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LA MUSICA IN GRECIA E A ROMA
Nella cultura greca e romana il termine mousikè non si riferisce solo all’arte dei suoni, ma comprende anche il testo poetico e la danza che accompagnano il canto, per cui un unico artista è artefice della melodia, delle parole e dei movimenti di danza.
La musica greco-romana si espresse fondamentalmente attraverso la melodia. Il canto cioè, aveva un accompagnamento musicale che lo seguiva all’unisono, o al massimo con un intervallo di un’ottava, e si basava sul tetracordo, ovvero su un sistema di quattro note congiunte comprese in un intervallo di una quarta; ma la posizione delle due note mobili variava a seconda del genere del tetracordo (diatonico, cromatico, enarmonico ). Con il passare del tempo la partitura musicale divenne tuttavia sempre più complessa e dalla synaulìa, cioè l’accompagnamento di strumenti a fiato e a corda che suonavano insieme, si giunse in età imperiale romana alla costituzione di grandi orchestre.
a) La musica nel mito
Il mito ci ha tramandato numerose figure di musicisti e compositori, a sottolineare l’importanza che la musica ha sempre avuto nella civiltà classica e in quella greca in particolare.
Ad esempio l’invenzione della lira era attribuita ad Ermes che, con un guscio di tartaruga e dei nervi di pecora, si era costruito questo strumento musicale, rubatogli poi dal fratello Apollo per una lite.
Apollo divenne in seguito il dio protettore della musica e, secondo una tradizione, uccise il cantore Lino , di cui era invidioso, perché aveva perfezionato la lira, rendendone il suono più melodioso.
Apollo divenne anche l’ispiratore di Orfeo, il poeta a cui aveva donato la cetra. Le Muse gli avevano insegnato a suonarla e con essa il poeta incantava le belve e tutti gli elementi della natura.
All’arte di Orfeo, protetta da Apollo, si contrappone quella del sileno Marsia, a cui si attribuisce l’invenzione del flauto (aulos), uno strumento legato a Dioniso ed ai culti orgiastici.
Secondo la tradizione, tragica fu la fine di Marsia, scorticato vivo da Apollo, per aver osato sfidare il dio in una gara di musica.
Il mito greco ricorda anche la vicenda di Arione, musico di Lesbo che aveva ottenuto il permesso da Periandro, tiranno di Corinto, di recarsi in Magna Grecia e in Sicilia a portare la sua musica. Quando volle poi tornare in patria, si imbarcò su una nave in cui i marinai durante la navigazione decisero di depredarlo e di ucciderlo. Ma il dio Apollo gli apparve in sogno e lo avvisò del pericolo che stava per correre, promettendo di aiutarlo. Arione, minacciato dai pirati, chiese di lasciarlo cantare ancora una volta e al suono della sua voce accorsero dei delfini, animali sacri ad Apollo. Allora il suonatore si buttò in mare, venne raccolto da un delfino e portato sul dorso fino a terra. Una volta approdato, Arione dedicò un ex-voto ad Apollo e si recò a Corinto, dove raccontò la sua storia al tiranno. Quando i marinai giunsero a Corinto furono smascherati da Periandro che chiese loro notizie di Arione. Essi raccontarono che il suonatore era morto durante il viaggio, ma quando comparve lo stesso Arione i pirati furono condannati a morte.
In questi miti si può avvertire la contrapposizione tra due civiltà e due modi di intendere la musica: da un lato uno strumento a fiato, il flauto, dotato di una potenza incantatoria immediata; dall’altro la lira, che accompagna la parola, legandosi così ad una maggiore razionalità di trasmissione e ricezione.
Con riferimenti alla musica è poi anche la vicenda di Anfione, figlio di Zeus e di Antiope, fratello gemello di Zeto. I due bambini erano nati sul monte Citerone ed erano stati allevati da pastori, ma un giorno conobbero le loro origini e allora marciarono contro Tebe, dove il re Lico aveva ripudiato la loro madre per sposare Dirce. Anfione e Zeto conquistarono la città, uccisero Lico e straziarono Dirce, legandola ad un toro che la trascinò fino ad ucciderla.
In seguito i due fratelli decisero di fortificare Tebe costruendole delle mura ed Anfione riuscì a spostare le pietre e a disporle in modo da formare un muro grazie all’arte della sua lira, che aveva ricevuto in dono da Ermes.
Ancora una volta il mito testimonia il potere soprannaturale che gli antichi attribuivano alla musica.
b) Teoria musicale ed educazione in Grecia
Per quanto riguarda la formazione degli adolescenti, «i giovani spartiati ricevevano un’educazione musicale che non era comunque priva di rapporti con la guerra perché la ben regolata cadenza dei cori preparava alla manovra disciplinata dei battaglioni e sappiamo che l’aulos (oboe) e i canti ritmavano gli spostamenti dell’esercito spartiate» .
Ad Atene è probabile che in certe scuole si imparassero sia la letteratura e la scrittura sia rudimenti della musica. Comunque la famosa coppa di Duri rappresenta un grammatico e un citarista nella stessa stanza. Ma, se crediamo all’esposizione fatta da Protagora sull’educazione nel dialogo di Platone che porta il suo nome, l’insegnamento del citarista normalmente era successivo a quello del grammatista e quello del pedotribo a quello del citarista:
Gli insegnanti, quando i bambini sanno già leggere, fanno loro declamare in classe, seduti su sgabelli, i versi dei grandi poeti e li costringono a impararli a memoria … I citaristi, aloro volta, quando l’allievo sa suonare lo strumento, gli fan conoscerealtre belle opere, le opere dei poeti lirici … Più tardi ancora, si manda il ragazzo dal pedotribo.
Il nome stesso della musica deriva da quello delle Muse e l’uomo colto era definito musikòs anér. Temistocle poi ammetteva di avere avuto una educazione incompleta perché non aveva imparato a suonare la cetra.
Anche in palestra gli esercizi ginnici erano accompagnati dal suono dell’oboe.
Certamente ogni palestra aveva almeno un suonatore di oboe. Il suo compito consisteva nel segnare il ritmo non solo agli esercizi di addestramento del genere che oggi chiamiamo “ginnastica svedese” ma anche, ad esempio, al lancio del disco o del giavellotto e agli altri sport: vediamo su certi vasi gli auleti con lo strumento legato alle gote dalla phorbeia che suonano l’oboe mentre i ragazzi si esercitano.
I pitagorici attribuivano una enorme importanza alla musica nella loro concezione della vita umana, «una concezione fondata sull’armonia universale dei numeri che reggeva gli intervalli musicali. In questo Pitagora e i suoi discepoli svilupparono scientificamente una tendenza naturale dell’uomo greco».
Le cerimonie pubbliche e private, religiose e civili in Grecia diedero poi sempre ampio spazio alla musica, ma nonostante questa larga diffusione, non possediamo tuttavia molte testimonianze delle forme antiche delle rappresentazioni musicali in Grecia.
Tra i pochi testi con notazioni musicali possiamo ricordare gli inni di Mesomede (II secolo), sei exempla di musica strumentale di un anonimo trattato di musica , tre testi epigrafici , ed una quindicina di frammenti papiracei , questi ultimi difficili da interpretare.
La semiografia greca utilizzava le lettere dell’alfabeto, distinguendo un sistema di notazione vocale da un sistema strumentale.
La musica cominciò ad essere scritta tra il V e il IV secolo a.C., ma la sua composizione e trasmissione rimasero per lo più orali, venendo continuamente modificata a seconda delle esigenze, per essere poi dimenticata col subentrare di nuove melodie.
Se gli antichi non ci hanno tramandato che scarsi testi musicali, tuttavia ci è dato conoscere le loro teorie musicali. Uno studio sistematico dei fondamenti teorici della musica nell’antica Grecia si è avuto probabilmente alla fine del VI secolo a.C. ad Atene e a Crotone ad opera di Laso di Ermione e di Pitagora di Samo.
Laso «per primo usò il termine harmonia in senso musicale, aumentò il numero delle note eseguibili sulla cetra e definì in termini matematici l’ampiezza degli intervalli».
Pitagora ed i suoi seguaci nel VI-V secolo a.C. scoprirono ad esempio, attraverso sperimentazioni sul monocordo, i rapporti numerici tra i suoni. Tra le teorie di questi due studiosi sembra che esistesse una fondamentale differenza di impostazione:
Laso fa partire la sua ricerca dalla sua personale pratica musicale e da considerazioni nate dall’ascolto dei canti del repertorio popolare delle diverse genti greche; Pitagora e i suoi seguaci trascurano invece la realtà musicale contemporanea per affrontare problemi di misurazione acustica con l’ausilio di strumenti scientifici come il monocordo, i vasi riempiti d’acqua fino a determinati livelli, i dischi metallici di peso diverso. Si tratta naturalmente di misure relative all’altezza dei suoni in rapporto ad altri suoni, non di misure assolute, dal momento che gli studiosi dell’antichità non arrivavano ad individuare con certezza nelle vibrazioni i fenomeni che danno origine ai suoni, né tanto meno a scopre uno strumento per misurarne la frequenza.
Altri studi acustico-musicali furono intrapresi da Aristosseno di Taranto (IV secolo a.C.), Euclide (III secolo a.C.), Tolomeo (II secolo a.C.), Aristide Quintiliano (forse del II secolo d.C.), Porfirio (III secolo d.C.) ed Alipio (forse del IV secolo d.C.), che ci ha conservato le tavole di notazione musicale.
I Greci non conoscevano né l’armonia né la polifonia, ma si espressero solo attraverso la melodia.
Damone, maestro di Pericle a cui si ispira anche Platone, sosteneva che solo l’armonia dorica e frigia avevano una funzione paideutica positiva, mentre le altre armonie dovevano essere escluse dall’educazione dei giovani. Ma non sappiamo con certezza quali fossero i caratteri musicali né l’altezza dei suoni né la successione degli intervalli assegnata a ciascuna harmonia.
Sembra che Damone abbia anche indotto Pericle a costruire l’Odeon, un edificio coperto per gli spettacoli di canto, ma le spese affrontate furono spropositate e per questo venne esiliato nel 444/43 a.C.
Le sue idee esercitarono una profonda influenza sulla dottrina musicale dei secoli successivi: le sue considerazioni sull’ethos delle harmoniai in rapporto all’educazione furono accolte da Platone e da Aristotele e condizionarono di conseguenza il pensiero ellenistico e romano; la classificazione sistematica delle harmoniai secondo criteri etici oltre che formali costituì la base della teorizzazione musicale posteriore.
Timoteo di Mileto (circa 450-360 a.C.) fu un grande innovatore in campo musicale, stimato ed utilizzato anche da Euripide nelle sue tragedie. Compose inni, nomoi, ditirambi e proómia strumentali; ma fu anche un famoso citarodo, portò ad undici il numero delle corde della cetra e rinnovò la struttura ritmica del nomos citarodico.
Possediamo un frammento di un nomos di Timoteo, i Persiani, conservato da un papiro di Berlino del IV secolo a.C., in cui non compare ancora una partitura musicale, in cui però possiamo cogliere quale dovesse essere il carattere mimetico della “nuova musica”. C’è la necessità di usare liberamente ritmi e melodie per evocare la varietà delle situazioni descritte nel testo:
nei Persiani, al tumulto della battaglia e alla confusione della disfatta (vv. 1-97) fanno seguito i lamenti degli sconfitti (vv. 98-161), la disperazione di Serse (vv. 162-195) e la gioia dei vincitori (vv. 196-201), in un succedersi di scene ricche di tensione patetica e drammatica.
Anche l’originalità e la molteplicità degli schemi metrici, del lessico e delle strutture linguistiche testimoniano la ricerca di un’espressività mimetica.
Nel ditirambo Timoteo introdusse parti solistiche, con passaggi da un’harmonia all’altra e da un genos all’altro, con uso di modulazioni.
Il pubblico ateniese conservatore inizialmente non apprezzò del tutto queste innovazioni, Euripide invece incoraggiò Timoteo agli inizi della sua carriera, come apprendiamo da Aristofane nelle Tesmoforiazuse (v.100).
Platone in particolare si occupa nella Repubblica e nelle Leggi dei fenomeni musicali per la loro influenza sulla formazione del carattere dei giovani e in generale sul comportamento dei cittadini. Egli rifiuta così la musica“mimetica” dei ditirambografi e di Timoteo, rimpiangendo le forme musicali precedenti che obbedivano a norme rigorose di composizione e rispettavano i canoni etici ed estetici della tradizione.
Partendo proprio dai presupposti di Damone, Platone afferma che non possono trovare posto nello stato harmoniai che turbino gli animi dei cittadini con i loro strumenti (Resp. III, 398c-399d):
«Ed ora, ripresi, non ci resta da trattare del modo del canto e della melodia?» «Evidentemente. » «Ebbene, se vogliamo essere coerenti con le nostre parole di prima, non potrebbero ormai tutti trovare da sé quello che dobbiamo dire del modo e della melodia, quali cioè devono essere?» E Glaucone sorridendo disse: « Allora, Socrate, io rischio di non venire compreso tra questi “tutti”. Sul momento non sono proprio in grado di dichiarare che cosa dobbiamo dire, anche se posso sospettarlo.» « Sicuramente» feci io, «tu sei in grado di riconoscere questo primo punto: la melodia si compone di tre elementi, parole, armonia e ritmo. » «Questo sì», rispose. « Ora, quello che in essa è costituito dalle parole, non differisce affatto, nevvero?, dalle parole con cantate, visto che lo si deve esprimere secondo quei modelli che poco fa abbiamo stabiliti, e nella stessa maniera.» « È vero», disse. « E armonia e ritmo debbono accompagnare le parole». «Come no? Eppure dicevamo, nelle composizioni letterarie non c’è bisogno alcuno di lamenti e pianti». « No davvero». «Ebbene, quali sono le armonie lamentose? Dimmelo, tu che sei esperto di musica». « La mixolidia», rispose, «la sintonolidia e altre simili». « E non si devono eliminare?», feci io. «Non sono utili neanche alle donne, se devono essere donne dabbene, per non parlare degli uomini». « Senza dubbio». « Per i guardiani, poi, sono molto sconvenienti l'ubriachezza, la mollezza e l'indolenza». «Come no?» «E dunque, tra le armonie, quali sono molli e conviviali?» «La ionica», rispose, «e la lidia: così si chiamano certe armonie languide». « E ti potranno servire in qualche modo, mio caro, con i guerrieri?» « No certo», rispose; «forse però ti rimangono la dorica e la frigia». «Io non m'intendo di armonie», replicai; «ma tu devi lasciare l'armonia che imiterà convenientemente parole e accenti di chi dimostra coraggio in guerra e in ogni azione violenta; e pur se è sconfitto o ferito o in punto di morte o vittima di qualche altra sciagura, sempre reagisce alla sorte con fermezza e sopportazione. E lasciane anche un'altra, di chi attende a un'azione pacifica e non violenta, ma spontanea, o persuade e chiede qualcosa a qualcuno, con la preghiera se si tratta di un dio, con l'insegnamento e il monito se si tratta di un uomo; "armonia che" nel caso opposto "imiterà" chi dà retta a preghiere o insegnamenti o dissuasioni altrui, e quando con questi mezzi ha ottenuto il suo intento, non pecca d'orgoglio, ma in tutti questi casi si comporta con saggezza e moderazione ed è lieto di quello che succede. Dunque queste due armonie, la violenta e la spontanea, lasciale: esse offriranno la migliore imitazione degli accenti di gente sventurata e fortunata, temperante e coraggiosa». «Ma», disse, «le armonie che chiedi di lasciare, non sono altre che quelle or ora da me dette». « Nel canto e nella melodia», ripresi, «non avremo dunque bisogno di strumenti a molte corde né capaci di tutte le armonie». « No, mi sembra evidente», disse. « E allora non manterremo fabbricanti di trigoni, di péttidi e di ogni altro strumento a molte corde e capace di produrre varie armonie». «No, evidentemente». « E fabbricanti e suonatori di aulós, li ammetterai nello Stato? Non è forse questo lo strumento più ricco di suoni? e gli stessi strumenti capaci di produrre tutte le armonie non ne sono una imitazione?» « Sì», rispose, «è chiaro». «Ti restano dunque», ripresi, «lira e cetra, utili in città; in campagna invece, per i mandriani, andrebbe bene una specie di siringa». «Sì», disse, «così almeno ci porta a concludere il nostro discorso». [Traduzione di F. Sartori]
Platone nelle Leggi (III, 700a-701b) descrive i caratteri dell’esecuzione musicale, prima e dopo la riforma di Timoteo, fornendo anche preziose indicazioni sul comportamento del pubblico, costretto anche con la forza ad ascoltare in silenzio le performances:
ATENIESE [...] Il nostro popolo, amici, nelle leggi antiche non era signore di nulla, ma invece ne era quasi il volontario servitore.
MEGILLO A quali leggi ti riferisci?
ATENIESE Prima di tutto alle leggi sulla "musica" di allora, affinché così fin da principio possiamo seguire gli sviluppi della libertà eccessiva di vita. Da noi infatti allora la "musica" si distingueva in certi suoi aspetti e figure e un certo aspetto del canto era costituito di preghiere agli dèi: si chiamavano col nome di "inni"; il suo contrario era un altro aspetto del canto (proprio questi si sarebbero dovuti chiamare threnoi), e un altro erano i "peana" e poi ce n'era un altro detto "ditirambo", ed è la "nascita di Dioniso", credo. Inoltre un'altra specie di canto chiamavano proprio con questo nome di "leggi", come fosse diversa, e le dicevano "canti citarodici ". Fissati questi ed altri aspetti del canto, non era lecito servirsi di uno al posto di un altro. Ma l'autorità di controllare queste cose e, conseguentemente alla ricognizione, di giudicare e poi di punire il ribelle non era di certo nei fischi né in certe urla scomposte della plebe, come ora è, e non erano i battimani che sancivano la lode: quelli che avevano una compiuta educazione era stabilito che ascoltassero in silenzio fino in fondo e gli altri, i bambini, i pedagoghi e la maggior parte della plebe, erano richiamati all'ordine da una verga che li teneva a posto. In queste cose, secondo questa disciplina, la massa dei cittadini accettava d'esser diretta e non osava giudicare con lo strepito; ma poi con l’ andar del tempo i poeti furono maestri di disordinate trasgressioni, poeti solo nel temperamento, ignoranti delle giuste norme di poesia, come baccanti più del dovuto trasportati dal piacere, e mescolavano i threnoi agli inni e i peana ai ditirambi, imitavano la musica del flauto con quella della cetra e, confondendo tutto con tutto, involontariamente esprimevano per stolta ignoranza menzogne sulla "musica", che cioè la "musica" non ha una sua correttezza di nessun tipo e si possa ben giudicare dal piacere di chiunque lo provi, sia esso uomo onesto o disonesto, indifferentemente. Facendo simili opere, dicendo su di esse siffatti discorsi, hanno infuso nel popolo l'uso di trascurare le leggi sulla "musica" e la pretesa temeraria d'esserne buoni giudici; di conseguenza i teatri da silenziosi furono pieni di grida come fosse il pubblico ad intendere il bello e il non bello poetico e al posto dell'aristocrazia è sorta una cattiva teatrocrazia per quanto riguarda quest'arte. Se infatti solo per essa fosse sorta una democrazia d'uomini liberi non sarebbe stato per nulla grave l'accaduto. Ma nel nostro stato ora si originò dalla "musica" l'opinione che tutti sappiamo tutto, e l’illegalità e per conseguenza la licenza. Come fossero tutti stati sapienti diventavano impavidi e l'audacia ingenerò l'impudenza. Non rispettare per temerarietà l'opinione di chi è migliore, questo, non altro, direi, è la malvagia impudenza, nata da una libertà troppo spinta.
MEGILLO È verissimo quello che dici. [Traduzione di A. Zadro]
Sempre nelle Leggi (VII, 812b-813a) Platone indica quali siano le norme che devono regolamentare l’insegnamento della musica strumentale:
ATENIESE Dopo aver parlato del maestro di lettere, dovremo ora parlare del maestro di cetra?
CLINIA Certamente.
ATENIESE Ricordandoci dei nostri discorsi precedenti mi pare che noi dovremo attribuire ai maestri di cetra ciò che è conveniente per il loro insegnamento e insieme per tutta l'educazione che si riferisce al loro insegnamento.
CLINIA Di che parli?
ATENIESE Dicevamo, credo, che i sessantenni cantori di Dioniso devono possedere una finissima sensibilità dei ritmi e delle combinazioni delle armonie, perché ognuno possa distinguere e scegliere l'imitazione musicale ben fatta e quella mal fatta, quando l'anima ne è affetta, e quelle che assomigliano alla imitazione buona e alla non buona, e ripudiare le une, le altre invece portare alla conoscenza degli altri ed eseguirle e incantare così le anime dei giovani, invitando ciascuno a seguirlo nella conquista della virtù e accompagnandolo i giovani appunto grazie a queste imitazioni.
CLINIA Verissimo quello che dici.
ATENIESE Per tutto ciò che fu detto, il maestro di cetra e l'allievo devono usare dei suoni della lira in vista della purezza delle sue note, facendo in modo che i suoni degli strumenti siano all'unisono; suonare in modo diverso, far variazioni sulla lira, quando le corde danno suoni diversi da quelli voluti dal poeta che ha composto il canto, comporre e la sinfonia e l'antifona accostando suoni frequenti e suoni rari, rapidi e lenti, acuti e gravi, e similmente adattare ai suoni della lira ogni sorta di variazione di ritmo, l'insegnamento di tutto questo non bisogna impartire ai fanciulli che in tre anni devono apprendere velocemente di quest'arte quanto tornerà loro poi utile. Infatti cose contrarie che si danno reciproco turbamento producono difficoltà ad apprendere mentre i giovani devono esser il più possibile tali da imparare con facilità, e non sono né poche né piccole le cose necessarie a loro prescritte come oggetto di apprendimento; le indicherà il nostro discorso nel suo procedere insieme al tempo. In ogni modo il nostro educatore si prenda cura di queste cose, così come le abbiamo esposte, riguardo alla musica. Per quanto riguarda le melodie stesse e le parole del canto, quali e di qual natura sono quelle che i maestri dei cori devono insegnare, anche queste sono state esaminate completamente da noi nei discorsi che precedono; noi abbiamo anche detto che tali composizioni debbono essere consacrate, ciascuna adattata e collegata con la festa cui è propria, e daranno così ai cittadini il beneficio di un piacere cui si accompagna la buona fortuna.
CLINIA Anche questi argomenti sono stati enunciati da te conformemente a verità.
ATENIESE Sono verissimi, direi allora. Il magistrato scelto per dirigere la musica li riceva dunque dalle nostre mani, e con fortuna benigna se ne prenda cura... [Traduzione di A. Zadro]
Aristotele, a differenza di Platone, ammetteva invece tutti i tipi di musica, anche quella che perturbava gli animi e non li rasserenava, per l’effetto catartico che producevano sugli ascoltatori.
Nell’ultimo libro della Politica il filosofo si dedica ai problemi dell’educazione ed in particolare a quelli dell’educazione musicale, considerando in primo luogo se la musica abbia uno scopo educativo, ricreativo o di riposo (VIII, 1137b 23-32; 1339a 14-1340a 14):
Le materie di insegnamento entrate nella nostra tradizione didattica si possono ridurre a quattro: la scrittura, la ginnastica, la musica e, secondo alcuni, il disegno. A leggere e scrivere si insegna perché queste abilità sono utili alla vita e adatte a molti usi; la ginnastica viene praticata perché rende valorosi; quanto alla musica su di essa ci sono molte discussioni. Ora i più la imparano semplicemente per diletto, ma gli antichi la inserirono nei programmi educativi, perché la natura stessa, come si è detto spesso, non cerca solo delle rette occupazioni, ma anche un ozio decoroso: e questo è, torniamo a ripeterlo, il principio di tutte le nostre azioni. [...] non è facile stabilire quale proprietà spetti in proprio alla musica né dire per qual fine la si pratichi, se per gioco e ristoro, come il sonno ed il bere (ché questi di per sé si collocano non tra le cose buone, ma tra quelle piacevoli e insieme pongono fine alle cure, come dice Euripide. Per questa ragione la musica viene enumerata con il sonno ed il bere e viene usata nella stessa maniera; ma a questi si aggiunge anche la danza) o se piuttosto si debba ritenere che la musica tende alla virtù in quanto, come la ginnastica sviluppa nel corpo certe qualità, così essa può stabilire certi caratteri morali e può abituare a godere rettamente oppure (e questa sarebbe la terza alternativa) essa contribuisce alla nobile occupazione del nostro ozio e alla nostra saggezza. Non c'è dubbio allora che non bisogna educare i giovani ponendosi come fine il gioco, perché giocando non si impara, dal momento che l'apprendimento è accompagnato da dolore. E ai fanciulli ed ai giovani non si addice neppure il riposo, ché non conviene il godimento del fine a chi non ha ancora raggiunto la maturità finale. Ma si potrebbe forse sostenere che la capacità musicale, acquisita da giovane, servirà come mezzo di divertimento quando si sarà diventati uomini fatti e maturi. Ma se le cose stanno così, in nome di che i giovani dovranno imparare proprio essi la musica e non, come i re dei Persiani e dei Medi, procurarsi il piacere che essa dà e le nozioni che la riguardano per mezzo di qualcuno che professionalmente la eserciti? Inoltre riescono necessariamente meglio quelli che coltivano questa attività e quest'arte per scopi professionali che non coloro che vi dedicano solo il tempo necessario per apprendere alcune nozioni che la riguardano. D'altra parte, se si sostiene che proprio i giovani la devono apprendere, perché non si dice anche che devono imparare, proprio essi personalmente, a far cucina? Il che sarebbe piuttosto strano.
E la stessa difficoltà si incontra anche se ci si mette da un altro punto di vista e si interpreta la musica come mezzo per migliorare i costumi. Infatti perché mai, anche in questo caso, dovremmo apprendere proprio noi la musica e non piuttosto udirla da altri per imparare a godere secondo ragione e a ben giudicare, come fanno gli Spartani? Questi pur non imparando direttamente la musica sono in grado, a quel che dicono, di giudicare quali melodie si possano udire e quali no. Lo stesso discorso si può fare anche se si considera la musica come un sollievo rasserenatore e come un'occupazione liberale: infatti anche in questo caso, perché mai dovremmo impararla noi stessi e non servirci delle persone che la esercitano per mestiere? Torna a proposito a questo punto considerare l'idea che ci facciamo degli dèi: Zeus, secondo i poeti, non canta né suona egli stesso e noi chiamiamo operai quelli che esercitano questo mestiere, pensando che tali azioni non si addicano se non a chi è ebbro o scherza. Ma forse su questi argomenti dovremo tornare in séguito.
La prima ricerca che ora dobbiamo condurre è quella che occorre per stabilire se la musica debba o meno essere inserita nel sistema educativo e quale delle tre proprietà sopra discusse spetti ad essa, se quella educativa, quella ricreativa o quella di strumento di riposo. Ma probabilmente essa serve per raggiungere tutti e tre questi scopi in quanto essi le appartengono secondo la sua natura. Infatti il gioco ha come fine il riposo che deve necessariamente essere piacevole (in quanto il piacere è il rimedio contro il dolore provocato dalla fatica) e si è d'accordo sul fatto che il riposo deve non solo essere nobile, ma anche piacevole, perché nobiltà e piacere concorrono al raggiungimento della felicità. Ora tutti riconosciamo che la musica è una delle cose più piacevoli, sia sola che accompagnata con il canto, ed anche Museo afferma che per i mortali dolcissima cosa è cantare, perciò a ragione nelle riunioni e nei trattenimenti si ricorre ad essa come a quella che può rallegrare gli animi. Proprio su questo riconoscimento qualcuno potrebbe far leva per sostenere la necessità di insegnarla ai più giovani. I piaceri non dannosi non solo convengono al fine che tutti ci proponiamo [la felicità], ma servono anche al riposo e, poiché raramente gli uomini raggiungono quel fine e spesso si interrompono e si danno ai giochi, non per quel tanto che può aiutarli per tendere a fini ulteriori, ma senz'altro per il piacere che ne provano, sarebbe bene farli riposare con i piaceri che derivano dalla musica. Ma a volte gli uomini fanno dei giochi il fine della loro vita: infatti si può ben dire che anche il raggiungimento del fine ultimo porti con sé un qualche piacere, sebbene non si tratti di un piacere comune. Senonché nella ricerca di esso lo si scambia con il piacere comune per una certa somiglianza che questo ha con il fine ultimo delle nostre azioni. Il quale non si sceglie per ciò che dovrà avvenire dopo di esso così come questi piaceri comuni non si scelgono in vista di ciò che avverrà, ma solo per ciò che è già passato, come sollievo dalle fatiche e dal dolore. Si può fondatamente ritenere che questa è la ragione per cui si cerca di procurarsi la felicità con questi piaceri.
Tuttavia il piacere non è la sola causa per cui si pratica la musica che serve anche a ricreare, a quanto sembra. Non solo, ma bisogna cercare se per caso questa sua proprietà non sia soltanto un qualcosa di accidentale rispetto ad una natura più elevata dell'uso cui è adibita nel caso particolare, ed alla quale non bisogna attribuire la capacità di produrre un piacere comune, che appartiene a tutte le sensazioni (ed anche la musica ha un piacere naturale in virtù del quale la sua esecuzione piace a persone di qualsiasi età e di qualsiasi carattere) e vedere se in qualche modo essa influisca sul carattere e sull'anima. Ciò risulterebbe chiaro se per mezzo della musica acquistassimo delle qualità inerenti il nostro carattere morale; orbene, che ciò avvenga è reso evidente dall'effetto di molte musiche, tra le quali, non ultime, i canti di Olimpo, che, per parere concorde ed unanime, rendono gli animi entusiastici; e l'entusiasmo è un affetto dell'animo di rilevanza morale. Inoltre, ascoltando le musiche imitative, si provano le emozioni rappresentate, anche se non sono eseguiti i ritmi e le melodie. [Traduzione di C. A. Viano]
Centrale nel pensiero di Aristotele è anche la riflessione sull’influenza che la musica può esercitare sul carattere (VIII, 1340 a 14-1340b 19):
Poiché la musica è stata inclusa nella categoria dei piaceri, mentre la virtù è la regola per il godimento, l'odio e l'amore, bisogna evidentemente imparare soprattutto il retto giudizio e il costume a godere delle abitudini convenienti e delle belle azioni, ed acquisirne la capacità. Ma ritmi e melodie possono raffigurare, con un alto grado di somiglianza al modello naturale, ira e mansuetudine, valore e temperanza e loro opposti e in genere tutti gli altri poli opposti della vita morale, come dimostrano i fatti, dai quali risulta che noi mutiamo il nostro stato d'animo ascoltando la musica. E la tendenza ad addolorarci o a rallegrarci che proviamo dinnanzi alle immagini imitative è estremamente affine a quella che proviamo nella situazione reale raffigurata: per esempio, se qualcuno si rallegra nel vedere l'immagine di qualcun altro per nessun altro motivo che per la forma di quell'immagine, necessariamente costui proverà ancora piacere nella visione dell'oggetto, di cui vede l'immagine. Ma gli oggetti degli altri sensi non hanno alcuna somiglianza con i costumi morali: basti pensare a sensi come il gusto e il tatto; negli oggetti della vista questa proprietà c'è fino a un certo grado...
Nelle melodie c'è una possibilità naturale di imitazione dei costumi, dovuta evidentemente al fatto che la natura delle armonie è varia, sicché ascoltandole nella loro diversità ci si dispone in modo diverso di fronte ad ognuna di esse: di fronte ad alcune ci sentiamo presi da dolore e raccoglimento, come quando si tratta dell'armonia chiamata mixolidia; con altre più rilassate nutriamo sentimenti voluttuosi; l'armonia dorica è, invece, l'unica che ispiri compostezza e moderazione, mentre dalla frigia deriva l'entusiasmo. Queste sono le conclusioni accettabili cui sono pervenuti coloro che si sono occupati di questo aspetto dell'educazione, facendo direttamente appello ai fatti per ottenere conferma delle loro teorie. Queste considerazioni possono essere applicate anche ai ritmi, alcuni dei quali hanno un carattere più calmo, altri più movimentato e, tra questi ultimi gli uni hanno movimenti più violenti, altri più nobili. Da quanto si è detto è evidente che la musica può mutare il carattere morale dell'anima; e, se ha questa possibilità, è chiaro che in essa debbono essere esercitati ed educati i giovani. Del resto il suo insegnamento è adatto alle tendenze di persone in giovane età, che non sopportano nulla che non sia accompagnato da qualche piacere, e la musica è per sua natura una delle cose più piacevoli. E tuttavia si direbbe che c'è anche una qualche affinità tra le armonie e i ritmi e l'anima; ragion per cui molti sapienti dicono che l'anima è armonia o che l'anima ha armonia. [Traduzione di C. A. Viano]
Aristotele poi si occupa del problema dell’educazione musicale, che non deve preparare i giovani ad un’attività professionistica, ma deve solo fornire elementi significativi per godere dei bei canti e dei bei ritmi (1340b 20-1341b 18):
Ora bisogna affrontare una questione già trattata prima: se i giovani debbano essi stessi apprendere a cantare ed a suonare o no. Non c'è dubbio che per acquistare una qualche capacità abbia molta importanza il praticare direttamente le operazioni inerenti a quella capacità, ché è cosa ben difficile se non impossibile il diventare buoni giudici di attività che non si sanno eseguire. D'altra parte ai fanciulli bisogna pure procurare un qualche passatempo e a questo proposito ottima escogitazione è stato il sonaglio di Archita, che si dà ai bambini, perché divertendosi con quello non rompano gli altri oggetti di casa: infatti la loro tenera età li rende inquieti. Quel sonaglio è adatto all'infanzia, ma l'educazione è il sonaglio dei ragazzi più adulti. Dalle considerazioni che abbiamo svolto, perciò, risulta in modo evidente che la musica deve essere insegnata in base all'effettiva esecuzione pratica delle regole prescritte dall'arte.
Quanto poi alla distinzione tra ciò che conviene e ciò che non conviene all'età degli educandi non è difficile stabilirla e riportare vittoria contro quelli che sostengono essere la musica un'occupazione servile. Innanzitutto i giovani devono praticare l'arte solo per acquistare la capacità di giudicare su di essa e perciò si devono dedicare all'esecuzione solo fino a che sono giovani ed astenersene quando saranno diventati più anziani, e sapranno giudicare le cose belle godendone rettamente in base alle conoscenze acquisite in gioventù. Quanto al rimprovero che alcuni rivolgono alla musica, che trasformerebbe i suoi cultori in manovali volgari, non è difficile confutarlo, facendo osservare fino a qual punto si deve effettivamente praticare l'arte quando la si considera come propedeutica alla virtù politica e quali melodie e quali ritmi si debbano apprendere e con quali strumenti; che sono tutte cose di una certa importanza. Con queste precisazioni si toglie ogni peso a quell'obiezione; il che, però, non vuol dire che alcuni modi di apprendimento della musica non giustifichino proprio quell'appunto. Risulta pertanto evidente che l'apprendimento di essa non deve riuscire di ostacolo alle ulteriori attività né fare del corpo un puro strumento meccanico rendendolo inadatto alle occupazioni guerresche o a quelle politiche, impedendo ogni disponibilità per la pratica o per la teoria. Questo risultato si raggiunge quando si evita di sottoporre i giovani alle fatiche che richiede la preparazione per una gara artistica o quando non si pretende di insegnare ad essi i virtuosismi tecnici che hanno preso voga negli agoni che ora stanno passando nel campo dell'educazione: basta infatti impratichirsi in queste cose solo per quel tanto che contribuisce al godimento di bei canti e bei ritmi e solleva oltre quella possibilità di apprezzamento della musica che è comune anche ad alcuni animali, agli schiavi e ai fanciulli.
Queste chiarificazioni possono fungere da criterio per la scelta degli strumenti. Quando si hanno di mira scopi pedagogici non si deve imporre l'uso del flauto o di qualche altro strumento che richieda una competenza specifica, come la cetra o altri del genere, ma di quegli strumenti che rendono buoni gli uditori sia nel campo specifico della musica, come mezzo educativo, che in altri campi. Inoltre il flauto non è strumento che favorisca le qualità morali, ma suscita piuttosto emozioni sfrenate, tanto che lo si deve usare soltanto in quelle occasioni in cui l'ascolto di esso produce catarsi più che accrescimento di sapere. A questo si aggiunga che contro l'uso del flauto quale strumento pedagogico milita il fatto che ad esso non si può accompagnare la parola. Perciò a ragione gli antichi ne vietarono l'uso ai giovani e agli uomini liberi, sebbene nei tempi precedenti esso fosse in voga. Ma divenuti i Greci più facili all'ozio per l'accrescersi delle ricchezze e più grandiosi nella pratica delle virtù, sia prima che dopo le guerre persiane, inorgogliti delle loro imprese, cercarono di impadronirsi di ogni tipo di sapere, senza trascurare nulla, ma esplicando zelo in ogni campo. In nome di questa aspirazione aprirono le porte del sapere anche all'auletica. E a Sparta un corego suonò egli stesso il flauto per il coro, mentre ad Atene questo strumento prese tal diffusione che molti liberi cittadini si diedero a suonarlo, come appare dal quadro dedicato da Trasippo che aveva allestito, come corego, uno spettacolo per Ecfantide. In séguito, però, questi usi vennero banditi, per l'esperienza che si era fatta, con la quale si era imparato a meglio distinguere i confini di ciò che si confà e di ciò che è sconveniente alla virtù: ed insieme con il flauto furono banditi molti altri strumenti antichi, quali i pectidi, i barbiti e tutti quelli che risvegliano gli stimoli del piacere negli uditori, l'ettagono, il triangolo, il sambice e tutti quelli che richiedono molta perizia manuale. Torna a proposito qui ciò che l'antico mito narra del flauto: si dice infatti che Atena, dopo averlo trovato, lo scagliò lontano da sé. Forse non è sbagliato dire che fece questo gesto indispettita perché il suonarlo le deformava il volto; cionondimeno è più naturale pensare che essa volesse significare la nessuna efficacia pedagogica che lo studio del flauto ha sul pensiero. Infatti ad Atena noi attribuiamo la scienza e l'arte. Dall'uso degli strumenti e dall'esercizio dell'arte noi mettiamo al bando l'istruzione professionale, intendendo per istruzione professionale quella che ha di mira la preparazione per gli agoni. Chi pratica l'arte in questo senso non tratta la musica come un mezzo per realizzare la propria virtù, ma mira esclusivamente al piacere degli uditori, senza preoccuparsi se sia o meno elevato: appunto per ciò riteniamo che questa attività sia servile e non degna di un uomo libero. Quindi quelli che esercitano la musica con questi intenti diventano dei mestieranti, perché perseguono uno scopo deteriore. Infatti lo spettatore volgare fa peggiorare anche la musica e i musicisti che di lui tengono conto diventano anch'essi peggiori e rovinano il loro corpo con movimenti scomposti. [Traduzione di C. A. Viano]
Aristotele, infine, discostandosi da Platone, ammette che tutte le forme di composizione musicale sono utili, a seconda delle esigenze differenti degli ascoltatori (1341b 19 -1342b 34):
La nostra indagine deve vertere ora sulle armonie e sui ritmi, per decidere se ci si deve servire di tutti i tipi in cui essi si possono distinguere, oppure se si debbono stabilire delle differenze; in secondo luogo si dovrà vedere se coloro che praticano la musica a scopi pedagogici debbano intenderla nello stesso senso degli altri, oppure in qualche altro senso diverso dal primo, e in terzo luogo, poiché, a quanto vediamo, la musica consiste di canto e di ritmo,ciascuno dei quali ha delle particolari proprietà educative, bisogna anche stabilire se bisogna scegliere una musica basata sul canto o piuttosto una basata sul ritmo. Ma pensiamo che molte buone considerazioni su questo argomento siano state fatte da alcuni musici del nostro tempo e dai filosofi che sono esperti di educazione musicale, sicché ad essi rimandiamo chi vorrà approfondire l'argomento in particolare, limitandoci ora a tracciare alcune distinzioni generali che possono servire ad un sistema legislativo in questa materia.
Noi accettiamo la distinzione, fatta da alcuni filosofi, tra melodie aventi un contenuto morale, quelle stimolanti all'azione e quelle suscitatrici di entusiasmo; in esatta corrispondenza vengono classificate le armonie. A ciò si aggiunga che secondo noi la musica non va praticata per un unico tipo di beneficio che da essa può derivare, ma per usi molteplici, poiché può servire per l'educazione, per procurare la catarsi (che cosa intendiamo per catarsi, ora lo accenniamo appena, ma lo diremo più chiaramente nella Poetica) e in terzo luogo per il riposo, il sollevamento dell'animo e la sospensione dalle fatiche. Da tutte queste considerazioni evidentemente risulta che bisogna far uso di tutte le armonie, ma non di tutte allo stesso modo, impiegando per l'educazione quelle che hanno un maggiore contenuto morale, per l'ascolto di musiche eseguite da altri quelle che incitano all'azione o ispirano la commozione. E queste emozioni come pietà, paura ed entusiasmo, che in alcuni hanno una forte risonanza, si manifestano però in tutti, sebbene in alcuni di più ed in altri di meno. E tuttavia vediamo che quando alcuni, che sono fortemente scossi da esse, odono canti sacri che impressionano l'anima, allora si trovano nelle condizioni di chi è stato risanato o purificato. La stessa cosa vale necessariamente anche per i sentimenti di pietà, di paura e in genere per tutti i sentimenti e gli affetti di cui abbiamo parlato, che possono prodursi in chiunque per quel tanto per cui ciascuno ne ha bisogno: perché tutti possono provare una purificazione ed un piacevole alleggerimento. Analogamente le musiche particolarmente adatte a produrre purificazione dànno agli uomini una innocente gioia. Perciò bisogna tenere per fermo che le armonie ed i canti di cui abbiamo parlato finora sono quelli che devono eseguire i professionisti della musica. Poiché gli spettatori sono di due tipi, gli uni liberi ed educati, gli altri volgari, appartenenti al ceto dei meccanici o degli operai o simili, bisogna preparare agoni e spettacoli che possano divertire anche costoro. I quali hanno anime che si allontanano dalle giuste tendenze naturali, sicché esigono armonie e canti che, alti e pieni di colore, costituiscono delle degenerazioni: ma ciascuno prova piacere a seconda di quello che è la sua natura. Perciò bisogna dare all'artista la libertà di scegliere una musica che si possa adattare anche a questo tipo di spettatore.
Quanto all'educazione, come si è detto prima, bisogna usare canti ed armonie aventi un contenuto etico. Tra le armonie, e lo si è già detto, tale requisito è posseduto da quella dorica; tuttavia bisogna accettarne anche altre che siano state approvate dai filosofi e dai musici che si occupino del problema della musica come mezzo educativo. Però non ha ragione Socrate quando nella Repubblica ammette, accanto all'armonia dorica, solo quella frigia, pur avendo bandito l'uso del flauto, perché la frigia tra le armonie ed il flauto tra gli strumenti si corrispondono, in quanto entrambi sono orgiastici e suscitatori di forti emozioni. Ciò è reso evidente dalla considerazione della poesia: infatti tutta la poesia bacchica e in genere quella che scuote i moti dell'anima si serve soprattutto, tra gli strumenti, dei flauti e tra le armonie sceglie come ciò che ad essa conviene i canti frigi; del resto concordemente si ammette che il ditirambo è di origine frigia. Molti altri esempi del genere offrono quelli che se ne intendono in queste cose: tra gli altri il caso di Filosseno che, avendo tentato di comporre un ditirambo intitolato I Misii in armonia dorica, non vi riuscì ma dalla natura stessa dell'argomento fu rinviato dall'armonia frigia come a quella che più si adattava. Quanto all'armonia dorica tutti sono d'accordo nel riconoscere che essa è la più grave e la più adatta a formare un carattere virile. Inoltre, poiché esaltiamo il medio tra due eccessi ed affermiamo che ad esso dobbiamo tendere e poiché l'armonia dorica è in queste condizioni rispetto alle altre, è evidente che ai giovani quella più di ogni altra bisogna insegnare. Due sono gli scopi che ci si deve prefiggere: il possibile e il conveniente, tenendo conto, però, che tali concetti si specificano nei casi particolari e in rapporto all'età, sicché, per esempio, ai vecchi indeboliti dagli anni non è facile cantare armonie alte, ma la natura stessa suggerisce loro canti sommessi. Perciò è giusto il rimprovero che alcuni musici rivolgono a Socrate per aver bandito dall'educazione le armonie sommesse in quanto inebrianti, perché egli non ha considerato l'ebbrezza nelle sue proprietà distintive, che sono piuttosto di natura orgiastica, ma l' ha confusa con l'illanguidimento. Perciò proprio con l'occhio all'età futura, alla vecchiaia, dobbiamo apprendere le armonie sommesse. Inoltre se c'è un'armonia adatta alla tenera età dei fanciulli, in quanto unisce bellezza ed efficacia educativa, tale sembra essere l'armonia lidia... Perciò è chiaro che tre sono gli elementi di cui deve tenere conto l'educazione: il giusto mezzo, il possibile e il conveniente. [Traduzione di C. A. Viano]
Nel periodo ellenistico e romano i teorici musicali seguirono le indicazioni di Pitagora e di Damone,«“approfondirono la ricerca sui valori matematici degli intervalli e sulla loro disposizione all’interno dei tetracordi, definirono i vari sistemi, formati dall’unione di due o più tetracordi e continuarono a discutere problemi di ethos musicale.
Poiché in epoca ellenistica e romana la musica arcaica e classica non era più eseguita, si perse anche l’esatta nozione di harmonia, quale era stata teorizzata nel passato da Laso ad Aristotele».
Il primo musicologo ellenistico fu Aristosseno di Taranto, discepolo di Aristotele, che individuò gli elementi della melodia e i generi (diatonico, enarmonico, cromatico) dei tetracordi. Per lui diventarono fondamentali, per comprendere correttamente la musica, l’orecchio, l’intelletto e la memoria.
Molto importante è poi il De musica di Aristide Quintiliano, che sembra appartenere al II secolo d.C. In questo trattato l’autore definisce la musica come “la disciplina-guida per l’educazione dell’elemento irrazionale dell’anima”.
c) Gli strumenti musicali in Grecia
Nella rappresentazioni artistiche greche, soprattutto in quelle vascolari, troviamo effigiati molti tipi di strumenti musicali, non tutti identificabili con certezza, in base alle testimonianze letterarie.
Gli strumenti a corda della famiglia delle “lire” avevano una cassa di risonanza da cui partivano due bracci (ph/xeij) o corna (ke/rata) che reggevano una traversa o giogo (zugo/n). Tra questo ultimo elemento e la cassa erano tese le corde, il cui numero oscillava tra quattro e undici. Tutte le corde avevano la stessa lunghezza e producevano suoni diversi a seconda della tensione e del diametro.
Tra i tipi di lira si ricordano ad esempio la fo/rmigc o ki/qarij, lo strumento usato dagli aedi nelle loro performances. Si tratta di strumenti di piccole dimensioni, con la cassa di risonanza semicircolare. La lu/ra era usata invece nelle scuole e nei simposi; la ki/qara era uno strumento di grandi dimensioni, con ampia cassa armonica, adatta ai concerti e il ba/rbiton, lo strumento dei poeti di Lesbo come Terpandro, Saffo ed Alceo, aveva un’intonazione grave, con una cassa di risonanza quasi circolare e lunghi bracci curvi che si avvicinavano nel punto in cui reggevano il giogo. Le corde di questo strumento erano pizzicate con le dita della mano sinistra e con il plettro nella mano destra.
Invece gli strumenti appartenenti alla famiglia delle “arpe” avevano un numero molto elevato di corde, che erano di lunghezza scalare. Tra queste si ricordano strumenti come il ya/ltron, la phkti/j di origine lidia e dal registro acuto, il tri/gonoj di forma triangolare, la ma/gadij anch’essa triangolare, a venti corde, che si corrispondevano a dieci a dieci a intervallo di ottava. Erano in genere strumenti di origine asiatica, di scarsa sonorità, pizzicati dalle due mani, senza il plettro.
Tra gli strumenti a fiato l’ au)lo/j, a semplice o a doppia ancia, simile al nostro oboe, era diffuso in tutto il mondo greco. I fori raggiunsero il numero di cinque in età arcaica e classica, ma aumentarono di numero in età più tarda. Si tratta probabilmente di uno strumento di origine frigia, come frigio pare fosse Olimpo, l’iniziatore della musica atletica in Grecia.
Gli auleti usavano in genere il doppio aulos, con i due bocchini inseriti in una specie di bavaglio che facilitava l’imboccatura.
I lessicografi elencano numerosi tipi di au)/loi, semplici o doppi, diversi per origine, materiali e per l’uso a cui erano destinati. Conosciamo infatti il corno (ke/raj)))))) e la tromba (sa/lpigc) per gli usi militari, mentre la siringa (su/rigc), formato dall’unione di canne di lunghezza diversa, era lo strumento usato dai pastori.
Gli strumenti a percussione erano usati poi per le cerimonie religiose di culti orientali ed erano principalmente i cimbali (ku/mbala) ed i timpani (tu/mpana), tamburelli con sonagli.
Gli strumenti musicali a corda e a fiato greci hanno molte somiglianze con quelli dell’area mesopotamica ed egiziana, a testimonianza dei contatti stretti che dovevano esistere tra i popoli del Mediterraneo orientale fin dal II millennio a.C.
d) Musica e letteratura in Grecia
Tra le esecuzioni musicali di cui abbiamo notizia ricordiamo la citarodia (canto accompagnato dallo strumento a corda), l’aulodia (canto accompagnato dallo strumento a fiato), la citaristica (a solo dello strumento a corda) e l’auletica (a solo dello strumento a fiato).
Le melodie, di semplice esecuzione e frutto dell’improvvisazione, erano vincolate da schemi e modelli tradizionali, chiamati no/moi, precetti, leggi, che non dovevano essere trasgrediti, passando ad esempio ad un’altra armonia, da un genere ritmico all’altro.
Tra i più antichi citaredi si ricordano Tapiri, Demodoco di Corcira, Femio di Itaca, ma fu Terpandro di Antissa (VII secolo a.C.) a stabilire un preciso ordine di successione per le parti del no/moj citarodico, portò a sette il numero delle corde della lira ed usò per primo o inventò il barbitos. Si trasferì poi a Sparta, vinse i primi agoni Carnei, in onore di Apollo, e vinse per quattro volte a Delfi nei giochi pitici.
Citarodo illustre fu anche Arione di Metimna (VII-VI secolo a.C.), che fu anche istruttore di cori a Corinto, presso il tiranno Periandro. Gli viene anche attribuita la creazione di un nuovo canto corale in onore di Dioniso, il ditirambo.
Per il periodo arcaico e classico la musica e la poesia appaiono strettamente unite, per cui tra i citadori vanno annoverati anche Alceo e Saffo (VII-VI secolo a.C.), Stesicoro di Imera e Anacreonte di Teo (VI secolo a.C.), che cantavano i loro carmi accompagnandosi allo strumento a corda. A Stesicoro poi fu attribuita la suddivisione metrico-ritmica dei carmi corali in tre parti: strofe, antistrofe ed epodo. Le prime due parti si corrispondevano nella disposizione delle sillabe lunghe e brevi e nell’alternanza dei tempi forti e deboli, creando una schema compositivo che sarebbe diventato canonico per tutta la lirica corale successiva.
Aristonico di Argo fu l’iniziatore della citaristica (VII secolo a.C.), mentre il primo auleta attivo in Grecia pare essere stato Olimpo (IX secolo a.C.).
La lirica corale presenta poi generi differenti a seconda dell’occasione e della destinazione del canto. Abbiamo così gli inni (dedicati agli dei), i parteni (canti per cori di fanciulle), gli imenei e gli epitalami (canti nuziali), i treni (canti funebri), gli encomi (canti in onore di uomini illustri), gli scoli (canti da intonare nei simposi) e gli epinici (canti per gli atleti vincitori).
Nel V secolo a. C. la tragedia nacque dalla commistione del ditirambo con versi giambici e trocaici per le parti recitate.
Nella tragedia le parti musicali sono quelle della pàrodo (canto di ingresso del coro), degli stasimi (canti corali tra un episodio e l’altro), dagli interventi lirici del coro o dei singoli personaggi.
In particolare ricordiamo che la pàrodo e gli stasimi mantengono la tripartizione metrico-ritmica in strofe, antistrofe ed epodo, proprie della lirica corale.
Nelle tragedie di Eschilo la musica rimase legata alle forme tradizionali, ma in Sofocle ed Euripide subì delle modificazioni, a seconda delle trasformazioni del ditirambo. Il numero dei coreuti salì da dodici a quindici, alle armonie di tradizione dorica si aggiunsero canti in armonia frigia, di tipo ditirambico, ed aumentò il numero dei canti a solo, soprattutto in Euripide.
E proprio le ultime tragedie di Euripide vedono la trasformazione della tragedia in qualcosa di simile al melodramma, composto da arie e duetti.
Alla fine del V secolo a.C Agatone sostituì gli stasimi, canti corali legati all’argomento della tragedia, con embólima, intermezzi musicali di puro intrattenimento.
Nella commedia greca le parti cantate e recitate rispecchiavano la struttura generale della tragedia, avendo nella parabasi il suo momento centrale. In essa il coro sfilava davanti al pubblico e, rivolgendosi direttamente al pubblico, trattava di argomenti di attualità e di satira legata al mondo della polis.
Non molto sappiamo dei caratteri musicali della commedia, ma Aristofane criticò aspramente le innovazioni della musica della tragedia, introdotte da Euripide ed Agatone.
Nel IV secolo a.C. la commedia greca mutò profondamente le sue caratteristiche, a seguito della crisi della polis e del sistema democratico, perse l’aggressività della critica e per prima cosa eliminò la parabasi, tanto che nelle commedie di Menandro il coro fu utilizzato solo negli intermezzi che separavano un atto dall’altro, rimanendo completamente slegati dall’argomento della commedia stessa.
Dal IV secolo a.C. si affermò sulle scene un nuovo tipo di spettacolo, il recital di un virtuoso che cantava e mimava con l’accompagnamento strumentale dei testi originali o ripresi dai drammi del V secolo.
Si eseguirono poi sempre inni cultuali e carmi lirici, anche se dopo Timoteo non si ricordano più esempi di compositori famosi, ma solo di virtuosi del canto.
e) Testimonianze sulla musica e la letteratura a Roma
Nell’età regia (VIII-VI secolo a.C.) e nella prima età repubblicana si svilupparono a Roma e nel Lazio forme di canto monodico e corale, di cui rimangono poche tracce.
Conosciamo ad esempio frammenti di testi cantati, della cui esecuzione però intuiamo poco: si tratta dei carmi sacrali come il Carmen Fratrum Arvalium o il Carmen Saliare, carmi conviviali (carmina convivalia) o carmi in onore del generale vincitore (carmina triumphalia) o lamentazioni funebri (neniae).
E’ probabile che essi fossero accompagnati dal suono della tibia, uno strumento a fiato corrispondente all’aulós greco.
La notizia di un primo spettacolo musicale a Roma ci è data da Livio e si riferisce ad un evento accaduto nel 364 a. C. quando, in occasione di una pestilenza, furono istituiti ludi scenici, con attori etruschi che danzarono accompagnandosi al suono della tibia (flauto).
Essi furono poi imitati dai giovani romani che aggiunsero alle danze canti aritmicamente variati sull’aria intonata dal tibicinen, costituendo così le saturae.
Musica e danza dovevano essere strettamente unite anche nei fescennini, canti contro il malocchio (fascinum), e nelle atellane, farse popolari in cui dominava l’improvvisazione, come nella nostra commedia dell’arte, ad opera di personaggi fissi come il Bucco, il Pappus ed il Dossenus.
Della musica romana possiamo solo farci una vaga idea, ma molto stretto doveva essere il rapporto con la musica ed il teatro etrusco.
Il teatro romano subì nel III secolo a.C. una profonda trasformazione, quando i Romani entrarono in contatto con la cultura greca delle città del sud d’Italia, ellenizzate.
Nacque così un teatro in lingua latina, ma modellato su quello greco, con monodie e duetti (cantica), alternati a parti dialogate (diverbia), in cui il coro aveva un ruolo marginale e veniva utilizzato in modo saltuario.
Il primo autore teatrale a Roma fu Livio Andronico e nel III-II secolo a.C. gli autori più importanti furono Nevio, Ennio, Plauto, Cecilio Stazio, Terenzio ed Accio. Non possediamo nulla delle loro musiche, ma sappiamo dalle loro didascalie che come strumenti erano utilizzate le tibiae pares (di lunghezza uguale) e le tibiae impares (che suonavano a intervallo di ottava) e le tibiae sarranae o fenicie, di origine orientale.
Cicerone a proposito della musica di Livio Andronico e di Nevio parla di “iucunda severitas”.
Nell’ultimo periodo della repubblica e nell’età imperiale si affermarono nuovi generi di spettacolo come il mimo, in cui l’attore interpretava testi comico satirici, accompagnando la recitazione con il gesto e la danza al suono delle tibie.
Vi è poi anche il pantomimo, in cui si realizzavano scene mimico-orchestriche di argomento mitologico o storico con danzatori, che si accompagnavano con un coro o una orchestra composta da tibie, cetre, zampogne, strumenti a percussione come gli scabella, che erano suonati con i piedi, ed i cimbali.
Oltre al mimo e al pantomimo, che prevedevano un’intima fusione di canto e ballo, esistevano anche altri genere di spettacoli, ai quali si assisteva nei circhi, e a cui partecipavano le ambubaiae, danzatrici di origine siriana che ballavano al suono dell’abub o ambub, uno strumento molto simile all’arpa (…). Le crotalistriae erano invece le danzatrici che ballavano in modo sensuale accompagnandosi con i crotali.
Sembra poi accertato che in epoca imperiale si avessero anche dei concerti con esibizioni di cori ed orchestre, in cui comparivano anche strumenti musicali come la tuba, il lituus, la bucina, il cornus, che sono utilizzati in genere in ambito militare.
Nel II secolo a.C. a Roma confluirono anche molti attori e musicisti greci e l’educazione musicale divenne un requisito fondamentale per l’educazione dei giovani delle famiglie romane più in vista.
I musicisti greci, oltre a insegnare la propria arte, si esibivano personalmente in esecuzioni di musica squisitamente greca, e i loro compensi erano sempre molto alti. Amatissimo da Cesare e da Cleopatra, e successivamente da Ottaviano, fu il sardo Tigellio, cantore e tibicine (suonatore di flauto) che morì nel 40 o nel 39 a.C.”
All’epoca di Nerone ebbero molta fama il greco Terpnos, chiamato a corte, e Menecrates che, come afferma Svetonio, «ricevette in dono patrimoni e palazzi da trionfatore».
Accanto a questi divi vi era poi una serie di musici ambulanti, chiamati circulatores, perché il pubblico occasionale si disponeva in circolo attorno a loro e alla fine dello spettacolo dava un modesto compenso per lo spettacolo offerto.
Sempre a partire dal II secolo a.C. si diffuse l’usanza di far intervenire ai banchetti danzatrici e suonatrici di sambuca, per allietare gli invitati.
Alla fine dell’età repubblicana e poi soprattutto in età imperiale si diffuse l’uso di avere al servizio dei nobili musicisti di entrambi i sessi, in grado di suonare ogni tipo di strumento. Si trattava dei pueri symphoniaci del seguito di Milone o quelli che Verre si procurò in Sicilia e poi li inviò a Roma da un suo amico.
Nel corso dei secoli la musica a Roma veniva eseguita nelle occasioni solenni della vita comunitaria oltre che nei teatri, nelle case private e nelle piazze, prendendo sempre più spazio, tanto che nel IV secolo d.C. Ammiano Marcellino lamentava che gli studi seri venivano abbandonati per dedicarsi al canto o al suono della cetra:
quelle poche case che un tempo erano famose per la severità di studi abbondano ora di tutti i divertimenti escogitati da una torpida ignavia, e risuonano ovunque di canti e del dolce suono delle cetre. In luogo del filosofo si invita il cantore, e al posto dell’oratore il maestro di divertimenti: chiuse per sempre le biblioteche, come fossero sepolcri, si fabbricano organi idraulici, lire grandi come carri, flauti ed altri imponenti strumenti per accompagnare la mimica degli istrioni.
Non bastando ciò l’autore latino aggiunge:
si è giunti a tal punto di indegnità che, cacciati or non è molto dalla città gli stranieri per timore di una carestia, furono espulsi quei pochi che ancora coltivavano le arti liberali, senza dar loro il tempo di respirare, mentre furono trattenuti gli accompagnatori delle mime, o quanti per il momento si fingevano tali, come del resto tremila danzatrici, senza essere state minimamente importunate, con i cori ed altrettanti maestri di quell’arte. Dovunque poi tu rivolga lo sguardo potrai vedere gran numero di donne dalle chiome ondulate, che per la loro età, se si fossero sposate, avrebbero già potuto partorire tre volte, sfiorare con i piedi il pavimento danzando fino alla noia, imitando in veloci passi di danza i movimenti eseguiti sulle scene.
In sintesi, possiamo dire che l’influenza della cultura greca sulla musica latina fu enorme, ed anche teorici della musica romana come Varrone (I secolo a.C.) e Marziano Cappella (V-VI secolo d.C.) non ci hanno riferito di mutamenti significativi da parte dei Romani in ambito musicale.
Bibliografia di riferimento
AA.VV, Garzantina della Musica, Milano, Garzanti, 1999.
G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, Torino, Edizioni EDT, 1991.
R. Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, Milano, BUR, 1989.
A. Ferrari, Dizionario di mitologia classica, Torino, UTET, 1990.
M. P. Guidobaldi, La musica e la danza nell’antica Roma, in «Archeo», Anno X, n.11 (129), Novembre 1995.
P. Grimal, Mitologia, Milano, Garzanti, 1999.
M.P. Guidobaldi, La musica e la danza nell’antica Roma, in « Archeo», n. 11, Novembre 1995, p.59.
cfr. Inno ad Hermes: si tratta di un inno pseudo-omerico in cui viene descritta la costruzione della lira insieme agli effetti del suono di questo strumento, che riesce a placare il risentimento di Apollo, a cui Hermes aveva sottratto una mandria di cinquanta vacche. Nell’inno ci si riferisce sia al canto simposiale che all’inno in onore di un dio, sottolineando come il banchetto, la festa e la danza siano le occasioni della musica e del canto nella cultura greca. Una indicazione molto importante sugli effetti della musica sugli spettatori ci è fornita nei versi 448-449, in cui si afferma che con essa «è possibile raggiungere tutte insieme tre cose: la gioia, l’amore, e il dolce sonno».
Secondo un’altra tradizione Lino era stato ucciso da Eracle che, rimproverato dal proprio maestro, gli ruppe la lira sulla testa.
R. Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, p.117.
Platone, Protagora, 325 c-e, in R. Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, p. 126 .
Plutarco, Temistocle, 2.
R. Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, p. 139
R. Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, p. 133.
Gli exempla vennero pubblicati nel 1841 da Bellermann.
Si tratta di due Inni delfici, di cui il primo è anonimo (138 a.C.), mentre il secondo è di Limenio (128 a.C.), e dell’ Epitafio di Sicilo (I sec. a.C.).
Il più antico di questi papiri, del III secolo a.C., contiene i vv. 783-792 dell’Ifigenia in Aulide di Euripide.
G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, p. 81.
Cfr. nota 12.
G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, p. 34.
G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, p. 38.
G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, p. 44-45.
G. Comotti, La musica nella cultura greca e romana, p. 48.
Gli aulòi potevano essere di legno, canna, osso o avorio.
Non è sicuro che sia esistito un solo Olimpo, ma pare che oltre a quello del IX secolo a.C. ne sia vissuto anche un altro nell’VIII-VII secolo a.C, che avrebbe introdotto in Grecia l’armonia lidia ed il ritmo trocaico doppio.
Annales VII 2, 3 sgg.
Leg. II 15, 39
M. P. Guidobaldi, La musica e la danza nell’antica Roma, p. 76
M. P. Guidobaldi, La musica e la danza nell’antica Roma, p. 66.
Svetonio, Ner. 30,2,5.
Ammiano Marcellino Historiae,XIV, 18, Zanichelli, trad. di Anna Resta Barrile.
Ammiano Marcellino Historiae,XIV, 119-20, ed. Zanichelli, trad. di Anna Resta Barrile.
Fonte: http://www.liceotorricelli.it/materiali/materiali_file/varimusica/Musica%20in%20Grecia%20e%20a%20Rpma.doc
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Autore del testo: Antonella Agostinis
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