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Nasce una tradizione americana: da Gottschalk a Copland
Mentre l'Europa produceva un grande compositore dopo l'altro, gli Stati Uniti, per la maggior parte del diciannovesimo secolo, furono occupati ad aprire le loro frontiere. I muscoli erano impegnati in uno sforzo possente, e si realizzarono cose imponenti: ma lo spirito nazionale era rivolto a cose diverse dallo sviluppo di una seria cultura musicale. Non che gli Stati Uniti non avessero una musica. C'era il cospicuo corpus della musica popolare importato dagli inglesi, dagli schiavi africani e dalla zona dei Caraibi. Almeno due compositori sfruttarono questo materiale: Louis Moreau Gottschalk e Stephen Foster. Foster (1826-1864), passato alla storia come « menestrello d'America », fu uno dei pochi compositori che proponessero qualcosa di particolarmente personale e di specificamente americano. Fu anche popolarissimo. Tutto il paese cantava Old Folks at Home, Old Black Joe, Camptown Races, Come Where My Love Lies Dreaming e altre canzoni. Foster fu un vero poeta lirico e le sue canzoni non hanno mai perso la loro autentica e gentile bellezza.
Ma durante il diciannovesimo secolo negli Stati Uniti la musica « seria » fu un'arte straniera, praticata da professori importati. Le maggiori orchestre sinfoniche erano composte soprattutto di musicisti nati in altri paesi. Solisti e insegnanti erano immigrati; molti erano i tedeschi, che rappresentavano una tradizione derivata da Beethoven e dai suoi successori. I compositori americani si rifacevano a modelli stranieri. Quando William Mason (1829-1908) scrisse musica per piano, operò una sintesi di Schumann e Chopin; quando William Henry Fry compose, nel 1845, la Leonora, la prima grande opera americana, si ispirò a Bellini. Solo verso la fine del secolo, con Charles Ives, un compositore americano cominciò a parlare con voce personale e potente. Ma Ives era stato preceduto dall'affascinante Louis Moreau Gottschalk, un compositore che fu sempre sul punto di realizzarsi ma che non sfruttò mai a fondo le sue grandi possibilità.
Gottschalk avrebbe potuto essere un Glinka americano, ma ne fu impedito da una serie di circostanze. Inoltre, mori a soli quarant'anni. Proprio poco prima di morire, nel 1869, a Rio de Janeiro, aveva cominciato a scrivere composizioni di ampio respiro; e se avesse avuto piú tempo è lecito pensare che avrebbe dato significativi contributi al repertorio. Cosí come andarono le cose, è rimasto lo stesso un personaggio molto interessante, che si è cominciato a riscoprire negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale.
Nacque a New Orleans l'8 maggio 1829 da padre inglese e madre creola. Imparò prestissimo tutto ciò che gli insegnanti locali poterono dargli e a tredici anni fu mandato a Parigi: ma lí gli fu rifiutata l'ammissione al Conservatorio perché non era cittadino francese. Pierre Zimmerman, che era alla testa del settore del pianoforte, non volle neppure ascoltarlo. « L'America è soltanto un paese di macchine a vapore », disse. Gottschalk dovette prendere lezioni private, prima con Charles Hallé e poi con Camille Stamaty. Allievo di Stamaty era anche Camille Saint-Saëns, che aveva allora sette anni: ci si chiede come poté reagire il giovane Gottschalk quando si imbatté per la prima volta in un genio fanciullo. Ma anche Gottschalk, alla tastiera, aveva un talento di prim'ordine. Ben presto diventò un pianista non solo bravo, ma grande e celebre. Lo ammiravano anche Berlioz e Chopin, e per un po' fu in gran voga in Europa. Esile, bello, aristocratico, dotato di straordinario talento, tracciò una strada nuova nell'arte pianistica del primo romanticismo. Molti critici competenti lo misero alla pari di Liszt e di Thalberg. Il brillante giovane americano, primo pianista di fama internazionale che uscisse dagli Stati Uniti, era l'uomo del giorno.
Verso la fine del decennio 1840-49, cominciò a comporre. Aveva nel suo passato le melodie delle piantagioni con le quali era cresciuto, e anche gli scattanti ritmi cubani e caraibici che aveva sentito a New Orleans. Ispirato dalla qualità nazionalistica delle mazurche di Chopin, cominciò a scrivere musica che rifletteva il passato e l'ambiente etnici che gli appartenevano. Motivi e ritmi locali furono tradotti in una raffinata struttura pianistica che si rifaceva a Chopin e a Liszt, e alla quale Gottschalk aggiunse una caratteristica tutta sua che in seguito sarebbe stata indicata col termine « stile pianola », perché ricordava il tintinnio del piano automatico. Aveva una gran passione per le due ottave superiori della tastiera, e ne ricavava continuamente cascate di suoni argentini. La serie iniziale di pezzi per piano, che cominciò a comporre a Parigi quando aveva sedici anni, si basava soprattutto sulle melodie negre e sui canti di piantagione, e portava titoli come Banboula, Le Bananier, La Savane. In seguito Gottschalk sarebbe vissuto molto nelle Indie Occidentali e nell'America del Sud, dove un diverso tipo di nazionalismo entrò nella sua musica. Ancora oggi una parte della sua musica nazionalistica appare sofisticata; è pochissimo datata e il sapore ritmico della stesura, con i suoi netti sincopati, risulta sorprendentemente moderno. Una cosa come Souvenir de Porto Rico scritta intorno al 1850, non è molto diversa da tanti pezzi dei Saudades do Brasil, di Milhaud, scritti una settantina d'anni dopo.
Quando apparve in Europa, la musica di Gottschalk fu apprezzatissima, e pareva che il pubblico non se ne saziasse mai. I pianisti piú celebri facevano a gara nel suonare questi esotici, pittoreschi brani venuti dal Nuovo Mondo. Per decenni se li contesero. Gottschalk fu il primo compositore provvisto di immaginazione che sfruttasse il materiale folcloristico americano e caraibico, e che avesse l'abilità di utilizzarlo senza perderne la qualità fondamentale.
Tornò negli Stati Uniti nel 1853. Aveva una vita impegnatissima: dava continuamente concerti, scriveva musica in quantità, viaggiava il paese in lungo e in largo, andava nelle Indie Occidentali, sempre preso da un nuovo amore (ebbe, tra le altre, una relazione con l'attrice Ada Clare che scosse tutta la buona società newyorkese). Amava le Indie Occidentali, soprattutto L'Avana, e assorbiva la musica indigena, che ascoltava ogni volta che poteva. Tenne un diario, pubblicato postumo col titolo Note di un pianista, in cui si rivela una personalità coltissima, affascinante. Gottschalk fu un buon giornalista, e in quel libro dà notizie preziose sull'America dei tempi della guerra civile. Come compositore fu molto popolare tra i connazionali. Scrisse parecchia musica da salotto e due di questi pezzi - The Lasi Hope e The Dying Poet - rallegrarono i pianoforti di tutte le famiglie bennate del paese. Era in continuo movimento, come se fuggisse qualcosa. Prima e durante la guerra visitò gli stati orientali e centrali (sempre con altri musicisti: a quei tempi non esistevano i recital di un solo concertista). Nel 1865 si recò nel Far West, suonando a San Francisco e nelle città minerarie. A San Francisco si cacciò nei guai. I cittadini si indignarono quando si sparse la voce che Gottschalk si era preso delle libertà con una rispettabile e giovane signora. Non era vero. Ma piuttosto che affrontare i membri del comitato di vigilanza, si imbarcò per l'America del Sud. Dopo aver girato un po' per il continente, fini a Rio de Janeiro. Lí organizzò grossi concerti - « festival colossali », furono chiamati - che avrebbero reso orgoglioso il suo amico Berlioz. Romantico fino alla fine, crollò sul piano mentre eseguiva un suo pezzo, Morte. Si spense poco dopo, alcuni dicono di febbre gialla, altri assassinato da un marito geloso. Ma sembra che in realtà sia morto di peritonite.
Gran parte della musica di Gottschalk ebbe voga effimera. I suoi pezzi, abbastanza datati, hanno poco da offrire, salvo un sapore nostalgico di un tipo di musica che deliziò gli avi degli americani d'oggi. Più interessanti sono i grossi pezzi virtuosistici che rientrano nella corrente principale del pianismo romantico. Varrebbe la pena di riprenderne alcuni. Piú importanti di tutte sono le composizioni per piano, per orchestra e perfino vocali di carattere nazionale. Hanno qualcosa di profetico. Gottschalk le scrisse per divertire, e probabilmente non si fece illusioni sul loro valore; eppure sono arrivate fino a noi non solo come soffio autentico di un'America scomparsa ma come creazione significativa in se stessa. Probabilmente nessun compositore al mondo, allora, neppure Berlioz o Liszt ebbe la libertà ritmica di Gottschalk. I suoi ritmi furono profondamente originali perché operò in un mondo ritmico afro-cubano che non era stato esplorato da nessun compositore serio prima di lui. Disgraziatamente non aveva un'indipendenza di spirito tale da proseguire per questa strada fino alle logiche conclusioni; ed era troppo irrequieto, troppo spensierato, per sfruttare in pieno le capacità naturali. Pure, riuscì qualche volta a scrivere con disprezzo totale della eleganza esteriore, come nelle folli discordanze alla fine della versione a quattro mani della Gallina, in cui anticipa quasi Ives. Poteva anche tentare opere di ampio respiro, e la sinfonia in due movimenti (che è una sinfonia, in realtà, solo perché la chiamò cosí), A Night in the Tropics, ha un primo movimento arioso, ben disegnato e ricco di sonorità nel quale figura Berlioz, nonché il Félicien David di Le Désert. Questo movimento è seguito da una danza cubana scoppiettante, gaia, irresistibile.
Naturalmente questa musica cadde nel dimenticatoio, tra il disprezzo generale, qualche decina d'anni dopo la morte di Gottschalk. Era considerata roba di second'ordine, e i compositori seri se ne vergognavano. Poteva mai la musica americana essere rappresentata da quella roba leggera, commerciale? Si tendeva invece a scrivere alla maniera tedesca, ponderosa. Nell'ultimo quarto di secolo si formò il gruppo dei Classicisti di Boston. Quasi tutti si recarono all'estero per completare l'educazione musicale, soprattutto in Germania, e tornarono negli Stati Uniti ansiosi di trasmettere ai discepoli gli elettrizzanti precetti dei professori di Lipsia, Berlino, Monaco. John Knowles Paine (1839-1906) studiò con Karl August Haupt a Berlino e nel 1862 diventò direttore di musica a Harvard. George Chadwick (1854-1931) lavorò con Solomon Jodassohn a Lipsia e Josef Rheinberger a Monaco. Arthur Whiting (1861-1936) fu un prodotto di Rheinberger, come pure Horatio Parker (1863-1919). A questo gruppo appartennero anche Arthur Foote (1853-1937), che non studiò in Europa e Charles Martin Loefler (1861-1935), il violinista di origine alsaziana che arrivò a Boston quando aveva già vent'anni. Tutti questi compositori furono attivi nella regione del New England, e furono tutti conservatori: tutti, tranne Loeffier, vennero influenzati da Brahms e composero buona musica accademica che può essere messa, come minimo, allo stesso livello della buona musica accademica europea.
Tutti furono messi in ombra da Edward Alexander MacDowell, che nacque a New York il 18 dicembre 1861 e mori in quella stessa città il 25 gennaio 1908. Pochi compositori sono stati altrettanto idolatrati da vivi. Negli Stati Uniti MacDowell occupò la stessa posizione di Elgar in Inghilterra. Non solo fu salutato come il massimo compositore d'America, ma si credette fermamente che fosse all'altezza di qualunque altro compositore. Questo finché visse. Ma pochi compositori altrettanto famosi ai tempi loro sono stati altrettanto rapidamente dimenticati. Della produzione abbastanza vasta di MacDowell, che cosa resta nel repertorio attivo? Il Concerto per piano in re minore (1890), alcuni Woodland Sketches (1896), l'Indian Suite (1897). Tutto qui o quasi. Ogni tanto, ma di rado, viene ripreso uno dei grossi poemi sinfonici, Larnia (1908) o Hamlet and Ophelia (1895). Sembrano curiosità ormai sbiadite, dimenticate. Anche le quattro sonate per pianoforte, che una volta facevano la loro comparsa nei programmi, sembrano svaniti.
Il fatto paradossale, a proposito di MacDowell, è che egli fu considerato il massimo compositore americano senza avere in sé niente di specificamente americano. La cosa gli era nota, e si capisce perché protestasse violentemente, a voce e per iscritto, ogni volta che lo definirono musicista nazionale. Ogni tanto ribadiva che la sua musica doveva essere accettata per quella che era, e protestava violentemente quando una sua composizione veniva inclusa in un programma di musica americana.
Il fatto è che respingeva energicamente il principio stesso del nazionalismo musicale. « La musica cosiddetta russa, boema o nazionale che sia non ha posto nell'arte, perché le sue caratteristiche potrebbero essere imitate da chiunque ne avesse il ghiribizzo. A questa invece si contrappone la musica che ha personalità, elemento vitale. » Non voleva essere giudicato in quanto compositore americano; voleva essere giudicato come compositore e basta, senza favoritismi di carattere nazionale, sciovinistico. Il rifiuto del nazionalismo derivava anche dal fatto che ci teneva a giustificare l'utilizzazione di modelli tedeschi. C'è pochissimo colore locale nella sua musica. Opere come i New England Idylls (1902), o From Uncle Remus (1898) potrebbero essere state scritte da qualsiasi compositore tedesco di quel periodo.
La cosa non sorprende, perché tranne un anno trascorso al Conservatorio parigino (1876), MacDowell fu di formazione tedesca; a Stoccarda, Wiesbaden, Francoforte e, in breve, con Liszt a Weimar. La sua grande ispirazione era Joachim Raff, popolarissimo compositore di allora. Studiò con lui a Francoforte e Raff mostrò grande interesse per questo grosso americano dai capelli rossi. Nel 1881 MacDowell ebbe la cattedra di pianoforte al Conservatorio di Darmstadt e produsse molta musica che attirò l'attenzione di Liszt. A Liszt piaceva anche l'abilità della sua tecnica pianistica. Solo nel 1888 MacDowell ritornò per sempre in America. Era stato in Europa ben dodici anni. Si stabili a Boston, insegnò privatamente e compose. Nel 1896 andò a New York dove assunse la presidenza del Dipartimento di musica appena istituito alla Columbia University. Sette anni dopo ebbe dissapori con Nicholas Murray Butler, rettore della Columbia, e nel 1904 si dimise, accusando Butler e la sua università di « materialismo ». Profondamente amareggiato e psichicamente turbato da questa esperienza mori nei 1908, convinto di essere un fallito.
Romantico fino al midollo delle ossa, MacDowell si accontentò di scrivere spartiti tranquillamente derivati da Schumann, Liszt, Grieg, Raff, Rubinstein. Soprattutto Rubinstein. I due Concerti per piano sono stati da molti paragonati a quello in la minore di Grieg, ma in realtà sono piú vicini ai convenzionali concerti scritti da Rubinstein. Nel loro genere erano buoni, tanto quelli di MacDowell quanto quelli di Rubinstein, anche se nel caso di MacDowell quello in re minore è molto meglio realizzato e piú spontaneo dell'altro in la minore. L'ultimo movimento del Concerto in re minore ha un sapore americano raro nella musica di MacDowell.
Convenzionalità: questa, purtroppo, è la parola che meglio definisce la musica del compositore newyorchese. Ebbe parecchie qualità, ma non l'audacia. Le armonie sono sempre derivate da altri, e quello che salva la musica dall'estinzione totale è una capacità melodica di dolcezza e genuinità insolite. t: nella musica da salotto, come i Woodland Sketcbes, che questa qualità si esprime al meglio. Certo, tra la fine del diciannovesimo secolo e il principio del ventesimo, gli arbitri del gusto erano propensi a prendere sottogamba i Woodland Sketches, che contenevano pezzi come To a Wild Rose e To a Water Lily. Furono considerate effusioni sentimentali di poco conto e MacDowell sarebbe rimasto nella storia solo per la grande Sonata tragica (1893) o per la Sonata eroica (1895). È facile capire perché le due opere si imponessero. MacDowell aveva grandi ambizioni e tentò composizioni di grande respiro. I critici parlarono delle quattro sonate per piano - le altre due sono Norse (1900) e Keltic (1901) - nei termini che di solito sono riservati alla Sonata in si minore di Liszt. Furono entusiasti dell'abilità tecnica, della brillante organizzazione pianistica, della profondità e della passione di quella musica. Non videro però, essendo in una prospettiva troppo vicina, che l'abilità artigianale scricchiola, la passione è posticcia e le difficoltà non sono sostenute da idee musicali persuasive.
Ma non c'è niente di posticcio nei graziosi Woodland Sketches, e in altri pezzi per piano. Anche alcune canzoni sono veramente belle e ripagherebbero i concertisti che le includessero nei loro programmi. MacDowell infatti, che voleva disperatamente essere compositore di cose « grandi », fu sostanzialmente un miniaturista. E, stranamente, fu nelle piccole cose che si manifestò quel tanto di caratteristiche nazionali che c'era in lui. I Woodland Sketches sono molto piú che composizioni legate a un periodo preciso (come le Romanze senza parole di Mendelssohn e i Pezzi lirici di Grieg trascendono il loro tempo). Sono qualcosa di piú perché sono perfetti e personalissimi, nel loro genere, e hanno un sapore melodico veramente genuino. To a Wild Rose vale tutt'e quattro le sonate messe insieme, per lo stesso motivo per cui venti centesimi veri valgono piú di un biglietto da cento falso.
Cosí, mentre la musica sinfonica è assai ingombrante, e mentre le composizioni d'ampio respiro (tranne il Concerto per piano in re minore) sono generalmente opere retoriche non sorrette dal contenuto, i pezzi per piano piú brevi e le liriche meritano un posto nel repertorio. Sarebbe stato Charles Ives, nato tredici anni dopo MacDowell, il primo grande compositore americano della storia; MacDowell però dimostrò al mondo che gli Stati Uniti non erano del tutto privi di talento musicale creativo, mentre agli Stati Uniti dimostrò che la carriera di compositore consentiva una rispettabilissima posizione sociale. Con la sua attività di compositore di fama mondiale, di pianista e di insegnante, egli cristallizzò un nascente orgoglio nazionale. Avanzò alla ribalta proprio mentre l'America conquistava le sue ultime frontiere e cominciava per la prima volta a pensare a cose che andavano oltre la pura e semplice realtà materiale. Era il tempo in cui i baroni dell'industria cominciavano a portar via all'Europa i suoi tesori d'arte, i tempi in cui un gruppo di ricchi si mettevano insieme per costruire un grande teatro dell'opera a New York, i tempi in cui si parlava moltissimo di un'accademia nazionale di musica e Theodore Thomas faceva arrivare al popolo il meglio della musica sinfonica. La pentola stava per bollire, e Edward MacDowell era uno dei capi cuochi.
Non è facile giudicare Charles Ives, che iniziò la sua carriera in coincidenza con l'ultimo periodo della carriera di MacDowell. La sua musica era molto avanti rispetto ai tempi. Ives era tutto ciò che non era invece MacDowell, incredibile combinazione di sognatore e di uomo pratico, mistico e democratico, sentimentale e affarista. La sua musica è un riflesso costante della giovinezza trascorsa nel New England: rimembranze di una vita di altri tempi, piú semplici. Agognava alle virtú di un'America antica, di semplice democrazia paesana, trascendentalista, emersoniana, ed espresse questa nostalgia nella musica più progressista, eterodossa, disarmonica, stridente composta fino a quel tempo.
Questo era il compositore che, con il socio Julian Myrick, gesti una delle piú fortunate compagnie di assicurazioni del tempo (48.000.000 di dollari realizzati nel 1929, l'anno in cui si ritirò). Questo era il compositore che capitanava le squadre di baseball e di rugby della Dambury High School, che fece vincere una partita in dieci inning alla sua squadra contro le matricole di Yale e che poi formò la squadra di rugby di Yale. Questo era il compositore che evitava i colleghi, andava di rado ai concerti, pubblicava a proprie spese le composizioni, rifiutava diritti e copyright, sperimentava l'atonalismo prima di Schönberg, le dissonanze che facevano sembrare vittoriana tanta musica contemporanea, i gruppi di suoni, molto prima di Henry Cowell, la politonalità molto prima di Stravinskij e di Milhaud, nella poliritmia che poi avrebbero studiato i post-serialisti. Quarti di tono, ritmi asimmetrici, melodie disgiunte, elementi di jazz e di ragtime, anticipazioni di musica aleatoria: Ives provò di tutto, quasi sempre prima di pgni altro.
Così in anticipo era il suo linguaggio, così convulsivamente dissonante e complicato, così pieno di tessuti e di espedienti insoliti, che nessuno riusciva a coglierne il significato. Tipica fu la reazione di Stravinskij, che senti per la prima volta la musica di Ives nel 1942. « Vorrei poter dire che ero attratto da quello che sentivo, perché rispettavo in Ives l'uomo originale e inventivo e volevo che la sua musica mi piacesse. Mi sembrava però gravemente diseguale nella qualità, nonché mal proporzionata. » Quando venne di nuovo in contatto con la musica di Ives,
Stravinskij concluse che, pur se le obiezioni originali restavano immutate, gli riusciva adesso di percepire
le qualità caratteristiche personali che tolgono importanza a quelle obiezioni. Adesso c'è il pericolo di considerare Ives semplicemente alla stregua di un fenomeno storico, « il grande anticipatore ». Egli è certamente qualcosa di piú, ciò nonostante le sue anticipazioni continuano a stupirmi. Si consideri per esempio Soliloquy, or a Study in 7ths and Other Things. La linea vocale di questa canzoncina sembra come quella dei Drei Volkstexte di Webern, mentre Ives la compose dieci anni prima. I retrogradi sono del tipo di cui si occupava Berg nel Kammerkonzert e in Der Wein, benché il Soliloquy fosse composto piú di dieci anni prima dei pezzi di Berg. Certi espedienti ritmici come il « 4 nel tempo di 5 » sono generalmente ritenuti una scoperta della cosiddetta generazione post-weberniana, ma Ives anticipa quella generazione di quarant'anni. La stessa idea di intervallo, l'idea dell'enunciazione aforistica e lo stile pianistico puntano tutti in direzione di compositori che vennero dopo e furono piú facilmente accettati. Ma Ives aveva già superato i « limiti della tonalità », piú di un decennio prima di Schönberg, aveva scritto musica che utilizzava la politonalità quasi vent'anni prima di Petruška e aveva fatto esperimenti con i gruppi poliorchestrali quasi mezzo secolo prima di Stockhausen.
Non c'è da stupirsi se Ives è stato canonizzato santo della musica americana. Pochissimi compositori scrissero con il suo stile, ma egli è diventato uno dei padri spirituali dei compositori attivi in America. Per loro, Ives è il simbolo dell'audacia e dell'indipendenza, del genio intransigente e alieno dai compromessi in anticipo sui tempi di decine e decine d'anni, della completa rottura con l'accademismo; e anche, per inciso, il compositore di un corpo di musiche che finalmente si è visto riconosciuto per quello che vale: un corpo di musiche unico nella letteratura, talvolta difettoso ma sempre vitale. In un certo senso la musica di Ives riflette l'inconscio americano, in quanto riassume i compositori di inni da Billings in poi, i negri e la loro musica, Stephen Foster, la musica popolare americana, perfino la tradizione accademica. La musica di Ives è anche la storia della musica americana.
Ives nacque a Danbury, nel Connecticut, il 20 ottobre 1874 e mori a New York il 19 maggio 1954. In un periodo in cui tutti i bravi compositori americani andavano a Lipsia e a Monaco, a studiare coscienziosamente i misteri della fuga e della sonata sotto la guida di Rheinberger e di altri musicisti accademici, Ives metteva due bande a confronto, ciascuna delle quali suonava un diverso motivo americano in una chiave diversa. A vent'anni compose un Song for Harvest Season per voce, cornetta, trombone e organo, ciascuna in una tonalità diversa: assoluta politonalità nel 1894! MacDowell e Paine, che erano allora i piú eminenti compositori americani, con i loro « allegro e quasi sostenuto » e « andante con moto », parlavano un linguaggio diverso da Ives, che scriveva istruzioni di questo tipo: « rozzamente e quasi parlato » oppure « il piano dev'essere suonato il più indistintamente possibile » o « in maniera gradatamente eccitata ». Una delle liriche si chiama A Son of a Gambolier, e verso la fine l'autore introdusse un « coro di kazoo con flauti, violini e zufoli ». Qualche misura dopo indica: « E ottavini, ocarine e pifferi ».
Non che si aspettasse che il cantante mettesse insieme suonatori di kazoo. Scrisse quell'indicazione perché faceva capire qual era il colore timbrico desiderato dall'autore (che peraltro sarebbe stato felicissimo se il cantante fosse veramente venuto in scena seguito da virtuosi di kazoo e ocarine). Leopold Stokowski, che negli anni cinquanta voleva includere in un programma un pezzo di Ives, ebbe un bel daffare per trovare un suonatore di arpa ebraica, allo scopo di ottenere un certo effetto voluto dall'autore. La sezione 802 della Federazione Americana dei Musicisti aveva migliaia di iscritti ma neppure un suonatore di arpa ebraica. Stokowski dovette ricorrere a un'inserzione sul giornale.
Il grosso delle composizioni di Ives appartiene al periodo che va dal 1896 al 1916. Le sue cose erano cosí anticonvenzionali ed eccentriche, cosí difficili da eseguirsi, che solo nel 1927 riuscí a far eseguire in pubblico una sua composizione per orchestra. John Kirkpatrick ci mise una decina d'anni a imparare la Sonata per pianoforte n. 2 (Concord ). Nel 1947 Ives ebbe il premio Pulitzer per la Terza Sinfonia: quarantatré anni dopo averla composta. Allora aveva settantatré anni, e il suo stile si era sostanzialmente formato intorno al 1895. « Mi accorsi che non potevo andare avanti utilizzando gli accordi noti », spiegò una volta. « Sentivo qualcos'altro. » A Yale aveva seguito un corso di composizione di Horatio Parker nel 1898. Parker guardava addolorato gli esercizi che il giovane gli sottoponeva: « Ives, non puoi proprio farne a meno di provare tutte le tonalità? » domandava, sospirando.
Le cose di Ives pubblicate sono pochissime. I manoscritti, un insieme incredibilmente disordinato di note appena decifrabili, prosa (aveva una scrittura peggiore di quella di Beethoven), note in margine, cancellature, sono quasi illeggibili. Ci sono composizioni complete, abbozzi, composizioni iniziate e abbandonate, idee geniali e idee banali. Su un manoscritto scribacchiò: « Può darsi che non sia buona musica, ma i suoni mi sembrano belli ». Alla fine di Tone Roads scrive: « Ci sono molte strade, si sa, oltre la Wabash ». Uno dei pezzi piú impressionanti è The Unanswered Question. Gli archi, scrisse Ives « devono rappresentare i Silenzi dei Druidi, che non sanno, non vedono e non sentono niente ». La tromba intona « La domanda perenne dell'esistenza » mentre « i Rispondenti Volanti (flauti e altri) » corrono intorno cercando invano di scoprire l'invisibile risposta alla tromba. Sciocchezze? Profondità? Misticismo? Sornioneria? Tutto insieme, forse, secondo le persone; ma tutti ammetteranno che era veramente uno strano linguaggio, quello usato da Ives della « lves and Myrick Agency of Mutual Life ».
Ives comincia una composizione « in formazione a cuneo » dopo aver visto un incontro di rugby Yale-Princeton. « La tromba fa da mediano », suggerisce. Un'altra composizione incompiuta si intitola Giants vs. Cubs, August, 1907, Polo Grounds. Dagli appunti scribacchiati sul manoscritto si può dedurre che Ives si ispirò a una partita di baseball giocata veramente al « Polo Grounds » il 17 agosto 1907 tra i Giants e i Cubs.
A Ives non importava molto che la sua musica fosse considerata ineseguibile. « Le impossibilità di oggi sono le possibilità di domani », diceva. Individualista, non gli importava se i musicisti pasticciavano un po' le note, purché capissero ciò che il compositore voleva dire e l'effetto generale che si proponeva di ottenere. A una delle rare esecuzioni di un suo pezzo, nel 1931, l'orchestra, lottando con la sua ardua scrittura, naufragò nel caos. « Proprio come un'assemblea cittadina: ciascuno per sé. Che meraviglia è venuta! » esclamò, compiaciuto. Come Beethoven, che ammirava moltissimo, perseguiva un'idea nel senso platonico, ma non era un compositore chiuso nella torre d'avorio. Accettava l'arte come funzione naturale dell'umanità e guardava con speranza al giorno in cui « ognuno, scavando le patate, canticchierà le sue epopee, le sue sinfonie (opere, se si preferisce); e sedendo la sera sulla veranda in maniche di camicia, succhierà la pipa osservando i bambini intenti a costruire i loro temi per le loro sonate e guarderà lontano verso le montagne e vedrà le sue visioni, nella loro realtà ». Soprattutto disprezzava la musica « graziosa » che piace al pubblico. Chiamò il tipico musicofilo, quello che se ne sta seduto a respirare « bella » musica, Rollo, con un nome preso da una serie di libri per l'infanzia scritti dal reverendo Jacob Abbott Hallowell tra il 1834 e il 1858. Rollo era un bel bambino, un po' tonto, cocco di mamma. I Rollo en masse li chiamava « coccinelle ». « Continua a lottare - arte! - colpisci forte - non mollare solo perché non piace alle " coccinelle '. » Accusa « Richie Wagner » di falsa nobiltà. Debussy era « un cittadino che al week-end fa una gita nell'estetica rurale ». Chopin era « molle ... con la sottana ». Ravel era « debole, morboso e monotono ». L'Uccello di fuoco di Stravinskij « va avanti e avanti e diventa noioso ». Mozart era effeminato e aveva esercitato un'influenza negativa sulla musica.
Ives è per una fiera integrità musicale e per un tipo di nazionalismo personalissimo. Era stato educato avendo come modello Emerson, idolatrava l'uomo e la sua filosofia e cercava di esprimere con la sua musica un tipo di trascendentalismo emersoniano. Quasi tutte le composizioni contengono riferimenti al New England: ai motivi, agli inni, ai canti patriottici, alle danze e alle marce che aveva sentito da giovane. Tutta la sua impostazione si può riassumere nelle note scritte per la Quarta Sonata per violino: « L'argomento, se cosí si può chiamare, è una sorta di riflessione, di rimembranza, di espressione, eccetera, delle funzioni per i bambini ai campeggi estivi che si tenevano nei dintorni di Danbury e di molte cittadine rurali del Connecticut negli anni Settanta, Ottanta e Novanta ... ». Riflessione, Rimembranza, Espressione: questa è la chiave per capire Ives, si tratti di interpretare la Seconda Sinfonia, il Secondo Quartetto per archi, Three Places in New England o la Sonata Concord.La Seconda Sinfonia cerca di esprimere « i sentimenti musicali della campagna del Connecticut negli anni novanta ... È piena dei motivi che si cantavano e suonavano allora ... La parte che suggerisce un motivo di Stele Foster, mentre i vecchi contadini suonano sul violino una danza campagnola con gighe, galoppi e reels (danza scozzese), fu suonata a Danbury sulla vecchia pedana di Wooster House nel 1889 ». Il movimento della Sinfonia Holidays che si chiama Washington's Birthday descrive un « ballo campagnolo al Centro. La banda del villaggio, con violini, pifferi e corni attacca un interminabile pot-pourri di “break-down” ... ». Central Park in The Dark è « un quadro sonoro dei suoni della natura e degli eventi che gli uomini avrebbero sentito una trentina d'anni fa (prima che il motore a scoppio e la radio monopolizzassero la terra e l'aria) ». Tra le altre cose si sentono le grida per le strade, civette notturne dalla parte di Healev's, la sopraelevata, gli strilloni che urlano « uxtry! », pianini, macchine dei pompieri, un cavallo imbizzarrito, un'eco sul laghetto (« e noi andiamo a casa »).
Si direbbe che Ives non dimenticasse niente delle cose sentite da bambino. Una volta, a una partita di baseball a Danbury, senti due bande in marcia che suonavano musiche diverse, ora avvicinandosi ora allontanandosi. Quando si incontrarono si senti una tremenda dissonanza. Quel suono gli parve delizioso e lo riprodusse piú volte nella sua musica. Frequentava le assemblee dei revivalisti dove le cantanti urlavano stonate. Questa, per Ives, era la vita; queste erano le voci della gente. E perché allora la musica doveva essere diversa? Nella prefazione alla Quarta Sonata per violino spiega: « ... Il secondo movimento è piú tranquillo e piú serio, salvo quando Deacon Stonemason Bell e Farmer John si alzano e i ragazzi si eccitano. Ma generalmente il movimento ripete tranquillamente il vecchio inno tanto amato dai bambini, Yes, Jesus Loves Me, the Bible Tells Me So, mentre per quasi tutto l'accompagnamento si sente qualcosa che cerca di esprimere i rumori esterni della natura in un giorno d'estate ... » Tutto questo è nella musica. Eppure non si tratta di musica descrittiva. Ha sapori e colori invece di un contenuto narrativo.
Riflessione, Rimembranza, Espressione. Sembra tutto cosí semplice, a parlarne. Ma quando si sente la musica, capirla non è affatto semplice. Ives non era disposto a fare per Rollo quei suoni che lui chiamava « suoni da finocchio ». È vero che usa continuamente motivi ben noti, motivi come America, Columbia the Gem of the Ocean, Tenting Tonight on the Old Camp Ground, Rule Britannia; Good Night Ladies, inni popolari e melodie di « ragtime ». Ma quello che ne fa è un altro discorso. Nella fine della Seconda Sinfonia si rintracciano frammenti di Columbia, un po' di musica campagnola e De Camptown Races, ciascuno in una tonalità diversa. Ma quando si conosce bene il suo linguaggio, è possibile distinguere la polifonia. Questo modo disinibito di maneggiare le vecchie melodie sentimentali (mai citate per esteso ma sempre in maniera allusiva) dopo averle setacciate attraverso un crivello di dissonanze è ciò che distingue il linguaggio nazionale di Ives da quello degli altri compositori americani. Al suo confronto Roy Harris è uno sciovinista ampolloso, Virgil Thomson un esteta parigino che sogna il Middle West mentre sorseggia il tè e Copland è un cow-boy di Brooklyn. Ives aveva una voce yankee autentica, che parlava con accento puro e comunicava la fede e la dignità di tutto un popolo.
Aveva ben diritto all'accento yankee. I suoi antenati erano arrivati nel New England nel 1653. George Ives, padre di Charles, era un personaggio notevole, già maestro di banda durante la guerra civile e poi maestro di banda e insegnante a Danbury. « Pa' mi ha insegnato tutto ciò che so », diceva Ives. In parte, l'istruzione paterna era stata assolutamente ortodossa. Ives padre voleva che Charles imparasse le regole prima di violarle. Ma la parte migliore di quella educazione musicale fu qualcosa di inaudito ai tempi suoi. George Ives era interessato alle nuove relazioni tonali ed era apertissimo in proposito. « Solo gli stupidi e le tasse non cambiano », diceva. Cercava di elaborare un sistema di microtoni, con ventiquattro note per ottava. Come il figlio, non sopportava la gente che pensava e sentiva in maniera convenzionale. Quando Charles ebbe dieci anni, il padre gli insegnò a cantare Swanee River in tonalità di mi bemolle con un accompagnamento in do maggiore. Questo doveva servire, spiegò Ives molti anni dopo, ad « allungare le orecchie ... a essere meno schiavi degli usi e delle abitudini ».
Con questa educazione alle spalle non c'è quindi da stupirsi se Ives crebbe come crebbe. (Henry Cowell, il suo biografo, dice che in realtà Ives scriveva la musica del padre.) Ma Ives rinunciò subito all'idea di diventare un compositore a tempo pieno. « Secondo mio padre un uomo poteva mantenere un interesse piú vivo, piú pulito, piú grande e libero per la musica se non cercava di ricavarci da vivere. Non rimpianse mai di essersi occupato di assicurazioni, e si convinse che c'era più spregiudicatezza nel mondo degli affari che in quello della musica. « Il lavoro musicale aiutava gli affari, e gli affari aiutavano la mia musica. » Si sposò nel 1908, adottò una figlia, andò puntualmente in ufficio, compose laboriosamente nei week ends e nei giorni di vacanza (aveva una fattoria a West Redding, non lontano da Danbury) e si infischiava delle risate con cui veniva accolta la sua musica nelle poche occasioni in cui la si eseguiva pubblicamente. La moglie, Harmony Twitchell, era figlia di un pastore di Hartford. « Non mi disse mai di fare il bravo e di scrivere qualcosa di grazioso che piacesse alla gente », ricordava il marito, pieno di gratitudine. Nel 1951, quando Leonard Bernstein diresse la Filarmonica di New York nella Seconda Sinfonia di Ives, la signora Harmony, che aveva esperienza del pubblico e della musica del marito, si infilò timidamente in un palco. La sinfonia fece furore: ma la signora non riusciva a convincersi che un'opera del marito venisse applaudita. Ives non assistette al concerto. Senti la trasmissione domenicale nella casa dell'East Seventh-fourth Street, ascoltando la radio della cameriera, in cucina. (Era la sola radio dell'appartamento degli Ives.) Quando la sinfonia fini, Ives, secondo Henry Cowell, « improvvisò goffamente una piccola giga, felice di vedere riconosciute le sue ragioni ».
La Seconda Sinfonia fu la prima, delle quattro scritte dal compositore, accolta con favore. La Prima era un saggio di diploma, abbastanza tonale, pieno di reminiscenze di Beethoven, Brahms e Dvořák. La Seconda, composta nel 1902 ed eseguita solo nel 1951, quando Bernstein la « scopri », si muove con molta maggiore sicurezza. È una delle opere piú blande di Ives, ma è autenticamente americana. dolce e scorrevole. La Terza, composta nel 1911 e mai eseguita fino al 1945, è una specie di sinfonia su motivi di inni, ed è anch'essa dolce, scorrevole, con una pungente indipendenza armonica. Nel 1911 avrebbe messo in fuga il pubblico. La Quarta Sinfonia è scatenata. È la piú ampia, la piú sonora e la piú complessa di tutte quelle scritte da Ives. Il compositore la fini nel 1916, e fu eseguita per la prima volta intera nel 1965, con Leopold Stokowski e l'American Symphony Orchestra. I copisti dovettero lavorare a lungo perché la notazione molto spesso era quasi indecifrabile e non c'erano parti. La sinfonia è un compendio di tutto ciò che Ives aveva cercato di fare fino a quel momento, e alterna massicce dissonanze e poliritmi con momenti di serenità (Stokowski, alla prima, dovette farsi aiutare da due vice-direttori). È un lavoro imponente, di gran lunga la piú grande sinfonia mai composta da un americano.
Durante il suo periodo creativo Ives senti soltanto un numero limitatissimo delle cose che aveva scritto. Quando cominciarono a eseguirle, era vecchio, aveva il cuore malandato e la vista molto ridotta dalle cataratte, e non poteva uscire di casa per assistere ai concerti. Per il pubblico, era uno sconosciuto. Abbiamo pochissime fotografie sue, perché detestava la pubblicità. Solo una volta, in tutta la sua vita, e precisamente nel 1949, concesse un'intervista. Siccome nessuno voleva sentire la sua musica, Ives pubblicò qualche spartito per conto suo: « Stampato privatamente e non destinato al mercato. Ne verranno spedite copie in omaggio finché ce ne saranno ». Tra i pochi suoi sostenitori c'erano il poeta e romanziere Henry Bellamann, il pianista E. Robert Schmitz, il compositore Henry Cowell e il compositore-direttore Nicolas Slonimskv. Sionimskv incluse Three Places in New England nel programma di un concerto alla Town Hall, il 10 gennaio 1931. 11 brano fu sonoramente fischiato; nello stesso programma c'era anche Men and Mountains, di Cari Ruggles, che fu accolto ancora peggio. Ives sopportò stoicamente il fiasco della sua musica, ma quando cominciarono a fischiare il pezzo di Ruggles balzò in piedi e urlò: « Piantatela, finocchi! Cercate di affrontare una musica bella e forte come questa e di servirvi delle orecchie, come deve fare un vero uomo! ». (Parlava proprio cosí.) Slonimsky poi diresse altre cose sue in Europa, e questa volta se il pubblico in generale non fece buona accoglienza, ci furono però musicisti e critici responsabili che rimasero colpiti. Il solo critico americano importante che sposasse la causa di Ives fu Lawrence Gilman dell’”Herald Tribune” di New York. Quando venne finalmente la fama, negli ultimi dieci anni della sua vita, Ives forse aveva accumulato un certo risentimento. Accettò il premio Pulitzer nel 1947 per la Terza Sinfonia, ma alla commissione dichiarò: « I premi sono per i ragazzi. Io sono cresciuto ». E a un giornalista: « I premi sono distintivi della mediocrità » e regalò i 500 dollari che aveva ricevuto. Disse anche che molti compositori, magari geniali, avevano cominciato a declinare quando si erano fissati di voler vincere un premio di 10.000 dollari per un'opera. Alludeva a Horatio Parker che con l'opera Mona aveva vinto un premio di 10.000 dollari, appunto, offerto dal Metropolitan nel 1911.
In questo c'è tutto Ives. Ovviamente, si potrebbe sempre ribattere che era ricco di suo e poteva permettersi di disprezzare tutto ciò che era commerciale (Mozart e Beethoven non si sarebbero mai sognati di rifiutare la possibilità di guadagnare 10.000 dollari). Ma non è cosí semplice: Ives voleva dire che la musica pulitina e graziosa per i Rollo di tutto il mondo fiorisce in condizioni di mecenatismo, che chi paga impone i suoi gusti e che un compositore dotato può essere tentato di prostituirsi. Per quanto riguardava Ives, non esistevano prostitute a part-time: o si è puri o non lo si è. La musica che piaceva al pubblico significava compromesso. Ives considerava suo dovere di yankee e di puritano disprezzare un comodo ascolto; e credeva anche che il pubblico, già abbastanza viziato, avesse a sua volta il dovere di ascoltare le nuove e faticose relazioni tonali. Ciò che egli fece in musica - innovazioni sbalorditive - lo fece contro la sua stessa volontà. Non aveva un'ottima tecnica; sotto certi aspetti, anzi, era un terribile tecnico. Ma aveva genio, e un nuovo modo di ascoltare. C'è da chiedersi come avrebbe composto se la sua musica fosse stata eseguita normalmente, se avesse potuto lavorare con orchestre e musicisti. Avrebbe reso meno scabrosa e aguzza la sua scrittura? Avrebbe usato una notazione piú chiara? È difficile dirlo, ma è probabile di no. Ives era troppo ostinato e veniva da un ambiente in cui, come lui stesso annotò sul manoscritto di Tone Roads No. 1, la gente a si alzava e diceva ciò che pensava, incurante delle conseguenze ».
Rimasto Ives un elemento quasi sconosciuto fino agli anni cinquanta, quando lo si cominciò a scoprire, il compositore che rappresentò meglio di ogni altro gli Stati Uniti all'occhio dei pubblico e dei professionisti fu Aaron Copland, nato a Brooklyn il 14 novembre 1900. A Copland si deve la rottura che allontanò la musica americana dall'incolore provincialismo di MacDowell e ne fece un linguaggio potente, moderno, personalissimo. Contribuí anche a liberarla dalla schiavitú alla scuola tedesca. Giovane pianista e aspirante compositore, in un primo tempo studiò con Rubin Goldmark (nipote di Karl Goldmark, autore della Regina di Saba), ma poi lo piantò e nel 1921 andò a Parigi. Nella capitale francese studiò con Nadia Boulanger alla nuova Scuola di Musica per americani, a Fontainebleau. In seguito, definí gli studi con la Boulanger l'esperienza musicale piú importante della sua vita. La Boulanger diventò la maestra di tutti, praticamente, i compositori americani piú importanti del periodo che va dal 1920 al 1940; per quei vent'anni fu ciò che Rheinberger e Jadassohn erano stati per i tempi loro. Gli studenti erano cosí numerosi che si diceva che ogni villaggio americano aveva due cose: un « five-and-dime », e un allievo della Boulanger.
La Boulanger insegnò agli americani ad allontanarsi dai modelli del diciannovesimo secolo. Si interessava a Musorgskij e Stravinskij non meno che a Brahms e Beethoven, e simpatizzava moltissimo con i nuovi esperimenti che si stavano facendo in tutto il mondo. Copland capitò a Parigi in un buon periodo e ne fu intellettualmente stimolato. Stravinskij, Ravel, Prokof'ev, Les Six, i Balletti russi: tutti avevano messo le tende a Parigi. Picasso, Hemingway, Gertrude Stein e la sua cerchia, Joyce e gli altri eroi della Rive gauche e facevano di quella capitale, negli anni venti, la città piú esaltante del mondo. Copland, intraprendente, vivace e pieno di fiducia in se stesso, ricco di idee sulla musica, interessato al jazz americano, cominciò a scrivere musica di un tipo tutto suo. Era una musica che rifletteva la nuova età. Copland non era l'unico americano che lavorasse in uno stile d'avanguardia. Ma era il solo che avesse il cervello, la determinazione e l'abilità che ci volevano pei raggiungere obiettivi ambiziosi.
In un primo tempo fu influenzato da Stravinskij e dai Sei, e compose musica poliritmica che utilizzava elementi jazz. Il balletto Grohg, poi elaborato nella Dance Symphony (1925), appartiene a questo periodo, e cosí pure Music for the Theater (1926), e il Concerto per piano (1927). Indubbiamente era arrivato un talento di prim'ordine. Dopo il 1927 Copland lasciò perdere il jazz. « Con il Concerto, mi convinsi di avere ricavato tutto quanto si poteva ricavare da quel linguaggio, considerando la sua gamma limitata di sentimenti. È vero, era un modo facile per essere americano in musica, ma la musica americana non poteva essere confinata ai due modelli jazz dominanti: il blues e il ritmo allegro. » Molti altri compositori di quel periodo erano arrivati alla stessa conclusione. Durante gli anni venti alcuni astri internazionali, Stravinskij compreso, ebbero un breve flirt con il jazz, ma senza ricavarne gran frutto.
Dopo il Concerto per piano, Copland si rivolse a un tipo di espressione completamente diverso, che stimolava i giovani compositori americani. Con le Variazioni per pianoforte (1930), la Short Symphony (1933, poi ridotta a Sestetto), e Statements per orchestra (1935), diventò il massimo esponente della nuova scuola americana
I nuovi prodotti della penna di Copland erano spartiti spogli, dissonanti, percussivi, potenti, astratti. Molto piú che la melodia, contavano la struttura e il ritmo. I russi l'avrebbero definita musica « formalistica ». Un forte talento era al lavoro, manipolando gli elementi musicali in forme che equivalevano a logica pura. Neppure Stravinskij si era spinto cosí lontano. « È difficile a eseguirsi, e difficile a capirsi », diceva Copland della sua musica. Il pubblico non rispondeva; risponde raramente alla musica astratta, alla musica, cioè, in cui il rigoroso sviluppo di un'idea ha piú importanza della melodia (nel senso tradizionale della parola). Sono numerosi quelli che la considerano troppo « intellettuale », astrusa e ingrata. Ma alcuni elementi del nuovo stile di Copland si insinuarono nella scrittura di molti compositori americani. Erano i giorni in cui tutti volevano essere « moderni », ad ogni costo, e Copland era il più moderno, fra gli americani.
Improvvisamente, Copland cambiò di nuovo stile, passando dall'astrattismo a un linguaggio píú popolare. Si era convinto che la nuova musica poteva esser pericolosa, poiché minacciava di alienare completamente il pubblico. Al principio degli anni trenta scrisse in "The New Music ":
Cominciai a sentirmi sempre piú insoddisfatto dei rapporti che si erano creati tra il pubblico amante della musica e il compositore vivente. Il vecchio pubblico « speciale » che aveva affollato i concerti di musica moderna era scomparso, mentre quello convenzionale continuava a essere apatico e indifferente a tutto ciò che non era consacrato dalla tradizione. Mi parve che noi compositori rischiassimo di lavorare nel vuoto. Inoltre, intorno alla radio e al grammofono si era venuto formando un pubblico completamente nuovo. Non aveva senso ignorarlo e continuare a comporre facendo finta che non esistesse. Pensai che valesse la pena tentare di dire ciò che avevo da dire nella forma piú semplice possibile.
Nacque cosí la musica che ha fatto conoscere e amare Copland. Con The Second Hurricane (1935), El Salón México (1936) e soprattutto con i tre balletti « americani » - Billy the Kid (1938) per Eugene Loring, Rodeo (1940), per Agnes de Mille, e Appalachian Spring (1944) per Martha Graham - da noto in una cerchia ristretta di specialisti diventò non solo il piú rispettato dei compositori americani ma anche, e di gran lunga, il piú popolare. Altre composizioni da aggiungere all'elenco sono A Lincoln Portrait (1942), l'opera The Tender Land (che però non ebbe successo quando fu presentata per la prima volta, nel 1954), Quiet City (1940) e i Twelve poems of Emily Dickinson (1950). Sono pezzi raffinati, pieni di motivi e di atmosfera, popolari ma non di second'ordine. Portano tutti l'impronta di Copland, con le sue caratteristiche armonie e le fratture ritmiche. In altre parole, Copland non si adattò al materiale ma lo piegò alla sua volontà. Ancora una volta i giovani compositori americani si precipitarono a imitare il Maestro.
Gli anni trenta videro imporsi all'attenzione, con Copland, anche un gruppo di eminenti compositori americani. Ma pochi hanno dimostrato di avere la sua stessa capacità di resistenza. Allora si sperò che Copland, Roy Harris, Walter Piston, William Schuman, Samuel Barber e Virgil Thomson costituissero l'avanguardia della nuova scuola americana. Ma non fu cosí, e la storia assegnerà al gruppo (con l'eccezione di Copland) una posizione analoga a quella dei Classicisti di Boston: musicisti dignitosi e abili che non ebbero però la personalità necessaria per creare un corpo di musiche durevole. Harris sfornò una composizione dopo l'altra, ma solo la Terza Sinfonia ebbe una certa diffusione, e oggi i suoi pezzi formano solo una frangia del repertorio. Piston scrisse musica classicheggiante, corretta, ben tagliata ma priva di forza o di personalità. La musica di Schuman, agile e atletica, bene organizzata ed elegantemente orchestrata fu parecchio discussa ma poco amata, forse a causa della sua inibizione melodica. Thomson almeno compose due opere su libretti di Gertrude Stein - Four Saints in Three Acts (1934) e The Moter of Us All (1947) - che hanno qualcosa di dolce e di genuino. Sono opere piuttosto preziose e non rispondono ai gusti di tutti, ma con tutte le loro armonie in « tonalità bianca », alla Satie, sono molto complesse e affascinanti. Barber, il piú tradizionale di tutti, godette di grande popolarità ed è ancora presente nel repertorio, anche se ha composto sempre meno a partire dal 1960.
La musica era cambiata. Invece di essere la punta di lancia del movimento americano, Copland e gli altri grossi compositori americani del periodo 1920-40 si trovarono improvvisamentè alla retroguardia. I giovani si rivolsero alla musica seriale e ai suoi derivati, e invece di uno stile americano improvvisamente nacque uno stile internazionale. Copland, che non fu mai molto prolifico, fece qualche tentativo di composizione seriale, come nella Fantasia per pianoforte e nelle Connotations per orchestra, compose nel 1962 per il concerto inauguarale della Philarmonic Hall, al Lincoln Center di New York. Nessuno dei due lavori ha avuto molte repliche e anche Copland ha cominciato a comporre sempre di meno. Si è dato da fare in altri modi. Eloquente portavoce della musica e dei musicisti americani, è stato scrittore, critico, studioso, educatore e amministratore. Per anni ha illustrato la nuova musica in libri e articoli; come educatore ha guidato i giovani del Berkshire Music Center in Tanglewood, che ha diretto dal 1940 al 1969. Consigliere e vecchio statista, Aaron Copland è il civile e rispettato simbolo di mezzo secolo di musica americana.
Harold C. Schonberg (da I GRANDI MUSICISTI, traduzione di Vittorio Di Giuro, ed. Mondadori, 1972)
Fonte: http://www.resmusica.it/doc/Nasce%20una%20tradizione%20americana.doc
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