incarna pienamente le proprietà dello stile sinfonico. Il suo stile "grande" si riconnette evidentemente con le teorie tardo settecentesche del sublime ( Hölderlin, Klopstock).
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Quinta Sinfonia op.67
I movimento, Allegro – III movimento- IV Movimento
Il modello di “Sinfonia grande” costituito da Beethoven con “l”Eroica” raggiunse il suo momento paradigmatico con la Quinta sinfonia op.67 (1807) in cui la monumentalità si fonda sulla coesistenza di semplicità e di enfasi, col suo racconto che dalle movenze drammatiche dell’inizio sfocia nel messaggio ottimistico del movimento finale. Il carattere di queste composizioni è evidentemente legato agli entusiasmi delle nuove generazioni, all'avvento della società post-aristocratica: e infatti queste Sinfonie furono considerate dai musicisti tedeschi successivi come modelli dai quali non si poteva prescindere
Il motivo di apertura pone alla base dell’edificio la raffigurazione di una lotta, tesa a vincere il caos e a raggiungere un trionfo finale nel nome della ragione. Ciò avviene non solo nel primo movimento, attraverso la drammaturgia tipica della forma-sonata ( con lo scontro tra i due temi e le due zone tonali, destinato a risolversi nella parte finale del movimento ) ma in un’idea complessiva che lega tutti i movimenti tra di loro. Così come accade in molte altre opere
beethoveniane di questo periodo, i quattro movimenti vengono già dall'inizio concepiti come una sorta di racconto unico suddiviso in fasi strettamente legate fra loro da relazioni interne chiaramente evidenti. Qui l’esaltazione della lotta e del contrasto incarnano in modo inaudito l’idea che questa sia la condizione del miglioramento dell’umanità, con un reticolo di riferimenti di impronta illuministica che ha il suo perno in Rousseau ( il superamento della prova come valore eminentemente educativo). Tutto questo modifica radicalmente le convenzioni della forma e le stesse funzioni della musica strumentale: Beethoven tende irresistibilmente a farla
«parlare», a trasformarla in testimonianza personale e perciò stesso a trasformare il pubblico nel destinatario di un messaggio che va ben al di là di quel diletto collettivo a cui di solito esso era abituato a partecipare.
Il terzo movimento inizia con una introduzione misteriosa, con suoni profondi, cupi, sussurrati, che sembrano uscire da una primordiale oscurità. A questa introduzione si contrappone poco dopo un tema chiaro e ben definito. Il tema è composto di quattro note che hanno esattamente la stessa cellula ritmica del ben più famoso tema del primo tempo: per intenderci il ritmo "ta-ta- ta-tàa" con accento sulla quarta nota. In questo caso, però, le quattro note, diversamente dal primo tempo, hanno tutte la stessa altezza. Dunque il terzo movimento inizia alludendo alle atmosfere tragiche del primo movimento, ma la sua funzione si preciserà a poco a poco come totalmente diversa. Le idee che all'inizio hanno un peso musicale determinante sono due e sono contrapposte fra loro: la melodia presentata nella introduzione e il tema a quattro note appena citato. Tutta la prima parte del brano è costruita sulla alternanza di questi due motivi di diverso carattere. Il tema a quattro note è esposto a piena orchestra con una sonorità imponente in cui emergono spesso i suoni degli ottoni, e il suo ritmo è scandito con accenti forti e regolari: il tutto sembra quasi voler evocare una sorta di marcia, anche se di marcia non si tratta perché la scansione metrica interna è ternaria e non binaria; non è marcia anche perché della marcia non ha i consueti tratti baldanzosi. Si tratta però dell'evocazione di un movimento collettivo, di lentezza austera e solenne. A sua volta il motivo dell'introduzione che ad esso si contrappone, e che inizialmente emergeva dal silenzio con un ritmo incerto e con una melodia tortuosa, si rivela a poco a poco capace di impreviste metamorfosi e ogni volta che si ripresenta non è mai uguale a se stesso. La successione fra i due temi si ripete tre volte; così, nella sua interezza, la prima parte si definisce chiaramente con uno schema come ab – ab - ab.
Nella tradizione settecentesca il terzo movimento di una sinfonia era un minuetto. Beethoven, nella Terza Sinfonia aveva sostituito il minuetto con uno "Scherzo", cioè con una composizione di tipo movimentato e fantastico. Nella Quinta il terzo tempo non è definito né minuetto né scherzo; tuttavia di essi conserva la struttura formale standard, che prevede una prima parte,
(A) una seconda parte totalmente diversa (B) e una terza parte che ripete la prima (A’). La funzione di seconda parte è assunta da un episodio molto diverso dal precedente, dove il tema è basato su rapide pulsazioni e su un ritmo impetuoso e agitato sviluppato con imitazioni
polifoniche fra strumenti diversi, più volte concluse e riprese con energia sempre rinnovata. L'austerità della parte prima non è smentita, perché il procedimento imitativo aveva, sulla base della tradizione europea, un carattere “severo”, sacrale e rituale. C'è tuttavia da notare che man mano che si avvia verso la fine, la sonorità dell'episodio diviene meno cupa, sia per il suono dei legni (flauto, clarinetto, oboe) sia perché il registro si sposta. La terza parte inizia in modo ambiguo: l’ascoltatore dell’epoca si aspettava che venisse presentata come una ripresa più o meno identica della prima parte, e così sembra inizialmente accadere. Tuttavia a poco a poco ci si rende conto che le melodie sono quelle già sentite, ma che gli strumenti che le presentano sono totalmente diversi: in particolare gli archi suonano pizzicando le corde (anziché usando l'arco) e gli ottoni sono sostituiti dai legni. Inoltre la tessitura sonora, che nella prima parte era compatta e robusta, qui è diradata e lieve. Il senso non è più quello di una grave marcia; piuttosto si tratta del ricordo di un episodio precedente che gradualmente si va disperdendo, come se le intenzioni cupe che dominavano all'inizio, si allontanassero a poco a poco dalla scena.
Alla fine l’episodio fluisce direttamente nell'ultimo tempo della sinfonia che inizia subito con un
andamento ottimistico in do maggiore. Sostenuto da un’orchestra ampliata il tema, superbo e trionfale ha il potere di spazzare via ogni elemento oscuro attraverso la sua forza vulcanica. Costruito in forma-sonata, questo movimento presenta dopo la Ripresa un’enorme coda che ha la funzione di risolvere definitivamente tutta l’instabilità e l’inquietudine dei movimento precedenti. Con il suo carattere di trionfale catarsi, di gesto liberatorio e vittorioso, il Finale acquista il suo significato solo se viene connesso con i dubbi, con le oscurità che lo precedono affermandosi dunque, non più come brano gradevole e relativamente “facile” della tradizione settecentesca, ma come vero, decisivo esito della costruzione sinfonica. ( Baroni 2003)
Sonata in Mi maggiore op.109: III movimento
straordinariamente concisi e la grande espansione del terzo movimento, un tema con variazioni su cui è spostato il baricentro. Nel primo movimento agisce una sorta di distillazione delle procedure classiche: nelle prime otto battute abbiamo il primo tema, il ponte e l’inizio del secondo tema; quest’ultimo appare come un organismo a sé stante e completamente indipendente per tempo, ritmo e materiale tematico : una vera e propria "immagine" musicale autonoma e strutturalmente integrata. La forma-sonata assume qui una meravigliosa apparenza rapsodica, tutto il discorso suona come un'improvvisazione e nulla più resta di quei gesti imperiosi e fulminei, che in poche note tracciavano il gioco di forze.
Nell’ultimo movimento la crisi del tema come protagonista-eroe si manifesta nella frantumazione del profilo tematico, una melodia semplicissima dall’andamento quasi dimesso (otto battute dalla tonica alla dominante più otto battute dalla dominante alla tonica). Nelle variazioni di Haydn e Mozart in genere era sempre riconoscibile tutto il tema; per l’ultimo Beethoven invece l'unico elemento necessario è il nudo scheletro armonico e melodico e nel corso delle variazioni vi è un progressivo isolamento dei differenti aspetti del tema, quasi che Beethoven voglia chiarirli ad uno ad uno, non dando l'impressione di decorare il tema ma di svelarne l’essenza. Nella prima variazione una incantevole melodia sboccia sul nudo schema degli accordi; nella seconda Beethoven applica al tema le figurazioni del I movimento; la terza, quarta e quinta “scavano” in profondità le implicazioni contrappuntistiche prima che la sesta e ultima variazione conduca alla polverizzazione nel materiale tematico attraverso la proliferazione di parti intermedie, che finiscono per dissolversi in un doppio trillo sulla dominante da cui il tema riemerge con lievi ritocchi: qualche raddoppio di ottava al grave basta per calare un'ombra crepuscolare su questo struggente congedo.
SCHEDA 13
Il pianoforte romantico
Non è certo un caso che i quattro maggiori esponenti della “generazione romantica” — Felix Mendelssohn, Robert Schumann, Fréderic Chopin e Franz Liszt — furono tutti pianisti e dedicarono al loro strumento buona parte della loro attenzione. Si è visto quale importanza il pianoforte conquistò nella cultura borghese dell’Ottocento e quali trasformazioni lo portarono – verso la metà del secolo – al suo massimo grado di efficienza e di potenza. Sia in sala da concerto che nel mercato editoriale ( e dunque nell’esecuzione privata ) i musicisti romantici spostarono il centro di gravità dalla Sonata ( prediletta da Mozart e Beethoven) ad una serie di generi e sottogeneri accomunati dal fatto di essere di dimensioni ridotte, in un processo che vedeva l’impostazione formale, che puntava sul disegno di fondo dei temi e sul loro sviluppo, relegata in secondo piano rispetto alla suggestione immediata del motivo, alla tessitura, al timbro, alla tecnica strumentale.
I 48 Lieder ohne worte (Lieder senza parole) , furono senza dubbio la raccolta di composizioni pianistiche di maggior successo di Felix Mendelssohn: “fogli d’album” che per le loro piccole dimensioni, la concisa e perfetta espressione, esplorano i problemi e le possibilità della cantabilità pianistica, con soluzioni ingegnose e tecniche di volta in volta diverse. (7 traccia
25) Tra le altre composizioni pianistiche del musicista amburghese bisogna ricordare anche i
sei Preludi e fughe che rimandano al recupero storico di Bach, diventato oggetto di culto, in parte proprio grazie alla breve ma intensissima attività di Mendelssohn come direttore d'orchestra, pianista e organizzatore nelle maggiori città tedesche (Berlino, Lipsia, Dusseldorf).
Più di Mendelssohn fu però la figura di Robert Schumann ad incarnare nel mondo musicale tedesco le nuove tendenze romantiche. La categoria del « poetico» può servire ad accostare alcuni aspetti essenziali del mondo di Schumann che fu per qualche tempo diviso tra la vocazione musicale e quella di scrittore e che non nascose le matrici letterarie di molte sue opere, a cominciare dai pianistici Papillons op. 2 (1829), che sono il suo primo capolavoro e rimandano ad un capitolo dei Flehejahre, romanzo di Jean Paul Richter. Ma in Schumann non è mai in discussione la vera e propria autonomia della musica, sebbene la sua opera sia fitta di rimandi ed allusioni, di riferimenti che tuttavia non vogliono essere troppo vincolanti: solo apparentemente le sue posizioni sulla natura « poetica » della musica possono riuscire vaghe o contraddittorie, perché alla loro base c'è l'intuizione (tipicamente romantica, di una sorta di naturale contiguità e continuità tra arti diverse, quasi di una affinità elettiva tra poesia e musica, e dunque della possibilità di combinarle, di trasformare e prolungare l'una nell'altra senza tradirne l'intima natura. A Jean Paul e a Ernst Theodor Hoffmann, ma anche a Tieck e Friedrich Schlegel — grandi scrittori della letteratura romantica tedesca — la fantasia di Schumann fece più volte ricorso, e al
loro mondo si riconducono spesso titoli, immagini poetiche, personaggi della sua musica o dei suoi scritti critici: ad esempio l'invenzione del “Davidsbündler” (“Affiliati alla lega di Davide”), i membri dell'ideale confraternita che con Schumann condivideva i programmi estetici e la lotta contro la gretta meschinità e il gusto ottuso dei «Filistei». Nella prefazione alla raccolta dei suoi scritti (che erano stati prevalentemente pubblicati sulla rivista «Neue Zeitschrift für Musik» da lui fondata a Lipsia nel 1834) Schumann spiegava chi erano i personaggi immaginari che vi comparivano: « Parve opportuno, per permettere ai differenti aspetti della concezione artistica di manifestarsi, di creare dei caratteri artistici opposti, e fra essi Florestano ed Eusebio, che il Maestro Raro aveva il compito di conciliare, erano i più ragguardevoli. La confraternita dei Davidsbündler si sviluppò come un filo rosso attraverso tutta la rivista, legando Verità e poesia in modo umoristico ». Verità e poesia (citazione da Goethe) si mescolavano perché della confraternita facevano parte idealmente persone reali vicine a Schumann, come la moglie Clara Wieck — grande pianista che il compositore sposò nel 1840 dopo aver superato (anche in tribunale) la tenace, durissima opposizione del padre di lei, Friedrich, apprezzato didatta e maestro di pianoforte dello stesso Schumann — e Mendelssohn. Suggestioni di Hoffmann e Jean Paul sono evidenti nell'idea di Schumann di sdoppiarsi nelle personalità opposte e complementari di Florestano ed Eusebio: il loro dualismo è al centro dei Davidsbundlertänze op. 6 (“Danze degli affiliati della lega di Davide”, 1837), 18 «pezzi caratteristici » (la danza è poeticamente intesa come emblema di un libero gioco fantastico) firmati di volta in volta da Eusebio — malinconicamente introverso e incline alla lirica tenerezza — o da Florestano — ardente, appassionato, pronto ad espressioni di lacerante dolore o di estroso umorismo — o da entrambi. Il ciclo di pezzi «caratteristici» di diverse dimensioni, legati da una rete di più o meno palesi relazioni interne, da rimandi segreti, e da una sapiente organizzazione dei rapporti tonali e dei caratteri espressivi, predomina nella produzione pianistica cui è dedicata in modo pressoché esclusivo la prima fase della attività di Schumann, nel decennio 1829-39, con i grandi esiti di: Davidsbundlertanze ( Danze della lega dei fratelli di Davide ) op.6, Carnaval op.9, Phantasiestucke ( Pezzi fantastici) op.12, Kinderszenen ( Scene infantili ) op.15, Kleisleriana op.16. Culmina in questi polittici la ricerca romantica di un’alternativa di vasto respiro alla forma-sonata nella organizzazione ciclica, e in essa si trasfigura compiutamente, sotto il segno di una prodigiosa varietà fantastica e di un linguaggio armonico e contrappuntistico originalissimo, il diffuso repertorio di danze, pezzi da salotto, pagine brillanti dei pianisti virtuosi.
Il filone del pezzo breve era già stato inaugurato da Schubert e proseguito da Mendelssohn: abbandonata l’architettura complessa tipica dello stile classico. Già Mendelssohn e Schubert si erano concentrati sul concetto di "motivo", un’idea tematica fulminea, pregnante ed eloquente che dava al pezzo appunto il suo “carattere” e all’invenzione timbrica su uno strumento che in quegli anni stava subendo fondamentali modifiche. Per «caratteristico» Schumann, tuttavia, intende ciò che è dotato di un proprio inconfondibile carattere e che perciò è premessa indispensabile della
«musica poetica»; quest’ultima è a sua volta una categoria fondamentale con cui il compositore intende una musica dotata di qualità romantiche, quindi una musica non comune, non convenzionale, dotata di appunto di una fisionomia unica e inimitabile in quanto nata dalla più oscura dimensione dello spirito e che perciò introduce in un mondo superiore”. Ne deriva un altro concetto peculiarmente romantico ( già a suo tempo sbandierato da Fredrich Schlegel ), quello dello spirito “combinatorio-profondo” consistente nell’amalgama di elementi musicali ed extra- musicali.
Nella straordinaria fioritura pianistica iniziale il ciclo di «pezzi caratteristici» non è l'unico problema formale affrontato. Gli Studi sinfonici op. 13 (1834-37) sono in forma di variazioni su un tema e costituiscono uno dei testi fondamentali nella storia della variazione ottocentesca: sono «sinfonici » per il carattere della scrittura pianistica, «strumentata» con ricchezza orchestrale. Schumann si accostò con esiti originali anche alle forme sonatistiche, con le tre Sonate e soprattutto con la Fantasia op.17 pubblicata nel 1839 con dedica a Franz Liszt e con una citazione da Friedrich Schlegel come motto. È tipica del pensiero di Schumann la rete di relazioni interne che caratterizza quest’ampia composizione con intreccio di allusioni anticipazioni, rimandi (ad esempio la citazione di un frammento dell'ultimo Lied di All'amata lontana di Beethoven, che appare alla fine, svela affinità con entrambi i temi principali).
Robert Schumann
La poetica musicale di Schumann è pienamente delineata nel Carnaval op.9 (1835), il cui sottotitolo, «scènes mignonnes sur quatre notes», allude ad un nucleo motivico di quattro note che funge da spunto generatore per il ciclo di 21 brevi pezzi. Le note corrispondono alle lettere musicali A S C H, che lette di seguito danno il nome del villaggio natale della donna allora da lui amata, Ernestine von Fricken, che egli poi lasciò per legarsi a Clara Wieck, lettere che sono presenti anche nel cognome del compositore. Hoffmanniana è l'idea di porre sotto il segno del carnevale — situazione privilegiata che fa scoprire verità più profonde di quelle consentite dall'ottica quotidiana — la fantasmagoria dei brevi pezzi, l'agile trapassare della fantasia da una immagine all'altra nella rapida sfilata di maschere e ritratti, fine al loro riunirsi nello slancio della conclusiva Marcia dei Davidsbundler contro i Filistei, in cui la sfida alle convenzioni è rappresentata prima di tutto dal ritmo ternario, impossibile in una marcia.
Tutti i personaggi di questo carnevale (tranne i pezzi intitolati a Paganini e Chopin ) vengono caratterizzati con il ricorso alle quattro note che, in tre diverse combinazioni, formano come nucleo subliminale del ciclo, visualizzato, al centro con il titolo “Sfingi” e con la prescrizione
«queste note non si suonano».
Anche i due diversi volti che Schumann amava attribuire a sé stesso nei suoi scritti critici, sono presenti nel polittico ecco dunque al numero 5, Eusebius, personaggio malinconico, introverso, incline alla tenerezza, e al numero 6 Florestan, ardente, appassionato, “estremo” nel dolore e nella gioia
In un pezzo come Florestan , (38) Schumann concepisce una forma di autocitazione (un frammento iniziale dei Papillons op.2 ) che ha qualcosa di assolutamente inaudito. Rivoluzionaria non è la citazione in sé ma il modo in cui appare che la fa percepire come un vero e proprio ricordo; la breve sigla melodica infatti è isolata con un cambiamento di suono e tempo e appare un’intrusa anche a chi non la conosce, attraverso due apparizioni: la prima affiora in pianissimo, e fugacemente, come un ricordo imperfetto proveniente da lontano; la seconda apparizione è più chiara ma in breve il la figura di Papillons viene come incorporata nel resto del brano e il ricordo è completamente assimilato al presente. (Rosen 1995) Questo istante è emblematico della concezione schumanniana del tempo: non più evolutiva e lineare ma ciclica e iterativa, con una reminiscenza che altera la regolare successione del prima e del dopo.
All'inizio degli anni Trenta del XIX secolo, Parigi divenne il centro del pianismo internazionale, con una legione di campioni della tastiera che si chiamavano Kalkbrenner, Herz, Hiller, Alkan, Pixis, Chopin, Liszt, e con competizioni che richiamavano colleghi dall'estero, come Thalberg, d'abitudine residente a Vienna. I termini agonistici appena impiegati non sono da intendersi in senso puramente metaforico, in quanto il pubblico medio, come già per le grandi ugole che si producevano all'Opéra, stimolato da questa moltitudine di virtuosi, seguiva con passione agonistica le loro esecuzioni, facendo poi confronti e classifiche. E i pianisti come veri e propri “atleti”, si tenevano in costante allenamento con tecniche ed esercizi che sviluppavano una sbalorditiva agilità, impiegata poi nelle variazioni e nelle parafrasi su motivi celebri in cui il virtuoso poteva esibire tutta la propria bravura quale improvvisatore e commentatore, decorando e sviluppando quegli stessi temi che godevano di una vasta popolarità presso il pubblico del teatro d'opera. A questi atleti, che mettevano a dura prova la resistenza di corde e tastiere, case produttrici di pianoforti come Érard e Pleyel, fornivano strumenti perfezionati che, mediante l'impiego di principi costruttivi di recente invenzione come quello del doppio scappamento (che permetteva ai tasti di colpire la corda più rapidamente ) rendevano possibile la pratica di tecniche esecutive nuove ed un rinforzo del volume sonoro rispetto agli strumenti del passato; sicché i concerti pianistici potevano ora tenersi in sale più vaste e capienti e la performance ne guadagnava in spettacolarità.
Le esibizioni parigine di Niccolò Paganini rappresentarono un ulteriore stimolo all'esercizio del virtuosismo, creando nell’ambiente pianistico un fortissimo spirito di emulazione incrementato dalla consapevolezza che i pianisti avevano delle straordinarie qualità sonore e meccaniche del loro strumento. Primo fra tutti fu l’ungherese Franz Liszt che, stabilitosi a Parigi nel 1823, ebbe dal virtuosismo di Paganini la rivelazione di un nuovo mondo da esplorare: attraverso Paganini, Liszt arrivò in breve alla folgorante scoperta che il virtuosismo poteva non limitarsi ad essere uno sterile esercizio esibizionistico, ma poteva diventare una delle vie maestre della "rivoluzione romantica" con l’invenzione di una tecnica pianistica di cui non esisteva la minima traccia fino a quel momento. Un terreno di ricerca fondamentale in tal senso fu costituito dagli Studi di esecuzione trascendentale (1837-38), di cui un esempio è il n. 8 intitolato Wilde Jagd, cioè “Caccia selvaggia”, (traccia 27) : il virtuosismo violinistico di Paganini viene infatti portato da Liszt sul pianoforte ad una dimensione “trascendentale”, cioè capace di investire la materia sonora di un tale getto di violenza fantastica da trascenderne i limiti. Nell’esempio in questione il volume sonoro parossistico ottenuto con le ottave martellate, si abbina ad una continua oscillazione fra il registro grave e quello acuto che si traduce per il pianista in una serie di salti tanto rischiosi quanto spettacolari e la tastiera viene sollecitata in tutta la sua estensione; nella parte centrale poi l’ingresso di un tema più cantabile si abbina ad una difficoltà di ordine ritmico in quanto si sovrappongono un ritmo ternario alla mano destra su un ritmo binario alla mano sinistra. Dunque si tratta di un virtuosismo che, se nella dimensione più esteriore e spettacolare significa appunto atletismo ed esibizionismo, in quella più schiettamente musicale significa invece sperimentalismo sonoro, violenza operata nei confronti dello strumento per ampliarne illimitatamente le possibilità foniche ed espressive, per carpirne i segreti più nascosti. Sicché, se da un lato la carriera pianistica di Liszt appartiene alla storia del costume in quanto anticipa quel fenomeno cosi caratteristico dei nostri tempi che è il coinvolgimento delirante di un pubblico (l'adorazione ed il fanatismo di uno stuolo di fans che seguono il loro idolo e cercano di impossessarsi di qualche sua reliquia ) nell'ambito della storia dell'arte esecutiva apre un capitolo nuovo in quanto Liszt riusciva ad infondere alle opere musicali una carica comunicativa particolare: riusciva a trasformare la musica in autentico linguaggio, in gesto fonico, mediante una mimica ed una gestualità che non sortiva solamente esiti spettacolari, ma con la partecipazione di tutto il corpo all'esecuzione, creava una straordinaria varietà di tocco.
Da qui poi la capacità di trasporre sulla tastiera, attraverso il genere della trascrizione o parafrasi, le sonorità e la volumetria sonora di un'intera orchestra come le minime sfumature espressive di una melodia vocale; l'intensa attività di trascrizione di opere sinfoniche e teatrali del passato prossimo (le sinfonie di Beethoven e le opere di Mozart) e del presente (memorabile quella della Fantastica di Berlioz), di Lieder di Schubert, la cui esecuzione in concerto, in un'epoca in cui la diffusione della musica era molto più lenta ed occasionale di oggi, svolgeva tra l'altro un'importante funzione di divulgazione culturale; tanto più che Liszt, anche in questo distinguendosi dai colleghi, inserì presto nel proprio repertorio composizioni per tastiera di maestri del passato più o meno prossimo, da Haendel, Bach a Scarlatti a Weber, Beethoven fino ai suoi contemporanei, inaugurando quel tipo di concerto storico che, con le dovute modifiche a trasformazioni, è ancora in auge oggi, con il nome di recital: un concerto il cui protagonista unico è appunto il pianista che si esibisce suonando a memoria programmi interi, spesso anche molto lunghi.
Le Années de pèlerinage, (Anni di pellegrinaggio) sono un’importantissima raccolta pianistica di Franz Liszt comprendente ventisei pezzi divisi in tre quaderni, composti in un arco di tempo che abbraccia circa quarant’anni: una specie di diario musicale che accoglie programmaticamente le suggestioni di letture, di vedute panoramiche o di opere d’arte, trasponendole nelle sonorità inaudite del suo prodigioso virtuosismo pianistico.
Il “pellegrinaggio” del titolo si riferisce in larga parte ai viaggi compiuti da Liszt fra il 1835 e il 1839 in Svizzera e in Italia, in compagnia della contessa Marie D’Agoult (nata de Flavigny). Dall’unione fra Liszt e la contessa nacquero tre figli. Marie de Flavigny proveniente da una famiglia dell’aristocrazia legittimista, era andata in sposa nel 1827 al conte Charles D’Agoult dal quale aveva avuto due figlie. Colta, raffinata, indipendente, Marie aveva trovato sulla sua strada nel 1833 un Liszt ventiduenne già pianista di enorme successo, appena uscito da una crisi spirituale che dopo averlo portato a pensare seriamente di prendere i voti, lo aveva condotto ad aderire al socialismo umanitario tinto di riflessi religiosi di Saint-Simon e dell’abate Lamennais. La relazione clandestina spinse i due a “fuggire” in Svizzera e dare inizio ai “pellegrinaggi” di Liszt.
Lo Sposalizio è riferito allo Sposalizio della vergine, di Raffaello Sanzio, olio su tavola del 1504. La celebre tavola di Raffaello viene vista da Liszt e Marie D’Agoult nella Pinacoteca di Brera a Milano nel settembre 1837. Il ricordo della celebre tavola si accompagna alla lettura fatta durante i mesi trascorsi in Italia delle Vite di Vasari e della biografia di Raffaello di Johann David Passavant (prima monografia su Raffaello 1839). Il modo in cui Liszt “ interpreta” in un testo musicale il testo pittorico è evocativo-allusivo e non banalmente descrittivo.
Il testo musicale è costruito su tre nuclei: 2 motivi (di breve estensione) e un tema (di estensione più ampia ):
Motivo A : motivo iniziale “orizzontale” puramente melodico, lineare basato su una successione pentatonica ( cioè su una scala di cinque suoni, al posto dei consueti sette)
Motivo B : “anticipato” nella seconda battuta e più chiaramente esposto più avanti : è invece “verticale”, basato su accordi semplici, ma anche su una chiara successione di proposta (mano destra) -risposta ( mano sinistra) .
Tema C : più lento appare in “pianissimo” con arpeggi e accordi la cui superficie disegna una linea ascendente
L’inizio del “Pensieroso” è tutto in sonorità ridotta al minimo. “Dolce” e “dolcissimo” prescrive Liszt in questa prima fase contrassegnata anche da pause e silenzi. Poi il volume aumenta e nella parte centrale ecco che il motivo lineare A diventa l’accompagnamento del tema C.
Le analogie sottili fra il testo musicale e tavola di Raffaello sono le seguenti:
Il motivo B) con il suo schema proposta-risposta allude abbastanza esplicitamente alla domanda di matrimonio.
Il tema C) semplice e intenso, è associato alla figura della Vergine Maria : è lo stesso Liszt a fornire quest’elemento di identificazione attraverso una più tarda trascrizione del pezzo per voce e organo nella quale la comparsa di questo tema corrisponde alle parole «Ave Maria». Secondo Serge Gut questa “figura musicale” allude anche a Marie D’Agoult associata per alcuni suoi tratti all’iconografia raffaellesca della Madonna.
Il modo in cui i tre nuclei vengono disposti nel tempo e nello spazio da Liszt suggerisce che la prima parte del pezzo corrisponda alla “rappresentazione musicale” dei due piani principali del dipinto, quello del Tempio ( A) e quello della scena in primo piano ( B e C ).
Nello sviluppo del pezzo però i due piani vengono messi in relazione creando una “prospettiva musicale”: A) diventa lo sfondo di C) così come il tempio diventa lo sfondo, ma anche il perno prospettico della scena in primo piano
Nell'elenco dei grandi pianisti attivi nella capitale francese spicca anche un grande protagonista del movimento romantico: Fryderyk Chopin, ma le sue doti esecutive erano di nature totalmente diverse da quelle coltivate dagli “atleti della tastiera”. Doti che, in accordo con il proprio mondo poetico e creativo, consistevano in un fraseggio mirabilmente sciolto e leggero e in un tocco straordinariamente sensibile che gli permetteva di realizzare una gamma timbrica sfumatissima, una tavolozza sonora con sottilissime gradazioni di mezze time. Come Liszt, era un emigrato ma mentre il suo collega di origine ungherese aveva ricevuto la sua prima formazione nella Vienna anni Venti, nel cuore dell'impero asburgico, aprendosi presto ad un disinvolto cosmopolitismo, Chopin invece si formò a Varsavia, ricevendo una fortissima impronta dal clima ben più provinciale ed etnicamente caratterizzato della capitale polacca, da sempre esposta alle mire espansionistiche della Russia. In patria Chopin aveva iniziato una carriera esecutiva e compositiva nell'ambito dei generi pianistici che andavano per la maggiore all'epoca: due Concerti per pianoforte e orchestra, (con quest’ultima sullo sfondo ed il pianoforte che assume un ruolo di assoluto protagonismo), variazioni su temi celebri, cimentandosi anche nella sonata e nella composizione cameristica.
Quando, dopo uno sfortunato soggiorno viennese, costretto dalle vicende politiche, fissò la residenza a Parigi, la sua carriera di pianista e compositore subì una svolta brusca e radicale. Anziché gettarsi nell'affollatissimo agone pianistico, in accordo con la propria personalità umana e artistica, si inserì nel milieu dell'aristocrazia internazionale di censo e di sangue residente nella capitale francese (fra cui quella polacca), sostentandosi principalmente con le lezioni private ed esibendosi quasi esclusivamente in salotti frequentati dal fiore della cerchia intellettuale parigina. Al riparo dai condizionamenti del gusto imperante poté cosi concentrarsi con esclusività e continuità sulla ricerca attorno alle sonorità ed al linguaggio pianistico e sui generi che canalizzavano la ricerca sul pezzo breve: Polacche e Mazurche, Notturni ed Improvvisi, Studi e Preludi, Scherzi e Ballate. Generi o appartenenti alla sfera dell'intrattenimento salottiero, o attraverso la stilizzazione di movenze o forme di danza (le Polacche, le Mazurche e i Valzer), o della romanza sentimentale patetica e sognante (il Notturno), opere legate a quella più propriamente didattica (come gli Studi e i Preludi).
La musica di Chopin ebbe legami evidenti con il mondo tardo-barocco e galante: la sua posizione all’interno del movimento romantico è particolarissima trattandosi di un’arte concentrata sulla capacità espressiva, sulla grazia dell’ornamentazione, sulla sottile sensibilità che pervadono i generi che il genio chopiniano riplasma ed eleva di rango sottraendoli alla loro dimensione di intrattenimento borghese. Al fondo agisce una fortissima spinta all’astrazione che trova una prova evidente nel rifiuto di utilizzare titoli allusivi per le sue opere ed è confermata peraltro dal fastidio
con cui Chopin reagiva al tentativo di spiegare la sua musica con motivazioni extra-musicali ( Di Benedetto 1982)
Astrazione, stilizzazione, perfezionamento formale agiscono anche su quei generi “da salotto” , generi di intrattenimento borghese che ormai inflazionavano il mercato della musica pianistica europea. Chopin ad esempio dedicò costanti attenzioni al genere della Mazurca: si trattava di da danza popolare polacca, originaria della regione della Mezovia, in ritmo ternario con caratteristico accento sul secondo tempo della battuta; essa era divenuta molto popolare alla fine del Settecento come danza di sala leggera. Nelle mani di Chopin la mazurca, pur presentando ancora legami con gli archetipi popolari (l’accento sul secondo tempo, l’uso di figurazioni melodiche tipiche, gli ostinati ritmici ) si trasforma in brano introspettivo, con soluzioni armoniche ardite, e con squarci lirici fulminei carichi di struggenti inflessioni nostalgiche (traccia 29).
Un analogo processo di affinamento formale e stilistico si individua nel Notturno. In questo caso il punto di partenza era dato dai pezzi pianistici apparsi con questo titolo per opera del pianista- compositore irlandese John Field (1782-1837): si trattava di brevi composizioni di carattere melodico e sognante apparse negli anni dieci che ebbero immediato successo nell’Europa del primo Ottocento, in quanto perfettamente calate nella dimensione della salonmusik. Oscillando fra momenti di intima confessione e più aperti sfoghi lirici ispirati ad una cantabilità di ascendenza vocale e operistica, spesso Chopin impiega nei suoi omonimi brani melodie “lunghe” sul modello di quelle di Vincenzo Bellini, linee che sembrano rigenerarsi in spirali liriche inesauste, che a volte si ripresentano con ornamentazioni fantasiose e altre volte tendono a ramificarsi in più voci, creando una illusoria polifonia (traccia 30).
L'arte di Chopin, che suona spesso come esito naturale e spontaneo, quasi improvvisato, nonostante egli fosse anche un grande improvvisatore, è frutto di un sofferto travaglio creativo, di una costante ricerca di perfezione e di compiutezza formale. Sofisticatissime appaiono spesso le soluzioni armoniche che conferiscono agli accordi una funzione timbrica creando una sfumatissima gamma di risonanze e di atmosfere sonore, anticipando un lessico che la cultura europea farà suo mezzo secolo dopo: celebre è l’esempio dell’accordo che chiude la misteriosa introduzione della Prima Ballata, accordo inspiegabile per la teoria ottocentesca che spesso venne “corretto” in molte delle prime edizioni di questo pezzo.
I due universi pianistici di Liszt e Chopin, cosi diversi ed anzi antitetici — il primo tutto proteso alla ricerca di un linguaggio che traduca fedelmente in immagini sonore le sue fantasie poetiche e quelle evocate dalla musica altrui, il secondo totalmente calato nella ricerca creativa assoluta, avulsa da qualsiasi contenuto extramusicale esplicito — non rappresentano solamente due risposte diverse al tormento creativo di due artisti profondamente coinvolti nel clima culturale del ventennio che precede la metà del secolo XIX; per vie di comunicazione anch'esse opposte tracceranno due profondissimi solchi nella cultura musicale francese non solo ottocentesca, ma anche novecentesca: basti pensare a Debussy e Ravel.
La prima della Sinfonia fantastica a Parigi colpì profondamente la sensibilità di Liszt, il quale dopo averne realizzato una magistrale trascrizione per pianoforte, suonata spesso nei suoi recitals, riprese l’ideale della “musica a programma” nelle composizioni orchestrali scritte dopo il suo trasferimento a Weimar, chiudendo il periodo “nomade” della sua vita. Ora Liszt è l'alfiere del nuovo vangelo artistico che cerca di trasformare Weimar in una nuova Atene della «musica dell’avvenire»: innanzitutto promuovendo l'esecuzione delle opere e delle composizioni degli esponenti di punta della tendenza «progressista» - Wagner e Berlioz in primis -, quindi dedicandosi con intensità e continuità alla creazione dei suoi poemi sinfonici.
Negli anni di Weimar l’'arte musicale diventa esplicita e programmatica sublimazione poetico-so- nora del vissuto, processo osmotico tra le emozioni estetiche e personali e le fantasie sonore. E’ nell'ambito orchestrale che Liszt concepisce i suoi progetti più ambiziosi, con una serie di 13 poemi sinfonici e due sinfonie programmatiche dedicate l'una al Faust di Goethe (Faust- Symphonie) e l'altra alla Commedia dantesca (Dante-Symphonie,) che già gli aveva ispirato una Fantasia quasi sonata per pianoforte (nel 1849) inserita nel secondo anno delle Années de Pèlerinage dedicato all'Italia. Liszt coniò il termine Sinfonische Dichtung (appunto “Poema sinfonico” ) per designare una composizione orchestrale in un tempo solo che non rispetta le forme classiche e che si basa su fonti extra musicali, in genere letterarie. L'invenzione di questo genere era legata a tre esigenze fondamentali:
In questo senso il poema sinfonico così come concepito da Liszt rappresentava un’evoluzione della musica a programma che lo stesso Liszt aveva così descritto: «Nella cosiddetta musica classica la ripresa e lo viluppo dei temi sono legati determinati da regole formali , considerate irrefutabili (…) Nella musica a programma invece, ripetizioni, alternanze e variazioni, modulazioni dei motivi sono condizionate da un’idea poetica».
Franz Liszt
Mazeppa, poema sinfonico (1854): I parte
I poemi sinfonici listziani denotano la piena maturazione di quella concezione già operante nella sua precedente fase compositiva per cui la creatività musicale si impregna fortemente di contenuti poetici extramusicali, e d’altro lato mostrano l’esigenza di ampliare le dimensioni delle composizioni
mediante criteri diversi da quelli tradizionali: criteri che possono anche recuperare certi principi o ricalcare certi schemi tradizionali come la forma-sonata, ma in un’ottica defunzionalizzata, in cui lo schema poetico funge da guida narrativa, orientando l’itinerario espressivo lungo traiettorie impreviste e imprevedibili. Questo sperimentalismo linguistico caratterizzerà anche la tarda stagione creativa lisztiana con una serie di brani pianistici che si svolgeranno su disegni quasi atonali, con aspri urti dissonanti inaudite sovrapposizioni di accordi.
Mazeppa è il sesto poema sinfonico composto da Liszt. Alla sua base c’è un poema di Victor Hugo ispirato alla storia di Ivan Mazepa nato nel 1644 a Kiev, paggio alla corte del re di Polonia. A causa di una relazione con una nobildonna Mazeppa fu condannato e legato nudo al dorso di un cavallo ucraino; il cavallo tornò in Ucraina e Mazepa semivivo fu raccolto e curato dai cosacchi di cui più tardi divenne capo. Hugo nel suo poemetto contenuto nelle Horientales aveva fatto di Mazeppa il simbolo dell'artista che, trascinato dal suo genio, attraverso la sofferenza diventa poeta. (Il poemetto è preceduto come epigrafe da un verso del Mazeppa di Byron "Avanti! Avanti!").
Il poema sinfonico di Liszt è diviso in due parti chiaramente separate: la cavalcata e il trionfo. Nella prima parte viene descritta con vividi e crudi colori la cavalcata selvaggia; inizia con uno scoppio, secco come una frustata, seguito dal movimento degli archi nel quale Liszt vuole dare il senso della cavalcata mortale. Ma il movimento è solo un'introduzione che serve a preparare con un grande crescendo di intensità il tema principale, il canto disperato e selvaggio di Mazeppa in re minore. Come ha notato Carl Dahlhaus questa sezione del poema di Liszt è formalmente ambigua: la tabella che segue mostra come il discorso sonoro possa essere schematizzato o come forma di tema con variazioni o come Liedform ABA o come forma-sonata. «La forma musicale doveva rimanere nell’ombra , secondo un dogma dell’estetica contenutistica condiviso anche da Wagner, che lo spiegò proprio nel saggio sui poemi sinfonici di Liszt: la forma non doveva essere fine, ma mezzo della realizzazione dell’«intenzione poetica» ( Dahlhaus 1970)
Con La traviata che Verdi rinnova gli orizzonti tradizionali del melodramma con tecniche drammaturgiche e musicali solo in parte tentate nel repertorio precedente; qui il dramma popolare lascia il posto a un dramma borghese che si accosta come mai fino ad allora alla dimensione del realismo quotidiano. Verdi si schiera a favore del libero amore, presentando in termini positivi il personaggio di Violetta Valery a cui la morale corrente proibisce di vivere insieme all’uomo amato. Quest’opera può essere assunta come termine di riferimento per evidenziare come le forme musicali verdiane degli anni cinquanta accolgano ampiamente l'esperienza del melodramma precedente rinnovandola tuttavia in alcuni aspetti essenziali. L'unità musicale non è ormai più data, come nel vecchio teatro di tradizione settecentesca, dalla schematica successione di recitativi e arie, ma non è neppure del tutto libera. La presenza di schemi formali precostituiti, di «numeri chiusi» , è ancora viva in questo periodo e ancora pienamente funzionale alle attese del pubblico, che amava costellare lo spettacolo degli applausi forniti a ciascun cantante alla fine del suo pezzo. Le strutture musicali tendono in Verdi, dunque ad adattare le forme tradizionali alle esigenze del teatro moderno. Cosi, ad esempio, il recitativo assume talora una continuità di linee melodiche e un impegno espressivo che lo avvicina all'aria; e questa a sua volta può farsi meno compatta e meno formalmente rigorosa cosi da aderire più prontamente alla concretezza delle situazioni rappresentate
La Traviata ( libretto F.M. Piave) ( 1853)
Parigi, nella lussuosa casa di Violetta Valéry, «cortigiana» di alto bordo, è in corso l’ennesima festa. Vi partecipano i soliti mondani aristocratici, le loro ‘signore’, qualche dama di dubbia nobiltà e moralità. È un tripudio di chiacchiere, di risate e di musica. Durante la festa Violetta conosce Alfredo Germont: i due si innamorano e decidono di vivere insieme, in una casa di campagna, lontani dalla confusione e dalla vita brillante della città. Mentre Alfredo è assente, giunge suo padre, Giorgio Germont, il quale, nel corso di un drammatico colloquio con Violetta, le chiede di troncare la sua relazione con il figlio poiché tale rapporto costituisce motivo di disonore per tutta la famiglia. Violetta, pur con grande dolore, compie il sacrificio richiestole, abbandona Alfredo e torna a Parigi, dove riprende a frequentare numerose feste e diviene l'amante del Barone Douphol. Anche Alfredo raggiunge Parigi e, proprio durante un trattenimento in casa di comuni amici, incontra nuovamente Violetta e la insulta pubblicamente, gettandole ai piedi, in segno di disprezzo, una borsa piena di denaro. Nel finale dell'opera, Violetta, malata di tubercolosi e senza speranza, giace nel suo letto e invoca il ritorno e il perdono di Alfredo. Questi, al quale il padre ha rivelato nel frattempo il sacrificio della giovane, accorre al capezzale di Violetta. I due ricordano i bei giorni felici trascorsi insieme e progettano di lasciare Parigi per tornare alla serena vita in campagna Per un attimo Violetta sembra riprendersi; invece muore tra le braccia dei suoi cari.
Atto I – Scena V - Finale
VIOLETTA
È strano! è strano! in core Scolpiti ho quegli accenti!
Sarìa per me sventura un serio amore? Che risolvi, o turbata anima mia?
Null'uomo ancora t'accendeva O gioia Ch'io non conobbi, essere amata amando! E sdegnarla poss'io
Per l'aride follie del viver mio?
Ah, fors'è lui che l'anima Solinga ne' tumulti Godea sovente pingere De' suoi colori occulti! Lui che modesto e vigile All'egre soglie ascese,
E nuova febbre accese, Destandomi all'amor.
A quell'amor ch'è palpito Dell'universo intero, Misterioso, altero,
Croce e delizia al cor.
Resta concentrata un istante, poi dice
Follie! follie delirio vano è questo! Povera donna, sola
Abbandonata in questo Popoloso deserto
Che appellano Parigi, Che spero or più?
Che far degg'io! Gioire,
Di voluttà nei vortici perire.
Sempre libera degg'io Folleggiar di gioia in gioia, Vo' che scorra il viver mio Pei sentieri del piacer,
Nasca il giorno, o il giorno muoia, Sempre lieta ne' ritrovi
A diletti sempre nuovi Dee volare il mio pensier.
Nella Traviata più stretto che mai si fa il rapporto fra la poetica del Realismo e le convenzioni del Melodramma. Ciò avviene anche per l’adozione di un testo di freschissima stampa e per di più ambientato nella contemporaneità: novità davvero rivoluzionaria nell’opera seria italiana. Il soggetto dell’opera era tratto da La signora delle camelie che Alexandre Dumas aveva prima scritto come romanzo (1848) e poi trasformato in dramma (1852 ), ispirandosi ad una storia realmente accaduta. L’adozione del testo di Dumas e delle problematiche del “dramma borghese” comportò però nelle mani di Verdi un cambiamento di prospettiva: in Dumas Margherita Gautier: (questo il nome della protagonista) era insolente, disinvolta, spensierata e profondamente malinconica; vizio e innocenza, purezza e lussuria erano intrecciate. Verdi separò ciò che Dumas aveva mescolato e fece sparire questo groviglio di ambiguità : Violetta Valery è “traviata” , ha perso la sua strada: la purezza interiore traspare nell’aria in «Ah, fors’è lui che l’anima» dove l’amore per Alfredo appare come la possibile realizzazione dei suoi sogni infantili. «Dumas riscatta Marguerite e al tempo stesso la condanna, segnata com’è dalla febbre di una sensualità attraente ma negativa: invece, una volta ammesso che Violetta si è prostituita perché non ha saputo sottrarsi alla corruzione della grande città, Verdi l’assolve senza pregiudizi. E questo eleva Violetta a una statura mitica e fa di lei un perfetto personaggio dell’emarginazione» ( De Van 1994)
In altre parole Violetta vive per mestiere in un mondo di piacere che anima con la sua finta allegria ma che le diventa estraneo perché è ossessionata dalla purezza perduta e lontana che la rende intimamente innocente.
Il conflitto principale messo in scena dalla Traviata è dunque quello di Violetta con la società, della quale lei stessa è espressione. In effetti la struttura generale dell’opera rispecchia questo conflitto nel suo polarizzarsi tra due sfere: quella della festa e quello della dimensione intima. La maggior parte del primo atto quale vede agitarsi la folla degli invitati nell’appartamento di Violetta: il duetto fra protagonista e Alfredo è un enclave intimista circondato da ogni parte. Il secondo Atto è rigorosamente diviso : la prima parte nella casa di campagna di Violetta e Alfredo; la seconda parte nella casa di Flora dove ha luogo la scena del gioco e dell’affronto di Alfredo a Violetta, L’ultimo atto infine è quasi interamente intimista e fa perno sulla morte di Violetta nel suo appartamento dal quale si odono le voci allegre che festeggiamo il carnevale.
L’aria finale di Violetta nel I atto ha in tal senso una valenza quasi simbolica: essa ha luogo in uno spazio vuoto, dopo il congedo degli invitati e oscilla fra la prima parte, nella quale Violetta si abbandona al suo sogno d’amore, facendo trapelare la sua vera natura e la seconda parte nella quale ritorna al suo destino di cortigiana. Simbolo e cuore pulsante dell’opera è il motivo melodico di corrispondente alla parte centrale dell’aria “Di quell’amor ch’è palpito : un motivo che ritorna come reminiscenza in altri luoghi della Traviata .
Ma i connotati realistici rimangono dentro il codice formale melodrammatico: l’aria infatti rispetta ancora sostanzialmente la tradizione con la sua bipartizione fra parte cantabile parte brillante inframezzata dai recitativi. In sostanza Verdi riprende la “solita forma” rossiniana adattandola perfettamente a quello che è il cuore drammaturgico dell’opera: la divisione della protagonista fra l’impulso ad abbandonarsi all’amore puro e spontaneo per Alfredo e la sua vita dissoluta di cortigiana, “traviata” dalla società ipocrita e superficiale. Si riconosce il tempo d’attacco, nel recitativo iniziale “E’ strano, è strano !” cui segue il cantabile, l’aria vera e propria “Ah, fors’è lui che l’anima” , quindi il tempo di mezzo, una parte libera, interlocutoria, (“Follie, follie! ), e infine la consueta cabaletta o stretta, culmine brillante, “Sempre libera degg’io”.
Verdi dunque riesce a forgiare la sua drammaturgia dentro quel complesso di convenzioni
condivise fra autori e pubblico in cui la variazione del noto era molto più importante della scoperta dell’ignoto .
Wagner e il dramma musicale: Tristan und Isolde
Terminato a Lucerna nel 1859, Tristano e Isotta venne in un primo momento proposto da Wagner al teatro di Vienna, dove però fu respinto giudicandolo ineseguibile. Dovettero trascorrere ben sei anni prima che il dramma potesse essere rappresentato per la prima volta a Monaco di Baviera il 10 giugno 1865, col sostegno di Ludwig II. Alla base del libretto c'è un'antica saga medievale di probabile origine celtica. L'ispirazione diretta per la vicenda Wagner la trasse dalla leggenda cortese di Tristano e Isotta diffusissima nella letteratura medioevale, ma è probabile tuttavia che egli si sia ispirato alla tarda rielaborazione di Gottfried von Strassburg del secolo XIII (la lesse nella lingua originale o nella versione tedesca di H. Kurtz del 1844). Wagner condensò la vicenda in tre atti, staccandola quasi completamente dalla storia originale e caricandola di allusioni filosofiche di stampo schopenhaueriano.
Tristano e Isotta (1857) Atto II, Scena II – Atto III Finale
Atto I. La nave di Tristano sta conducendo Isotta, figlia dei reali d'Irlanda, in Cornovaglia dove andrà in sposa allo zio dello stesso Tristano, re Marke. Tristano è riuscito nel suo intento uccidendo Morold, signore irlandese amato da Isotta che pretendeva un tributo da re Marke. Isotta è agitata e racconta alla sua ancella Brangania che un giorno ella aveva raccolto e curato un cavaliere ferito che diceva di chiamarsi Tantris; Isotta aveva riconosciuto in lui l'uccisore di Morold, ma impietosita, invece di vendicarsi lo aveva curato con filtri magici tacendo a tutti il segreto. Ed ecco come Tristano la ricompensava: prelevandola per concederla in sposa al vecchio Re di Cornovaglia! Isotta chiede quindi a Brangania di portarle lo scrigno dove vi è un filtro di morte, che lei intende bere insieme a Tristano. Ma la morte non arriva: Brangania ha sostituito il filtro di morte con un filtro d'amore. Isotta e Tristano si contemplano e poi si abbracciano.
Atto II Nel giardino del castello di Re Marke, di notte. Approfittando della partita di caccia del Re e della corte, Tristano e Isotta si incontrano con la complicità di Brangania; quest’ultima è titubante perché teme le insidie di Melot, uomo di corte che si finge amico di Tristano e che in realtà ama segretamente Isotta. Dopo il segnale convenuto, Tristano si precipita tra le braccia di Isotta ed insieme innalzano un inno alla notte, fida custode del loro amore. Alle prime luci dell'alba, il grido di Brangania interrompe l'estasi. Kurwenald giunge trafelato ed invita Tristano a fuggire: stanno arrivando Marke, Melot e altri cortigiani. Tristano apprende così che Melot aveva organizzato la partita di caccia proprio per sorprendere gli amanti. Marke, è profondamente addolorato; Melot sguaina la spada e colpisce Tristano che, senza aver neanche provato a difendersi, si accascia al suolo, ferito a morte.
Atto III Tristano si trova sulla spiaggia di Kareol in Bretagna, nelle vicinanze del suo castello: è ormai morente ed è vegliato premurosamente da Kurwenald. Ad un tratto viene avvistata la nave che sta portando Isotta. Tristano, pur morente, non resiste e barcolla per andare incontro ad Isotta. I due amanti si abbracciano e Tristano, pochi istanti dopo, muore. Intanto sulla costa sono sbarcati da un'altra nave re Marke e Melot. Kurwenald si getta su Melot e lo uccide, ma ferito a sua volta muore accanto a Tristano. Re Marke, sconvolto, racconta di aver appreso da Brangania la storia del filtro d'amore e di essere venuto per perdonare e benedire gli amanti. Ma il suo arrivo è ormai tardivo: anche Isotta non ascolta più nulla, desiderando solo “annegare nello spirante universo”. Come trasfigurata s'accascia e cade morta sul corpo di Tristano.
ATTO II
BEIDE |
AMBEDUE |
|
Wie sie fassen, wie sie lassen, diese Wonne, fern der Sonne, fern der Tage Trennungsklage |
A |
Come comprenderla, come lasciarla, questa voluttà, lontana dal sole, |
Ohne Wähnen sanftes Sehnen; ohne Bangen süss Verlangen; ohne Wehen hehr Vergehen; |
A/ B |
Senza illusione mite aspirare; senza timore dolce desiderare; senza dolore |
ohne Meiden, ohne Scheiden, traut allein, ewig heim, |
C |
senza distacco, senza separazione, caramente soli, |
TRISTAN ISOLDE |
B |
TRISTANO ISOLDA |
BEIDE |
C |
AMBEDUE |
endlos ewig, ein-bewusst: |
D |
senza fine eternamente, intimamente consci: |
ATTO III – Scena III e ultima
ISOLDE |
ISOLDA |
|
Mild und leise |
A |
Lieve, sommesso |
wie er lächelt, |
come sorride, |
|
wie das Auge |
come l'occhio |
|
hold er öffnet, - |
dolce egli apre,... |
|
seht ihr's, Freunde? |
lo vedete amici? |
|
Säh't ihr's nicht? |
Non lo vedete? |
|
Immer lichter |
Sempre più limpido |
|
wie er leuchtet, |
come esso brilla, |
|
sternumstrahlet |
e raggiante d'una luce stellare |
|
hoch sich hebt? |
si leva verso l'alto? |
|
Seht ihr's nicht? |
Non lo vedete? |
|
Wie das Herz ihm |
Come il cuore a lui |
|
mutig schwillt, |
baldanzosamente si gonfia, |
|
voll und hehr |
e pieno e maestoso |
|
im Busen ihm quillt? |
nel petto gli sgorga? |
|
Wie den Lippen, |
B |
Come alle labbra, |
wonnig mild, |
voluttuosamente miti, |
|
süsser Atem |
un dolce respiro |
|
sanft entweht: - |
lievemente sfugge:... |
|
Freunde! Seht! |
Amici! Vedete! |
|
Fühlt und seht ihr's nicht? |
C |
Non lo sentite, non lo vedete? |
Hör ich nur diese Weise, |
A |
Odo io soltanto questa melodia, |
Wonne klagend, |
B |
voluttà lamentosa |
alles sagend, |
tutto esprimente |
|
mild versöhnend |
dolce conciliante, |
|
aus ihm tönend, |
da lui risuonando |
|
in mich dringet, |
C |
penetra in me, |
auf sich schwinget, |
e verso l'alto si libra |
|
hold erhallend |
e dolce echeggiando |
|
um mich klinget? |
intorno a me risuona? |
|
Heller schallend, |
D |
Queste armonie più chiare |
mich umwallend, |
che mi circondano, |
|
sind es Wellen |
sono forse onde |
|
sanfter Lüfte? |
di miti aure? |
|
Sind es Wogen |
Sono forse vortici |
|
wonniger Düfte? |
di voluttuosi vapori? |
|
Wie sie schwellen, |
Come esse si gonfiano |
|
mich umrauschen, |
e mi circondano del loro sussurro, |
|
soll ich atmen, |
debbo io respirarle, |
|
soll ich lauschen? |
prestar loro ascolto? |
|
Soll ich schlürfen, |
A sorsi berle, |
|
untertauchen? |
sommergermici? |
|
Süss in Düften |
Dolcemente in vapori |
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mich verhauchen? |
dissiparmi? |
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In dem wogenden Schwall, |
Nell'ondeggiante oceano |
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in dem tönenden Schall, |
nell'armonia sonora, |
|
in des Weltatems |
del respiro del mondo |
|
wehendem All, - |
nell'alitante Tutto... |
|
ertrinken, |
naufragare, |
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versinken… |
affondare... |
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unbewusst… |
inconsapevolmente... |
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höchste Lust! |
suprema gioia! |
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(Isolde sinkt, wie verklärt, in Brangänes Armen sanft auf |
(Isolda, come trasfigurata, cade tra le braccia di |
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Tristans Leiche. Grosse Rührung und Entrücktheit, unter |
Brangania, sul cadavere di Tristano. Grande commozione |
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den Umstehenden. Marke segnet die Leichen. |
e rapimento tra gli astanti. Re Marco benedice i cadaveri. |
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- Der Vorhang fällt langsam |
C |
La tela cala lentamente |
Il dramma, ambientato in Cornovaglia e in Bretagna in epoca remota e non precisata, ha fortissimi legami con l’estetica romantica di Novalis ma anche con la filosofia di Schopenhauer. Thomas Mann, tra i più attenti “lettori” del Tristano affermò in proposito che «per il suo culto della notte, per le invettive al giorno, il Tristano si rivela opera romantica, profondamente legata al pensiero e al sentimento del romanticismo, né avrebbe avuto bisogno di Schopenhauer come padrino. La notte è patria e regno di ogni romanticismo». Un più recente studioso ha tuttavia affermato che «La lettura del Mondo come volontà e rappresentazione fu la sollecitazione a stringere in un solo atto creativo l'universo della tradizione spirituale occidentale, delle suggestioni, delle epoche mistiche, delle culture, delle idee religiose e filosofiche che Wagner nel punto culminante della sua vita sentì, consapevolmente e inconsapevolmente, operare in sé.» (Serpa)
Quel che è certo è che in quest'opera enorme rilievo viene dato all'idea, tipicamente romantica, della passione amorosa irresistibilmente attratta dalle tenebre della notte e della morte. In tal senso, il grande duetto d'amore dell'atto II è il momento supremo dell'opera, non a caso collocato esattamente al centro del testo. Qui Tristano e Isotta si proclamano "sacrati alla notte", e il loro momento “dell'illuminazione” si pone in contrasto alla luce del giorno che invece porrà fine alla loro estasi amorosa, con l’irruzione di Melot e del re. In tal senso questo duetto discende direttamente da un testo fondamentale del Romanticismo come gli Inni alla notte di Novalis
Confrontando il duetto centrale del lunghissimo secondo Atto, nel corso del quale i due amanti inneggiando alla notte, con il finale del I atto della Traviata di Verdi, quasi contemporanea, apparirà chiaro che mentre il dramma musicale wagneriano scardina completamente le strutture della sintassi operistica tradizionale, Verdi lavora dall’interno piegando tali strutture alla sue esigenze di un teatro “moderno”.
La parte finale dei questo brano è intessuta attorno a quattro Leitmotive — qui evidenziati con lettere diverse — che la critica ha generalmente denominato:
motivo della morte ( A )
motivo della glorificazione d’amore ( B) motivo del filtro magico (C )
motivo della felicità ( D )
La morte è, per i due protagonisti, l'unico vero appagamento ed insieme compimento del loro amore: Tristan und Isolde è il poema dell’amore che si realizza solo con la negazione della volontà di vivere: ecco dunque il motivo della morte intrecciarsi con quello dell’amore e poi con quello della felicità e del filtro (appunto inizialmente pensato come filtro di morte e invece diventato filtro d’amore ). Gli stessi motivi, in ordine diverso, ritornano nella scena finale della morte di Isotta: stavolta il motivo della felicità, che dà luogo nel duetto ad una crescita della tensione — procedente per ondate sempre più forti — bruscamente interrotta
dall’arrivo della corte, conclude dolcemente la sua linea, e nel momento in cui cala il sipario l’oboe intona per l’ultima volta il motivo del filtro.
Tristan und Isolde è al tempo stesso una pietra miliare dal punto di vista delle tecniche compositive: si afferma comunemente, puntando forse indebitamente sul solo aspetto del linguaggio armonico-tonale, che il cromatismo del Tristano preannuncia la dissoluzione delle secolari convenzioni di strutturazione del suono che va sotto il nome di sistema tonale e a quest'opera capitale si usa fare riferimento per cercare le origini di tutti gli aspetti innovativi della musica tardo ottocentesca.
All’inizio degli anni Settanta Brahms scrisse all’amico Hermann Levi: «Non scriverò mai una sinfonia, non avete idea di come si sentano le persone come noi udendo un tal gigante che marcia alle nostre spalle». Il gigante di cui si parlava nella lettera era naturalmente Beethoven, rispetto al quale il timore reverenziale fu superato non casualmente dopo l’inaugurazione del Festspielhaus di Bayreuth nel 1876; solo allora in effetti Brahms trovò la spinta decisiva, dopo vent’anni di incertezze, per terminare la sua Prima Sinfonia, come se questa dovesse costituire una sua personale risposta agli ideali wagneriani. Fedele ai propri convincimenti estetici - secondo cui era solo «l’illusione di una malintesa originalità l’idea di procedere per proprio conto» rispetto alle forme del passato «edificate grazie all’impegno millenario dei più eccelsi maestri» - Brahms si accostò alla Sinfonia rispettando l’articolazione formale degli ineludibili riferimenti classici. Tuttavia il genere che in Beethoven era inteso come un’allocuzione all’umanità, venne da lui condotto in una dimensione nella quale la ricchezza dei dettagli e la profondità delle relazioni si ponevano come segni dell’intenzione di rivolgersi ad una somma di “individui” piuttosto che a una “massa”.
Johannes Brahms
Terza Sinfonia in Fa maggiore op.90 (1883) : III movimento, Poco allegretto
La Sinfonia n.3 op.90 rappresenta, una caso emblematico del modo peculiare con cui Brahms interpreta un genere considerato, ancora al suo tempo, sede privilegiata del monumentale e del grandioso. Nell'analizzare la partitura, è inevitabile che ci si scontri con il complesso problema del passato. Brahms viveva in un difficile periodo di transizione, difficile in quanto la pesante eredità di Beethoven non poteva ancora essere considerata col dovuto equilibrio: impensabile, d'altronde, comporre (soprattutto in ambito sinfonico) senza aver fatto i conti con quella determinata realtà. Ogni compositore aveva reagito secondo la propria natura o il proprio credo: chi dissociandosi dall'«assoluto beethoveniano» e chi rafforzando l'aspetto poetico, chi esaltando la dimensione lirica, chi approdando all'opera romantica.
Oppresso da una situazione satura di passione, polemiche ed incognite, Brahms aveva superato lo scoglio di imbarazzanti eredità - vent'anni di attesa per la prima pagina sinfonica - attraverso un tenace studio della storia e la messa a punto di un codice indiscutibilmente personale. Il raffronto Beethoven-Brahms è particolarmente significativo se si assume la terza Sinfonia come campione: l'universo che si affaccia in questa partitura- simbolo è caratterizzato dalla profonda attenzione al dettaglio, anche a costo di penalizzare l'immediatezza nella comunicazione.
Si è osservato spesso che all’interno di questa partitura sembra compiersi una sorta di simbolica metamorfosi dall’Allegro iniziale, la cui gestualità ha ancora qualcosa della monumentalità “eroica” beethoveniana, fino al movimento conclusivo, contratto in una dimensione sonora intimistica; perno di questo passaggio, sarebbe il Poco Allegretto, nelle sue sembianze liriche e malinconiche, lontanissime dal vigore ritmico degli Scherzi beethoveniani.
In realtà, guadando con maggiore attenzione all’insieme dell’opera, si coglie il dato di fondo di una grande architettura la cui imponenza sembra essere paradossalmente il risultato di una calibratissima opera di cesello. La struttura è infatti quasi interamente determinata da un’idea centrale, quella che si annunzia all’inizio della Sinfonia come una sorta di “motto” affidato a ottoni e legni:
un gesto semplice che riascoltiamo subito come basso della melodia iniziale e che si presta a riapparire di continuo nel corso dell’opera sempre con funzioni diverse, ora come elemento contrappuntistico, ora come motivo di transizione, ora come melodia cantabile. Dall’onnipresenza di questa cellula elementare la costruzione monumentale assume la sua coerenza ma anche la sua notevole differenziazione interna. Si tratta di una “struttura profonda” che può essere colta soltanto con un ascolto analitico, quello che il compositore si attendeva da quella élite colta viennese che costituiva il suo orizzonte di riferimento ideale. Proprio a questo si riferiva Theodor Adorno, osservando che «la sfera privata, come sostrato dell’espressione, rimuove in Brahms quello che si potrebbe chiamare la sostanziale disponibilità pubblica della musica».
Il confronto più eloquente rispetto ai precedenti beethoveniani può esser fatto guardando al terzo movimento della Sinfonia, un Poco Allegretto, aperto da un tema celeberrimo, presentato dai violoncelli e sostenuto dagli archi. Qui siamo lontanissimi dallo spirito dello Scherzo beethoveniano: il brano è infatti caratterizzato dalle mezze tinte, dal fluido concatenarsi delle idee in un movimento delicato, lirico, affettuoso e malinconico insieme. La forma sembra tradizionale (A-B-A’), collegabile ancora alla tradizione del Minuetto e dello Scherzo ma il senso è molto diverso. La prima parte è vistosamente melodica con una seconda idea, ancor più lirica e struggente della prima, e che dunque non apporta segni di contrasto; e così pure la seconda parte , un'altra oasi meditativa nello spirito della danza lenta.
Questo Allegretto è ritenuto dalla critica la pagina più espansiva, più affabile, più meritatamente nota di tutto il sinfonismo brahmsiano e può ben essere chiamato a rappresentare il ripiegamento intimistico che stacca Brahms dalla monumentalità beethoveniana.
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Fonte: http://new.lettere.unina2.it/Didattica1/Dispense/De%20Martino/Dispense%20storia%20della%20musica%202013.pdf
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