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Cà de ratt, ona ratêra. Questo adagio prende in considerazione quegli animaletti non propriamente simpatici ai quali si desidera accarezzarli, coccolarli come si fa con cani e gatti ed anche con altri generi e che non recano disgusto. Nelle case di tantissimi anni orsono esistevano i solai che erano ricavati dai sottotetti, questi locali bui, polverosi, con le travi di sostegno che messe a spiovente quando si andava a cercare qualche cosa si davano certe zuccate da tirare giù tutti i santi del Paradiso. Erano questi solai i locali dove erano accatastate le cose più disparate, perché pur non essendo più utilizzabili, qualcuno in famiglia, di solito la “scióra de cà, che la diseva: “però magara doman el pò’ servì” (chissà, un domani può tornare utile) e allora dove andavano a finire quelle carabattole? In “soree” (solaio) per la gioia di quegli animaletti che avrebbero potuto scorazzare e rodere a non finire mobili mezzi rotti, catini, cartacce e cartoni, orinari (vasi da notte o pitali), legna e carbone per le stufe, insomma era un caos; perciò il detto in questione, era riservato a chi invece in casa propria non era un appassionato dell’ordine, anzi, era un vero e proprio disordinato che lasciava oggetti vari in qualsiasi posto. Tenuto poi conto che magari questa era una famiglia di ottimo livello e anche di eccellente moralità, ma nonostante, la loro abitazione «l’era ona ratêra».
Canêta de vêder. E’ uno dei modi di dire meneghini più usati. Le parole sono chiarissime, la canêta è ovviamente una piccola canna, mentre vêder è il vetro. Sono cose logicamente fragili, che possono rompersi per un nonnulla, con un minimo sforzo, perciò chi lavora dovrà necessariamente, anche se metaforicamente, piegare la schiena e darsi da fare, però se trattasi di un lavoratore scansafatiche, lavativo, uno che vede arrivare il lavoro e lui va dall’altra parte c’è da credere che la sua schiena non sia troppo incline a piegarsi e lavorare per paura che la sua spina dorsale si spezzi, quindi questo pseudo- lavoratore ricorrerà a chissà quali mezzucci pur di far denaro senza faticare. L’acutezza milanese ha così codificato questi tizi che al posto della spina dorsale hanno una cannetta di vetro. Giusto per la parità fra sessi ora in auge, di tale stampo possono essere sia i maschi che le femmine, ma sempre per una questione di equità, la maggioranza dei
«Canêta de vêder», sono i maschietti!
Carna de coll. Tradotto letteralmente vuole dire “carne di collo”, che secondo il nostro grande poeta Carlo Porta, starebbe anche a significare “poco di buono, mascalzone”; una seconda versione, anche questa assai verosimile, si riferisce a chi doveva subire una condanna alla ghigliottina o all’impiccagione. La carne del collo è ovviamente debole quindi offre minor resistenza. Però la versione preferibile è quella a cui al pollame in genere, per essere cotto e mangiato bisogna tirargli il collo (tiragh el coll), ovvero la parte più debole. Alla fine le versioni si equivalgono perché la carne del collo del pollo, non è gustosa, è poco buona perciò anch’essa può indicare una persona per niente affidabile, un poco di buono, che è meglio scartare, proprio come il collo del pollo.
Che rêla! Questa è una parola che ben si adatta a questa prima decade degli anni duemila; infatti, vuole dire in dialetto “che sfortuna, che iella” speriamo che negli anni a venire la cosa cambi. Per la verità la “rêla” è anche un gioco, un modo di divertirsi per i fanciulli meneghini di tanti e tanti anni addietro. Questo gioco era anche denominato lippa. Bisognava manovrare due bastoni, uno lungo e l’altro molto corto, con quello lungo bisognava far alzare da terra quello più corto con le estremità appuntite e poi una volta in aria colpirlo con quello più lungo cercando di farlo volare il più lontano possibile. Per la verità è un gioco di squadra antichissimo diffuso un po’ dappertutto, anche in Europa, e tuttora si disputano delle gare.
Per noi milanesi buttare quel piccolo pezzo di legno in aria è come gettare il denaro al vento, avere dei debiti e non poterli saldare, insomma avere una bella “rogna”.
Chi tên de cunt la pell, tên de cunt on bel castell. Questo è un adagio sanitario, nel senso che la “pell” (la pelle) è la nostra salute che riguarda il nostro corpo (il castell - castello), il nostro stare bene. E quindi fare attenzione a quelle cose che potrebbero danneggiarci e dover ricorrere a medici e farmacisti; se piove è bene usare l’ombrello, se fa freddo è bene coprirsi, ma se scoppia il gran caldo bisogna adeguarsi.
Chi volta el cuu a Milan, volta el cuu al pan. La parola principale di questo detto l’avete capita tutti: è il nostro sedere, o di dietro, o deretano, o posteriore, chiamatelo un po’ come volete, e di proverbi su questa nobile parte del corpo ce ne sono a bizzeffe. Limitiamoci a quella enunciata. Milano, così come tutta la Lombardia non ha mai negato un aiuto a nessuno, sono tantissimi coloro che provenienti da altre regioni, soprattutto meridionali, hanno trovato, qui, un lavoro e non sono più ritornati nei paesi natali. Queste persone hanno contribuito con il loro lavoro, con la loro professionalità, con la loro onestà a rendere sempre più grande e conosciuto in tutto il mondo il nome di Milano e logicamente vanno ricordate e ringraziate. Orbene, può essere capitato che qualche irriconoscente non abbia gradito e capito come bisognava comportarsi nella città di Ambrogio e abbia preferito rientrare ai patri lidi rinunciando a determinati vantaggi; benissimo, ognuno è libero di decidere e di scegliere, ecco che la bonarietà milanese traduce questa cosa con l’adagio che abbiamo letto. Comunque è opportuno ribadire che sino a qualche decina si potevano contare sulla punta delle dita chi abbandonava la nostra città.
Ciàpel, pèlel, mangel. Prendilo, pelalo e mangialo. Questo vecchio detto ha due significati: quello della velocità, della rapidità, della conclusione di un qualche cosa che non può subire ritardi e troppe elucubrazioni e perciò bisogna agire velocemente, anche perché il tuo rivale, potrebbe batterti e tu rimarresti con il classico pugno di mosche, oppure la tua fretta è talmente precipitosa che non sei comunque riuscito a concludere nulla; e allora: ciàpel, pèlel, mangel; ma sempre con quella calma che è la virtù dei forti.
Cinq’ ghêj de pu, ma ross! Cinque centesimi in più, ma rosso, anche se qualcuno in finale dice “rossa”, alludendo forse a qualche beltà femminile. Il fatto è che è un modo di dire radicatissimo, ancora oggi lo si sente pronunciare verso qualcuno che vuole apparire con qualche cosa di smagliante, oppure quando si fa una spesa e tutto sommato se si spendeva quei cinque centesimi in più si poteva avere qualche cosa di meglio. Sappiamo che il colore rosso è il colore della festa, dell’allegria, della sensualità, guai a non avere indosso, soprattutto le signore e signorine, un capo intimo rosseggiante alla festa dell’ultimo giorno dell’anno; rosso è il colore della vita, come il sangue, il rosso lo ritroviamo nei momenti più sacri dell’esistenza umana, nei paramenti della chiesa, nella politica, in economia, moltissime Bandiere nazionali, hanno il rosso, nelle favole, nell’assistenza sanitaria; un bicchiere di rosso! Nelle previsioni meteorologiche “Rosso di sera bel tempo si spera” e all’indomani un’acqua della madonna! e si potrebbe continuare all’infinito…..
Cinq’ ghêj de republica. Anticamente la parola «republica» stava ad indicare un guazzabuglio, un disordine, infatti, spesso, almeno noi vecchi milanesi, senza voler offendere l’attuale istituzione dello stato, usiamo dire quando c’è qualche subbuglio, ad esempio quando in casa vi sono gli imbianchini e quindi i locali sono un po’ per aria e non troviamo una cosa, «cunt sta republica se troeuva nagott» .
Però la republica è anche una cosa mangereccia. Quando il salumiere
«cervellee» aveva avanzato dei ritagli dei vari salumi che aveva affettato per i clienti che si erano succeduti in negozio, ebbene quella era la «republica», che diventava il cibo prezioso di garzoni, manovali, i quali al mezzogiorno si presentavano dal negoziante che raccoglieva quegli avanzi li incartocciava e per «cinq’ ghêj (cinque centesimi)» e senza magari pesarli, li dava a quei ragazzi.
Consciàa m’el strasc del moletta. Questo «moletta» altro non è che l’arrotino. Ricordo benissimo quando questo artigiano percorreva le strade della città in bicicletta o con un furgoncino o con un carretto, e a voce spiegata annunciava il suo passaggio: «Molèta, molèta, gh’è chi el molèta». Le forbici, i coltelli, le lame che la gente gli portava per dargli una bella affilata, l’arrotino, dopo l’operazione le asciugava in uno straccio, che era sempre più o meno lo stesso e perciò umido e sporco; perciò quando qualcuno si trova probabilmente dopo aver sfaticato parecchie ore, sporco e sudato, è quindi ridotto proprio come lo straccio dell’arrotino.
Consciàa come el Belgio. Questo non è certo un allegro proverbio, infatti, esso riallaccia alla Prima Guerra Mondiale 1914-1918, quando il regno di Re Alberto, un monarca che ha sempre suscitato simpatia, fu invaso dal nemico. Questo modo di dire diventò poi un luogo comune per i meneghini quando voleva indicare una qualche sventura capitata agli amici, ai parenti, magari neanche così talmente grave, come ad esempio quando con gli amici si era all’osteria a fare una partita a carte e qualcuno dei giocatori era sempre perseguitato dalla sfortuna; oppure si era stati colti da qualche malattia, come un influenza, un raffreddore o peggio ricoverati all’ospedale.
Crapa de lüsc. Traduzione (crapa = testa e lüsc = luccio), quindi
«testa di luccio». Il luccio è un pesce d’acqua dolce, appartenente a una specie ittica voracissima che fu introdotta per eliminare un altro tipo di pesce altrettanto predatore: il pesce gatto la cui introduzione in Europa risale ai primi del ‘900. Il pesce gatto è dotato di spine velenose che se punti provocano ferite dolorose, comunque ha delle carni gustose e quindi viene pescato, naturalmente facendo attenzione quando lo si stacca dall’amo di prenderlo per il corpo, tenendo conto che introdotto nel cestino da pesca, può sopravvivere anche parecchie ore. Il luccio che dovrebbe combatterlo, vi rinuncia proprio per quegli aculei velenosi. Comunque per i milanesi dire «crapa de lüsc» a qualcuno è come definirlo un testone, proprio perché il luccio avendo una testa piatta non da l’idea di essere un pesce scaltro….. e avendo in gioventù praticato la pesca, si può garantire che di pesci furbi ce ne sono, eccome!
Fonte: http://www.circolomorbegnese.it/000anno2014/proverbimilano_c.pdf
Sito web da visitare: http://www.circolomorbegnese.it
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