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Fà andà l’ongia. Far andare l’unghia. Certo tradotto così non ha proprio alcun significato; però la spiegazione esiste, ed è questa. In una bottega di un commerciante ogni tanto sparivano dei quattrini, non erano importo grossi, talvolta erano pochi centesimi, altre volte qualche lira, però questo era un fatto abbastanza frequente, il commerciante si era accorto di questi ammanchi quando a fine giornata faceva i conti, e ogni tanto qualcosa mancava, questo negoziante si era addirittura convinto che fosse colpa sua perché sbagliava a suo danno magari dando i resti di una spesa, è vero che spesso quando la clientela acquistava lasciava magari i denari sul banco e lui non sempre era lesto nel riporli nel cassetto, certo che la cosa cominciava a preoccuparlo; un bel giorno mentre stava parlando con un cliente, con le spalle girate al bancone, e di fronte a lui aveva uno specchio, vide riflesso un armeggiare di un dito che con noncuranza cercava di attirare a se delle monete, quasi come se stesse giocando, ma di chi erano quelle dita le cui unghie tentavano di ghermire quei quattrini? La risposta era semplice, erano le dita della mano del suo garzone, perciò il negoziante girandosi all’improvviso colse in flagrante il bricconcello che non la passò liscia, narrano le cronache del tempo che il ragazzo passò qualche mese in carcere. L’esercente, disse: “Eh, sì, lo proprio visto, “el faseva andà l’ongia”!
Facion de tromba. No, qui lo strumento musicale proprio non centra in assoluto, anche se vogliamo essere precisi, qualcosa può richiamare lo strumento. A Milano la “tromba” era la pompa a mano che serviva ad aspirare l’acqua dai pozzi, quindi sgorgava da un cannello in brozo posto nel mezzo di un faccione di pietra che serviva ad adornare la fontana, questo faccione aveva proprio le gote belle piene, gonfie, proprio come uno che suona la tromba. Questa frase era rivolta scherzosamente verso chi, uomo o donna, aveva delle belle guance polpose, bene in carne. L’idraulico in dialetto milanese, ancora oggi, viene chiamato “el trombée”. Dopo di chè, sulla “tromba” vi sono altri significati, che probabilmente tutti sanno…..
Fà e desfà… l’è tutt on lavorà. Sono parole queste, che ben si adattano a diverse situazioni, sarebbe come affermare “tutto e il contrario di tutto”, oppure dico e non dico… beh! queste sono delle massime che si addicono soprattutto alla politica. Quante volte abbiamo assistito a delle scenette in cui i politici si rimangiavano ciò che avevano detto magari il giorno prima; viceversa si può creare del lavoro, furbescamente, in modo sbagliato per poi disfarlo per rifarlo; sono vicende legate alla disorganizzazione, alla non precisa conoscenza di ciò che si deve fare, una riparazione fatta in un modo sbagliato che poi bisogna rifare….. ecco che allora la solita bonaria, anche se talvolta incavolata arguzia ambrosiana, esclama: «Fà e desfà… l’è tutt on lavorà», e si il lavoro è anche fare per poi disfare, e purtroppo, spesso chi ci va di mezzo, senza colpa né peccato, è proprio il lavoratore.
Fà la guggia. Questa, ovviamente qui a Milano, celebre frase la si è potuta sentire anche negli anni sessanta del XX secolo; la “guggia” in dialetto è l’ago, e l’azione letterale di “fare l’ago” si riferisce ai tranvieri, quando nei percorsi dei tram (tramway) le rotaie non avevano ancora gli scambi automatici che dirigevano le linee tranviarie verso le rispettive percorrenze, su di un medesimo tratto viaggiavano mezzi con destinazione differenti quindi arrivati a un punto di scambio ogni tram doveva inoltrarsi nel rispettivo percorso, allora il conducente detto anche manovratore o meglio ancora “brumista”, fermava il tram sul limitare dello scambio, scendeva con in mano un asta di ferro la cui punta veniva infilata tra la rotaia e l’ago dello scambio….. e tac! l’ago scattava nella giusta posizione per fra proseguire il tram nel suo tragitto; ovviamente, se di lì a poco arrivava il tram dell’altra linea, quest’altro manovratore scendeva e procedeva a una nuova “guggia”. Tempi bellissimi questi della “guggia”, talvolta il tram era pieno zeppo e il bigliettaio, perché una volta il biglietto si acquistava sul mezzo, gridava: “Avanti, c’è posto” e qualche passeggero di rimando: “Sì, a cà tóa!” (Sì, c’è posto, ma casa tua) e un altro concludeva: “Sì, a Musocch” (Musocch=Musocco è un rione di Milano ove è situato il cimitero (Cimitero Maggiore) più noto e “frequentato o abitato” della città.
Fa la lîra. Molto semplice e secco come un ordine in caserma. Orsù, smetti di piagnucolare, di frignare, di rompere le….. comunque era rivolto, soprattutto ai bambini piagnucolosi. Però vi sono anche i grandi che spesso sono un lamento, un lagna continua, come il suono dello strumento musicale conosciuto come lîra che non era di certo brioso, allegro, elettrizzante, ma piuttosto lamentoso, questa potrebbe essere la spiegazione del detto.
Fà la serva e la padrona, l’è ona vita bolgironna. E’ un modo di dire più sul negativo, che riguarda un’esistenza dapprima alquanto agiata, benestante e poi per le varie vicende della vita si diventa, ci si ritrova, non poveri, ma neanche con il benessere materiale di una volta, quando la “sciora” l’era anca ona padrona, mentre ora con il proprio marito si conduce una vita che è l’ombra di prima, vivendo solo di ricordi. Ora per mangiare, talvolta bisogna accontentarsi e ringraziare di quello che si ha. La parola «bolgironna» significa malaffare, una rovina, un qualche cosa che è diventata un peso.
Però la “sciora” anche se ora non più padrona,
“gli sovvien nella mente chiara, quel che il Pergolesi fece dichiarar, a Serpina che se pur dolce cameriera, ma di sicur lei serva non lo era”.
“Adunque
perch'io son serva, ho da esser sopraffatta.
Ho da essere maltrattata? No signore, voglio esser rispettata,
voglio esser riverita come fossi padrona, arcipadrona, padronissima”.
Fà maron. In milanese i “maron” sono le castagne, in realtà questa espressione non c’entra per niente con questi deliziosi frutti, addirittura l’etimologia risalirebbe ad epoca antichissima, come l’etrusca, poi si accenna ai Vandali, perciò popolazione germanica, quindi con le varie invasioni la parola mise radici in Lombardia, rimanendoci tuttora e tuttora è possibile sentirla. Essa significa avere sbagliato, aver commesso un errore: “volevo andar via di soppiatto averli fregati e invece mi hanno scoperto”. Insomma, si pensava che il Luigi furbo come una volpe, e invece….
Fa no el tovaian. Letteralmente: “Non fare la tovaglia”. Che significa: “Non fare il finto tonto, non fare lo gnorri, fare il furbone) e altre definizioni similari. L’origine del detto nasce senza dubbio nelle osterie di una volta, quando per far vedere al cliente che il tavolo era ricoperto da una tovaglia candida!!! L’oste o l’ostessa, la rigiravano e oplà il gioco era fatto, il cliente poteva accomodarsi e gustare un bel piatto di “busecca”.
Fa on fregg de biss. Proverbio meteorologico. E’ notorio che le bisce (i biss) come tutti i serpenti se si tocca la pelle, questa è fredda, pertanto quando iniziano i rigori dell’inverno cercano un riparo e cadono in un coma letargico. La stessa cosa è comune alla biscia nostrana, che cerca riparo negli anfratti, negli eventuali buchi del terreno, fra tappeti di muschio, anche nei fienili, insomma, come tutti i comuni mortali, anch’essa vuole ripararsi dal freddo; perciò vuole dire che è veramente un gran freddo.
Fà on gran “can – can”. Questo è uno dei motti, o detti, o modi dire, fra i più belli di Milano; e questo perché il “can-can” riguarda il bellissimo ballo francese e perciò la mente corre alle ballerine, quelle ballerine di avanspettacolo che il sottoscritto ammirava nei cinematografi prima dell’inizio del film, per ragioni familiari ne conobbi parecchie e di tutte mi innamorai, a proposito, mi ritrovai sulle assi del palcoscenico quando ancora la mia mamma mi menava in carrozzina… ora però sto travisando, torniamo al proverbio. Narrano le cronache ambrosiane che la parola “can-can” che oggigiorno vuole dire, rumore, confusione, grande chiasso o strepitio, in realtà fu coniata a Parigi verso il XVI secolo, quando gli eruditi si interrogavano se il vocabolo latino “quam-quam” che significa “benché” era da pronunciarsi secondo i lessico latino, oppure in lingua francese, quindi “can-can”? la diatriba fra questi esimi professori fu talmente accesa da sollevare un gran putiferio e quindi la parola divenne sinonimo di chiasso, baraonda e via discorrendo. I rapporti con la Francia sono sempre stati per Milano frequenti e interessanti, quando poi a Milano giunse anche il ballo del “can – can” a fine ‘800, vi arrivò anche la medesima parola che subito il dialetto ambrosiano se ne impossessò con il significato che sappiamo.
Fà on salt. Pur essendo una forma tipicamente milanese, orma i queste tre parole fanno parte, direi, del comune colloquiare: “Ho fatto un salto in libreria” “domani, fai un salto a casa mia” “faccio un salto al bar, e poi ci vediamo”. Questo modo di esprimersi fa denotare come i milanesi hanno sempre quella caratteristica di non lasciare mai le cose a riposare in attesa di tempi migliori; in buona sostanza è come dire: “Chi ha tempo non aspetti tempo”.
Fà sant Michée. L’adagio si rifà alla festa di San Michele, arcangelo, che è in calendario il giorno 29 settembre, un giorno questo di scadenza, infatti, gli affitti avevano termine in questo giorno e naturalmente le famiglie dovevano provvedere al trasloco in altra abitazione.
Fa stringh de la pell. Chiaro il significato del detto: usare la pelle per farne stringhe, ovvero, i lacci per le scarpe. Questo modo di dire nasce probabilmente da antichissimi lavori, quando si utilizzava la pelle di animali per poter fare, secondo le misure desiderate, dei lacci da utilizzare come corde o come spago. In ambito ambrosiano è divenuto sinonimo di chi lavora senza risparmio, arrivando magari oltre il limite delle sue possibilità, talvolta si dice che quella persona a sì guadagnato “…. però l’ha fa stringh de la sóa pèll!”
Foeura di strasc. Questa esclamazione è tipica dell’infuriato, di chi è in procinto di avere una crisi isterica, di chi è al colmo della rabbia ed è lì e lì per sbottare contro la “sciora” sua moglie per l’ennesima pelliccia che si è comperata. Ma perché “essere fuori dagli stracci”? come nasce questo originale adagio? Il tutto si presuppone che abbia a che fare con i primi sintomi della pazzia, infatti, chi comincia a dar segni di squilibrio mentale, spesso la prima cosa che fa è quella di spogliarsi, come dire: «eccomi qua, sono nudo di tutto, sono tornato alle origini, e sono infuriato…. ora dovete vedervela con me!» La stessa cosa che fece Orlando, pazzo d’amore, come ben scrisse l’Ariosto. Perché nel detto si parla di stracci? E’ assai probabile che il proverbio nacque quando la maggior parte della gente non aveva degli abiti troppo eleganti, anzi, probabile che fossero proprio dei cenci, vestiti ridotti male, avuti dopo che gli stessi avevano già fatto innumerevoli battaglie addosso ad altri, ecco perciò gli “strasc=stracci”.
Fonte: http://www.circolomorbegnese.it/000anno2014/proverbimilano_f.pdf
Sito web da visitare: http://www.circolomorbegnese.it
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