I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore
Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).
Dott.ssa Simona Leonardi
Dott.ssa in Psicologia
“L’IDENTITA’ IN PSICOLOGIA”
Introduzione
Lo sviluppo dell’identità personale nell’individuo è uno dei processi più importanti nell’ambito della psicologia.
Nel presente lavoro, diviso essenzialmente in due parti, viene descritto il complesso meccanismo dello sviluppo dell’identità e dei suoi disturbi.
Nella prima parte viene presentato il concetto di identità, dalle origini fino ai giorni nostri, passando attraverso i vari approcci e le varie teorie che si sono occupati di questo argomento tentando di spiegarne lo sviluppo, mettendone in luce gli aspetti più importanti, e la differenza che intercorre tra il concetto d’ identità e quello di personalità.
Nella seconda parte del lavoro, invece è analizzata la psicopatologia dell’identità. In particolare, la categoria di cui mi sono occupata in questo lavoro prende il nome, secondo la classificazione del DSM IV (Manule Diagnostico Statistico dei disturbi Mentali) di “ Disturbi Dissociativi dell’Identità”; essi rappresentano tutti quei disturbi che possono avere origine a causa di esperienze traumatiche, violenze, maltrattamenti, in genere avvenuti nell’infanzia e che non permettono quindi un sano sviluppo dell’identità.
I motivi che mi hanno portato a scegliere questo argomento sono sicuramente la curiosità e il grande interesse che nutro per questa tematica e, quindi, la volontà di poterla approfondire anche se in piccola parte, per poter così arricchire la mia conoscenza e cultura sull’argomento.
1.L’identità in psicologia
1.1 Origini filosofiche del concetto d’identità
La problematica dell’identità è stata, nella storia letteraria una questione su cui si sono imbattuti numerosi filosofi, psicologi e sociologi.
Il concetto d’identità personale è uno dei cardini della filosofia occidentale, è riscontrabile sin dalle prime classiche trattazioni logiche di Aristotele, nella teoria cartesiana del cogito, fino a giungere alle problematiche contemporanee sull’identità personale; esso è fondamentale sia per la filosofia dell’essere, dell’ermeneutica, così come per la filosofia analitica anglosassone e per la philosophy of mind americana.
Il problema dell’identità personale è costituito dalla dualità mente-corpo, che fu, per la prima volta, analizzato da Renè Descartes . Egli cercò di risolverlo (gettando le basi di quella che sarebbe stata la concezione dell’identità personale, che è tutt’ora valida), elaborando una teoria basata sul dualismo tra “res cogitans” e “ res extensa”.
Per Descartes, la domanda “ Che cos’è l’Io” s’incrocia con la domanda “ “Che cos’è la mente”, quest’ultima è una sostanza ben definita, inestesa, immateriale, che costituisce l’insieme di tutti i pensieri, percezioni, rappresentazioni mentali, idee, che rappresentano la res cogitans.
L’io è, in questa prospettiva, “puro pensiero” ed è connesso al corpo da una piccola ghiandola situata al centro del cervello ( ghiandola pineale).
Il dualismo di Descartes venne per la prima volta sottoposto ad un’analisi critica dal filosofo John Locke, il quale diede una prima vera e propria definizione d’identità: La ricerca e la definizione di che cosa sostanzia un’individualità, su che cosa si fonda e che cosa la tiene insieme nel tempo, attraverso l’esperienze, anche le più lontane o superate, in cui al momento non ci riconosciamo più.
Secondo Locke la struttura mentale, responsabile dello sviluppo dell’identità in un soggetto, è la memoria. Attraverso quest’ultima la mente umana è in grado di poter ricostruire il flusso di ricordi e percezioni che collegano l’identità attuale dell’io con se stesso nel tempo.
La relazione d’identità diviene trasmissibile nel tempo, nella mente di una stessa persona, non solo per il tramite di un rapporto logico di eguaglianza, ma anche e soprattutto da un rapporto di ordine psicologico veicolato dalla memoria stessa.
Il filosofo scozzese David Humme non condivide le teorie di Descartes e di Locke, egli sostiene che ciò che concorre ad originare in noi l’idea di un io unico e responsabile di ogni attività mentale è una pura illusione, generata dall’esistenza nella mente umana, di un fascio di percezioni, provenienti da ogni parte del corpo e da ogni stimolo sensoriale o mnemonico o immaginativo.
Questo fascio di percezioni tende ad originare l’esperienza dell’unità della coscienza e che, comunque, la stessa mente umana sente l’esigenza di radunare attorno all’idea centrale di un io soggettivo, unico spettatore del teatro della coscienza.
L’empirismo radicale di Hume quindi smonta la concezione lockiana, che sostiene che la memoria può essere considerata una condizione essenziale, perché in una mente si vengano a creare tutte
le condizioni ideali di continuità ed unità dei pensieri di un unico io.
Alla fine del 19°secolo ritroviamo invece una delle analisi più approfondite del problema dell’identità personale che fu condotta nei”Principi di Psicologia” dal filosofo americano William James.
Egli tratta dell’ argomento nel capitolo 10° dei “Principi di Psicologia”; il problema della coscienza nel suo libro è trattato a partire da una progressione continua che dall’io empirico, chiamato oggettivo, giunge sino all’io puro, considerato astratto. James definisce “Io empirico” come ciò che ognuno è portato a chiamare col nome di me e precisa che il limite tra io e il me non è affatto netto e preciso.
Arriva così a formulare una definizione di io:
“L’io di un uomo è la somma totale di tutto ciò che egli può chiamare suo,non solo il suo corpo e le sue facoltà psichiche, ma i suoi abiti, ed la sua casa ma anche sua moglie, i suoi amici, i suoi bambini e le suoi biglietti di banca”.
Egli prende in considerazione gli elementi che costituiscono l’io:
1)”L’io materiale” che comprende il corpo, i vestiti ,la famiglia, gli abiti e la casa;
2)“L’io sociale”che si identifica con il riconoscimento ottenuto da propri simili;
3)”L’io spirituale” inteso come l’io di tutti gli altri io, quello più intimo, il nodo centrale dal quale sorge” il senso di attività “che comprende affezioni,desideri e dal quale scaturisce l’eccitazione e che sfocia in ultimo nella volontà;
4)”L’io puro” principio dell’ identità personale.
L’intento del filosofo è quello di affrontare il problema del senso dell’identità personale in modo antisostanzialistico, eliminando l’Anima spiritualistica, l’Appercezione kantiana, e l’associazionismo humiano .
Egli taccia di assolutismo tanto lo spiritualismo quanto l’associazionismo humiano che ritiene che tutto nell’io è diversità.
Nel 20° secolo, invece il problema dell’identità personale è stato oggetto d’interesse da parte di numerosi approcci, dalla psicoanalisi alla psicologia sperimentale.
Secondo Freud lo sviluppo dell’io tra origine dal concetto di memoria. Egli espone i cardini di questa sua teoria all’interno del progetto del 1895:
“Una delle principali caratteristiche del tessuto nervoso è la memoria, cioè, la facoltà di subire un alterazione permanente in seguito ad un evento(….).Qualsiasi teoria psicologica meritevole di considerazione deve fornire una spiegazione della memoria”. Una delle difficoltà maggiori incontrate da Freud nell’affrontare il fenomeno della memoria sta nel pensare a una funzione, al livello neuronale, che viene alterata da un flusso di energie e allo stesso tempo rimane indipendente.
Freud risolse questo problema ipotizzando l’esistenza di due classi di
neuroni, il sistema d (inalterato e permeabile)e il sistema y (che trattiene un certo livello d’investimento) introducendo così per la prima volta il concetto di facilitazione.
In un primo momento egli sostiene che la memoria è rappresentata dalle facilitazioni che esistono tra i neuroni y, mentre successivamente corregge questa sua idea per affermare che la memoria è rappresentata dalle differenze nelle facilitazioni tra i neuroni.
A questo punto, però, sorge spontanea una domanda:
Come avvengono queste facilitazioni?
La domanda ha una duplice risposta: attraverso la ripetizione e attraverso la grandezza della quantità iniziale.
Freud ha definito il dispiacere come: “un’irruzione di Q ecces-sivamente grandi in y ”. E’ necessario però ricordare che, uno dei principi di Freud era quello dell’inerzia neurotica, ovvero il principio secondo cui i neuroni tendono a liberarsi delle quantità.
Quando la fonte delle quantità è esterna, le facilitazioni neurotiche diventeranno ricordi associati dell’oggetto ostile nel sistema y e da
qui in poi, verranno evitati e percepiti con un aumento d’angoscia. Hanno, così, origine i concetti dell’esame di realtà e processo secondario.
Una volta che ci sia stata una facilitazione iniziale a causa di fonti esterne, il sistema y acquista una maggiore differenziazione grazie all’azione d’investimenti laterali, dove un neurone diventa un sostituto dell’altro. Se la quantità del sistema y supera un certo limite, ci sarà un tentativo di scarica, compiuto attraverso una ripetizione della facilitazione originale che ne ripercorre le vie.
Ma che cosa sono gli investimenti laterali? proviamo ad analizzarne adesso la loro natura.
Ipotizziamo che siano al servizio della regola del piacere-dispiacere in quanto inibiscono la scarica.”Se un neurone collaterale è simultaneamente investito, ciò opera come una temporanea facilitazione della barriera di contatto che sta tra i neuroni e modifica il decorso, che altrimenti si sarebbe indirizzato verso la sola barriera di contatto facilitata. Un investimento laterale e quindi un inibizione al flusso di Qn”.
Questi investimenti inibiscono la liberazione del dispiacere, ossia riducono l’intensità della scarica e quindi l’affetto spiacevole verrà liberato in quantità minori. Tuttavia, svolgono questa funzione nel momento in cui preservano, l’investimento laterale, una quantità che non verrà mai scaricata completamente a causa dell’inibizione. Questo processo ci porta così all’origine dell’Io. L’io è determinato dal suo carattere d’inibizione e legame. Quindi, possiamo dire che il carattere dell’io è all’origine della coazione a ripetere, l’istinto di morte, e ciò è dovuto al modo in cui lega la quantità attraverso la rappresentazione. “ L’io, quindi, può essere definito come la totalità delle cariche y in un dato momento, ove una porzione stabile può essere distinta da un’altra soggetta a mutarsi”. Inoltre, l’io è l’origine della ripetizione e la ripetizione e l’origine dell’Io. Ma come è possibile tutto ciò ? un processo non può essere causa ed effetto dell’altro, o comunque non è possibile pensare che sia così, senza stravolgere le regole di pensiero delle scienze naturali. Quindi, l’origine dell’Io è una questione di rappresentazione e presuppone quindi l’esistenza della memoria; ma, questa spiegazione non ci
permette però di risolvere il dilemma sulla sua origine. In precedenza abbiamo parlato del concetto di dolore e come questa esperienza educhi il bambino alla realtà, questo, quindi, potrebbe fare pensare che l’esperienza del dolore sia l’origine dell’io; ma in realtà il dolore stabilisce le facilitazioni che sono la condizione necessaria per l’affetto; anche se è più corretto dire che l’origine dell’io è la riproduzione psichica del dolore che si manifesta attraverso l’investimenti laterali, e dunque inibiti. L’io ha inizio come segno quindi possiamo dire che l’Io è l’origine della ripetizione e la ripetizione è l’origine dell’io, nel caso in cui entrambi vengano in essere come segni, come rappresentazioni. La ripetizione deve aver luogo a causa del principio dell’inerzia neuronica. I neuroni devono liberarsi della quantità. Eppure con la legge biologica del principio di piacere, la scarica è inibita attraverso il legame degli investimenti; questo legame fornisce la costante attenzione necessaria per il processo secondario, ma al tempo stesso condanna l’Io alla ripetizione, a liberarsi sempre della quantità, anche se mai in modo assoluto.
Fin’ora abbiamo dedicato la nostra attenzione al collegamento tra ricordo del dolore e i suoi effetti fatali, ma certamente anche il soddisfacimento svolge un ruolo importante nelle facilitazioni dei neuroni y.
Con l’esperienza di soddisfacimento avviene un processo in tre stadi:
1)la fine del dispiacere prodotto dall’aumento della quantità;
2)l’oggetto che fornisce il soddisfacimento viene investito in uno o più neuroni;
3)si ha una rappresentazione di questa esperienza riflessiva di soddisfacimento.
“Si viene a stabilire così una facilitazione tra queste cariche”.
Freud non spiega la facilitazione dovuta al soddisfacimento, nello stesso modo in cui ha spigato il dispiacere (cioè attraverso gli investimenti laterali), ma contrapposta all’idea di sostituzione; si forma, così, la nozione d’identità, quindi si viene ad instaurare un identità tra l’eccitazione sensoriale della scarica e l’oggetto soddisfacente, che appariranno insieme ogni volta che la presenza di un desiderio fa emergere una situazione o un immagine mnemonica.
Questa legge viene chiamata “associazione per simultaneità”.
Come il dispiacere si lascia alle spalle quegli investimenti legati o permanenti che costituiscono la struttura dell’Io, riattivati grazie a tracce mnestiche che suscitano affetti, così questa esperienza di soddisfacimento (identità) lascia una traccia che Freud chiama “l’attivazione operata dal desiderio.
L’identità che nasce dall’esperienza di soddisfacimento, pur essendo biologicamente concomitante con la differenza, è però secondaria rispetto alle origini dell’Io. Il segno dell’identità diventa così operativo soltanto sullo sfondo della nascita dolorosa dell’Io nella rappresentazione e nella ripetizione. Il dispiacere resta quindi l’unico strumento educativo.
Non c’è dubbio che tutto ciò suoni assolutamente estraneo, e perciò i post-freudiani non solo hanno preso le distanze da una certa versione della pulsione di morte, ma hanno anche tentato di stabilire un’autonomia primaria di alcune funzioni dell’Io.
2.1 I contributi di Mahler e Kouth
Uno dei principali contributi alla psicologia psicoanalitica dello sviluppo dell’identità, è da attribuirsi al modello di separazione-individuazione proposto da Margaret Mahler . Questo modello consente di evidenziare i quadri patologici che derivano dalle distorsioni o dai blocchi evolutivi. La stessa Malher precisa che, ”separazione ed individuazione sono due sviluppi complementari: la separazione consiste nell’emergenza del bambino da una fusione simbiotica con la madre e l’individuazione, invece, consiste in quelle conquiste che denotano l’assunzione da parte del bambino delle proprie caratteristiche individuali”.
Mahler divide il processo di separazione-individuazione in quattro sottofasi:
Primitiva percezione di un senso del Sé, di entità, di identità individuale fino ad arrivare gradualmente verso la costanza dell’oggetto lipidico del Se.
Queste quattro fasi coprono l’arco di tempo che va dai 4-6 mesi ai 3 anni di età; in questo arco di tempo possiamo riscontrare una progressiva costruzione dell’identità individuale fondata sostanzialmente su due binari: il riconoscimento e la approvazione della corporeità da un lato, mentre dall’altro la interiorizzazione e
stabilizzazione dell’immagine materna buona che è, al contempo, requisito prioritario e fattore di trascinamento delle prime stabili identificazioni che riguardano anche figure diverse dalla madre. Secondo l’autrice, queste quattro sottofasi sono precedute da due momenti che hanno il valore di precursori del processo stesso. Si tratta della “fase artistica normale” e della “ fase simbiotica normale” ; il termine “normale” vuole sottolineare in questo caso la differenza fra queste fasi e le condizioni di autismo patologico e di psicosi simbiotica che sono il frutto della patologica fissazione alle rispettive fasi normali.
La prima di queste fasi normali si caratterizza per il fatto che il bambino vive in una condizione di autosufficienza psicologica, nel senso che vi sarebbe una sorta di persistenza dello stato primario di investimento libidico che prevaleva nella vita intrauterina; il bambino sarebbe quindi autosufficiente, grazie al suo allucinatorio appagamento del bisogno. Non esisterebbero nel bambino in questa fase, che temporalmente copre le prime settimane di vita, la maturità biologica ed il grado di sviluppo psicologico che gli permettono di
discriminare gli stimoli interni da quelli esterni; ogni sensazione, ogni stimolazione, piacevole o spiacevole che sia, verrebbe riferita a sé, un sé per altro ancora indistinto, indifferenziato dal mondo esterno, dal “ non-sé ”.
Secondo Mahler ripetute esperienze di frustrazione portano il bambino, attorno ai due mesi di età, ad avere una “vaga consapevolezza” dell’oggetto che soddisfa i suoi bisogni. Questo segna l’inizio della “fase simbiotica nomale”, durante la quale il bambino si comporta come se egli e la madre fossero una unità duale onnipotente. Il termine simbiosi è utilizzato dalla Mahler per descrivere quello stadio di indifferenziazione e di fusione, in cui l’Io non è ancora differenziato da non-Io, e nel quale interno ed esterno cominciano gradualmente ad essere avvertibili come diversi. E’importante ricordare che queste fasi così primitive dello sviluppo lasciano, sia sul piano emozionale del vissuto sia su quello comportamentale, tracce evidenti che si possono cogliere lungo tutto il corso della vita.
Possiamo concludere ponendo l’attenzione su tre punti rilevanti del concetto d’identità:
1) La conquista dell’autonomia motoria induce nei bambini un iperinvestimento libidico che tende a tradursi in un rafforzamento della sicurezza in se stesso e quindi dell’autostima che, a sua volta, alimenta la spinta verso l’autonomia. Possono allora presentarsi due atteggiamenti diversi da parte dei genitori; nel primo caso, la crescente autonomia da parte del bambino, induce nei genitori dei sentimenti di gioia e di fiduciosa aspettativa che confermano nel bambino la stima di sé; al contrario la risposta dei genitori alla crescente autonomia del bambino può essere un forte distacco emotivo che può provocare nel bambino la nascita di sentimenti di ansia, irrequietezza e aggressività. Questo comportamento, messo in atto da parte dei genitori, è spesso alla base di significative distorsioni evolutive che alterano profondamente il processo di separazione-individuazione, e per conseguenza la conquista di un identità propria e distinta.
2) In questa fase si manifesta quella che Spitz (1958) definisce angoscia dell’estraneo, tutto ciò che non è familiare fa paura. Questa reazione psicologica così primitiva, utile nelle prime fasi dello
sviluppo per progredire verso un’ identità, rimane latente e attiva per tutta la vita, con il compito positivo di allarme, quindi di autodifesa in ogni situazione.
3) Infine, il modello proposto dalla Mahler ha come obiettivo dichiaratamente positivo la conquista della separazione, vista come requisito dell’autonomia.
Il processo di separazione- individuazione si conclude dunque, per quel che riguarda la costruzione dell’identità, con una prima stabile introiezione della figura materna buona che ha assorbito in sé quanto si era depositato nel bambino in termini di autostima derivate dalle esperienze di soddisfazione e di un conseguente sentimento di sicurezza.
Si può guardare al tema dell’identità, della sua costrizione e della sua patologia anche dal punto di vista della “psicologia del Sé ” elaborata da Heinz Kohut. I pazienti di Kohut manifestano l’isolamento e la dolorosa alienata condizione della società occidentale del nostro tempo, quella caratterizzata dalle cosiddette ”nuove povertà”. I pazienti che si presentavo al suo studio, descrivono la propria condizione psicologica come un essere in sospeso, che accompagna un sentimento di depressione vago e diffuso. Si trattava di pazienti con disturbi narcisistici della personalità e quindi, secondo la teoria classica, non analizzabili. Kohut aveva inizialmente affrontato questi casi secondo l’approccio della Psicologia dell’Io; studiandoli meglio, fu portato a spostare l’accento dalla dimensione conflittuale a quella reale, quale possibile causa della distorsione di personalità. Qualcosa doveva davvero essere accaduto nella prima infanzia di questi pazienti; nella idea che Kohut si veniva facendo, la causa della patologia non risiedeva nella fantasia di un trauma subito, ma in reali carenze affettive sperimentate durante il primo accadimento. Qualcosa doveva essere andato storto nell’organizzazione del Sé, nella considerazione e nel sentimento di sé: solo questo poteva dare ragione, secondo Kohut, delle sensazioni di vuoto sperimentate da suoi pazienti di non riuscire a trovare se stessi.
A partire quindi dalla patologia dei suoi pazienti, Kohut sviluppò una teoria relativa al normale sviluppo del Sé.
Essa prevedeva tre condizioni:
Quando queste condizioni vengono soddisfatte, le esperienze positive di sicurezza e di autostima conseguenti, vengono interiorizzate dal bambino attraverso un meccanismo che Kohut chiama “interiorizzazione trasmutante”; ciò in un Sé solido ed elastico, che conserva il nucleo di entusiasmo e vitalità degli stati narcisistici originari e immaturi.
Certamente, questa visione è molto lontana dal punto di vista freudiano, ed in effetti Kohut, che iniziò il suo studio operando all’interno della teoria strutturale, concluse nel suo ultimo libro che la Psicologia del Sé non era uno completamento di quella freudiana,
ma un alternativa.
2.2 L’identità, l’io e i post- freudiani
Nella teoria e nella pratica psicoanalitica sono sempre esistiti controversie e dissensi. Dagli scontri personali e dalle gelosie all’interno della cerchia originale di Freud, alle sue rotture con Jung, Adler, Rank e Ferenczi, l’ortodossia psicoanalitica è sempre stata rilevante per le lotte politiche della comunità psicoanalitica che per le sue molteplici e varie teorizzazioni.
Uno dei primi e più influenti seguaci di Freud, Sandor Ferenczi , finì col rifiutare l’idea freudiana di Io. In un saggio Ferenczi ne parlò in questi termini. “Egli rifiuta totalmente Freud, in quanto lo ritiene incapace di amare i suoi pazienti e la visione freudiana della vita psichica, poiché ha le sue radici nella pulsione/istinto. Al loro posto, egli colloca la propria visione del bambino tenero, gentile, non sessuale, naturalmente non contrario agli interessi di coloro che gli stanno intorno e, anche in un certo senso, onnisciente, saggio e sano. Questa posizione preclude ogni percezione e ogni comprensione essenziale delle conquiste tipicamente umane, cioè amore genitale e sublimazione, per quanto possano essere rare. Relegando tale registro a una condizione inferiore o svalutata, ogni azione nel mondo finisce per avere una qualità di caduta, simile a certe concezioni religiose. In tal modo, l’ideale non è più un prodotto del narcisismo trasformato secondariamente, ma è invece un ritorno concreto alla verità e alla saggezza del Bambino Innocente”.
Un ideale prepsichico prende il posto della stessa psiche, ciò entra in contrasto con una forma di acquisizione o di creazione. Noi dobbiamo trovare la nostra strada per uscire dalla condizione di caduta in cui ci troviamo e pervenire a uno stato di totalità.
Jung invece definisce l’identità come costitutivamente inconscia :
“Parlo d’identità nel caso di uguaglianza psicologica. L’identità è sempre un fenomeno inconscio, giacchè un’ eguaglianza cosciente sarebbe già la consapevolezza di due cose eguali fra loro e presupporrebbe quindi una separazione fra soggetto e oggetto così, il fenomeno dell’identità verrebbe annullato. L’identità psicologica ha come presupposto quello di essere inconscia. Essa è una caratteristica della mentalità primitiva ed è la base vera e propria della partecipation mystique, la quale infatti altro non è che un
residuo della primordiale mancanza di distinzione psichica fra soggetto e oggetto, dunque del primordiale stato inconscio; essa è, poi, una caratteristica dello stato mentale della prima infanzia e, infine, è anche una caratteristica dell’inconscio dell’uomo civilizzato adulto; perché tale inconscio, in quanto non è divenuto un contenuto della coscienza, permane durevolmente nello stato d’identità con gli oggetti. L’identità consiste innanzi tutto in una eguaglianza inconscia con gli oggetti. Essa non è un’equiparazione, un’identificazione, ma una eguaglianza data a priori, che non è mai rientrata nell’ambito della coscienza. Sull’identità si basa l’ingenuo pregiudizio che la psicologia dell’uno sia uguale a quella dell’altro, che dappertutto valgono gli stessi motivi, che ciò che piace debba ovviamente piacere anche agli altri, che ciò che è immorale per me debba esserlo anche per gli altri”.
J. Locke, Pensieri sull’educazione, (a cura di ) A. Carlini, Vallecchi, Firenze 1949.
D. Hume, Opere filosofiche vol 2, Laterza, Roma - Bari , 1992.
W. James, Psychology: The briefer corse (1892), Harper, New York.
E. Visani, Identità e Relazione, Franco Angeli, Milano, 2001.
S. Freud, “Progetto di una psicologia “(1895), vol. 4, Boringhieri , Torino 1968, pp. 201-288.
S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io), vol. 9 (1921), Boringhieri, Torino, 1977, pp. 193- 334.
M.S. Mahler.- F. Pine - A. Bergman, La nascita della psicologia del bambino.(1975), Boringhieri, Torino, 1978.
R. A. Spitz, Il primo anno di vita del bambino. Genesi delle prime relazioni oggettuali, (1958), Giunti e Barbera, Firenze, 1962.
H. Kouth, Narcisismo e analisi del Se, (1971), Boringhieri, Torino, 1977; idem, La guarigione del Sé (1977), Boringhieri, Torino, 1984
S.Ferenczi,The unwelcome child and his death instinct(1929) Intenetional Jornal of Psycho -Analisys, Torino pp.125-129.
C. G. Jung, Mysterium coniunctionis (1959), Vol.14, Tomo 1 e 2 , Boringhieri, Torino, 1990.
3.L’identità in psicologia dello sviluppo
3.1 La costruzione dell’identità
Uno degli autori più importanti che si occupato dello sviluppo della persona e della sua identità è Erikson. Pur se di estrazione psicoanalitica, egli concentra la propria attenzione sull’interazione tra individuo-ambiente tanto che definisce gli stadi di sviluppo stadi psico-sociali.
Scopo fondamentale dell’uomo è la ricerca di un una propria identità, che pur variando nel tempo, è caratterizzata dall’esigenza di un coerenza dell’Io tale da permettergli un rapporto valido e creativo con l’ambiente sociale.
Gli aspetti fondamentali del pensiero di Erikson si possono riassumere in tre punti:
1. Il ciclo vitale dell’individuo è caratterizzato da una serie di tappe evolutive (stadi) che comprendono una coppia antinomica: una conquista ed un fallimento. Questo situazione è definita “qualità dell’Io”.
2. Questi stadi non sono, come Freud, definiti da specifici momenti biologici, bensì da particolari modalità sociali.
3. Ogni tappa deve portare al rinforzo della specifica qualità positiva dell’Io: solo in questo modo il soggetto può accedere validamente allo stadio successivo.
Erikson concettualizza il ciclo di vita come una serie dei periodi critici dello sviluppo che implicano un conflitto da affrontare e risolvere prima di procedere in avanti. Le polarità di ogni stadio prevedono una crisi, un punto di passaggio cruciale, attraversando il quale lo sviluppo evolve per il meglio o per il peggio nell’orientamento della persona verso il contesto storico - sociale. Gli stadi che vengono proposti da Erikson sono otto e comprendono il periodo compreso dalla nascita alla vecchiaia:
1.stadio: Fiducia - sfiducia (da 0-1 anno)
La necessità del bambino, in questa fase, di essere accudito e nutrito che ha una natura fondamentalmente fisiologica, diventa una premessa importante per la nascita della fiducia di base in esso; fiducia basata sull’esperienza e sulla prevedibilità del mondo, l’essere soddisfatto nei suoi bisogni primari, infatti, lo rassicura e quindi fa nascere in lui un sentimento di fiducia nei confronti del mondo e di fiducia di poter influenzare gli eventi.
2.stadio:Autonomia. Dubbio - vergogna ( 2-3 anni )
In questa fase, il bambino incomincia a distinguersi dalla madre, non vedendola più come una cosa unica legata a lui, si incomincia così a sviluppare il principio della differenziazione cioè il bambino inizia a differenziare il sé dal non sé. Si sviluppano capacità come la deambulazione, la verbalizzazione, il controllo degli sfinteri. Nasce il senso di autonomia, il bambino acquisisce il coraggio di abbandonare la base sicura che è rappresentata dalla madre per iniziare a esplorare l’ambiente; invece, se il bambino si sente frustrato o deriso, cominciano ad insorgere dei sentimenti come la vergogna e il dubbio.
3.stadio: Iniziativa - senso di colpa ( dai 4 anni ai 5 anni )
Lo spirito di iniziativa è legato da una parte alla raggiunta autonomia, dall’altra alla capacità di pianificare e conquistare il mondo.
Questo periodo è contraddistinto da azioni spesso vigorose o violente che possono essere vissute dai genitori, come aggressive e lesive. Il pericolo maggiore, in questo stadio, è l’insorgere del senso di colpa.
Erikson ritiene questa stadio di estrema importanza; e, infatti, il periodo in cui comincia a formarsi anche il senso della moralità e del dovere, inoltre, se questa fase non viene risolta nel senso di aumentare ed indirizzare lo spirito d’iniziativa, i residui di tale conflitto possono esprimersi patologicamente nell’adulto come negazione isterica oppure sfociare sottoforma di malattia psicosomatica.
4.stadio: Industriosità. Senso d’inferiorità (6-12 anni )
Inizio della scolarità e necessità di ottenere l’approvazione da parte di estranei. Inizia, in questo stadio, ad imparare a leggere, a scrivere, inizia anche la competitività; se queste iniziative vengono in qualche modo bloccate, possiamo notare l’insorgere nel bambino del senso di inferiorità.
5.stadio: Identità .Confusione di ruoli (13-18 anni )
E’ il periodo della pubertà e dell’adolescenza.
In questo stadio Erikson definisce la differenza tra infanzia e adolescenza: la formazione dell’identità è un processo adolescenziale ben diverso dai processi di introiezione e di identificazione che avvengono nell’età infantile.
E’ soltanto quando il soggetto è in grado di selezionare alcune fra le sue identificazioni infantili scartandone altre, in accordo con i propri interessi, talenti e valori che egli giunge a formare la propria identità. Ma se il bisogno di trovare una propria identità, diventa ricerca esasperata di molteplici modelli in cui identificarsi, spesso discordanti, l’adolescente rischia di cadere in una cosiddetta “confusione di ruoli” che consiste nel passare da un identificazione ad un'altra , provando ruoli sociali diversi in una sorta “di turismo psicologico dell’Io” pago di se stesso, o generatore di ansie profonde, senza mai riuscire a costruire una sintesi originale del materiale disponibile. In altre parole, la formazione dell’identità per l’adolescente non consiste soltanto nell’incorporare un Io sicuro, evoluto come individuo autonomo, capace di iniziare e completare compiti soddisfacenti modellati da altri significativi, ma richiede
anche che il soggetto trascenda tali identificazioni per produrre un Io sensibile ai propri bisogni e talenti, che lo renda capace di occupare un proprio spazio nel contesto sociale circostante. Un errato sviluppo dell’ identità, in questa fase, può degenerare nei casi più gravi in forme di psicosi o di gravi psicopatie.
6.stadio: Intimità -Isolamento (19-25 anni)
Raggiunta l’identità, il giovane desidera confrontarla con altre persone. Inizia il desiderio di intimità affettiva, di condivisione dell’esperienze.
Se, invece, il processo di identità non è stato completato si sviluppa la tendenza all’isolamento.
7.stadio :Generatività - Stagnazione (26-40 anni)
E’ l’età matura l’individuo ormai adulto sente la necessità di generare, di creare, sia nel lavoro, sia nella famiglia. La generatività possiamo dire, quindi, che non riguarda solo il desiderio di mettere al mondo dei figli e di allevarli, ma di creare qualcosa di utile con il proprio lavoro, di insegnare agli altri la propria esperienza, questo include, quindi, i concetti sia di produttività che di creatività e
costituisce un momento fondamentale sia sul piano individuale che sociale. L’individuo che non riesce in questo intento si sente vuoto e svuotato, incomincia a porsi domande del tipo “cosa ho fatto della mia vita“? e la sua esistenza diventa una lunga attesa della vecchiaia e della morte.
8. stadio: Integrità dell’Io. Disperazione (da 41 anni in poi )
Questa fase corrisponde alla vecchiaia, comporta come dilemma fondamentale la conservazione del senso della propria completezza. Il ciclo della vita ormai compiuto. Se il sentimento di integrità e completezza è stato raggiunto dalla persona anziana, esso darà una soluzione soddisfacente alla paura della morte.
3.2 La teoria sullo sviluppo mentale del bambino di Piaget
La più importante teoria sullo sviluppo mentale del bambino, la prima ad averne analizzato sistematicamente, con il metodo clinico di esplorazione delle idee, la percezione della logica, è quella elaborata da Piaget . Egli ha dimostrato sia che la differenza tra il pensiero del bambino e quello dell’adulto e di tipo qualitativo sia che il concetto d’intelligenza è strettamente legato al concetto di adattamento all’ambiente. L’intelligenza non è che un prolungamento del nostro adattamento biologico all’ambiente.
L’uomo non eredita solo delle caratteristiche specifiche del suo sistema nervoso e sensoriale, ma anche una disposizione che gli permette di superare questi limiti biologici imposti dalla natura.
Piaget distingue due processi che caratterizzano ogni adattamento: l’assimilazione e l’accomodamento che si avvicendano durante l’età evolutiva. Per assimilazione s’intende quando un organismo adopera qualcosa del suo ambiente per una attività che fa già parte del suo repertorio e che non viene modificata per esempio un bambino di pochi mesi che afferra un oggetto nuovo per batterlo sul pavimento, assimila questa azione allo schema già preesistente e farà quindi la stessa cosa con qualsiasi altro oggetto; dobbiamo dire però che la nuova azione non cambia però lo schema preesistente, ma si limita ad ampliarlo e rafforzarlo.
All’assimilazione segue l’accomodamento ovvero la trasformazione delle strutture di conoscenza preesistenti, in funzione degli schemi
appena assimilati esempio la suzione del pollice implica comportamenti nuovi e diversi rispetto agli originari comportamenti di suzione del seno. Possiamo quindi dire che un buon adattamento all’ambiente si realizza quando assimilazione e accomodamento sono ben integrati tra loro.
Piaget ha suddiviso lo sviluppo cognitivo del bambino in cinque stadi:
Stadio Senso-Motorio (0- 24mesi): è caratterizzato dall’azione diretta che il bambino esegue sugli oggetti che esistono per il bambino solo nel momento e nel luogo in cui li percepisce.
Stadio pre-operatorio (da 2 a 7anni): l’intelligenza è intuita è irreversibile. Il bambino è capace di compiere azioni mentali, ma in una sola direzione. Non è in grado di valutare mentalmente in maniera adeguata il percorso di un oggetto che viene spostato né è in grado di considerare contemporaneamente di un oggetto la totalità e le sue parti. Dai 4 ai 7 anni inizia la capacità di classificare e categorizzare gli oggetti e quindi di usare un linguaggio socializzato. Prima dei 7 anni il bambino è incapace di usare le forme logiche del
discorso in questa fase il linguaggio è di tipo è di tipo egocentrico e sincretico.
Stadio delle operazioni concrete (da 7 a 11anni):il bambino diventa capace di cogliere le relazioni tra gli oggetti e gli eventi.In questa fase il pensiero diventa reversibile, la comunicazione perde le caratteristiche di egocentrismo, il giudizio morale diventa da eteronomo diventa autonomo, il bambino impara a valutare ciò che è giusto è ciò che è sbagliato.
Stadio delle operazioni formali (da 11 a 14anni): Il bambino diventa capace di padroneggiare anche realtà che non percepisce diret-tamente. Si forma il pensiero formale e la rappresentazione in astratto di azioni possibili. Dal punto di vista sociale e morale si sviluppa il senso di cooperazione, rifiuta l’assenza di regole (anomia), ma anche la presenza di regole coercitive imposte dall’esterno che non rispondono al senso di giustizia e di equità.
L’identità di una persona è anzitutto la sua unicità ovvero la sua riconoscibilità, essa consiste in tutto ciò che impedisce di
confonderla con un’ altra. Possiamo dividere l’identità in: identità oggettiva e in identità soggettiva. Per identità oggettiva intendiamo il modo cui ciascuno è riconoscibile e inconfondibile agli occhi degli altri, mentre per identità soggettiva s’intende il modo in cui ciascuno si percepisce, si descrive, ed eventualmente si accetta così com’è.
Il concetto d’identità è legato, in gran parte, al concetto di personalità, la personalità è infatti definibile come l’identità psicologica di una persona.
Gli altri due aspetti importanti dell’identità individuale sono: l’identità somatica e l’identità sociale. L’identità somatica, sancita dall’unicità dell’ DNA che caratterizza tutte le cellule del corpo dal concepimento fino alla morte, si esprime non solo nell’aspetto, ma anche nella voce, nella mimica e nel modo tipico di muovere le mani e in tanti e diversi modi di comunicare e esprimersi. E’ difficile infatti dire dove finisca l’identità del corpo e dove inizi quella psicologica; possiamo dire, quindi, che l’identità psicologica riguarda gli aspetti legati al tipo di costituzione corporea, la reattività emozionale e tutto ciò che fin dalla prima infanzia ci orienta in modo
diverso, indipendentemente dal tipo di educazione; mentre, l’identità sociale, possiamo definirla come la collocabilità di un individuo all’interno di un determinato punto del tessuto sociale. L’identità sociale è costitutiva da una varietà di fattori come il nome e cognome, lo stato civile, la cittadinanza, la residenza, la professione ecc…
3.4. Il legame madre-bambino la teoria dell’attac-camento
La capacità di creare relazioni è stata uno dei principali oggetti di studio della psicologia dello sviluppo; in anni recenti l’attenzione si è concentrata in modo particolare sul primo legame affettivo che il bambino sviluppa. Tale relazione, generalmente denominata è l’attaccamento, che possiamo definire come un legame di lunga durata, emotivamente significativo, con una persona specifica. All’interno di questo concetto viene, però, fatta una distinzione tra attaccamento come sistema comportamentale all’interno del bambino, che struttura e organizza i sentimenti per l’altro e, invece, il comportamento di attaccamento, che corrisponde al mezzo esplicito attraverso il quale vengono espressi questi sentimenti.
L’attaccamento nei bambini piccoli possiede determinate caratteristiche:
1) E’ selettivo, in quanto si sviluppa un legame specifico che non
è possibile riscontrare nei legami che il bambino sviluppa con le altre persone.
2) Implica la ricerca della vicinanza fisica.
3) Fornisce benessere e sicurezza.
4) Quando il legame di attaccamento è interrotto per l’assenza dell’oggetto di attaccamento si produce uno stato di angoscia da separazione.
Una delle teorie più famose sull’attaccamento è quella formulata da John Bowlby .
Secondo Bowlby il bambino piccolo possiede una predisposizione biologica che lo porta a sviluppare un attaccamento per chi si prende cura di lui. All’inizio il bambino mostra una serie di risposte diverse, divise da Bowlby in due categorie:
1) Il comportamento di segnalazione (il pianto, il sorriso e la lallazione);
2) Il comportamento di avvicinamento (come l’aggrapparsi, il seguire o raggiungere il genitore).
Questo comportamento all’inizio è indiscriminato, con il passare del tempo il bambino impara a riconoscere le persone che si prendono cura di lui; infatti, verso il nono mese possiamo notare dei segni inequivocabili di legami di attaccamento ben sviluppati e anche quindi l’insorgere di sentimenti di paura nei confronti di persone non familiari (paura dell’estraneo).
Una volta formatisi i legami di attaccamento, i comportamenti dei bambini assumono un carattere di intenzionalità, cioè essi imparano a pianificare le loro azioni in funzione di un obiettivo (es: il pianto intenzionale può essere utilizzato per richiamare la madre). Un ulteriore sviluppo che in questi ultimi anni ha ricevuto un attenzione sempre maggiore, riguarda ciò che Bowlby chiama “modelli operativi interni”; i bambini, verso il secondo anno di età diventano capaci di avere una rappresentazione interna del mondo in forma simbolica, sviluppando anche un modello di sé stessi, delle persone importanti che li circondano e delle relazioni che hanno con queste persone.
Tali modelli gli permettono di anticipare il comportamento dell’altro e di pianificare un adeguata linea di risposta. Sulla struttura di questi modelli complementari sono basate le previsioni che un individuo fa su quanto le sue figure di attaccamento potranno essere accessibili e disponibili, se egli si rivolgerà a loro per aiuto. Così, se un bambino ha avuto delle esperienze precoci con una figura di attaccamento pronta ad offrire aiuto e conforto, costruirà un modello di Sé come una persona degna di essere incoraggiata e che può aspettarsi di essere amata, formandosi così una rappresentazione interna degli altri come persone in grado di aiutarlo in caso di necessità. Al contrario, laddove la prontezza nella risposta ai bisogni di sicurezza non è stata assicurata dalla figura di attaccamento o laddove avrà sperimentato in quel periodo una madre rifiutante, il bambino formerà, invece un modello mentale di Sé come di una persona non degna di essere amata ed incoraggiata, ed un modello della figura di attaccamento come di una persona da cui non può aspettarsi nulla.
Le ricerche condotte all’interno della teoria dell’attaccamento infatti hanno fin dall’inizio cercato di individuare il contributo dato dalla
figura di attaccamento principale allo strutturarsi del legame affettivo.
Mary Ainsworth ha condotto uno studio longitudinale, basato su osservazioni sistematiche e ripetute nel tempo delle interazioni madre-figlio durante tutto il primo anno di vita del bambino e ha misurato con una metodica, da lei sviluppata, detta “Strange Situation”, il tipo di attaccamento sviluppato dal bambino nei confronti della madre, considerata come “base sicura“ per l’esplorazione e punto di riferimento e di conforto.
La Strange Situation è una procedura sperimentale che comprende sette episodi che avvengono all’interno di una stanza non familiare al bambino e che forniscono l’opportunità, agli osservatori, di descriverne il comportamento con la madre: in presenza di un adulto estraneo, lasciato completamente da solo e dopo il ritorno in stanza della madre. Ciascun episodio ha la durata di circa tre minuti; viene analizzato il modo in cui il bambino reagisce allo stress complessivo e il comportamento che ha con la madre quando è presente e, soprattutto, nei momenti di riconciliazione dopo gli episodi di separazione.
La Ainsworth ipotizza quindi tre tipi di attaccamento:
Possiamo quindi concludere, dai risultati degli studi, pervenuti sia dalle ricerche di Bowbly che da quelle della Ainsworth che i primi legami di attaccamento, e in particolare il rapporto che si crea tra madre e figlio, rivestono un ruolo di fondamentale importanza per un sano sviluppo del bambino e quindi anche della sua identità.
3.5 La nascita del Sé
Il Sé può essere inteso come un sistema costituito dai tratti costanti delle personalità, che viene percepito dal soggetto come continuo nel tempo, in relazione con gli altri e portatore di valori.
Il Sé permette all’individuo di adottare un particolare punto di vista da cui osservare il mondo, un riferimento che media le esperienze sociali e che organizza il comportamento verso gli altri. Ha un ruolo chiave in quanto determina le modalità con le quali ognuno di noi costruisce la realtà e quali esperienze cercare per mantenere l’immagine che abbiamo di noi stessi.
Il Sé ha un carattere differente da quello dell’organismo fisiologico proprio, inizialmente, alla nascita, non esiste ancora, in seguito compare nel processo dell’esperienza sociale, e si sviluppa in un dato individuo come risultato delle sue relazioni con altri individui all’interno di questo processo. Lewis ha differenziato due tipi di sé: il sé esistenziale e il sé categorico. Il primo ad apparire è quello esistenziale, cioè ciò che permette di sentirsi una persona distinta da tutte le altre e dotata di una propria continuità nel tempo. Un primitivo senso di distinzione, sostiene Lewis, è già presente dai 3 mesi di vita, un senso di continuità, invece, comincia ad essere presente intorno ai 9 mesi. Il sé categorico invece appare intorno ai 2 anni ed rappresenta l’abilità dei bambini di definirsi in termini di categorie quali età, sesso, dimensioni.
Una particolare attenzione è stata rivolta alla capacità da parte del bambino di riconoscersi visivamente allo specchio; a questo proposito è stato fatto un esperimento: è stata posta una macchia rossa sulla punta del naso di un bambino che veniva posto successivamente davanti allo specchio; il bambino guardando la propria immagine riflessa, avrebbe dovuto cercare di cancellare la macchia dal proprio naso e non quella dal naso nello specchio, nel primo caso, si sarebbe potuto considerare in possesso di una certa autoconsapevolezza, nel secondo caso risultava evidente la mancata acquisizione di questo comportamento.
A questo punto sorge, però, una domanda: come fanno i bambini a riconoscere se stessi? Essi possono usare due tipi di indizi: gli indizi contingenti, derivanti dal fatto che l’immagine speculare si muove
esattamente in tandem con i movimenti propri del bambino e quindi dipende da essi, e l’indizi morfologici, ossia le caratteristiche fisiche del bambino. Dai risultati della ricerca, è emerso che questa capacità non era stata riscontrata in nessun bambino al di sotto dell’anno di età, infatti la sua prima comparsa avviene circa tra i 15 e i 21 mesi d’età.
L’autoriconoscimento non è un processo improvviso; ci sono altri due importanti elementi che incidono e che dobbiamo tenere in considerazione: il linguaggio del bambino e il modo di comportarsi, a secondo che il sé sia coinvolto oppure no .
Tutti noi abbiamo un’ immagine del tipo di persona che crediamo di essere. Ciò, in parte, riflette il modo come gli altri ci vedono, il cosiddetto “sé-specchio“ di Cooley . Ma il sé rappresenta principalmente una nostra creazione, determinata dai valori e dalle predilezioni di ciascuno, che ha tra le sue conseguenze la possibilità di porre grande enfasi su alcuni aspetti più che su altri, portandoci così a un’ immagine distorta, se confrontata con quella che gli altri hanno di noi.
Il risultato dei nostri sforzi costruttivi costituisce il concetto del sé, esso si riferisce agli aspetti cognitivi dell’organizzazione del sistema del sé ed esprime la conoscenza soggettiva psicologica e fisica che gli individui hanno di se stessi. Il concetto di sé non è statico; esso è modificato dal continuo processo di autosservazione in cui tutti indulgiamo. E’ influenzato da tutte le esperienze fatte, specialmente dalle sensazioni di capacità o di incapacità causate dai successi e dai fallimenti.
Sullo sviluppo del Sé si sono confrontate varie teorie tra cui ricordiamo la teoria di Mead, teoria che ha dato origine alla corrente di studi sociologici denominata “interazionismo simbolico”. Secondo Mead il sé di ogni individuo è prodotto dall’interazione fra il soggetto e il suo ambiente: tale interazione è inizialmente una “conversazione di gesti” che progressivamente diventa uno scambio simbolico. Essenziali, per tale scambio simbolico, sono i gesti vocali che permettono di scoprire dei significati condivisi attraverso la conversazione vera e propria. Il Sé, secondo Mead, non esiste alla nascita in quanto, per il suo emergere, sono necessarie due condizioni: la capacità di produrre e rispondere a simboli e la capacità di assumere gli atteggiamenti degli altri. Mead introduce la nozione di “Altro generalizzato” riferendosi alla comunità o al gruppo sociale organizzato che, percepiti come un tutto dal soggetto, gli permettono di costruire l’unità del proprio Sé. Considerare il Sé come oggetto sociale, può causare come conseguenza, far pensare che venga determinato in modo esclusivo dall’influenza della realtà sociale. Mead evita questo rischio, riprendendo e accogliendo la distinzione fatta da James tra Io (soggetto consapevole che è capace di conoscere) e il Me (che è conosciuto dall’Io). Questa distinzione non significa che essi rappresentino due facce separate del Sé, infatti l’Io ed il Me non possono essere dissociati. Gli elementi basilari del Me sono le qualità che definiscono il Sé come conosciuto, includono tutte le caratteristiche materiali (il corpo, ciò che il soggetto possiede), sociali (i rapporti del soggetto) e psicologiche (la consapevolezza, i pensieri, i meccanismi psicologici). Secondo James ognuno organizza i costituenti del Me in una struttura gerarchica che pone nella posizione più elevata gli aspetti psicologici del Me, in posizione intermedia quelli sociali e,
nella posizione più bassa, gli aspetti corporei e materiali. L’Io, invece, rappresenta nel Sé, il principio dell’azione e dell’iniziativa, attraverso l’azione è l’io che può incidere e modificare la realtà sociale.
Mead ha avuto il merito di chiarire che l’Io, e non soltanto il Me, può essere indagato sul piano empirico; discostandosi dallo stesso James che aveva concluso circa l’impossibilità di osservare e
analizzare un presente, un fenomeno come l’Io, che è del tutto soggettivo e che può, perciò, cambiare da un momento all’altro, Mead fa infatti presente che è, comunque, possibile studiare la conoscenza che hanno i soggetti dei versanti oggettivo e soggettivo del loro proprio Sé.
Parlando del concetto di sé un sentimento ad esso molto vicino è l’autostima.
L’autostima è il sentimento che ogni individuo, maschio o femmina, ha del proprio valore e della propria capacità. Rappresenta perciò l’aspetto valutativo del sistema del sé e si riferisce all’immagine di un sé ideale che tutti noi possediamo. Possiamo parlare, quindi, di
alta autostima, quando il senso del sé e sufficientemente buono; mentre la bassa autostima implica insoddisfazione, rifiuto, disprezzo per se stessi.
Sherif e Sherif , parlando di autostima, argomentano che è il risultato ottenuto dall’individuo attraverso l’interiorizzazione delle norme, dei costumi e dei valori del gruppo sociale. La formazione del Sé è sostenuta da un sistema complesso di relazioni, da una diversità di esperienze, da differenti livelli di capacità per affrontarsi con l’habitat e che, pertanto, rispetta una multidimensionalità.
Le differenze individuali riguardo l’autostima sono state oggetto di numerose ricerche. In un classico esperimento effettuato da Coopersmith sull’autostima, in ragazzi compresi tra i 10 e gli 11 anni, ai quali venivano somministrati dei questionari, sulla base delle loro risposte, Coopersmith ha classificato i ragazzi in: soggetti con alta autostima e soggetti con bassa autostima, riscontrando che i due gruppi potevano essere distinti a seconda del tipo di rapporti instaurati con i genitori.
Coopersmith riscontrò che i ragazzi con un alta autostima avevano
dei genitori comprensivi e che li sostenevano totalmente e inoltre la stima che essi avevano di sé stessi era ugualmente alta; mentre i ragazzi con bassa autostima avevano in genere dei genitori che si rapportavano a loro in modo brusco e distante ed erano inoltre dispotici o eccessivamente permissivi, di conseguenza i ragazzi si sentivano poco apprezzati e sviluppavano un bassa opinione di loro stessi. Naturalmente, il comportamento dei genitori non è l’unica causa delle differenze individuali nell’autostima. Come afferma Harter deve essere considerato il rapporto tra autostima dei ragazzi e altre fonti di sostegno sociale; in particolare, i coetanei hanno ruolo importante nella media infanzia e nella adolescenza, ma tuttavia l’influenza che i fattori esterni hanno sull’autostima, dipende soprattutto dal bambino stesso.
Secondo Harter la conseguenza più importante sull’autostima è costituita dall’influenza esercitata sullo stato emotivo generale dell’individuo, che a sua volta, influenza il grado di motivazione e di interesse nelle occupazioni proprie di ogni età.
Ogni individuo, quindi, costituisce una realtà complessa ed elabora le proprie esperienze in situazioni diverse, ma anche in rapporto al presente e al futuro.
3.6 Il rapporto fra il sé e l’identità
Con i termini Sé ed Identità, la maggior parte degli studiosi fa riferimento a differenti processi psicologici relativi alla costruzione, mantenimento e cambiamento dell’autoconsapevolezza e dell’automonitoraggio comportamentale. Processi che regolano, quindi, il comportamento della persona nell’interazione con l’ambiente.
Come il Sé, anche l’identità è un costrutto concettuale con cui si indicano gli effetti, cognitivi ed affettivi, di molteplici processi integrativi sul piano dell’autoconsapevolezza, delle autorap-presentazioni e delle autodefinizioni condivise ed impersonate che passano attraverso i ruoli sociali. La nozione di identità è impiegata da tempo come equivalente a quella di concetto di Sé e, al di là delle sfumature che ognuna delle due nozioni esprime, ambedue rinviano all’unicità di ogni persona, ai sentimenti di individualità, di intenzionalità, alla capacità di pensare a se stessi, ad avere coscienza e conoscenza di sé.
Esiste una circolarità regolativa tra ruoli, identità e Sé, dal momento che ogni situazione, episodio o relazione, implicano cambiamenti o aggiustamenti sul piano dell’autoconsapevolezza. Circolarità attraverso cui l’individuo cerca normalmente di mantenere una coerenza tra le sue azioni e la persona che crede o rivendica di essere. Il punto centrale su cui gli studiosi del Sé concordano, siano essi psicosociologici o neurologi è che il Sé e l’identità emergono sempre da una qualche forma di relazione, interna od esterna. Circolarità attraverso cui l’individuo cerca normalmente di mantenere una coerenza tra le sue azioni e la persona che crede o rivendica di essere.
Il paradigma che domina gli studi e le ricerche sul Sé e sull’ Identità è: che l’individuo non resta passivo di fronte al prodursi dei significati che lo riguardano e che producono le rappresentazioni di sé o il suo senso d’identità personale.
Finchè gli è possibile, l’individuo partecipa attivamente a sostenere
una definizione della situazione che sia coerente con le immagini che ha di se stesso. Dall’altro l’identità, come articolato sistema di rappresentazioni unificate di sé e mediate da un ruolo, non risulta di totale proprietà della persona a cui viene attribuita, ma risiede nella struttura normativo-simbolica e nelle regole che governano l’interazione.
Cerchiamo ora di configurare le dimensioni, le strutture e i processi che attengono al Sé e all’identità personale.
L’identità personale è il risultato di diversi processi psicologici, intrapersonali ed interpersonali, che confluiscono in una struttura organizzatrice della conoscenza individuale relativa a se stessi. Attraverso l’identità personale, gli uomini e le donne non solo hanno un’esperienza cognitiva ed emotiva di Sé ma sono in grado di:
L’identità personale è anche un sistema di regole e segni condivisi, attraverso cui l’individuo da vita a una identità sociale. Mediante la capacità di utilizzare regole e significati, per esempio relativi
all’immagine di sé, l’individuo realizza atti comunicativi, produce versioni di sé, adatte al contesto e alle diverse forme dell’interazione.
L’identità personale è sostenuta da due processi:
L’autoconsapevolezza ed l’autoregolazione, il cui grado e capacità variano fra gli individui, permeano tre dimensioni dell’identità personale: a) il concetto di Sé (aspetto intrapersonale) b) la rappresentazione di Sé (aspetto interpersonale e situazionale ) c) l’identità tipizzata (aspetto intra / intergruppo).
Concetto di Sé ( area intrapersonale ): è definibile un insieme di categorie semantiche naturali rappresentate mentalmente dai concetti lessicali che concorrono a formare l’idea che una persona ha di se stessa. Il concetto di sé appare come una teoria e non come una entità esistente, a questo proposito è utile accogliere quanto proposto
da Neisser che considera il Sé concettuale come il momento di integrazione e di continuità delle varie forme di autoconoscenza ( Sé ecologico, interpersonale, esteso e privato). Il Sé concettuale è, quindi una vera e propria teoria su se stessi, caratterizzata da due sistemi di convinzione relativi al significato e valore :
1) Le caratteristiche psicologiche, somatiche e di ruolo;
2) I rapporti sé-mondo nell’ambito delle credenze attinenti alla psiche, all’anima o alla personalità.
Rappresentazioni di Sé ( area interpersonale ): possono essere considerate come sottosistemi del concetto di Sé. Il concetto di sé costituisce infatti un’ipotesi teorica che l’individuo si forma al fine di rendere l’interazione prevedibile e governabile, la rappresen-tazione di sé ne costituisce la parte operativa empiricamente proiettata nell’assunzione di ruoli e di volti di identità. Le rappresentazioni del sé influenzano l’interpretazione del proprio ruolo, agendo sulla motivazione, sul comportamento, sull’organizzazione del sintomo nevrotico, sulla disponibilità o meno al cambiamento.
Identità tipizzata ( area intra / intergruppo ): è un insieme di tratti attribuiti a se stessi, relativi ad aspetti disposizionali, comportamentali, espressivi e di ruolo, di natura prototipica e stereotipia. Una tipizzazione dell’identità è formata da un repertorio di tratti coerenti tra loro e con il contesto etico-normativo che li legittima.
4.La psicopatologia dell’identità
4.1 Breve storia dei disturbi dissociativi
La nascita di diagnosi distinte di disturbo dissociativo è strettamente intrecciata allo sviluppo della psicologia e della psichiatria moderne. E’ possibile far risalire le descrizioni cliniche della dissociazione patologica al 17° secolo, fino ad arrivare ad un numero relativamente copioso nel 19° secolo. Durante gli ultimi anni del 19° secolo, l’indagine clinica sulla dissociazione fu particolarmente intensa, alcuni interessanti resoconti li possiamo trovare nel libro di Hacking e nella bibliografia ragionata di Crabtree .
Pierre Janet , psichiatra e psicologo francese, fu tra i clinici più importanti del 19° secolo e le sue ricerche cliniche incoraggiarono fortemente l’interesse per la dissociazione. L’eredità di Janet fu però riconosciuta solo verso la fine degli anni ’70, quando l’interesse per la dissociazione ricevette un nuovo impulso. Tra i maggiori meriti di Janet dobbiamo includere: la prima descrizione clinica della bulimia nervosa, la prima discussione del disturbo ossessivo-compulsivo e la prima formulazione di una teoria di transfert in psicoterapia; tuttavia non vedendo apprezzati i suoi risultati egli perse ogni interesse per la dissociazione, la personalità multipla e l’isteria intorno al 1909.
Si verificò, quindi, all’inizio del 20° secolo, una scomparsa dei disturbi dissociativi dall’ambito psicologico e psichiatrico: ciò può essere imputato alle preoccupazioni circa la credibilità del Disturbo da Personalità Multipla e al timore che i casi fossero un prodotto iatrogeno in pazienti suggestionabili. Oggi, i disturbi dissociativi, come entità cliniche, sembrano attrarre in modo sproporzionato le persone che si interessano al funzionamento della mente umana e alle relazioni mente-corpo, anche se gli specifici disturbi della memoria e dell’identità che si osservano nella dissociazione patologica esigono una valida formulazione clinica e efficace risposta terapeutica.
Uguale importanza rivestono i disturbi dissociativi nell’infanzia e nell’ adolescenza, essi occupano un ruolo importante, in quanto è proprio in questa fase, nella quale si sviluppa l’identità, che possiamo ritrovare spesso, anche a causa di traumi emotivi e di
violenze subite, l’origine della maggior parte dei disturbi dell’identità che, se non risolti adeguatamente, possono portare allo svilupparsi di disturbi gravi nell’età adulta.
Rispetto ai casi di adulti, riscontriamo nel 19° secolo molti meno casi di disturbi dissociativi negli adolescenti; infatti, non è facile risalire precisamente alla nascita dell’interesse moderno per i disturbi dissociativi nell’infanzia e nella adolescenza. Uno dei contributi sicuramente più significati dati, durante gli anni ’80, a questa tematica è da attribuire a Richard Kluft . Egli ha dato sull’argomento delle spiegazioni, arricchite da una dettagliata fenomenologia clinica, per ampliare la consapevolezza clinica, e ha indicato il corso e la strategia del trattamento.
Inizialmente la letteratura clinica infantile era dominata solo da resoconti di singoli casi. Intorno agli inizi degli anni ’90, anche grazie ai risultati delle ricerche effettuate,è stato possibile raggiungere una certa eterogeneità sui sintomi dei disturbi dissociativi nei bambini e negli adolescenti. I dati attuali sui disturbi dissociativi nei bambini e negli adolescenti sono però ancora scarsi
rispetto alla letteratura per gli adulti, ma questo argomento ha ricevuto, anche se da poco, la dovuta attenzione per permettere di iniziare così a formulare un approccio clinico.
4.2 Definizione di dissociazione
Il temine “dissociazione” designa la distorsione, la limitazione o la perdita dei normali nessi associativi con conseguente incongruenza tra idea e idea, tra idee e risonanza emotiva, tra contenuto di pensiero e comportamento, dove è leggibile una separazione e nel contempo un allacciamento arbitrario tra i diversi elementi della vita psichica.
Tuttavia, non esiste un unica definizione di dissociazione, in quanto sull’argomento si sono confrontati diversi approcci, e ognuno di loro ha cercato di darne una propria definizione. L’approccio descrittivo del DSM IV identifica la caratteristica essenziale dei disturbi dissociativi nella “ sconessione delle funzioni solitamente integrate, della coscienza, della memoria, dell’identità, o della percezione dell’ambiente ”. Gli studiosi dell’ipnosi, come Ernest Hilgard , definiscono la dissociazione come “una forma particolare di coscienza, per la quale eventi che normalmente sarebbero collegati vengono divisi tra loro”. Louis Jolyon West , invece adottando un modello basato sull’elaborazione dell’informazione, definisce la dissociazione come “un processo psicofisiologico per il quale l’informazione in entrata, già immagazzinata, o in uscita viene attivamente distaccata dall’integrazione con le sue consuete o prevedibili associazioni”.
Nel corso dell’ultimo decennio, l’approccio dimensionale ha offerto importanti contributi alla comprensione della distinzione tra dissociazione normale e dissociazione patologica.
La dissociazione normale è caratterizzata da una serie di stati separati di coscienza caratterizzati da un restringimento del campo percettivo e dell’attenzione, ma senza una significativa dipendenza dallo stato per quanto riguarda la memoria e l’identità, si esprime nella forma di un intenso assorbimento su stimoli interni (per esempio sogni diurni) o esterni (per esempio un libro o un programma televisivo interessante). La dissociazione patologica, invece, rappresenta una deviazione dalle traiettorie normali, con un
aumento del numero delle frequenze e dei tipi di stati dissociativi in risposta a interazioni sociali e ambientali. La dissociazione patologica è caratterizzata da profondi disturbi evolutivi nell’integrazione del comportamento e nell’acquisizione di competenze evolutive e delle funzioni esecutive metacognitive. Disturbi evolutivi, a diversi livelli, vengono prodotti dalla separa-zione o compartimentalizzazione di informazioni, capacità e comportamenti nei diversi stati dissociativi, rendendo in tal modo discontinua, la conoscenza dell’individuo. Le difficoltà a integrare informazioni immagazzinate in maniera dissociata danneggiano le funzioni esecutive metacognitive e minano ripetutamente il consolidamento evolutivo del senso di Sé nel corso della vita.
4.3 Relazione tra dissociazione e trauma
Tra le ragioni per cui Pierre Janet è considerato uno dei più importanti clinici riguardo al tema di dissociazione, è il fatto che sia stato il primo a riconoscere il collegamento cruciale tra la dissocia-zione patologica e il trauma.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, molteplici studi hanno
descritto quelle che allora erano conosciute come sindrome amnestiche. Questi erano prevalentemente casi di amnesia e fughe psicogene. L’abreazione, favorita dall’ipnosi o dai barbiturici, era un trattamento elettivo. Nonostante il successo, durante la seconda guerra mondiale, della psichiatria sui campi di battaglia con il trattamento abreattivo dei sintomi dissociativi e di conversione, la rilevanza dell’associazione tra trauma e dissociazione patologica era andata perduta nella più ampia comunità di psichiatri e psicologi civili. Per esempio, fino alla fine degli anni ’70 il disturbo di Personalità Multipla era considerato ampiamente il prodotto di conflitti psicologici inconciliabili, più che di traumi reali. Diversi saggi di natura empirica documentano la significativa associazione tra esperienze traumatiche travolgenti e livelli patologici di dissociazione. I risultati di queste ricerche possono essere riassunti in quattro gruppi:
Da questi dati possiamo quindi affermare l’esistenza della relazione tra dissociazione e trauma.
4.4 Sintomi del processo dissociativo
Diverse analisi dei casi storici di Disturbo da Personalità Multipla stabiliscono che molti sintomi riferiti oggi erano già descritti nei pazienti del 18°/19° secolo. Nell’età moderna è cambiato radicalmente il modo di concepire i sintomi dissociativi, il loro rapporto con antecedenti traumatici e il loro ruolo nella vita del
paziente. Abbiamo un’idea più chiara di quali sintomi siano patognomonici per il Disturbo di Personalità Multipla e gli altri
disturbi dissociativi, e quali invece siano idiosincratici per un determinato individuo o possano essere attribuiti ad altre fonti di stress o patologia; infatti, rispetto al passato, in cui i casi conclamati di disturbi dissociativi erano pochi, quindi risultava più difficile farne una descrizione chiara dei sintomi, oggi è possibile distinguere una serie di sintomi dissociativi fondamentali e di separarli dai sintomi post-traumatici spesso associati e da altri sintomi (per esempio, somatici e affettivi).
Richard Loewenstein è stato il primo a ordinare in raggruppamenti significativi la miriade di sintomi riscontrati nei pazienti con Disturbo di Personalità Multipla e in altri disturbi dissociativi.
Frank Putman ha in seguito modificato la classificazione fatta da Loewenstein dividendo i sintomi dei disturbi dissociativi in:
post-traumatico, pur non essendo di per sé prevalentemente dissociativi, la scelta di Putman è includerli in questa suddivisione in quanto essi si presentano spesso associati alla dissociazione;
3 sintomi secondari: sono i sintomi affettivi, la somatizzazione e alcuni disturbi del Sé riscontrati di frequente nei soggetti che hanno subito traumi;
4.5 Classificazione dei disturbi dissociativi
La classificazione effettuata dal DSM-IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) include cinque tipi di disturbi dissociativi: amnesia dissociativa, fuga dissociativa, disturbo di depersonalizzazione, disturbo dissociativo dell’identità e disturbo dissociativo non altrimenti specificato.
L’amnesia dissociativa è un disturbo dissociativo acuto è generalmente limitato nel tempo, caratterizzato dall’incapacità di ricordare informazioni personali importanti. Questa incapacità
risulta troppo estesa per essere spiegata come un ordinaria dimenticanza, anche perché in questi soggetti rimane intatta la normale capacità di apprendere informazioni. Sebbene alcuni episodi di amnesia avvengono spontaneamente, in genere sono la risposta ad eventi traumatici o significativamente stressanti (per esempio disastri naturali, guerre). In genere il disturbo inizia bruscamente e generalmente i pazienti sono consapevoli di aver perso la memoria, solo una piccola parte di loro riferisce un piccolo obnubilamento della coscienza, durante il periodo immediatamente successivo al periodo amnestico.
Le amnesie dissociative sono in genere di tipo anterogrado, all’interno del DSM IV ne vengono distinte cinque tipi fondamentali:
Amnesia localizzata: periodo di tempo successivo ad un evento traumatico;
Amnesia selettiva: è l’incapacità di richiamare alcuni, ma non tutti, gli avvenimenti di un breve periodo di tempo;
Amnesia sistematizzata: perditatutte le notizie di un determinato periodo;
Amnesia generalizzata: perdita di qualsiasi ricordo riguardante l’intera vita dell’individuo;
Amnesia continua: caratterizzata dalla dimenticanza di ogni di ogni avvenimento successivo ad uno specifico momento, sebbene il paziente sia chiaramente vigile e consapevole di quello che sta succedendo in quel momento.
La valutazione clinica deve includere una storia completa che comprenda anche l’infanzia, un esame completo dello stato mentale, test cognitivi, test clinici di base di laboratorio e un esame tossicologico.
Fuga dissociativa viene definita un allontanamento improvviso e inaspettato da casa o dall’abituale luogo di lavoro, con una incapacità di ricordare il proprio passato, è possibile anche il verificarsi di una confusione circa la propria identità personale e in alcuni casi gli individui possono anche assumerne una nuova. Questi sintomi non devono essere dovuti ad un disturbo dissociativo, a effetti di una condizione medica generale o di una sostanza psicoattiva. Questa condizione, può anche portare delle conseguenze
e quindi delle menomazioni nel funzionamento sociale e lavorativo. Sebbene si creda che le cause di questo disturbo siano spesso da
rintracciare nel forte abuso di alcol, si ritiene che le origini di tale disturbo abbiano invece una base psicologica. Il fattore motivazionale principale sembra essere il desiderio di volersi allontanare da esperienze emotive dolorose. Le fughe dissociative classiche hanno in genere la durata di pochi giorni, ma in alcuni casi si possono protrarre anche per mesi; l’individuo in stato di fuga può apparire confuso, anche se rimane inalterata la capacità di interagire con gli altri in maniera adeguata. Il recupero della memoria e dell’identità primaria avviene di solito in modo improvviso e spontaneo, lasciando l’individuo sconcertato e terrorizzato. L’identità secondaria assunta durante lo stato di fuga può essere parziale o completa, essa spesso contrasta psicologicamente con l’identità primaria; questo conferma, i risultati di vari studi che affermano che le fughe rappresentano una difesa psicologica contro esperienze emotive dolorose, in particolare quelle associate all’assunzione di un rischio o di una responsabilità. In alcuni casi
può capitare che tra l’identità primaria e quella secondaria si verifichi uno stato di amnesia reciproca.
Generalmente la guarigione è spontanea e rapida ; le ricadute sono rare.
Disturbo di depersonalizzazione: è caratterizzato da sentimenti persistenti o ricorrenti di distacco dai propri processi di pensiero e/o dal proprio corpo. L’esame di realtà resta intatto. Il disturbo di depersonalizzazione può causare disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti. L’esperienza di depersonalizzazione non si manifesta in genere nel corso di un altro disturbo mentale, come schizofrenia, disturbo di panico, disturbo acuto da stress oppure un altro disturbo dissociativo, e non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a una condizione medica generale. La depersonaliz-zazione è uno dei disturbi più comuni diffuso all’interno della popolazione, dopo la depressione e l’ansia, episodi di depersonalizzazione sono relativamente comuni negli adolescenti e vanno a decrescere con l’età. Tale disturbo si può presentare in
genere in relazione a un evento traumatico (per esempio esperienze di guerra o di violenza personale), ha in genere una durata che può variare tra pochi secondi e molti anni, e ha un andamento
cronico, il disturbo risulta più frequente nelle donne e negli individui
al di sotto dei 40 anni.
Disturbo dissociativo dell’identità è caratterizzato dalla presenza di almeno due o più personalità o identità, che sono in grado di prendere alternativamente il controllo del suo comportamento.
Può trattarsi di personalità pienamente sviluppate o di personalità parziali, il loro numero è variabile, ma in genere risulta inferiore a dieci. Ogni personalità differenziata ha le proprie attitudini e i propri ricordi, una propria storia personale, una propria immagine di Sé e una propria affettività, esse possono differire l’una dall’altra anche in riguardo all’età, al sesso, alle conoscenze generali e a molte altre caratteristiche. Nella maggior parte dei casi la personalità principale non ha nessuna consapevolezza dell’esistenza delle altre, in alcuni casi, però, si vengono a creare dei rapporti tra loro che possono andare dall’amicizia all’aperta ostilità. Sono in oltre presenti in questi soggetti episodi di distorsioni della memoria e amnesie. Le transizioni da un’ identità ad un'altra sono scatenate in genere da episodi di forte stress. All’origine di questo disturbo vi sono di solito dell’episodi di gravi abusi fisici o sessuali e di importanti traumi emotivi avvenuti soprattutto durante l’infanzia. Il disturbo dissociativo dell’identità è sicuramente il più grave e il più cronico tra i disturbi dissociativi, la sua diagnosi è spesso difficile, anche perché frequentemente sono i pazienti stessi a essere reticenti sulla loro sintomatologia e nell’analisi clinica presentano sono qualche amnesia.
Disturbo dissociativo non altrimenti specificato
È una categoria nella quale i sintomi principali sono dissociativi, ma l’individuo non soddisfa i criteri di nessun altro disturbo disso-ciativo. Il DSM IV include all’interno di questa categoria anche la derealizzazione non accompagnata da depersonalizzazione, gli stati dissociativi indotti da periodi di “persuasione coercitiva prolungata e intensa”, nonché diversi stati di trance dissociativa o di possessione, che sono abituali in determinate culture, infine la sindrome di
Ganser, che possiamo definire come una produzione volontaria di gravi sintomi psichiatrici. Essa è caratterizzata dall’incapacità di rispondere correttamente a domande estremamente semplici. Questa sindrome può manifestarsi in persone con altri disturbi mentali, come la schizofrenia, gli stati tossici, le paresi, l’alcolismo e i disturbi fittizi. La sindrome è comunemente associata a fenomeni dissociativi come amnesia, fuga, alterazioni percettive e sintomi di conversione. La sindrome di Ganser è più comune negli uomini e nei detenuti. Il principale fattore presente nella sindrome è l’esistenza di un grave disturbo di personalità.
Particolare importanza nell’ambito della psicopatologia dell’identità, la rivestono anche alcuni disturbi di personalità, in particolare il disturbo Bordeline di Personalità e il disturbo Narcisistico di Personalità.
Disturbo Borderline di Personalità
Una delle prime definizioni di disturbo Borderline di Personalità risale a Stern nel 1938 egli definisce tale patologia al confine tra la psicosi e la nevrosi. In seguito anche Knight nel 1968 ne parlerà
come di una severa debolezza dell’Io e della loro capacità di creare disaccordo e malcontento nel personale. Kernberg invece nel 1968 parla di un organizzazione bordeline di personalità, come di una modalità di funzionamento caratterizzata da: diffusione dell’identità, difese primitive, esame di realtà conservato. Secondo Kernberg tale organizzazione ha uno status autonomo rispetto a quella nevrotica e psicotica, ma non rende conto di un disturbo specifico.
La difficoltà maggiore che veniva incontrata era la localizzazione nosografia di tale disturbo, questa diagnosi quindi veniva usata spesso come cestino per i casi incerti.
Grinker nel 1968 fu il primo a delineare una serie di criteri diagnostici basati su comportamenti osservabili. Si passa così dal concetto di organizzazione a quello di sindrome, con la necessità di ricercarne le caratteristiche cliniche, la comorbilità e la risposte al trattamento.
J. Gunderson è considerato l’erede più recente di Grinker in quanto si dedica ad una ricerca di tipo empirico-descrittivo: a lui si deve la maggior parte dei criteri nel DSM III e DSM IV e il più grande contributo in tema di diagnosi differenziale.
Dagli studi clinici effettuati nel corso del tempo, possiamo oggi definire il Disturbo Bordeline di Personalità come una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di Sé e dell’umore e una marcata impulsività, comparse nella prima età adulta e presenti in vari contesti:
Le cause di tale disturbo sono nella maggior parte dei casi da ricercare nell’infanzia e nell’adolescenza e sono dovute a esperienze di violenze e di traumi emotivi.
Disturbo Narcisistico di Personalità
Un quadro pervasivo di grandiosità, necessità di ammirazione e mancanza di empatia che compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti.
La caratteristica essenziale del Disturbo Narcisistico di Personalità è quindi un quadro di tendenza alla superiorità, necessità di ammirazione e mancanza di sensibilità per gli altri. Gli individui con disturbo narcisistico hanno, per la maggior parte del tempo, un’alta
considerazione di sé, essi credono di essere speciali e unici e mal tollerano di non veder soddisfatti subito i propri bisogni, sfruttano le persone per i loro scopi, sono spesso invidiosi o credono che gli altri lo siano di loro. Nelle relazioni interpersonali sono fallimentari in quanto scelgono sempre partner più deboli che li facciano sentire importanti, sono sempre insoddisfatti e, nei rari casi in cui riescono veramente a legarsi ad una persona, soffrono di una elevata ansia di abbandono e nel caso di rottura, sprofondano nella depressione.
Conclusioni
Il lavoro fin qui svolto ha voluto evidenziare il complesso meccanismo di strutturazione dell’identità nell’individuo. Abbiamo visto come lo sviluppo dell’identità attraversi varie fasi, che hanno inizio già dalla nascita con il forte legame che da subito si instaura con la madre, il cosiddetto” legame di attaccamento”, attraverso il quale il bambino incomincia a strutturare le prime basi dei legami affettivi. Il rapporto che il bambino instaura con la madre e il suo atteggiamento nei suoi confronti rappresenta un elemento fondamentale per un sano sviluppo dell’identità personale del bambino; infatti, i dati che emergono testimoniano che sempre più spesso le origini dei disturbi dell’identità sono da ricercare in traumi emotivi, violenze e maltrattamenti, subiti nell’infanzia e nell’adolescenza che se non adeguatamente superati, possono dare origine a gravi disturbi nell’età adulta.
Queste osservazioni ci portano ancora una volta quindi a sottolineare la complessità della strutturazione dell’identità personale in ogni individuo e la necessità di integrare dei modelli psicoanalisti alle tendenze cognitivistiche di interpretazione dei fenomeni psichici.
Nel corso degli ultimi decenni infatti lo studio dei sistemi emozionali-motivazionali come centrati nell’organizzazione dei comportamenti normali e patologici e dei processi di psicoterapia, è stato anche oggetto di studio dei modelli cognitivo-comportamentali, le emozioni nel lavoro clinico sono state sempre più valorizzate, con una serie di contributi da parte dei modelli cognitivo- comportamentali. E’ necessario quindi una riattualizzazione della psicologia dinamica per comprendere l’identità ed intervenire sui suoi disturbi.
Bibliografia
M. Ainsworth, Attachment: Retrospect and prospect, London, 1982.
J.Bowlby, Attaccamento e perdita: La separazione dalla madre (1973), vol 2, Trad. it. , Boringhieri, Torino, 1975.
C. H. Cooley, Human nature and social order, Child Development, New York, 1902.
S. Coopersmith, The antecedent of self-esteem, Freeman, San Francisco, 1967.
A. Crabtree, Animal Magnetism, Early Hypnotism and Psychiatry, White Plains, New York, 1988.
R. Descartes, Discorso sul metodo, Laterza, Roma-Bari, 1974.
E. Erikson , Infanzia e Società.(.1950 ), Armando Editore, Roma, 1968, p. 35.
S.Ferenczi,The unwelcome child and his death instinct(1929), Intenetional Jornal of Psycho-Analisys, Torino pp.125-129.
S. Freud, “Progetto di una psicologia “(1895), vol. 4, Boringhieri , Torino 1968, pp. 201-288.
S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), Boringhieri, Torino, 1977, vol.9, pp. 193-334.
J. A. Fridman, Le origini del Sé e dell’identità, Astrolabio, Roma, 2001, pp.44-51.
A. Fonzi, Manuale di psicologia dello sviluppo, Giunti, Firenze, 2001.
R. Grinker, et al, The Bordeline Syndrome, Basic Books, New York, 1968 .
J. Gunderson, et al, The phenomenological and conceptual interface between bordeline personality disorder, American Journal of Psychiatry, 1993, n. 150, pp. 19-27.
I. Hacking, Double consciousnessin Britain 1815-1875, Dissociation 4, 1991, pp. 134-146.
S. Harter, The perceived competence scale for children, Child development, New York, 1982, pp. 87-97.
E. Hilgard, The hidden observer and multiple personality, Internetional Journal of Clinical and Experimental Hypnosis, 1984, n. 32, pp. 248-253. American Psychiatric Association, DSM-4, 1994, p. 525.
D. Hume, Opere filosofiche, Laterza, Roma- Bari, 1992, vol. 2.
G. Invernizzi, Manule di Psichiatria e Psicologia Clinica, McGraw-Hill, Milano, 2000.
James, Psychology: The briefer corse (1892), Harper, New York.
P. Janet, The Mental State of Hysterical: A study of Mental Stigmata and Mental Accidents, Trad.it., Clark Universiry Press, New York, 1901.
G. Jervis, Psicologia dinamica, Il Mulino, Bologna, 2001.
C. G. Jung, Mysterium coniunctionis (1959), Vol.14, Tomo 1 e 2 , Boringhieri, Torino, 1990.
F. Kernberg, Relazioni d’amore. Normalità e Patologia, Raffaello Cortina editore , Milano, 2003.
R.Kluft, First-rank symptoms as a diagnostic clue to multiple personality disorder, American Journal of Psychiatry, 1987, n. 144, pp. 293-298.
K. Knight, L’intelligenza Artificiale, Mc Graw Hill, Seconda Edizione, 1992.
H. Kouth, Narcisismo e analisi del Se, (1971), Boringhieri, Torino, 1977; idem, La guarigione del Sé (1977), Boringhieri, Torino, 1984.
M. Lewis, Shame: The exposed self , Free Press, New York, 1992 .
J. Locke, Pensieri sull’educazione, (a cura di ) A. Carlini, Vallecchi, Firenze 1949.
R. Loewenstein, An office mental status examination for complex chronic dissociative symptoms and multiple personality disorder, Psychiatric Clinics of North America, 1991, n. 14, pp. 721-740.
M.S. Mahler, La nascita della psicologia del bambino.(1975), Boringhieri, Torino, 1978.
G. H. Mead, Mente, Sè e società (1934), Trad. It. , Giunti, Firenze, 1966.
G. Miti, Personalità multiple. Uno studio sui disturbi dissociativi, Carocci, 1992.
U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, trad. it. , a cura di Maria Bagassi , Bologna , 1993.
J. Piaget, La rappresentazione del mondo del fanciullo (1929), trad. it., Boringhieri, Torino, 1973.
F. Putnam, Development of dissociative disorders, in D. Cicchetti e D. J Cohen (a cura di), Development Psychopathology, Wiley-Interscience, New York , 1995, vol. 2, pp. 285-302.
F. W. Putnam, La dissociazione nei bambini e negli adolescenti, Astrolabio, Roma, 2005.
H. Rudolph Shaffer, Lo sviluppo sociale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998.
R. A. Spitz, Il primo anno di vita del bambino. Genesi delle prime relazioni oggettuali, (1958), Giunti e Barbera, Firenze, 1962.
M. Sherif-C, Sherif, Psicologia social, Aharla, Mexico,1969.
D.N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino,trad. it., Boringhieri, Torino 1987.
L. Trisciutti, La formazione del Sé, edizioni ETS, Pisa, 2004.
E. Visani, Identità e Relazione, Franco Angeli, Milano, 2001.
L. J. West, Dissociative reaction, (a cura di), Comprehensive Texbook of Psychiatry, Second Edition, William and William, Baltimora, 1967, pp. 885-899.
C. West, Prima persona plurale, Sonzogno, Milano, 2001.
E. Erikson , Infanzia e Società.(.1950 ), Armando Editore, Roma, 1968, p. 35.
J. Piaget, La rappresentazione del mondo del fanciullo (1929), trad. it., Boringhieri, Torino, 1973.
J.Bowlby, Attaccamento e perdita: La separazione dalla madre (1973), vol 2, Trad. it. , Boringhieri, Torino, 1975.
M. Ainsworth, Attachment: Retrospect and prospect, London, 1982.
M. Lewis, Shame: The exposed self , Free Press, New York, 1992 .
C. H. Cooley, Human nature and social order, Child Development, New York, 1902.
G. H. Mead, Mente, Sè e società (1934), Trad. It. , Giunti, Firenze, 1966.
W.James, op. cit. , p. 4.
M. Sherif - C. Sherif, Psicologia social, Aharla, Mexico,1969.
S. Coopersmith, The antecedent of self - esteem, Freeman, San Francisco, 1967.
S. Harter, The perceived competence scale for children, Child development, New York, 1982, pp. 87-97
U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, trad. it. , a cura di Maria Bagassi , Bologna , 1993
I.Hacking, Double consciousnessin Britain 1815-1875, Dissociation 4, 1991, pp. 134-146.
A. Crabtree, Animal Magnetism, Early Hypnotism and Psychiatry, White Plains, New York, 1988.
P. Janet, The Mental State of Hysterical: A study of Mental Stigmata and Mental Accidents, Trad.it., Clark Universiry Press, New York, 1901.
R.Kluft, First-rank symptoms as a diagnostic clue to multiple personality disorder, American Journal of Psychiatry, 1987, n. 144, pp. 293-298.
F. W. Putnam, La dissociazione nei bambini e negli adolescenti, Astrolabio, Roma, 2005.
American Psychiatric Association, DSM-4, 1994, p. 525.
E. Hilgard, The hidden observer and multiple personality, Internetional Journal of Clinical and Experimental Hypnosis, 1984, n. 32, pp. 248-253.
L. J. West, Dissociative reaction, (a cura di), Comprehensive Texbook of Psychiatry, Second Edition, William and William, Baltimora, 1967, pp. 885-899.
R. Loewenstein, An office mental status examination for complex chronic dissociative symptoms and multiple personality disorder, Psychiatric Clinics of North America, 1991, n. 14, pp. 721-740.
F. Putman, Development of dissociative disorders, in D. Cicchetti e D. J Cohen (a cura di), Development Psychopathology, Wiley-Interscience, New York , 1995, vol. 2, pp. 285-302.
D.N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino,trad. it., Boringhieri, Torino 1987.
E. Rich, K. Knight, L’intelligenza Artificiale, Mc Graw Hill, Seconda Edizione, 1992
O. F. Kernberg, Relazioni d’amore. Normalità e Patologia, Raffaello Cortina editore , Milano, 2003.
R. Grinker, et al, The Bordeline Syndrome, Basic Books, New York, 1968
J. Gunderson, et al, The phenomenological and conceptual interface between bordeline personality disorder, American Journal of Psychiatry, 1993, n. 150, pp. 19-27
Fonte: http://www.cslogos.it/uploads/File/identitapsicologia.doc
Sito web da visitare: http://www.cslogos.it
Autori del testo: sopra indicate nel documento di origine
Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.
I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore
Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).
"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco
www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve