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Le storie che curano
Note e commenti
Enrico Catalano
“Conoscere le profondità della mente significa conoscere le sue immagini, ascoltare le storie con un'attenzione poetica, che colga in un singolo atto intuitivo le due nature degli eventi psichici, quella terapeutica e quella estetica.”
(James Hillman)
1. Sintesi dell'opera
1.1 Le storie cliniche come narrativa – Un percorso circolare
La prima parte del testo di Hillman è dedicata ad una rilettura dell'opera di Freud in chiave narrativa. L'autore sostiene che “le nostre storie cliniche sono un modo di fare narrativa”, e quindi le opere di Freud “esprimono il lato narrativo della natura umana, il suo romanzo”, attraverso l'uso di stili narrativi diversi ed espedienti volti a mantenere viva l'attenzione del lettore. Inoltre, per Freud trovare una forma adeguata di raccontare è stato essenziale perché la psicoanalisi potesse essere accettata nel mondo della medicina; perciò, ha sviluppato uno stile al tempo stesso intrigante per il lettore e dotato della persuasività dell'empirismo medico, a metà tra la narrativa e il caso clinico. Egli ha poi ideato una trama adatta a tutte le sue teorie, ovvero abbastanza semplice in sé, che possiede una propria logica efficace, ma che richiede complicazione, fantasia e in parte mistificazione; a questa trama ha dato il nome di Edipo. L’utilizzo di questo mito come trama fondamentale di tutte le sue storie, da un lato, gli ha permesso di catturare l'interesse del lettore e, dall'altro, gli ha procurato la critica di Jung di usare uno schema causale troppo semplicistico, nel quale rischia di perdersi lo spessore del singolo personaggio.
Ad ogni modo, ciascuno con il proprio stile personale, tutti gli psicoterapeuti hanno scritto storie cliniche, storie che Hillman propone di considerare come narrativa, letteralmente fiction, nel senso che non sono un resoconto reale dei fatti, ma un resoconto inventato dei processi interiori immaginati, che si deve porre “al di là dei criteri di vero e falso”. Queste narrazioni appartengono tutte al genere chiamato da Hillman “romanzo terapeutico”, nel quale la terapia fa da supporto agli episodi narrati e fornisce i mezzi per interpretarli. Generalmente, la storia inizia quando il personaggio principale inizia la terapia e si conclude quando “la storia porta fuori dalla terapia, alla guarigione e al mondo”. Queste storie cliniche possono essere scritte seguendo svariati generi letterari e stili narrativi, ma ciò che è importante è “leggere i casi clinici con lo sguardo archetipico rivolto verso la forma” e non più solo al contenuto, anche in virtù del fatto che “il modo in cui raccontiamo la nostra storia è anche il modo in cui diamo forma alla nostra terapia”; per cui, il modo in cui viviamo le esperienze dipende strettamente dal genere entro cui rappresentiamo ciò che ci accade. Per questo, è importante distinguere tra storia come resoconto di eventi esteriori e romanzo come racconto di eventi interiori; perché, a differenza di quanto è abitualmente portata a credere la psicologia di stampo meccanicistico, un avvenimento diventa esperienza quando passa attraverso un processo psicologico, ossia “si fa anima” e non più solo storia.
Un esempio di applicazione di questa prospettiva Hillman lo ritrova nel confronto fra le modalità di lavoro sul sogno di Freud e Jung. Pur partendo entrambi gli autori dal presupposto che nel sogno viene detta una cosa come se fosse un'altra, si differenziano perché Freud utilizza un metodo allegorico, cioè compie una traduzione dal linguaggio latente a quello manifesto, mentre Jung attua un approccio metaforico, che “tiene unite le due voci, ascoltando il sogno così come si esprime”. Infatti, egli ritiene che le metafore non siano passibili di traduzione interpretativa senza che ne vada persa la peculiare unità, ma, tramite il sogno, si rivolge direttamente alla natura creativa dell'anima, e, quindi, al dio di questa natura fatta di forza vitale e drammaticità: Dioniso.
In conclusione, Hillman afferma che questo nuovo genere di racconto creato dalla storia clinica, che nella sua concezione è “una narrativa dell'operare interiore dell'anima”, ci può fare un grande dono: avvicinarci alle immagini, che sono libere dal mondo percettibile, e da esso ci liberano, riportando la mente al suo fondamento poetico.
Nella seconda parte dell'opera Hillman ricostruisce, dal suo originale punto di vista, il contributo fornito da Jung alla fondamentale questione esistenziale dell'auto-conoscenza. Inizia dalla vicenda personale di Jung, che, in un periodo di crisi esistenziale, lo ha portato ad immergersi in “un flusso incessante di fantasie”, una “molteplicità di contenuti psichici e di immagini”, imbattendosi nelle figure di Elia, Salomè e di un serpente nero. Queste immagini sono definite dall'espressione greca originaria Daimon, che ha poi subito l'accezione negativa di demòni a causa della visione cristiana, che ha introdotto una netta divisione tra il bene – rappresentato unicamente da logos cristico – e il male, condannando la molteplicità dei modi di essere umani. Ma, nel mondo precedente e in quello parallelo alla nascita della cristianità, i daimones erano figure del regno intermedio, non del tutto dei trascendenti, non del tutto uomini corporei. Quindi, nell'entrare in contatto con tali figure, prima nella sua vicenda personale e poi di conseguenza nello sviluppo del suo metodo clinico, Jung ha proprio ristabilito questo regno intermedio, che ha identificato come “realtà psichica”, fatto di figure immaginarie e la cui natura ha a che fare con la poesia, il teatro e la letteratura. In questo modo, ci insegna che l'immaginazione letteraria non solo è presente nel fatto storico, ma si svolge al centro di noi stessi, in questo terzo regno chiamato anche “anima”, che ha la sua chiave di accesso nel “come se”, in quella realtà metaforica che non è né letterale né irreale. Infatti, il metodo jungiano si differenzia nettamente dall'introspezione, che secondo Hillman fallisce perché rimane chiusa entro l'anima razionale, pretendendo di capire così l'io e il suo funzionamento, mentre “l'azione è nella trama” e, come sostiene Jung, “solo quando un'immagine è compresa, pienamente immaginata come un essere vivente altro da me, allora diventa uno psicopompo, una guida con un'anima”. Questo metodo, definito “immaginazione attiva”, muta radicalmente il significato del “conosci te stesso”, che non coincide più con la coscienza razionale o con la conoscenza della proprio passato, ma “significa un conoscere archetipico”, un “conoscere demoniaco” che conduce alla familiarità con una molteplicità di figure psichiche. Hillman concorda con Jung nell'affermare che in questa molteplicità non si corre il rischio di perdersi in un pandemonio di contraddizioni, come sostiene la critica di Jaspers alla demonologia, perché anzi il demone e l'inconscio, in quanto modi di immaginare narrativamente, hanno una loro capacità di curare la realtà psichica dell'“esse in anima” (essere nell'anima). Infatti, “producendo persone, immagini e voci il mondo demoniaco oggettiva e al tempo stesso esige partecipazione emotiva. Dunque non siamo più pubblico in un teatro”. Dal momento che il potere di curare delle immagini non risiede in un effetto letterale, Jung non propone una idolatria, ma propone di agire attraverso l'immaginazione un servizio all'immagine, una dulia. Propone, cioè, una conversazione con le immagini, definita “diacrisi psicologica”, che dà ad esse la possibilità di presentare il proprio logos, mostrandosi come figure distinte, riconoscibili e portatrici di specifiche qualità. In definitiva, il metodo dell'immaginazione attiva creato da Jung non è né una vera e propria disciplina spirituale né una prova artistica tout court, non mira al silenzio e all'immobilità, ma al racconto, al teatro e alla conversazione, poiché “diviene un modo di mettere in relazione”. Non è un'attività psicologica volta alla mera cura dei sintomi, ma mira a curare la yukh, a “fare anima”, riportandola nel regno intermedio della narrativa e del mito che più le si confà. Dunque, il suo obiettivo è la comprensione di sé, che è al tempo stesso il suo limite: “conosci te stesso è fine a se stesso e non ha fine”.
Nella terza ed ultima parte del testo Hillman si accosta all'opera di un altro psicoanalista, il cui contributo ritiene fondamentale nella storia del pensiero psicoterapeutico: Alfred Adler. Il punto di partenza di Adler è costituito dalla domanda: “cosa vuole l'anima?”, che ritiene essere l'obiettivo principale del lavoro di conoscenza di sé, ma che appare estremamente difficile finché non ci si sia posti davvero in ascolto. Ricollegandosi al discorso di Jung rispetto alle immagini, Adler ritiene che i daimones sono inferiores, cioè abitano nelle regioni inferiori, nell'ombra, e noi ci sentiamo “indeboliti, umiliati, costretti alla vergogna quando queste figure dicono cosa vogliono”, e questo avviene non perché essi ci spingano ad azioni immorali, quanto perché noi li abbiamo nascosti, trattati con vergogna e non ascoltati. Perciò, il metodo adleriano consiste nello scendere a contatto con la propria inferiorità, nell'intessere un dialogo con l'anima e con le sue immagini senza interpretarle, non chiedendo cosa significa un'immagine, ma cosa vuole. Di tale metodo Hillman fornisce anche alcuni interessanti esempi clinici tratti da un dialogo scritto tra un paziente e la sua anima, attraverso un metodo di ricerca simile allo scrivere romanzi, che viene denominato “fantasia creativa”.
La già accennata tematica dell'inferiorità, è proprio ciò che, a giudizio di Hillman, costituisce il contributo più proficuo di Adler alla pratica psicoterapica, e si declina nel seguente motivo esistenziale: “se in ciascuno di noi esiste un'inferiorità primaria, e tuttavia il fondamentale anelito umano è verso la perfezione, come possiamo riconoscere la nostra bassezza e al tempo stesso innalzarci alle nostre altezze?”. L'analisi della questione da parte di Adler prende le mosse dal convincimento che ciascuno di noi abbia un “tallone d'Achille organico”, che è ciò che determina le linee essenziali della nostra vita psichica. Portando a sostegno della sua tesi l'esempio di straordinari musicisti come Mozart e Beethoven, che avevano problemi legati all'orecchio, stabilisce una diretta corrispondenza tra anomalia dell'organo e attività psichica, ipotizzando che l'organo inferiore sia soggetto di particolare interesse e diventi, così, “il complesso o l'immagine su cui si polarizza la nostra attenzione psichica”. Tuttavia, a giudizio di Hillman, ciò che è più interessante della prospettiva adleriana non è tanto il concetto di organo inferiore, quanto quello di “inferiorità organica”, poiché esprime la convinzione che tutta la nostra vita psicologica abbia origine da un senso di inferiorità organica connaturato alla nostra esistenza come creature corporee e finite. Questa concezione offre diverse intuizioni terapeutiche innovative, “spostando l'inconscio da una regione mentale a un'esperienza di inferiorità vissuta”, e riscopre il valore dei sintomi somatici, manifestato attraverso quello che Adler definisce “linguaggio degli organi”, che ci parlano di noi stessi, delle nostre problematiche e delle nostre potenzialità; al punto che Adler afferma che “Psiche è nome appropriato per il potenziale di vita di una creatura inferiore”.
Proprio per tenere a bada i sentimenti di inferiorità e di insicurezza che ci contraddistinguono, escogitiamo delle costruzioni mentali nevrotiche attraverso cui percepiamo il mondo. La più potente di queste “protezioni nevrotiche” viene definita “pensiero antitetico” e consiste in “un tipo di percezione basata sul principio degli opposti: forte/debole, sopra/sotto, maschile/femminile”. Le antitesi dividono il mondo in maniera netta, “dandoci la possibilità di avvertire un potere con azioni decise e preservandoci dal sentirci deboli e inefficaci”. Il motivo che sta all'origine del pensiero antitetico è la coppia “maschio/femmina”, che Adler definisce “l'unica vera antitesi” e che a sua volta può essere ricondotta alla prima esperienza che si fa nell'infanzia dell'“ermafroditismo psichico”. Quest'ultimo si riferisce al fatto che la psiche ha tratti sia maschili che femminili – motivo ripreso dal concetto jungiano di “animus/anima” – ma, dall'infanzia in poi, noi identifichiamo col femminile la debolezza e l'inferiorità, e anche l'ambivalenza causata dalla debolezza stessa. Qui Hillman suggerisce che sia all'opera la figura archetipica dell'Ermafrodito, figlio di Ermes e di Afrodite, che è “contemporaneamente vergognoso, libidico, innaturale, oltremodo bizzarro e che pure attira verso il mistero, evocando un'insaziabile sete di curiosità”. Perciò, Hillman sostiene che tutti e tre gli autori da lui trattati nel testo, seppure in modi diversi, sembrano basare sull'Ermafrodito la loro visione dello scopo dell'analisi, tanto che esso diviene “la figura psichica del guarire, il guarire psichico dell'immaginazione”, poiché in tutte e tre le forme di terapia del profondo descritte è essenziale ritrovare quella figura “celata negli opposti” che ci può ricondurre all'integrità psichica oltre le finzioni difensive; ossia “restaurare l'ermafroditismo psichico”.
Negli ultimi scritti di Adler, si invertono i concetti di causa ed effetto: non è più l'inferiorità a spingerci verso la superiorità, ma i nostri sentimenti di inferiorità derivano da un “impulso innato alla perfezione”, che struttura delle “mete finzionali” attraverso cui l'anima immagina delle mete ideali. Dunque, la terapia non deve prendere letteralmente queste mete e spingere verso di esse, ma, al contrario, ha lo scopo di deletteralizzare le mete finzionali per guardarle in trasparenza ed usarle come guida verso fini reali.
Un ulteriore elemento della teoria adleriana ritenuto importante da Hillman è il concetto di Gemeinschatsgefuhl, il sentimento comunitario o interesse sociale; il quale, però, non va considerato dal punto di vista della società, ma da quello del significato che riveste per l'individuo: “non può rispondere a ciò che l'anima vuole [...] ma può servire come strumento per riflettere tutte le nostre mete”.
In conclusione, volendo giungere ad un epilogo del suo discorso su Adler, Hillman sottolinea il senso della finzione in psicologia archetipica, che nella prospettiva fenomenologica propria di Adler assume una direzione “soggettivistica ed ermeneutica”, ossia ci riporta sempre a noi stessi e alle nostre finzioni, con lo scopo di farcele osservare in trasparenza, senza ricorrere a strutture esterne alla nostra coscienza. Perciò, “una volta ammesso che l'anima parla con la voce degli inferiores, […] il compito di ogni psicoterapia sarà quello di rimanere in contatto con essi, e da essi lasciarsi muovere”.
2. Possibili collegamenti con l'approccio gestaltico
Durante la lettura del testo di Hillman, mi sono imbattuto in alcuni passaggi che mi hanno suscitato spontaneamente dei possibili collegamenti con l'approccio gestaltico.
In primis, ritengo che l'approccio jungiano al sogno, nella descrizione fatta da Hillman, risuoni bene con la modalità di lavoro propria della gestalt. Infatti, i due orientamenti condividono l'approccio non interpretativo, tipico invece della psicoanalisi freudiana, e propongono di entrare in contatto più direttamente con ciò che avviene nel sogno, “ascoltando il sogno così come si esprime”. Inoltre, nell'affermare che il sogno ha intrinsecamente una struttura drammatica, Jung mostra di anticipare, quantomeno teoricamente, l'idea di Perls di utilizzare la tecnica della drammatizzazione per il lavoro sul sogno.
Sempre in relazione all'approccio non interpretativo, ho rinvenuto una chiara affinità tra le critiche di Jung e Adler all'approccio introspettivo di stampo freudiano, visto come un circolo vizioso limitato da una “chiusura entro l'anima razionale”, e la critica di Perls, che definisce esplicitamente l'introspezione intellettuale come una forma di retroflessione. Credo che Perls concorderebbe con Jung quando lo psicoanalista svizzero afferma che solo quando un'immagine è compresa pienamente, non spiegata razionalmente, assume un potenziale evolutivo e diviene “un angelo necessario poiché appare qui e ora, insegna alla mano a rappresentarlo, all'orecchio a udirlo e al cuore a rispondergli”. In tal modo, attraverso la personificazione di quel che Jung chiama daimon e che Perls chiamerebbe una parte del sé, “ciò che è semplicemente esposizione, diventa azione”. In queste parole si avverte un eco del lavoro sulle parti della personalità tipico della terapia della gestalt, che prevede il riconoscimento e la rappresentazione concreta di esse, in vista di un insight che possa coinvolgere tutto l’organismo, in modo olistico e non meramente cognitivo. Ritrovo, a tal proposito, una chiara concordanza di impostazione tra Perls e Adler nella breve descrizione che quest'ultimo fa di un caso, in cui un uomo nelle sue riflessioni scritte su un diario cercava di trovare, fra svariate ipotesi psicologiche, l'interpretazione più corretta da dare ad un voce interiore che gli chiedeva “dove sei stato, padre?”. Adler gli imputa il “semplice e tragico” errore di non aver semplicemente ascoltato la domanda e cercato di rispondervi, invece di perdersi in interpretazioni speculative; in questo caso è evidente la prospettiva fenomenologica in comune con la gestalt, che invita a stare primariamente in contatto con quello che si manifesta.
Inoltre, risulta addirittura palese la concordanza tra Hillman e Perls, quando l'autore de “Le storie che curano” esplicita la sua visione della storia come modo di “fare anima” e la definisce “un'operazione digestiva”, che serve a rendere interiori degli eventi esterni. Pare quasi di leggere Perls ne “L'io, la fame, l'aggressività”, quando Hillman scrive che è l'esperienza a coagulare gli avvenimenti e, quindi, è necessario masticarli fino in fondo per poterli digerire e renderli parte di sé, evitando che il materiale ingerito senza assimilazione si trasformi in sintomi di varia natura.
In conclusione, dalla lettura del testo di Hillman e dalle riflessioni che mi ha stimolato, ricavo la convinzione che il fascino della yukh risieda proprio nella sua natura poetica, nel suo essere parte di un mondo metaforico, a metà strada tra realtà e immaginazione, e quindi accostabile con un'attitudine al tempo stesso artistica e scientifica. In questo mondo, l'essere umano percorre il suo cammino incontrando i propri daimones, ed è imparando ad ascoltarli e ad esprimerli che può paradossalmente divenire guida consapevole di se stesso.
Fonte: http://enricocatalano.altervista.org/alterpages/files/PT10.1-HillmanLestoriechecurano-EnricoCatalano.doc
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Autore del testo: sopra indicato nel documento di origine
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