Psichiatria sociale

Psichiatria sociale

 

 

 

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Psichiatria sociale

Alfredo Corticelli

 

Lezione di psichiatria del 26/10/2004;
prof. Cornaggia

 PSICHIATRIA IN GENERALE E PSICHIATRIA SOCIALE

La mia lezione riguarderà la psichiatria sociale, essa cerca, in qualche modo, di inquadrare il rapporto tra la malattia e come essa si colloca all’interno della nostra società (nostra e delle società passate).
È chiaro che, siccome la psichiatria e la malattia mentale sono un qualcosa che colpisce la intersoggettività, essere portatori di una alterazione della mia modalità di essere nel mondo non può che coinvolgere tutto l’entuorage che ho intorno. Quindi la psichiatria è comunque qualcosa di particolare: parla e studia il linguaggio e quando un sintomo diventa linguaggio – perché lo stesso suicidio, di cui parleremo poi, lo si può capire solo come ulteriore, estremo, disperato linguaggio –, perché l’uomo è comunque una persona che in qualche modo è posto ad interagire con la società, ed il suo modo di essere qui ed ora è il suo modo di interagire con l’altro.
Ci si può chiedere cosa sia il sintomo psichiatrico: è un di meno, un qualcosa come un organo che funziona meno (psichiatria biologica); oppure è solo una modalità diversa di esprimere le cose? Chi di voi ricorda Shakespeare o Dostoevskij ricorderà situazioni in cui al malato, cosiddetto psichico, era data la verità! Dostoevskij aveva, mi sembra, una lesione temporale, per cui era affetto da epilessia con crisi parziali complesse (cioè aveva dei déjà vu)… Se leggete L’idiota, lui descrive la malattia come una capacità di percepire il linguaggio altro. Noi potremmo accettare la malattia come espressione di un di meno, o come espressione di una possibilità di linguaggio molto più elevata. Perché vi dico queste cose? Per comprendere che, quando noi parliamo di psichiatria, parliamo di qualcosa che si inserisce dentro un contesto, e quindi va letto nel suo contesto; infatti la storia della psichiatria muta in qualche maniera con la storia della società e descrive la storia della società… tanto che nel nazismo i matti erano una certa cosa, nello stalinismo un’altra, nella società consumistica odierna un’altra cosa ancora.
… Qualcuno sa far andare questa “cosa” ? (Il SAGGIO si avvicina spedito…ma al contrario di altre volte non ottiene il risultato sperato… lascia quindi il posto agli “addetti”).

Queste cose ve le hanno fatte in reparto? MICHELE R.: Sì beh, il prof. Carta ha parlato soprattutto dell’ultima parte del secolo XX, la legge Basaglia e l’atmosfera politico-sociale in cui è nata. CORNAGGIA: L’osservazione che la concezione della malattia mentale muta rispetto alla storia crea uno dei grossi quesiti che erano proprio tipici di quell’epoca e da cui poi nacque la cosiddetta Antipsichiatria, cioè quella che negava la malattia mentale in quanto tale e la riconduceva ad una patologia della società. Il quesito era: è la società causa della malattia, o è la malattia che poi causa disagio sociale? Teorie causali , o teorie deterministiche. Ad esempio, partendo dal dato che la schizofrenia è maggiormente presente nelle fasce più disagiate, c’è una quota di studiosi che dice: “Eh beh, allora è il disagio sociale che conduce maggiormente a far sì che ci sia la schizofrenia in quella popolazione”, un’altra quota invece ribatte “Ma no, è perché sono schizofrenici che non hanno lavoro, non riescono a sposarsi, fan casino, ecc… e quindi hanno il disagio sociale, non viceversa. La schizofrenia ha un’origine biologica, la società non c’entra niente, è una conseguenza”
ANDREA C.: Allora, se la società è la causa della malattia secondo l’antipsichiatria, questo vuol dire che secondo la psichiatria, almeno fino a quel momento, la causa era biologica. CORNAGGIA: Certo! Poi uno che è schizofrenico perde il lavoro, non riesce a tenere la moglie, perde i figli, perde tutto… per forza che va a finire male, è schizofrenico! ANDREA C.: Ma adesso la psichiatria non ragiona ancora solo così, spero… CORNAGGIA: Non si è ancora messa d’accordo! Se lei va a sentire tanti psichiatri, sentirà quelli che le dicono delle cose e quelli che le dicono delle altre. Perché probabilmente la questione è multifattoriale e, a seconda di dove va la passione (o l’ideologia!) di un certo modo di fare psichiatria,si accentua o si fa pesare di meno una cosa rispetto all’altra. Anche per questo, la psichiatria non è libera e pura dalle ideologie, perché tante volte si sposano delle teorie piuttosto che altre. Quindi è verosimile che ci sia una base genetica per alcune malattie: quando vi spiegheranno la schizofrenia, ad es., verrà fuori sicuramente che, se voi prendete dei gemelli di pz con schizofrenia e li fate adottare in 2 situazioni completamente diverse in 2 famiglie diverse, avrete comunque una maggior prevalenza di sviluppo della schizofrenia in entrambi i gemelli, anche se separati; quindi probabilmente c’è una base genetica, ma da questo a dire che la schizofrenia è una malattia genetica, ahi voglia! Non so se rendo l’idea… Però ci sono dei dati estremamente interessanti, ad es. c’è uno studio molto bello realizzato nella 2a metà del secolo scorso (quindi una 20ina, 30ina di anni fa) dall’OMS, in cui hanno esaminato l’esordio delle psicosi in tante parti del mondo ed hanno cercato di dire: “Vediamo quali sono i fattori che determinano come evolvono le psicosi; quali sono soprattutto le cure migliori (quelle che producono più esiti)”. Allora si è andati a vedere gli esiti delle psicosi che esordivano a Manahattan, nelle grandi città del mondo occidentale, in India, in Colombia, nei paesi sperduti dell’America del Sud, ecc; e si è andati a vedere come evolvevano. Si è visto che la prognosi migliore l’avevano quelli che esordivano in Colombia, nei piccoli paesi dell’America… allora l’evoluzione della malattia è dettata da chissà quali terapie e da chissà quali fattori, o è dettata dal significato che noi diamo alla malattia? Quindi la prognosi dipende anche da quanto noi siamo in grado di far sì che la malattia trovi anche un nuovo equilibrio. A me viene in mente quando, anni fa, lavoravo nella bergamasca… arriva un ragazzo impossibile da gestire… chi è che conosce la bergamasca? CORETTO: Matteo… CORNAGGIA: Arriva un ragazzo che aveva vissuto benissimo in un paese della Liguria: bello, allegro, un po’ matto come un cavallo, però usciva al mattino, andava alla trattoria, si prendeva il cappuccio, mai nessuno che gli ha chiesto un soldo, poi andava al porto, tornavano i pescatori, metteva un po’ a posto le cose, poi andava in giro… per necessità la famiglia ad un certo punto si trasferisce in un paese della bergamasca; appartamentino sopra la statale dove passava un camion dietro l’altro… quello lì al mattino scende, va al bar, prende il cappuccio, non sa neanche cosa sono i soldi – dite ad un bergamasco che non gli pagate il cappuccio…! –… gran patatrac! Non tiene più, è impossibile…
Quindi teniamo conto di queste cose!

Come possiamo definire una malattia psichiatrica? Diversi autori la definiscono in modo diverso…

  • C’è il criterio soggettivo-empirico: io sento, nella mia soggettività e nella mia esperienza, che c’è qualcosa che cambia rispetto a prima. Questo è un criterio che spesso è vissuto direttamente dalla persona, la quale si rivolge magari direttamente ad uno specialista (uno psichiatra, uno psicologo) e chiede aiuto. È un criterio molto utile, perché è un criterio in cui uno sperimenta un cambiamento che avviene dentro di sé. È in genere un criterio che fa capo spesso ad un malessere: io sono ansioso, io mi sento depresso, io capisco che la depressione che io ho oggi è diversa da quella che ho percepito magari qualche volta. È un criterio che generalmente è molto più utilizzato dal sesso femminile, perché il sesso femminile è molto più sensibile, questo in maniera clamorosa – l’uomo fa la figura del beota –, perché è molto più capace di sentire e di avvertire ciò che muta dentro di sé e di avere anche quel filino di orgoglio in meno rispetto all’uomo, per accettare che qualcosa dentro di sé non solo sta cambiando, ma potrebbe anche essere segno di qualcosa che non va. I nostri studi medici (gli studi medici, non i letti d’ospedale; quindi non ci riferiamo alle gravi patologie) sono molto più pieni di donne che di uomini. Non perché la patologia nevrotica o psicotica è maggiore nelle donne, perché semmai è il contrario, ma perché la donna è molto più capace di accettare, di capire, di avvertire. Perché questo avvenga non lo so: forse la donna, anche per sua conformazione, è più abituata a vedere che qualcosa dentro di sé può cambiare; l’uomo è molto più portato a negare.
  • C’è poi il criterio della norma statistica: c’è qualcuno che decide che il normale è questo e che, dentro  alle modifiche di comportamento, come fosse una curva gaussiana, sta il normale, mentre ciò che esce da questo comportamento non è normale. Questo è un criterio che chiaramente è stabilito dalla società. Capite bene che non è più qualcosa di interno, che la persona percepisce, è qualcosa che è imposto dal di fuori. Per cui io dico che, se fossi entrato qui nudo con un colapasta in testa, voi avreste detto: “Quello è matto! … … … perché ride?… mi ha improvvisamente immaginato così? VIOLA C.: No, va beh… sicuramente con il colapasta nudo è un po’ esagerato… però personalmente mi farebbe molto piacere vedere qualche sfumatura personale portata all’esterno… senza arrivare proprio così. CORNAGGIA: Sì… diciamo che ce lo possiamo permettere con un papillon arancione… … … ho anche di peggio (dei panciotti a fiorellini)… però, voglio dire, questo è quello che mi posso concedere… … il colore delle mie mutande non glielo dico! C’è una norma, e dentro questa norma uno ci deve stare. La norma è stabilita, ed è chiaro che la norma di qui è diversa da un’altra norma, perché ciò che vale qui non vale per le tribù del Centro Africa, che hanno tutt’altre norme. La società stabilisce che esistono 2 garanti della norma; cioè la società dice: “La norma è questa, si può sgarrare per 2 motivi: per salute o delinquenza, e metto come garanti della norma 2 figure”:
      • il magistrato
      • lo psichiatra

Per cui: se fai il delinquente, il magistrato ti mette in galera; se tu non sei sano e fai il matto, lo psichiatra, che è il mio garante, ti mette in manicomio. Quindi il mandato della psichiatria, indipendentemente da tutto, è stato per tempo un mandato di carattere sociale, o per lo meno un mandato in cui c’è una grossa commistione tra mandato sociale e mandato sanitario. Ad un cardiologo, se gli arriva uno con l’infarto, non verrà mai in mente di avere un mandato sociale; ma ad uno psichiatra, se mandano un agitato, non ha solo il mandato di far star bene quella persona, ma ha anche un mandato sociale, perché il vicino di casa si è rotto le palle, perché la moglie non ne più, perché potrebbe chissà mai cosa fare… quindi è chiesto allo psichiatra di essere il garante non solo del suo benessere, ma anche del benessere del condominio.

Il mandato sociale della psichiatria è un mandato che la stessa psichiatria cerca di scrollarsi di dosso, però, di fatto, in qualche maniera si porta sempre un po’ dietro. In Italia la normativa del 1978 in qualche modo si scrolla di dosso questa componente di mandato sociale della psichiatria.

Il mandato della psichiatria poi non è così lontano neanche nella sua storia: voi avete in mente come è nato l’ospedale? Leggete quel bellissimo libro di Foucault Storia della follia nell’età classica; e c’è un altro suo libro sul rapporto tra la società, la cultura, e la sessualità: Il piacere ed il sapere. Comunque Foucault vi dice che l’ospedale nasce nell’età classica, ma nasce per pulire le strade, per togliere dalle strade i barboni e le prostitute. Quindi il mandato dell’ospedale è un mandato sociale, non curativo. Infatti nell’ospedale si inizia a curare quando poi interviene il personale religioso. In Nord Europa con la chiesa Evangelica trovate posti stupendi che nelle epoche del 1700 e 1800 avevano sviluppato moltissimo la cura. Nel Sud dell’Europa la chiesa Cattolica è entrata nell’ospedale ed ha introdotto la cura.
Quando l’ospedale psichiatrico si è separato dall’ospedale? Perché ad un certo punto, alla metà del 1800, l’ospedale psichiatrico nasce… dimmi quando ci accavalliamo con quello che ha fatto Carta, che mi fermo. MICHELE R.: Tra breve, 1904. CORNAGGIA: Allora al 1904 mi fermo!
È nell’Ottocento che l’ospedale psichiatrico si scinde da quello classico, perché siamo nell’epoca post-illuministica… l’Illuminismo regna sovrano molto a lungo con il suo diretto figlio, il Positivismo per la nostra scienza. Tutto deve avere una ragione, figurarsi se i matti dovevano essere quelli che erano portatori di segni, di altro… ma siamo impazziti? I matti dovevano essere matti perché doveva esserci una ragione ben legata alla testa e al cervello!… cosa sono queste strane idee che il matto ha qualcosa da dire?! Quindi il Positivismo non può accettare che vi sia qualcosa che in qualche maniera possa ricondurci ad un linguaggio altro. Allora succede che vengono costruiti questi luoghi, che sono i manicomi, che non sono solo dei luoghi di ospedalizzazione, ma sono anche dei luoghi di ricerca e di cura, peraltro fatti anche bene. La fase critica del manicomio è stata soprattutto la sua parte finale, quando c’è stato il degrado e l’abbandono. In realtà nei primi anni del secolo erano luoghi sì di segregazione, di isolamento e di emarginazione, però per lo meno erano luoghi calmi, ai matti davano da mangiare, ecc. È chiaro che questa era l’epoca in cui vivevano contemporaneamente le più grandi correnti e teorie:

  • da un lato c’era la corrente positivistica, che in qualche modo voleva trovare la ragione di tutto: vi ricordate le teorie di Lombroso, per cui se uno aveva già la fisionomica … vedete quindi questa spinta a far sì che il cervello e la mente siano la stessa cosa, cioè che noi siamo frutto del nostro cervello
  • mentre dall’altro lato, contemporaneamente, nasce la psicanalisi con Freud

Immaginate che dicotomia… diceva prima il vostro collega: “Ma allora voi psichiatri andate d’accordo su questa e su quest’altra teoria?”. Si figuri che siamo partiti nel secolo scorso con la contemporaneità storica tra Freud e Lombroso, e non l’abbiamo ancora adesso cucita questa dicotomia!

Domande ragazzi su queste cose!
Perché queste teorie non sono poi tanto lontane da quelle che hanno permesso, in fondo, che i matti andassero nei forni tedeschi sotto Hitler. Perché se l’uomo è ridotto al suo cervello, ed il suo cervello è anomalo, allora l’uomo può andare nei forni crematori! Non è mica che sia una roba tanto strana!

ANDREA C.: … non so se è collegato o meno, comunque riguarda la malattia psichiatrica… La malattia psichiatrica, l’abbiamo detto adesso: lei entra con lo scolapasta e tutto quanto: matto!… CORNAGGIA: No, siete voi che dite che io sono matto!… ANDREA C.: Va bene… comunque sia, uno che ha la depressione – che è una malattia psichiatrica! –, non penso che sarebbe stato mandato in manicomio, e non viene considerato anormale, perché, al di là di tutto, non va in giro con lo scolapasta in testa, però è una malattia psichiatrica! ma non rappresenta un pericolo.
CORNAGGIA: Il vostro compagno ha incarnato, in una maniera sublime, lo stigma più becero… ANDREA C.: … era solo una provocazione… CORNAGGIA: … Le voglio un sacco di bene, lo dico così per dire… lo stigma più becero che in qualche modo caratterizza la malattia mentale: cioè “Quello è malato, ma non è matto perché non è pericoloso; deinde il matto è pericoloso!”… ANDREA C.: L’ho fatto apposta!… CORNAGGIA: Sì, ma no… ma va bene; lo facciamo per giocare… no?… ANDREA C.: Non c’è problema… CORNAGGIA: Si è offeso?… No, a parte gli scherzi, lui dice una cosa estremamente saggia, cioè: “Dove è il confine della malattia mentale? La depressione è sicuramente una malattia, però è qualcosa che non è ancora quella roba lì per cui io metto in manicomio, ecc.”. Dall’altro lato ci dice: “Ma allora cosa dobbiamo fare? Uno che è qualcosa di più che depresso, e che è un matto, è pericoloso oppure no?”. Cioè questo dice come i confini… Spero che alla fine di questa chiacchierata voi usciate con più dubbi di quelli che avevate prima, allora la lezione ha avuto uno scopo; se uscite con delle certezze ho fallito! Nel senso che è davvero una questione aperta! Allora:

  • Il matto, quello col colapasta in testa, è pericoloso? Ve lo dico subito: no! Questo è un dato certissimo nella nostra letteratura scientifica! Non esiste ombra di dubbio: chi uccide, i grandi delinquenti, gli stupratori sono sani!… nella gran parte dei casi (poi c’è anche lì qualche matto che giustamente fa anche lui qualche cosa…). Quindi non è così, però questo pregiudizio è nello scenario della popolazione: la popolazione ha l’idea che chi è affetto da una malattia mentale in qualche modo possa essere pericoloso… ma giustamente: c’era la legge del 1904 che diceva “In manicomio va chi è pericoloso a sé e agli altri”. Quindi il vostro compagno diceva una cosa molto saggia… che risaliva al 1904… però poi si è capito altre cose.
  • Schizofrenia: alzi la mano chi ritiene che sia guaribile… (3 mani alzate)… Bene: dalle psicosi di ordine schizofrenico si guarisce in una grande % dei casi – piccolissima rispetto alle altre malattie… siamo nell’ordine forse del 20%, però è meglio di niente – incredibilmente alta rispetto al pensiero che c’è su questa malattia.

Quindi chi ha una psicosi spesse volte si vive come persona pericolosa, persona che non guarirà, perché il suo entourage lo vede così (lo abbiamo visto qua: 3 su 60 o 70… quindi un 5% di persone che fanno il 5° anno di medicina… immaginate, con tutto il rispetto, tra quelli che fanno altri mestieri, magari meno culturali)
Scusate un attimo, voglio finire con il vostro collega, anche perché mi sento in colpa, devo riparare alla colpa…
La prima parte della questione del vostro collega è estremamente interessante, cioè il dire: “C’è una quota di psichiatria, la depressione ecc., che fa parte quasi dell’esperienza nostra”; va beh tra di noi qualcuno prima o poi darà i ciocchi… ma saremo uno o due – mi ci sono messo dentro involontariamente anch’io (ho detto “saremo”)… questo è un lapsus che dovrò studiare –, mentre chi di noi sperimenterà la depressione? Ahi voglia che uno o due… Alziamo la mano chi l’ha già sperimentata… Chi ha sperimentato un po’ di depressione, un po’ consistente?…. (Un po’ di mani…) MARIANNA G.: Ma tutti! CORNAGGIA: Tutti!… Ho visto delle manine messe lì nascoste: e in genere sono proprio quelli che l’anno sperimentata di più! Allora cosa vuole dire che “C’è una quota di psichiatria che fa parte quasi dell’esperienza nostra?”. Vuol dire che lei, nella sua affermazione, ha già utilizzato il metodo della norma statistica: il colapasta esce dalla curva gaussiana, la depressione ci sta dentro. ANDREA C.: Esatto! Allora perché la consideriamo una malattia? CORNAGGIA: È lei che decide di metterla dentro la curva. ANDREA C.: È perché non si nota. CORNAGGIA: Grazie, ma è come dire: ho un tumore dentro la pancia, allora non c’è perché non si vede?

ANDREA C.: Sono due cose diverse. CORNAGGIA: Il problema è che lei tocca un altro punto – scusate: il vostro collega è assolutamente stimolante! –, che è quello del riconoscimento: la malattia mentale ha bisogno di essere riconosciuta. Il vostro collega diceva una cosa molto profonda: “La malattia mentale, per definirsi, deve essere riconosciuta, perché, se non la riconosco, uno fa il matto finché vuole, ma nessuno lo prende in considerazione”. E questo spesso avviene, perché poi uno fa sempre più il matto, perché nessuno gli dà retta. Questo nel suicidio è eclatante: uno arriva ad uccidersi perché nessuno gli ha dato retta.
MARIANNA G.: Eh, ma è perché non ci sono degli indicatori biologici… CORNAGGIA: Ohhh, perché lei ha solo la biologia? Usi le sue emozione, il suo animo, no? Lei quando va da uno gli dice “Mi dica gli indicatori biologici?”… Che brutto mondo quello in cui deve vivere lei! MARIANNA G.: Ma volevo dire che, per la maggior parte delle malattie, esiste un indice, un marker, un cut-off che dice: “È così o cosà”… CORNAGGIA: Ma lei in una relazione ha bisogno di entrare in relazione, percepire chi è l’altro, percepire il suo malessere. Per questo dico che la malattia psichiatrica è essenzialmente una malattia intersoggettiva. Per cui io non ho bisogno di un cut-off, il cut-off sono io, è la mia relazione con te… MARIANNA G.: Ma infatti è questo che volevo dire, che non si può paragonare una malattia organica ad una malattia psichiatrica. CORNAGGIA: Certo, ma lui diceva: “Esiste un punto, che è il riconoscimento” non usava questa parola “riconoscimento”, ma la uso io; cioè la persona deve essere riconosciuta. Io, per poter essere matto, non posso essere solo matto, perché non basta!… perché se io entro nudo col colapasta in testa e voi siete tutti lì e dite “Professore, cosa ci deve dire?”, io posso essere nudo col colapasta in testa, ma non sono matto!… perché ho bisogno che voi mi guardiate scandalizzati! Allora sono matto! Ma se voi siete lì seduti, scrivete e prendete appunti, io non sono matto! Non so se rendo l’idea.
Noi spesso diamo riconoscimento alla malattia mentale, perché se noi ci rompiamo una gamba, la mamma dice: “Uh, poverino, si è rotto una gamba… stai al calduccio, non muoverti assolutamente! Ti porto il the e i biscottini”. Se ci alziamo depressi e non riusciamo ad alzarci dal letto, la stessa mamma di prima: “Svegliati, pigrone, alzati! Sempre lì nel letto a far niente, fannullone, alzati! Vatti a fare il caffè in cucina!”. La mamma è la stessa, ma da un lato c’è il riconoscimento della malattia; dall’altro lato non c’è il riconoscimento della malattia, anzi la colpa (“Sei un pigrone”). Dunque c’è bisogno anche del riconoscimento.
MARIANNA G.: Quello che diceva lei del riconoscimento vale da parte della società: noi non sempre riusciamo a riconoscere il confine tra una persona sana ed una malata. Però anche dal punto di vista personale, per il criterio soggettivo-empirico, non è comunque facile il riconoscimento, perché io ho degli standard al di fuori, ai quali mi posso più o meno confrontare. Però riconoscere che io ho una determinata cosa, che in un determinato momento sono depressa e non solamente stanca perché ieri sera ho ballato fino alle 2.00 e stamattina non ho voglia di svegliarmi, non è una cosa così banale. Il confine tra: sono depressa, sono stanca, sono arrabbiata, ecc., è molto sottile. CORNAGGIA: Certo non è affatto banale, per questo c’è quella differenza soprattutto nei vissuti delle donne e degli uomini. Le donne sono più capaci di fare questo. L’uomo è più rozzo! Però, insomma, quando uno sta male sta male! È come quando uno si rompe qualcosa: la gamba fa male, si è rotta. E se si rompe qualcosa dentro, se qualcuno di voi ha provato davvero cosa succede, quando qualcosa si rompe dentro lo si sente il male. Noi spesso siamo abituati un po’ a sottovalutare la sofferenza che c’è intorno a noi, perché in fondo viviamo in una società in cui morte e sofferenza è meglio che se ne stiano fuori. Non sono argomenti molto accreditati nei salotti.

MARTA R.: Lei ha detto che, nella malattia di mente, la pericolosità è un qualcosa che non c’è e che appartiene alla nostra percezione. Però, secondo me, dipende dal senso che si dà alla parola pericolosità, perché anche il depresso è pericoloso per sé stesso, perché può arrivare ad un atto estremo come farsi del male. Quindi secondo me la pericolosità non è altro che una esasperazione del sintomo, nel momento in cui viene rivolta verso sé stessi o verso gli altri. CORNAGGIA: La pericolosità è l’esito della paura, sempre! Solo che la paura è una paura di qualcosa che non si conosce: una persona che vive un disagio, non sa quale è il disagio che vive, ed ha paura, ed è aggressiva perché ha paura. E noi che siamo di fronte a colui che è agitato, non sappiamo perché è agitato e quindi abbiamo paura di lui, e quindi siamo aggressivi con lui.

  • Voglio dire che il malato mentale è sempre stato considerato una persona che poteva fare dei disastri, perché è agitato: poteva picchiare, rompere, stuprare, uccidere; quindi il malato mentale è sempre stato considerato pericoloso. Ma le posso assicurare che tutti i dati della letteratura ci dicono che questo non è! Tutti gli assassini, gli stupratori, ecc., non sono pazzi!
  • D’altro canto noi, quando ci troviamo di fronte ad un malato mentale che magari è agitato, possiamo avere possibilità di avere scontri? In questo caso, le dico: “Può essere”. Allora, come futuri medici, imparate che, normalmente, quando un malato si agita, oppure ha un momento di minacciosità – vi può capitare, magari state facendo il turno in pronto soccorso e vi può capitare – ricordatevi, io ai miei operatori dico sempre di tenere in mente un motto “Chi fa paura, ha paura!”. Se noi di fronte ad una persona agitata abbiamo in mente questo motto, già cambia il nostro atteggiamento. Perché normalmente la persona agitata è colui che ha paura! Ci minaccia perché ha paura; normalmente succede che noi abbiamo, a nostra volta, paura, allora lo controminacciamo e a quel punto è il patatrack! Invece l’importante è rendersi conto che lui ha paura e che lui normalmente ha il grande bisogno di rassicurarsi che tu non hai paura, e quindi se tu non hai paura lui è tranquillo! Quindi non ha più bisogno di aggredirti. Vi capiterà in pronto soccorso, e più voi state calmi, più gli mandate messaggi di non avere paura, più lui si rasserena.
  • Il depresso può uccidersi, certo. Ma non lo metterei su un discorso di pericolosità, ma di riconoscimento: quanto non siamo stati capaci di ascoltare il depresso? Le leggo Camus, per rispondere alla sua domanda. Leggete Il mito di Sisifo. Sisifo era condannato eternamente a portare il masso in cima alla montagna, poi quando era in cima il masso cadeva, e lui doveva ricominciare a portarlo su. Vi leggo Camus… parla del suicida: “Bisognerebbe sapere se quello stesso giorno un amico di quel disperato non gli abbia parlato in modo indifferente; in tal caso quegli è il colpevole, poiché il suo atteggiamento può bastare a far precipitare tutti i rancori della stanchezza ancora in sospensione”. Allora, più che di pericolosità, mi verrebbe da dire: quale è il nostro atteggiamento rispetto a colui che soffre e che ci dice “Guarda che io non ce la faccio”? L’abbiamo capito e gli abbiamo risposto quel giorno, come dice Camus, in maniera indifferente?

ALFREDO C.: Volevo capire meglio la questione del riconoscimento, cioè se intende dire che la malattia psichiatrica è meno riconoscibile dalla società, dal soggetto stesso, ecc. … perché a me verrebbe da dire che il problema del riconoscimento vale per tutto. Perché se io ho un tumore, ma non ho lo strumento per misurarlo…CORNAGGIA: Sicuro, vale per tutto. Semplicemente per noi è un aspetto o di riconoscimento della sofferenza, quell’indifferenza che dice Camus; o di ruolo che io gli conferisco, perché quella mamma che diceva: “Alzati pigrone”, vuole dire che non gli conferisce il ruolo di malato, ma di moralmente deprecabile. Pensate a quante persone possono andare dallo psichiatra e vanno, non lo so, dal prete! Non ho nulla contro i preti, credetemi… però intendo dire che c’è un confondimento dei piani. Se uno è malato di fegato, tra l’epatologo e il prete credo che scelga l’epatologo. Se uno è malato di qualcosa che ha a che fare con la mente: mah, prete o psichiatra?

ANDREA M.: Rispetto a quello che aveva detto prima, che lo psichiatra e il magistrato sono i garanti che la società pone quando si viola una norma, volevo chiederle se è su  questo concetto che si basa il TSO.
CORNAGGIA: Il TSO si basa su questo – colgo l’occasione per dirlo, anche perché la domanda più frequente che noi facciamo agli esami è il TSO! –: sostituisce il ricovero coatto, che era la legge del 1904, mentre il TSO è la legge del 1978.
La legge del 1904 prevedeva:

  • che lei poteva essere ricoverato con una ordinanza fatta da un unico medico in base al criterio se era pericoloso a sé ed agli altri
  • l’ordinanza veniva effettuata dalle forze dell’ordine (dalla polizia)

La legge del 1978 sposta questa questione

  • lei non può più fare un ricovero coatto perché un soggetto è pericoloso a sé ed agli altri, in quanto si dichiara effettivamente, per la prima volta attraverso una legge, esattamente quello che dicevamo, cioè che il malato non è pericoloso, quindi il criterio della pericolosità non è un criterio che si collega alla malattia mentale. Per chi è pericoloso a sé ed agli altri il garante di questa non adesione alla norma è il magistrato, non lo psichiatra; cioè, se uno diventa improvvisamente pericoloso a sé, noi psichiatri non c’entriamo e chiamiamo il magistrato. Il criterio della pericolosità non solo non è ragionevolmente (con i dati della letteratura) una questione che compete la psichiatria, perché il malato psichiatrico non è pericoloso, ma oltremodo è competenza della magistratura, non della psichiatria. Questo è un dato sul quale si è fatta una battaglia enorme, e su cui non erano mica tutti d’accordo! Tanto che la legge del 1978 chiudeva i manicomi, ma in realtà i manicomi non sono mai stati chiusi; sono stati chiusi dalle leggi finanziarie del 1994 e del 1996, guarda caso by-partisan (perché uno era il governo Berlusconi, l’altro il governo Prodi).
  • Il motivo per cui uno viene ricoverato sono 3 condizioni: “solo se 1) esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, 2) se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e 3) se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere” . Il concetto è che io ti ricovero perché sei malato, punto! E ti ricovero perché devi curarti, punto! Quindi è sanitaria la cosa.
  • Quindi c’è una scissione, tanto che l’esecutività del mandato è affidata non all’autorità giudiziaria, ma ai vigili urbani, perché i vigili urbani sono la polizia del sindaco, che è il vero capo della sanità pubblica. Il capo della sanità pubblica non è il direttore dell’ASL, ma il sindaco (se c’è l’acquedotto infettato, o quant’altro, è il sindaco che dice di non bere l’acqua).

IL SUICIDIO

Signori… Il mito di Sisifo… Camus scriveva che tra tutte le questioni, quella centrale di tutta la filosofia a lui sembrava fosse quella del suicidio.

Perché?… Voi immaginate Sisifo… Camus diceva: “A me non interessa tanto quando lui è lì che fatica a portar su il sasso. A me fa pensare terribilmente cosa pensasse Sisifo quando era lì che scendeva giù per la montagna, sapendo che doveva arrivare di sotto e riprendere a faticare e riportare su il sasso, e che quella fatica sarebbe stata ineluttabilmente, assolutamente inutile.” Cosa è che farà far sì che Sisifo, arrivato in fondo, ritorni su? E che cosa dovrà significare? Perché lui dovrà dare un significato! Siamo in un’epoca in cui vivono correnti come l’esistenzialismo e la fenomenologia… questo ci fa vedere come alla base della nostra esperienza ci sia un’esperienza di senso e di ricongiungimento a quello che è il significato più profondo del nostro esistere.

Voi avete sentito parlare dell’“Oggetto di amore primario”?…

… faccio un’altra divagazione. C’è chi scriveva che “L’uomo è l’unico cucciolo di animale che piange alla sua nascita”. Intendo dire che percepisce lo strappo originario e terribile. C’erano tanti artisti del Romanticismo che paragonavano il parto al naufragio. Intendo dire questo strappo originario, per cui noi in fondo, in qualche maniera, ci rendiamo improvvisamente conto di essere un luogo di bisogni. Io non mi ricordo il momento in cui sono nato, e sono sicuro che non ve lo ricordate neanche voi, però, insomma… da una condizione in cui eravamo al caldo, eravamo cibati, non avevamo bisogno di respirare, non avevamo bisogno di mangiare… improvvisamente abbiamo freddo, fame, sentiamo degli stimoli neanche precisi. Abbiamo dei bisogni, siamo delle persone fragili, buttate nel mondo, con dei bisogni ai quali neanche noi medesimi possiamo andare incontro, perché noi abbiamo bisogno dell’altro per riuscire a venire incontro ai nostri bisogni. Quindi siamo dei dipendenti, siamo costitutivamente dipendenti dall’altro, tanto che, per definire noi stessi, abbiamo bisogno dell’altro, non siamo in grado di definirci in quanto tali. Io non se questo sia bello o brutto, non lo so, comunque sicuramente è la condizione umana. Noi pian piano cominciamo a percepire che non siamo più l’altro. Quando noi stacchiamo le nostre labbra dal capezzolo della mamma – il nostro primo confine dall’altro è il capezzolo materno –, incominciamo a distinguere che noi siamo altro dal capezzolo, altro dal seno. Noi siamo continuamente a ricercare, pellegrini sulla terra per dirla con un linguaggio, naufraghi per dirla con un altro….
Perché vi dico questo a proposito del suicidio?… perché impariamo a vivere l’oggetto, la dipendenza dall’oggetto. Cioè l’oggetto, che è quello che noi chiamiamo oggetto d’amore primario – che adesso avete capito che è la mamma – è per noi il centro e non solo quello che gratifica il nostro bisogno, ma anche quello che ci ridefinisce, per cui noi possiamo riavere il significato; e quando noi perdiamo questo oggetto, per tutta la nostra vita ce lo andiamo a cercare.
L’ansia dov’è? È quando in qualche maniera noi percepiamo che siamo questi naufraghi, abbiamo paura che forse non possiamo trovare l’oggetto: “Chissà dov’è!”.
Oppure nella depressione: “L’abbiamo perso!”. Bene, ahi voglia a dire “Alzati e cammina pigrone”, come dice la mamma dell’esempio di prima, ma se io non ho l’oggetto che è il senso di me, il luogo dove poter andare, io che mi alzo dal letto?!

Vi do dei dati, perché il suicidio è importante.
Il suicidio “è un atto di aggressione nei propri confronti che ha come scopo la morte dello stesso soggetto”.
La morte però non sempre avviene, tanto che noi parliamo di:

  • suicidio mancato: io ci ho tentato davvero, ma non ci sono riuscito
  • suicidio riuscito: è morto
  • suicidio tentato: io utilizzo degli strumenti non troppo idonei allo scopo, oppure mi assicuro in qualche maniera di avere delle possibilità di scampo; quindi in realtà la vera intenzionalità suicidaria non ce l’ho

quanto al tentato suicidio, io potrei farmi un certo taglio delle vene sapendo che mia moglie sta salendo dalle scale, però mia moglie potrebbe imbroccare un’amica salendo le scale, si mette lì a parlare, ed io… oppure non tutti sono dei farmacisti, quindi alcuni possono pensare di prendere una dose, per esempio “7-8 pastiglie non muoio”, però sbagliano il farmaco…
Quello che a noi interessa è che ci sono dietro 2 linguaggi abbastanza diversi, cioè: quello che tenta di uccidersi ci vuole dire delle cose; quello che si uccide ce ne vuole dire altre, o non ci vuole dire niente.

Vi do dei numeri:

  • la frequenza dei suicidi è maggiore nelle nazioni particolarmente ricche, o in quelle particolarmente povere; perché è speculare alla stessa condizione del suicidio, che si distribuisce tra le classi molto alte, o tra le classi basse
  • l’Italia si colloca più o meno a metà: in Italia ci sono circa 9-10 casi / 100.000 abitanti (si parla dei suicidi riusciti). In Giappone è circa il doppio. In Russia è molto più elevato
  • sono più frequenti tra i maschi, e questo è in po’ in armonia con quello che dicevamo prima: l’uomo tende a non vedere dentro di sé, quindi molto più facilmente arriva all’atto. I tentati suicidi invece sono molti di più tra le donne, perché nella donna c’è ancora l’utilizzo del tentato suicidio come strumento di parlare con l’altro
  • sono soprattutto nelle categorie di: non sposati, socialmente isolati, aree urbane nei periodi di crisi economica, immigrati, protestanti (forse perché è più frequente nelle regioni del Nord)

Il tentato suicidio, rispetto a quello riuscito, è molto più frequente:

  • nelle donne rispetto agli uomini
  • nei soggetti più giovani rispetto ai meno giovani
  • in assenza di una patologia psichiatrica grave.

 

Poi abbiamo quelli che noi chiamiamo “equivalenti del suicidio”, cioè una persona non si uccide, ma fa qualche cosa che comunque lo porta, se non a morte, al degrado più completo e poi magari a morte successiva:

  • alcolismo
  • abitudini tossicomaniche
  • degradazione sociale (persone ricchissime che ad un certo punto fanno dei disastri d’investimento di borsa: perdono tutto)
  • vagabondaggio
  • antisocialità.

Cosa è allora il tentato suicidio? Rappresenta una modalità per comunicare all’altro la propria rabbia e la propria paura di abbandono. Perché io non posso accettare che lei mi abbandoni, perché l’abbandono con lei è un abbandono che è impossibile da accettare per me (qui poi arriviamo a tutte le questioni che vanno dal tentato suicidio, al suicidio, fino all’omicidio-suicidio). Lei vuole abbandonarmi, ma io non posso accettare che mi abbandoni: mi taglio le vene! “Guarda come mi hai fatto soffrire, guarda che male mi hai fatto: disgraziata!”.
Nel tentato suicidio voi cominciate ad intravedere qualche cosa estremamente importante! Che tra me e lei c’è una separazione mica tanto ben riuscita, cioè tra me e lei c’è, dentro di me, una sovrapposizione; ciò che provoca questo è una non separazione tra noi due.
Vuol dire che io in realtà cosa vado a colpire? Quella parte di lei fantasticata che io ho dentro di me, e dalla quale io non posso separarmi! Perché io non posso separarmi da lei proprio perché lei rappresenta per me delle parti indispensabili a me, a quel senso di me. “Sei tutta la mia vita, senza di te non posso vivere cara!”… “…Cerca di vivere lo stesso, poi vediamo, facciamo i conti…”.
Allora: c’è un livello di vicinanza e di identificazione che è molto pericoloso! Il suicidio, in realtà, come scriveva Freud nel 1917, – ho citato tante persone… in psichiatria almeno una volta Freud bisogna citarlo! –, è un “omicidio mancato”. Cioè: “Tu non puoi andar via, perché io non posso tollerare di essere separato da te! Ti uccido!”, ma siccome mi sono identificato in te, uccidendo me, uccido te.

ALFREDO C.: Ma se uno perde tutti i soldi e si uccide, cosa c’entra in questo caso il discorso che uno uccide sé stesso per uccidere un altro?
CORNAGGIA: Stupenda questa domanda, dobbiamo rispondere a questa domanda. La può tenere lì un momentino?… Io non posso separarmi da te, cioè non mi sono separato da te… Ma quando io parlo di “oggetto” e noi parliamo di oggetto come “oggetto di amore primario”, come dicevamo prima, è chiaro che noi poi, nella nostra vita, troviamo o abbiamo delle serie di cose, di oggetti, rispetto ai quali noi ricostruiamo una dipendenza. Ricostruiamo una dipendenza che riteniamo la più sana possibile: noi abbiamo degli oggetti, oggetti d’amore, che non sono più la mamma, ma che sono degli oggetti, o soggetti (persone), verso i quali noi ci risignifichiamo; ma questi oggetti possono benissimo non essere oggetti d’amore, possono essere anche degli “idoli”, per dirla con un termine pagano. Per cui quella roba lì per me ha questo significato: io senza quella roba lì non ci sono. Infatti abbiamo delle persone che si suicidano per le cose più strampalate dell’universo…

… … …

Libertà, nel rapporto tra due persone, è che uno non usi l’altro… cosa avviene nei rapporti malati? Che io utilizzo l’altra parte! Quindi quando lei si stacca, io non lo tollero che lei si stacchi, perché si stacca rispetto alle mie parti carenti; infatti ultimamente vedete cosa succede: “Ragazza pianta il ragazzo: trovata accoltellata”….

… vi va di andare avanti su questo argomento la prossima volta? CORETTO: Sì…

 

Ho preferito riportare la conversazione abbastanza fedelmente, visto che gran parte della lezione era costruita sulla risposta alle domande, e visto anche che la forma colloquiale mi sembrava ben riuscita (in questa lezione); a questo proposito ringrazio l’Andrea Cavalli, perché senza le sue domande non sarebbero venute fuori un casino di cose interessanti (con buona pace del prof.)!
Mi scuso poi per alcune piccole parti (ed alcune domande), che non ho potuto riportare, spt dal fondo dell’aula, in quanto, essendosi il prof rifiutato di usare il microfono, quando retrocedeva non si sentiva niente.

Colgo l’occasione per invitare tutti, come molti già fanno, a portare il materiale didattico delle lezioni giù in aula fotocopie (lucidi e magari anche stampe delle diapositive, se la cosa non è troppo problematica… essendo un turnista fotocopiatore da vecchia data, ricordo che la copia-archivio è gratis).
Buone vacanze di santo Natale 2004 a tutti (anche se un po’ in anticipo!) e buono studio,                               Alfredo


È il proiettore, che ovviamente non funziona… durante tutta la prima parte della lezione (una buona oretta) qualche “addetto” cerca di far funzionare il proiettore collegato al computer, alla fine arriva il mitico signor Saverio, che pure lui non ci riesce… computer del prof che non va? potenti mezzi tecnici della nostra gloriosa università? Boh…

Nota dello sbobinatore: per l’Antipsichiatria è la società che causa la malattia (in questo senso il prof usa il termine “causale”).

NDS: Credo che il prof intenda dire che nelle grandi città e nelle società occidentali in generale è più difficile che il pz schizofrenico trovi un contesto sociale accogliente, tale da migliorare la prognosi della sua malattia.

NDS: Lombroso sosteneva che dalla fisionomica (in particolare dalla conformazione del cranio) si sarebbe potuto capire se uno era un criminale, o altro.

NDS: In realtà il prof ha sintetizzato con altre parole, ma alcune parti non si sentivano, per cui ho preferito riportare direttamente il testo di legge

 

Fonte: http://matt7692.altervista.org/Archivio%20Sbobinature%2004-06/sbobinatureIX/psico/05.P&P-26.10.04.doc

Sito web da visitare: http://matt7692.altervista.org/

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