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Capitolo primo
La famiglia e il diritto
Premessa
Nell'ordinamento attuale il termine famiglia non designa un'entita' separata , ma è riferito ad una pluralità di relazioni, la cui natura familiare è data dalla sussistenza di vincoli di varia natura: giuridici, come il matrimonio, l'affinità e l'adozione; giuridici e biologici come la filiazione legittima o naturale riconosciuta e la parentela; meramente biologici, come la filiazione non riconosciuta.
La vigente normativa individua pertanto una pluralità di modelli familiari tipici, tutelati giuridicamente. In primo luogo quello tradizionale di famiglia fondata sul matrimonio (f. nucleare, quella riferita alla coppia e figli, e f. allargata, riferita a parenti e affini). In secondo luogo la famiglia di fatto, intesa quale convivenza di due partners ed eventuali figli naturali; ancora la famiglia ricomposta in cui i partners, coniugati e conviventi di fatto coabitano con i figli nati da precedenti relazioni; infine la famiglia monoparentale, in cui un solo genitore convive con i figli.
Possiamo dire che il diritto di famiglia, quindi, è quell'insieme di norme giuridiche che disciplina queste relazioni. Queste norme appartengono a molteplici settori dell'ordinamento: al diritto privato, al d. costituzionale, penale, processuale civile e penale, ecclesiastico, tributario, del lavoro, amministrativo. Sono comprese inoltre norme di ordinamenti diversi da quello statale, quali il canonico, l'internazionale ed il comunitario.
Altre discipline scientifiche come la sociologia, la statistica la psicologia, sono interessate dalle relazioni familiari.
L'ordinamento ha adottato, nel corso del tempo, differenti politiche per regolamentare le relazioni familiari. L'intento principale è stato quello di garantire la stabilità della convivenza della famiglia. Questo obiettivo ha imposto però,nel passato, l'adozione di regole rigide, quali, ad esempio, l'indissolubilità del matrimonio, la disuguaglianza tra i coniugi e la discriminazione della filiazione fuori dal matrimonio. Questi principi hanno caratterizzato il vecchio ordine familiare, quale era ancora quello del codice civile del 1942, sino alla riforma del 1975. In quel contesto il diritto non dava molta rilevanza ai sentimenti e agli affetti, bensì al potere e alla soggezione. Nel sistema tradizionale non si poteva impugnare il matrimonio neppure per malattie fisiche e psichiche, anomalie sessuali, situazioni di gravi precedenti penali. Il punto principale era l'indissolubilità del vincolo matrimoniale vigente sino al 1970 (Legge n.898, che consentiva lo scioglimento solo in casi determinati). Il matrimonio era una realtà istituzionale, che non poteva essere messa mai in discussione dagli sposi, neppure se concordi e senza figli. Neglia anni sessanta si è assistito ad una trasformazione sociale dove la moglie ha maturato sicurezze e responsabilità fuori dalla famiglia, i figli una loro progressiva autonomia. In breve, i vincoli di soggezione si sono allentati , per fare posto alle libere scelte, sino ad arrivare al divorzio, all'eguaglianza tra i coniugi e alla parità tra i figli legittimi e naturali.
Come si è detto, il diritto di famiglia ha subito molti cambiamenti nel corso degli anni ed è quindi opportuno ripercorrerne l'evoluzione, partendo dalla codificazione napoleonica.
Il codice napoleonico
Il codice civile francese del 1804 ha regolato organicamente l'intero diritto di famiglia che, nonostante profondi mutamenti dei motivi ispiratori è giunto sino ad oggi.
Il matrimonio civile era l'unica forma di unione personale. Il marito doveva proteggere la moglie ed essa obbedire al marito. Essa inoltre era obbligata ad abitare col marito e seguirlo sempre. Egli era obbligato a tenerla sempre presso di sè e darle tutto ciò che era necessario ai bisogni della vita, in proporzione alle sue possibilità. La donna nulla poteva donare o acquistare senza il suo permesso, fatta eccezione per quella che esercitava la mercatura, che era libera solo negli acquisti concernenti la sua attività.
La condizione di totale sottomissione della donna è molto evidente.
Il codice napoleonico disciplinava lo scioglimento per divorzio, che poteva essere pronunziato solo dal marito per adulterio della moglie, mentre essa poteva domandare il divorzio per adulterio del marito solo se la sua concubina dimorasse nella casa comune. Era inoltre possibile chiedere il divorzio (art. 233) se si riusciva a provare che la vita in comune era insopportabile. Il codice disciplinava anche la separazione personale per coloro che, per motivi religiosi, non volevano sciogliere il vincolo. Non era ammessa però la separazione consensuale. Con la caduta di Napoleone e la Restaurazione il divorzio fu soppresso.
In materia di filiazione, il codice stabiliva che il figlio concepito durante il matrimonio aveva per padre il marito. Il padre poteva disconoscere la paternità solo se riusciva a provare di essere stato impossibilitato fisicamente a coabitare con la moglie dal 300° al 180° giorno prima della nascita. Il marito doveva agire entro un mese dalla nascita del figlio ed entro due mesi se era stato lontano da casa al momento della nascita. Era prevista la facoltà di riconoscimento dei figli naturali.
L'adozione aveva soprattutto la funzione di fornire un erede a chi non ne aveva. Poteva adottare solo chi aveva compiuto 50 anni ed era senza figli. L'adottato doveva avere comunque la maggiore età ed aveva, sull'eredità dell'adottante gli stessi diritti dei figli legittimi al momento dell'adozione. Nel sistema del codice, il figlio era soggetto all'autorità dei genitori sino alla maggiore età. Il figlio non poteva abbandonare la casa paterna senza il permesso del padre. Il padre, inoltre, per gravissimi motivi, poteva farlo anche arrestare.
Il codice attribuiva diritti successori solo ai figli legalmente riconosciuti. I figli naturali riconosciuti erano chiamati a concorrere all'eredità del padre e della madre, ma solo nella misura di 1/3 rispetto ai figli legittimi.
Il regime patrimoniale della famiglia napoleonica era quello della comunione.
Il codice napoleonico ebbe vasta applicazione nell'Europa continentale ed in parte anche in Italia.
Il codice dell'Unità
Il codice civile unitario, entrato in vigore nel 1865, fu molto condizionato dal codice napoleonico ed infatti si ritrova ancora in esso la netta disparità di condizione tra uomo e donna.
Il dato di maggiore rilievo del nuovo codice fu l'introduzione del matrimonio civile. Il marito era sempre il capo della famiglia e la moglie, oltre ad essere obbligata ad accompagnarlo ovunque lui ritenesse opportuno fissare la propria residenza, assumeva il cognome del marito, cosa invece non prevista nel codice napoleonico. Anche con il codice unitario la moglie non poteva donare, contrarre mutui, cedere capitali, senza l'autorizzazione del marito. La morte di uno dei coniugi era la sola ragione di scioglimento del vincolo matrimoniale. Era ammessa la separazione personale per colpa, cioè per violazione dei doveri matrimoniali. Il marito, come al solito, era agevolato, poichè si riconosceva a lui la colpa solo se la sua concubina dimorava in casa. Il tribunale decideva a chi affidare i figli.
Per la filiazione, il marito era riconosciuto padre di tutti i figli nati durante il matrimonio. Non potevano essere riconosciuti figli adulterini e figli incestuosi, ma nel caso di figli naturali riconosciuti, il genitore era tenuto a mantenerli, educarli ed istruirli. La ricerca della paternità era molto limitata ed al figlio non era ammesso fare indagini sulla maternità e sulla paternità.
In famiglia netta era la supremazia maschile. La legge obbligava il figlio di qualunque età di onorare e rispettare i genitori. Il figlio non poteva abbandonare la casa senza consenso del padre. Il padre rappresentava i figli ,ne amministrava i beni e ne aveva anche l'usufrutto sino alla loro maggiore età. In caso di morte del padre, l'usufrutto passava alla madre.
Il codice unitario adottava come regime legale dei beni quello della separazione. La dote della moglie però, era amministrata dal marito ma egli non ne poteva disporre. Nelle successioni dei genitori, i figli naturali erano ammessi solo se riconosciuti, ma vevano diritto alla metà della quota che sarebbe loro spettata se figli legittimi.
Il codice del 1942
Il codice del 1865 rimase pressoché immutato sino alla promulgazione del codice del 1942.
Nel periodo di transizione, la prima novità riguardò l'abolizione dell'autorizzazione maritale, avvenuta nel 1919. Altro evento di rilievo fu l'introduzione di una nuova formula matrimoniale a seguito del Concordato del 1929 fra lo Stato italiano e la Santa Sede.
L'art. 34 introdusse una forma matrimoniale complessa: il matrimonio è celebrato dal ministro del culto cattolico ed è regolato integralmente dal diritto canonico, ma acquista effetti civili a seguito della trascrizione dell'atto nei registri della stato civile.
Il Concordato prevedeva che giudice della validità del vincolo fosse soltanto quello canonico, le cui decisioni avevano riconoscimento nella sfera civile. Oggi, con le modificazioni introdotte nel 1984, la materia è regolata in modo da consentire una maggiore ingerenza agli organi giurisdizionali dello Stato.
Il codice del '42 risentiva molto del clima del periodo fascista. Si è prilivegiava la famiglia a discapito del singolo, enfatizzando peraltro i profili dell'autorità all'interno della stessa.
Il matrimonio era indissolubile e, nell'ambito dei diritti e doveri nella famiglia, si segnalava la norma dell'art. 144, intitolata potestà maritale, secondo la quale il marito era capo della famiglia, la moglie seguiva la condizione civile di lui, ne assumeva il cognome e doveva seguirlo ovunque lui ritenesse opportuno. La moglie non poteva lavorare senza il consenso del marito, come non poteva avere una propria vita sociale. Questa disparità la si notava anche nella eventuale colpa per separazione, poichè si rifaceva al cod. napoleonico. Bisogna precisare, però, che anche se la moglie doveva seguire il marito nella residenza da lui scelta, l'art 153 le permetteva di chiedere la separazione se il marito non avesse scelto una residenza conveniente alla sua condizione economica. Il coniuge colpevole aveva diritto solo agli alimenti.
In materia di rapporti patrimoniali c'era la separazione dei beni.
Ai coniugi era permesso di regolare gli effetti patrimoniali attraverso una convenzione. Il codice disciplinava la comunione convenzionale. Si trattava di comunione degli utili e degli acquisti, ed essa era rappresentata dal godimento di beni mobili ed immobili presenti e futuri dei coniugi e degli acquisti fatti durante il matrimonio, tranne quelli derivanti da donazione o successione.
In regime di filiazione perdurava la diparità tra fil. legittima e quella naturale. Intanto, il codice privilegiava la presunzione di legittimità dei figli nati durante il matrimonio. Il marito poteva disconoscere il figlio in casi rarissimi (assente dal 300° al 180° giorno prima della nascita). Fra la verità naturale e la stabilità della famiglia si privilegiava quest'ultima, a conferma di quanto detto prima. I figli adulterini non potevano essere riconosciuti se non procreati prima del matrimonio o riconosciuti dopo la morte di un coniuge. In presenza di altri figli legittimi, ciò poteva avvenire solo con decreto reale e solo con la maggiore età di questi ultimi.
L'adozione era permessa a chi avesse superato i 50 anni, privo di figli legittimi.
Il diritto di famiglia nella Costituzione
Il sistema del cod. del '42 era lontano dai principi di eguaglianza giuridica e morale già presente nella Costituzione (art. 29 e 30), anche se essa era stata elaborata più o meno in quegli anni. Bisogna dire che il codice cercava di legittimare più la famiglia che il singolo coniuge. Alla preparazione della Costituzione ,invece, molti furono i motivi che crearono discordanze fra le varie forze politiche che parteciparono alla sua stesura. I cattolici volevano il riconoscimento dello Stato di una famiglia come unità naturale e fondamentale della società. I laici, invece, si opponevano a quest'unico modello di famiglia.
La formula poi introdotta fu quella dell'eguaglianza morale dei coniugi nel matrimonio ( art. 29, secondo comma), con i limiti stabili dalla legge a garanzia dell'unità familiare.
Era sempre viva però la supremazia del marito come capo famiglia.
Molto si discusse sulla indissolubilità del matrimonio, che non passò per soli 3 voti. Si discusse molto anche dei figli nati fuori dal matrimonio, che la legge cercò di proteggere assegnando loro ogni tutela giuridica e sociale,compatibile però con i diritti della famiglia.
Molto raramente però la famiglia era messa in disparte nel rapporto figli-genitori, per essere sostituita da altri organi dello Stato. L'ordinamento perciò era fortemente impegnato nella tutela della famiglia.
Con l'art 31, comma 2 Cost. erano protetti la maternità, l'infanzia e la gioventù e con esso si ponevano le basi alla realizzazione degli obiettivi di politica sociale che hanno fortemente segnato il vigente ordinamento.
La definizione di famiglia, quindi, esclude ogni altra relazione che non sia unita dal vincolo matrimoniale a discapito della famiglia di fatto. Già da tempo, però, abbiamo visto che si è ritenuto opportuno estendere le stesse garanzie offerte alle famiglie legittime anche a quelle di fatto, poiché quest'ultima si presenta come formazione sociale nella quale i conviventi svolgono la propria personalità (art. 2 Cost).
La riforma del diritto di famiglia
Verso la fine degli anni settanta, anche su invito della Corte costituzionale, si sentiva la necessità di attuare una radicale riforma della disciplina codicistica del diritto di famiglia. Il percorso legislativo non fu breve e giunse a compimento solo il 19/05/75 con la legge 151 che innovava integralmente la materia.
Bisogna ricordare che già era stata approvata una nuova legge sull'adozione, che innovava alcuni elementi già presenti nel codice. Allo stesso tempo, però, creava il nuovo istituto dell'adozione speciale, riservata a coniugi uniti in matrimonio da almeno 5 anni, non separati neppure di fatto, con riferimento a minori con meno di 8 anni, dichiarati in stato di adattabilità. Con l'adozione ,l'adottato prende il cognome degli adottanti ed acquista lo stato di figlio legittimo.
Altra importantissima legge da menzionare è quella dello scioglimento del rapporto.
La riforma del diritto di famiglia ha totalmente innovato la disciplina della famiglia. Valorizzata la volontà di coniugi all'atto della celebrazione del matrimonio (art. 122 e 123 c.c.), crea la parità nei poteri familiari (art. 143, 144, 145, 1447 c.c.).
Svincolata la separazione personale dal principio della colpa, l'art. 151 c.c. prevede tra le cause " fatti importanti da rendere intollerabile la prosecuzione del rapporto o da recare grave pregiudizio all'educazione della prole".
Nei rapporti patrimoniali, la riforma ha introdotto la comunione dei beni e regolato l'impresa, per valorizzare il lavoro svolto dalla donna all'interno del nucleo familiare o nell'impresa del coniuge.
Equiparate filiazione legittima e naturale (art. 261 c.c.), anche in sede successoria, viene eliminato il divieto di riconoscimento dei figli adulterini (art. 253).
Verso un nuovo diritto di famiglia
Come si è notato, con la riforma del '75, i diritti del singolo hanno avuto una protezione maggiore rispetto alle ragioni dell'istituto familiare in sé. Questa è stata poi la tendenza creatasi .Con la l. n. 74 del 1987, per esempio, il periodo della separazione è passato da 5 (o addirittura 7 anni, in caso di opposizione dell'altro coniuge) a 3 anni. Ad ottobre si è anche discussa la possibilità di accorciare il periodo ad un solo anno, ma la proposta non è passata.
Importanti anche le recenti disposizioni (art. 154 c.c.) in caso di violenza familiare con l'allontanamento del coniuge o convivente responsabile.
Nella famiglia coniugale, per assicurare una maggior tutela nei riguardi del coniuge economicamente più debole, sono impediti atti di disposizione del coniuge proprietario relativamente alla casa coniugale e ai beni indispensabili per la convivenza familiare. In relazione ai rapporti patrimoniali si è proposto di semplificare o abrogare la comunione legale.
In tema di filiazione è da più parti auspicata una regolamentazione della fecondazione assistita dela famiglia ricomposta. Sono sempre maggiori gli strumenti di tutela nei riguardi dei minori, con riguardo ai comportamenti dei genitori.
Il diritto non pone regole nella stabilità della famiglia, ma il diritto dei genitori non può compromettere quello dei figli. Notiamo, così, sempre maggiore attenzione verso i minori, ai loro bisogni, ai loro diritti.
La Convenzione O.N.U. del 1989 è il momento più significativo di questa tendenza e predispone uno statuto dei diritti del fanciullo.
Molto importante è l'affermazione del suo diritto a partecipare in prima persona alla propria formazione ed alle scelte che lo riguardano. Inoltre, nella procedura di separazione dei genitori, può partecipare e far conoscere la sua opinione(art.9,comma 2).In generale, poi, l'art. 12 stabilisce il diritto del fanciullo di esprimere la sua opinione in ogni questione che lo interessa. Si assicura, in tal modo, la comunicazione e l'interazione tra figli e genitori.
Altrettanto innovativa la Convenzione Europea sull'esercizio dei diritti dei bambini (Strasburgo 1996),firmata ma non ancora ratificata in Italia, che riconosce al minore, dotato di sufficiente capacità di discernimento, il diritto di ricevere ogni informazione, di essere consultato, di esprimere le proprie opinioni e di essere informato sulle conseguenze della messa in pratica delle sue opinioni, in ogni procedimento che lo interessi personalmente.
Tante le nuove leggi approvate negli ultimi anni. Da mettere in risalto la l. n. 269 del 3 agosto 1998 contenente norme contro lo sfruttamento della prostituzione, pornografia e turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù e la legge n. 154 dell'aprile 2001, contenente misure contro la violenza nelle relazioni familiari.
In Italia ,negli ultimi tempi, si discute in sede parlamentare dell'affidamento dei figli.
Si vuole generalizzare l'istituto dell'affidamento congiunto, col presupposto che il minore ha diritto a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con i due genitori e a ricevere cura, educazione e istruzione da ciascuno di essi, anche dopo la loro separazione personale, lo scioglimento, la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Capitolo secondo
Il matrimonio
Premessa
Secondo l'art.29 della Cost. e secondo una tradizione culturale tuttora radicata, il matrimonio è il fondamento della famiglia.
Nel nostro Paese questo modello tradizionale è il più diffuso ed il più regolato dalla legge, anche se da tempo sono conosciute realtà di convivenza familiare senza matrimonio.
Secondo una matrice canonistica, il termine matrimonio è di significato bivalente. Il vocabolo designa, in primo luogo, l'atto che lo fa va venire ad esistenza, che è officiato dall'ufficiale dello stato civile, secondo le regole del codice civile o dal ministro del culto cattolico, secondo le leggi speciali in materia, oppure dai ministri dei culti ammessi nello Stato. Lo stesso termine matrimonio designa anche il rapporto che si instaura tra gli sposi a seguito della celebrazione.
Il matrimonio-atto viene configurato come un negozio bilaterale, "puro" poiché non possono essere poste delle condizioni, e "solenne" perché rappresenta una manifestazione della volontà. Con riferimento al matrimonio-rapporto possiamo definirlo come "comunione spirituale e materiale tra i coniugi".
E' necessario ricordare che dal matrimonio scaturiscono i vincoli di parentela che producono molteplici effetti regolati dalla legge.
La promessa di matrimonio
Secondo la giurisprudenza la promessa di matrimonio (79-81 c.c.) si identifica, alla stregua del costume sociale, nel cosidetto fidanzamento ufficiale. Dobbiamo ricordare però, che l'art.79 c.c. sancisce la non vincolatività della promessa di matrimonio.
Tuttavia la promessa di matrimonio produce alcuni e limitati effetti giuridici, quali la restituzione dei doni e il risarcimento dei danni, regolati rispettivamente dagli artt.80 e 81 del c.c..
Il codice prevede che il promittente possa chiedere la restituzione dei doni purchè dopo la promessa sia mancata la celebrazione del matrimonio e sussista un nesso di causalità tra doni e promessa.
I doni modici non vanno restituiti se la condizione economica del donatore non è modica.
I doni suscettibili di restituzione vanno distinti dalle donazioni obnunziali previste dall'art. 785 c.c., che si configurano come vere e proprie donazioni.
I doni fatti per manifestare affetto e sono dunque dettati da sentimenti affettivi, non si restituiscono. Quelle donazioni, invece, che produrrebbero effetto in seguito alle nozze e sono fatte in vista della futura convivenza coniugale, avendo la funzione di contribuire alla formazione del patrimonio della famiglia, si restituiscono.
La domanda di restituzione va proposta entro un anno dal giorno in cui s'è avuto il rifiuto di celebrare il matrimonio o dal giorno della morte di uno dei promittenti.
Per ciò che concerne il risarcimento dei danni, l'obbligo risarcitorio sorge se il promittente, senza giusto motivo ricusi di eseguire la promessa o con la propria colpa abbia dato valido motivo al rifiuto dell'altro. Per la giurisprudenza, motivi validi per ricusare la promessa sono il fallimento o la perdita del lavoro di un promittente, che non si sente più in grado di affrontare la formazione della nuova famiglia.
Il danno risarcibile è circoscritto alle spese fatte a causa della promessa di matrimonio, quali ad esempio quelle di viaggio, di preparazione della cerimonia nuziale, di acquisto di beni destinati ad essere utilizzati soltanto in occasione del matrimonio.
Le condizioni per contrarre matrimonio
Il codice civile, agli artt. 84-90, enuncia le condizioni necessarie per contrarre matrimonio e la loro mancanza è di regola motivo di invalidità. Ci sono ulteriori presupposti che debbono sussistere, ai quali la legge non si riferisce espressamente nell'elencare le condizioni necessarie per contrarre matrimonio.
Il matrimonio, infatti, presuppone la diversità di sesso tra gli sposi, lo scambio del consenso, la forma. La dottrina distingue tre categorie di requisiti per contrarre matrimonio: quelli necessari per l'esistenza giuridica dell'atto, quelli prescritti come condizione di validità del matrimonio (impedimenti dirimenti), quelli che ne condizionano la semplice regolarità (impedimenti impedienti). Gli impedimenti sono dispensabili, se possono essere rimossi con autorizzazione giudiziale, o non dispensabili.
Con la riforma del '75 l'età minima per entrambi i nubendi è di 18 anni. In casi eccezionali, ai sensi dell'art. 84, comma 2 c.c., il tribunale per i minorenni, su istanza dell'interessato, accertata la sua maturità psicofisica e la fondatezza delle ragioni addotte, sentito il pubblico ministero, i genitori o il tutore, può ammettere, per gravi motivi, al matrimonio chi abbia compiuto i 16 anni. I gravi motivi vanno intesi non come le ragioni che inducono a celebrare il matrimonio (per es. una gravidanza), ma come le ragioni che inducono ad anticiparlo, risultando apprezzabilmente pregiudizievole per i minore l'attesa fino alla maggiore età. I gravi motivi non debbono essere valutati per il male che potrebbe ricadere sul minore se il matrimonio non fosse autorizzato, ma per il bene che dal matrimonio potrebbe derivare alle parti.
A norma dell'art.85 c.c., l'interdetto per infermità di mente non può contrarre matrimonio e questa norma risiede nell'esigenza di proteggere l'incapace.
L'ordinamento italiano osserva il principio monogamico, per cui l'art. 86 c.c. stabilisce che non può contrarre un matrimonio chi sia ancora vincolato ad un precedente matrimonio. E' questa la libertà di stato. Il divieto risponde ad esigenze di ordine pubblico e vincola anche lo straniero la cui legge nazionale consenta una pluralità di coniugi. La violazione del divieto, oltre alla nullità del secondo matrimonio, comporta anche la sanzione penale per il delitto di bigamia.
Per ciò che concerne la parentela, l'art. 87 c.c. attribuisce rilievo impeditivo ai legami derivanti da consanguineità, affinità, adozione o affiliazione. La parentela, anche naturale, in linea retta all'infinito e in linea collaterale di secondo grado - fratelli e sorelle germani, consanguinei o uterini - dà luogo ad impedimenti non dispensabili.
La parentela di terzo grado in linea collaterale - zio/a e nipote - è invece dispensabile. L'impedimento derivante da affinità che sorge tra un coniuge e i parenti dell'altro coniuge - suocero e nuora, suocera e genero, cognato e cognata - è dispensabile. Per l'impedimento da adozione vanno ricordati i numeri 6 e 9 dell'art. 87 e riguardano l'adozione civile dei maggiori d'età. Nel caso di adozioni di minori, dove l'adottato acquista lo stato di figlio legittimo, valgono i divieti dei figli.
L'art.88 c.c. riguarda il divieto di celebrare matrimonio tra persone delle quali l'una sia stata condannata per omicidio o tentato omicidio sul coniuge dell'altra. Deve trattarsi però di omicidio o di tentato omicidio volontario e resta esclusa l'ipotesi colposa.
L'art. 89 c.c. fissa il divieto temporaneo di nuove nozze, per assicurare l'attribuzione certa della paternità ed evitare così possibili conflitti. Pertanto, la donna prima di contrarre un nuovo matrimonio, deve attendere che siano trascorsi 300 gg. dalla morte del precedente coniuge o dal passaggio in giudicato della sentenza di divorzio e di cessazione degli effetti civili o di annullamento del precedente matrimonio.
In tre casi il divieto di nuove nozze non opera: 1)se il matrimonio è dichiarato nullo per l'impotenza, anche soltanto di generare, di uno dei coniugi; 2) quando il matrimonio è stato sciolto per inconsumazione; 3) se lo scioglimento del matrimonio è stato pronunciato per separazione personale protrattasi per oltre tre anni.
L'impedimento può essere dispensato con provvedimento del tribunale quando sia inequivocabilmente escluso lo stato di gravidanza o se risulti, da sentenza passata in giudicato, che il marito non abbia convissuto con la moglie nei 300 gg. precedenti lo scioglimento del matrimonio. Bisogna ricordare però, che l'impedimento, in base alla classificazione sopra ricordata, è soltanto impediente; se, nonostante il divieto, le nozze vengano celebrate, sono valide anche se i coniugi e l'ufficiale dello stato civile intervenuto alla celebrazione incorreranno nella sanzione pecuniaria di cui all'art. 140 c.c..
Le formalità preliminari del matrimonio: la pubblicazione
Il matrimonio deve essere di regola preceduto dalla pubblicazione, che consiste nell'affissione alla porta della casa comunale, per la durata di almeno 8 giorni, di un atto contenente i dati dei futuri sposi. Ciò affinché sia data a terzi la possibilità di opposizione e per accertare l' esistenza di impedimenti al matrimonio. La mancanza della pubblicazione non consente la celebrazione del matrimonio, che deve essere celebrato dal 4° giorno dopo la fine della detta pubblicazione ed entro i centottanta giorni. Per gravi motivi il tribunale può ridurre i tempi della pubblicazione e in caso di morte imminente di uno degli sposi addirittura essa può mancare.
L'omissione della p., in tutti i modi, non invalida il matrimonio, ma è prevista in tal caso un'ammenda di cui all'art. 134 c.c.
Le opposizioni al matrimonio
Legittimati a proporre l'opposizione al matrimonio, che da luogo a un procedimento contenzioso davanti al tribunale, sono i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti e i collaterali di terzo grado. Compete al curatore e al tutore in caso di curatela o tutela. La causa di opposizione è costituita anche da un precedente matrimonio(la legittimazione spetta al coniuge del nubendo) o anche dal divieto di nuove nozze( la legittimazione spetta ai parenti del precedente marito).In caso di matrimonio nullo, a colui col quale era stato contratto il detto matrimonio e ai suoi parenti.
La celebrazione del matrimonio
Ai sensi dell'art. 106 c.c. il matrimonio deve essere celebrato pubblicamente nella casa comunale, davanti all'ufficiale dello stato civile, dove gli sposi hanno richiesto la pubblicazione. Se uno degli sposi, per infermità o gravi motivi, non può recarsi alla casa comunale ,il matrimonio si celebra in altra sede, ma col doppio dei testimoni. Per motivi simili, il matrimonio può essere celebrato in altro comune.
Per l'art. 107 c.c. la formula del matrimonio prevede:
la lettura da parte dell'ufficiale di stato civile degli artt. 143, 144, 147 c.c. sui diritti e doveri dei coniugi, la dichiarazione di volersi prendere in sposi, e la dichiarazione dell'ufficiale che i due sono uniti in matrimonio. Da questo momento si riproducono gli effetti legali sui due, che sono oramai coniugi.
Subito dopo l'uff. di stato civile compila l'atto di matrimonio, nel quale devono essere riportate le dichiarazioni di eventuali riconoscimenti o la legittimazione di figli naturali, o la relativa scelta del regime della separazione dei beni.
Il matrimonio può essere anche celebrato per procura. Esso è ammesso, in tempi di guerra, ai militari o alle persone al seguito delle forze armate.
Le singole cause di invalidità del matrimonio
Le invalidità matrimoniali trovano la loro disciplina nella sezione sesta, intitolata "Della nullità del matrimonio" (artt. 117-129 bis c.c.).
La riforma del '75 ha valorizzato e privilegiato molto le ragioni del singolo rispetto alla stabilità del matrimonio, ragion per cui si sono notevolmente allargate le cause di invalidità del matrimonio.
E' opportuno precisare che la legge non fa alcun richiamo alla inesistenza del matrimonio. Stesso discorso per la dottrina e la giurisprudenza, se non in casi estremi(la mancata celebrazione ,per esempio, il mancato consenso delle parti).
La titolazione della sezione sesta, "Della nullità del matrimonio" raggruppa tutte le ipotesi di invalidità. Nell'ambito delle norme ivi contenute. Il legislatore non usa mai il termine nullità, ma nel regolare le invalidità , parla, a volte, di impugnabilità del matrimonio, oppure di azione di annullamento del matrimonio.
Le invalidità derivanti da assenza delle condizioni per contrarre matrimonio
La mancanza di libertà di stato.
L'art 86 c.c. prescrive che non può contrarre matrimonio chi è vincolato da matrimonio precedente. Non è certamente valido il matrimonio celebrato dal coniuge dell' assente. Il matrimonio però non può essere impugnato finchè dura l'assenza e solo con il ritorno dell'assente viene fatta valere la nullità.
Il coniuge del presunto morto, al contrario, riacquista la libertà di stato e può validamente celebrare un nuovo matrimonio. Se, però, il presunto morto ritorna o ne è accertata l'esistenza in vita, il matrimonio è nullo. Deve essere, però, impugnato, altrimenti conserva la sua validità.
I vincoli di parentela, adozione, affinità e l'impedimento per delitto.
L'art. 87 c.c. invalida il matrimonio contratto se c'è vincolo di parentela, con il divieto di ordine pubblico dell'incesto.
Bisogna distinguere però se l'impedimento sia dispensabile o meno. Nel primo caso l'azione non può essere proposta trascorso un anno dalla celebrazione del matrimonio; nel secondo caso, invece, l'invalidità è insanabile e non prescrittibile.
Anche il matrimonio celebrato nell'inosservanza dell'impedimento da delitto previsto dall'art. 88 c.c. è nullo e detta nullità è insanabile ed imprescrittibile.
Il difetto d'età.
IL matrimonio contratto da chi non ha compiuto i 18 anni (o 16 non autorizzato dal tribunale per i minorenni) può essere impugnato dai coniugi, da ciascuno dei genitori e dal pubblico ministero.
IL matrimonio dell'interdetto
L'art. 119 del c.c. prevede che il matrimonio di chi è stato interdetto per infermità di mente possa essere annullato a richiesta del tutore, del p.m. e di tutti coloro che abbiano un interesse legittimo. L'infermità però deve, in ogni caso, preesistere prima del matrimonio.
Il matrimonio dell'incapace naturale
In base all'art. 120 c.c. può essere impugnato un matrimonio quando uno dei due coniugi è incapace di intendere o di volere al momento della celebrazione del matrimonio. Se l'altro coniuge ne ignora l'incapacità, potrà in seguito esercitare azione di annullamento per errore.
Lo stato di incapacità ,tuttavia, deve essere accertata tramite consulenza tecnica.
L'azione non può essere proposta se vi è stata coabitazione per un anno dopo che il coniuge incapace abbia recuperato la pienezza delle facoltà mentali.
Le invalidità derivanti da vizi del consenso
L'art. 122 c.c. indica come cause di annullabilità del matrimonio la violenza, il timore e l'errore.
La violenza
La violenza sia morale che fisica è una mancanza assoluta del consenso. Essa deve essere però effettiva e non presunta. La violenza può essere esercitata o dall'altro sposo o da terzi, e in questo caso può essere ignorata dallo sposo. La minaccia può consistere non solo nella lesione dell'integrità fisica, ma anche dell'integrità morale, come l'onorabilità e la reputazione. Legittimato all'impugnazione è solo il coniuge il cui consenso è stato estorto con violenza .
Il timore
Col termine di timore si intende l'impulso psicologico che la percezione di un pericolo esercita sulla persona. Il timore che ha determinato il consenso è rilevante solo, però, se assume carattere di eccezionale gravità derivante da cause esterne.
La causa esterna può consistere sia in un comportamento umano, sia in una situazione oggettiva. Il primo quando una persona sposa un'altra per non dispiacergli; il secondo scaturisce da interne rappresentazioni mentali dello sposo e non trova giustificazioni in ragioni esterne oggettive.
Può capitare che nel matrimonio il nubendo abbia accettato l'atto non per imposizione, ma per paura di quello che sarebbe potuto accadere se il matrimonio non si fosse celebrato. Il nubendo, cioè, ha scelto il male minore.
L'errore
Introdotto dalla riforma del '75 l'errore è da intendersi non nello scambio di persona ,ma nell'errore essenziale sulle qualità dell'altro coniuge.
L'errore essenziale, per essere causa invalidante deve ricadere nelle ipotesi di: 1) l'esistenza di una malattia fisica o psichica o deviazione sessuale, tale da impedire lo svolgimento della normale vita coniugale ( sieropositività, sclerosi a placche, psicosi maniaco-depressive. Anche l'impotenza rientra, ma solo se non conosciuta dall'altro e deve essere perpetua);
2) l'esistenza di una condanna, per reato non colposo, con reclusione non inferiore a 5 anni,se non riabilitato prima del matrimonio.(La sentenza deve essere definitiva );
3) la dichiarazione di delinquente abituale;
4) la condanna per prostituzione a non meno di 2 anni;
5) lo stato di gravidanza provocato da altra persona.( questa ipotesi, in realtà, configura una falsa rappresentazione della realtà e l'azione di annullamento deve essere esercitata solo se vi è stato disconoscimento di paternità).
La simulazione
Per simulazione si intende la decisa volontà dei nubendi, già prima del matrimonio, di escludere la loro società coniugale una volta sposati, e dar vita ad una sola apparenza di vita matrimoniale. Generalmente lo si fa per acquistare una cittadinanza, oppure per assicurare alla donna una adeguata sistemazione economica, oppure ottenere l'autorizzazione all'ingresso negli USA e all'espatrio dalle nazioni dell'est ex URSS o infine per assecondare i desideri di un genitore gravemente ammalato e poi deceduto.
L'impugnazione del matrimonio spetta a ciascuno dei coniugi.
La trasmissione dell'azione
La legittimazione attiva all'impugnativa del matrimonio è, come si è visto, disciplinata a seconda delle singole fattispecie di invalidità.
Abbiamo visto che i matrimoni per essere annullati devono essere impugnati ora da un singolo coniuge,ora da entrambi, a volte anche dai genitori o dal pubblico ministero.
La disciplina vigente appare spesso insoddisfacente perché, a volte ,la regola dell'intrasmissibilità dell'azione creerà situazioni che danneggeranno qualcuno.
Per esempio, deceduto un coniuge non si potrà impugnare un matrimonio celebrato sotto l'influenza della violenza o del timore. O per esempio nel caso di un matrimonio tra un anziano ed una giovane. Una volta deceduto l'anziano, in sede successoria è privilegiato il coniuge superstite a danno dei legittimi eredi.
Il matrimonio putativo
Si parla di un matrimonio putativo quando, pur non valido, esso è stato celebrato in buona fede di almeno uno dei due coniugi, che lo considerava valido al momento della celebrazione. Il matrimonio putativo produce ugualmente effetti in favore dei due coniugi, o di uno di essi e dei figli. L'eccezione si giustifica per tutelare il coniuge in buona fede e i figli.
Se il matrimonio è dichiarato nullo gli effetti del matrimonio si producono in favore dei coniugi fino alla sentenza che pronunzia la nullità, quando i coniugi sono in buona fede oppure se il loro consenso è stato estorto con violenza o timore. Se tali condizioni si verificano solo per uno di essi, gli effetti valgono solo in favore di lui.
Per i figli, invece, nati o concepiti durante un matrimonio nullo non c'è limitazione di tempo per gli effetti validi, ed essi acquistano comunque lo status di figli legittimi. Anche se i coniugi erano in mala fede, rispetto ai figli il matrimonio nullo ha gli effetti di un matrimonio valido.
I diritti dei coniugi in buona fede
L'art. 129 c.c. stabilisce che quando le condizioni di matrimonio putativo si verificano rispetto ad ambedue i coniugi, il giudice può disporre a carico di uno di essi, ma non per più di tre anni, l'obbligo di corrrispondere somme periodiche di denaro ,in proporzione alle sue sostanze, a favore dell'altro, ove questi, però, non abbia adeguati redditi o non si sia risposato.
La responsabilità del coniuge in mala fede e del terzo
L'art 129 bis c.c. stabilisce che il coniuge al quale sia imputabile la nullità del matrimonio sia tenuto a corrispondere all'altro coniuge in buona fede, qualora il matrimonio sia annullato, una congrua indennità.
Bisogna precisare, però, che la giurisprudenza ha aggiunto che non basta la consapevolezza dei fatti invalidanti per essere in mala fede, ma si richiede anche un comportamento riprovevole, che abbia contribuito alla celebrazione di un matrimonio nullo.
L'indennità deve avere un contenuto minimo pari al mantenimento per tre anni, che sarà determinato dal giudice. L'indennità è dovuta sempre in casi in cui il coniuge in buona fede sia nello stato del bisogno e nell'impossibilità di provvedere al proprio mantenimento.
Se concorre un terzo, da solo o d'accordo con un coniuge, a rendere nullo il matrimonio, questi è tenuto, da solo o col coniuge concorrente, al pagamento dell'indennità.
Il matrimonio concordatario
L'art. 82 c.c. stabilisce che il matrimonio celebrato davanti ad un ministro del culto cattolico è regolato in conformità del Concordato con la Santa Sede e delle leggi speciali in materia. Il matrimonio concordatario è quindi regolato dal diritto canonico. Questa forma di matrimonio è diversa da quella civile, ma acquista effetti civili dal momento della celebrazione delle nozze, a seguito della trascrizione nei registri dello stato civile.
A seguito dell'Accordo di revisione del Concordato lateranense ( stipulato tra lo Stato italiano e la Santa Sede l'11 febbraio 1929) firmato in data 18 febbraio 1984, sono state introdotte alcune novità importanti in materia.
Al matrimonio contratto secondo il diritto canonico sono stati riconosciuti gli effetti civili, a condizione che l'atto sia trascritto nei registri dello stato civile.
Il parroco, dopo la celebrazione, deve spiegare agli sposi gli effetti civili del matrimonio, dando lettura degli articoli sui loro diritti e doveri. Poi redigerà, in doppio originale, l'atto del matrimonio, nel quale i coniugi potranno specificare l 'eventuale separazione dei beni o il riconoscimento di figli naturali.
La trascrizione non può aver luogo se gli sposi non hanno l'età richiesta per il matrimonio e se ci sono impedimenti inderogabili, tipo infermità di mente, precedente matrimonio, il delitto e l'affinità in linea retta.
Secondo la nuova norma però gli effetti civili non sono più automatici, ma subordinati sempre alla volontà degli sposi.
Il matrimonio celebrato davanti a ministri dei culti ammessi nello Stato
La disciplina dei matrimoni celebrati davanti ai ministri dei culti ammessi dallo Stato, che regola matrimoni di tutte le religioni, esclusa quella cattolica, è quella prevista per i matrimoni civili, anche se possiamo definirla una forma particolare di matrimonio civile. Esso, al contrario del matrimonio concordatario, anche per le cause eventuali di invalidità, è interamente disciplinato dalle norme statali.
I nubendi devono dichiarare all'ufficiale di stato civile di volersi sposare con rito religioso davanti ad un ministro del loro culto. Ottenuta l'autorizzazione dall'uff. di stato civile, essi si presentano, per la celebrazione, davanti al ministro del loro culto, che assume la veste di ufficiale dello stato civile.
Il celebrante ha anche il compito di redigere l'atto di matrimonio e trasmetterlo entro 5 giorni all'ufficiale di stato civile per la trascrizione.
Capitolo terzo
I rapporti personali tra coniugi
I diritti e doveri coniugali
Con la riforma del '75, il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri (art 143 c.c.).Questo oltre ad offrire garanzia dell'unità familiare, presuppone una eguaglianza assoluta fra i coniugi. Nell'attuale sistema questa eguaglianza mette in risalto i diritti delle personalità di ciascuno dei coniugi, rimuovendo quelle ingerenze delle quali in passato era vittima la donna coniugata.
Di pari passo ai diritti però, come enunciato nell'art.2 della Costituzione, ci sono dei reciproci doveri per i coniugi, nel rispetto dei loro diritti.
I doveri reciproci che derivano dal matrimonio sono la fedeltà, l'assistenza, la collaborazione e la coabitazione.
Spesso nel passato la violazione di uno di questi doveri, era causa della separazione giudiziale, che era fondata sul principio della colpa. Ai giorni nostri invece, la separazione si fonda esclusivamente su basi oggettive ed il giudice, per pronunziarla, non va alla ricerca di vere o supposte trasgressioni degli obblighi matrimoniali. Si può dire che questi doveri coniugali oggi non sono più coercibili e che il loro rispetto sia affidato all'osservanza spontanea piuttosto a che alla forza del diritto.
L'obbligo di fedeltà
L'obbligo di fedeltà riveste una posizione prominente tra i doveri reciproci, poiché riguarda la persona fisica e spirituale di entrambi i coniugi. In passato tale obbligo veniva letto in chiave meramente materiale; nel sistema vigente,
invece, il dovere di fedeltà ha ormai perso questi connotati, per diventare un impegno quasi esclusivamente familiare, nel senso che mira a consolidare l'armonia interna e la stabilità del nucleo familiare. La fedeltà quindi deve essere intesa non come obbligo di esclusiva sessuale, ma come dedizione fisica e spirituale di un comniuge all'altro.
La fedeltà finisce così con il coincidere con la lealtà. Affinché ci sia una violazione del dovere di fedeltà, non è necessario un vero e proprio adulterio, ma è sufficiente un comportamento esteriore che, anche in considerazione dell'ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà, con conseguente offesa alla dignità dell'altro coniuge.
In dottrina prevale l'opinione per cui l'unità della famiglia è strettamente collegata alla fedeltà tra coniugi: la fedeltà coincide con la stabilità del nucleo familiare anche negli interessi dei figli.
L'obbligo di fedeltà deve permanere anche durante un temporaneo allontanamento del coniuge, ma esso cessa una volta che, avviato l'iter di separazione giudiziale, sia stata emessa l'autorizzazione del presidente del tribunale a vivere separatamente.
L'obbligo all'assistenza e alla collaborazione
Quest'obbligo, unitamente a quello di fedeltà, rappresenta il completamento dall'impegno preso dai coniugi e lo si può intendere anche come dovere di proteggersi a vicenda e di proteggere la prole.
IL profilo morale di quest'obbligo riguarda il sostegno reciproco nell'ambito affettivo, psicologico e spirituale. L'assistenza morale rientra anche nel dovere di rispettare la persona dell'altro coniuge.
Il profilo materiale dell'assistenza riguarda, invece, l'aiuto che i coniugi debbono darsi reciprocamente tutti i giorni, non solo in caso di malattia, ma anche ne lavoro, nello studio e nelle incombenze familiari.
La collaborazione, deve intendere a soddisfare le esigenze del nucleo familiare nel suo complesso.
L'obbligo di coabitazione e la fissazione della residenza familiare
Oltre agli obblighi di fedeltà ed assistenza, i coniugi assumono reciprocamente anche l'obbligo di coabitazione . Nell'odierno sistema i coniugi fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelli preminenti della famiglia stessa, per cui l'intesa coniugale diviene elemento essenziale per l'obbligo di coabitazione. I coniugi, nel determinare il luogo della residenza comune, devono tenere in considerazione non solo gli interessi personali, ma anche quelli dei figli.
Il problema nasce se i due coniugi lavorano separatamente in luoghi diversi. A tal proposito, l'art. 45 stabilisce che ciascuno dei coniugi ha il proprio domicilio nel luogo in cui ha stabilito la sede principale dei suoi affari.
In questo caso l'unità della famiglia non sarà compromessa.
La contribuzione ai bisogni della famiglia
La legge stabilisce che entrambi i coniugi sono tenuti a contribuire ai bisogni della famiglia ed a mantenere, istruire ed educare la prole, in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la propria capacità di lavoro professionale o casalingo.
Queste diposizioni, pur dettate nell'ambito dei rapporti personali tra coniugi, in realtà si ripercuotono sul loro patrimonio, impegnato all'assolvimento di questo dovere .Il dovere di contribuzione dunque, è sicuramente complementare al rapporto patrimoniale tra coniugi. Per questo motivo ai coniugi è data una libera scelta nel designare il loro regime patrimoniale.
L'art. 143c.c. enuncia espressamente il dovere dei coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia in relazione alle capacità di lavoro professionale e casalingo.La norma quindi, oltre alle sostanze dei coniugi, fa riferimento anche alle loro capacità di lavoro. Per questo motivo, il lavoro casalingo della donna è preso in considerazione alla stessa stregua del lavoro esterno del marito.
Il lavoro professionale è un mezzo indiretto di contribuzione, perchè destina il reddito ricavato ai bisogni familiari; il lavoro casalingo, invece, è un mezzo diretto, poiché soddisfa in via immediata i bisogni della famiglia stessa
Oggi ciascuno dei coniugi ha l'obbligo di partecipare alle spese familiari con i propri guadagni, cosicché l'attività domestica non è più riservata alla sola donna, ma deve essere svolta in forza di una intesa tra i coniugi. L'obbligo di contribuzione permane per tutta la durata della convivenza, e anche nel caso di allontanamento senza giusta causa.
L'ordinamento pretende l'assolvimento di tale obbligo, la cui violazione è sanzionata anche penalmente.
La rilevanza esterna dell'obbligo di contribuzione
Se capita il caso che uno dei coniugi ha stipulato un contratto con un terzo, è tutt'altro che pacifica la definizione della responsabilità dell'altro coniuge nei confronti di questo creditore.
Tra le norme che disciplinano i rapporti tra coniugi non si rinviene una espressa previsione di responsabilità in capo al coniuge non stipulante per le obbligazioni assunte dall'altro nell'interesse familiare (ciò a differenza del codice civile francese, di quello catalano e quello tedesco che disciplinano la responsabilità anche dell'altro coniuge).
Bisogna però prendere in esame ciò che è disposto dall'art. 190 c.c. in materia di responsabilità dei coniugi in regime di comunione. Esso afferma che i creditori, quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti, possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura della metà del credito. Tra questi debiti rientrano le spese per il mantenimento della famiglia, per l'istruzione e l'educazione dei figli ed ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della famiglia. In definitiva, in regime di comunione, i creditori, per un debito contratto da un coniuge nell'interesse della famiglia, possono rifarsi sui beni della comunione .Se questi non sono sufficienti potranno rifarsi sui beni personali di ciascuno dei coniugi, ma nella misura della metà del credito.
Questo fa ritenere che il regime di comunione sia vista come garanzia, cosa che invece non esiste in regime di separazione dei beni. Mai, però, il coniuge non stipulante sarà obbligato per l'adempimento dell'obbligazione con tutto il suo patrimonio.
Queste incertezze argomentative sono state però superate dalla Cassazione nelle sentenze successive. La Suprema Corte ha affermato con chiarezza che normalmente il coniuge contraente è responsabile in prima persona, senza impegnare in alcun modo l'altro, anche quando l'obbligazione è diretta a soddisfare l'interesse della famiglia. Tuttavia è stato precisato che un coniuge è responsabile delle obbligazioni assunte in suo nome dall'altro, sia nei casi in cui vi è stata una procura, sia nel caso in cui la situazione è tale da far ritenere
al terzo contraente, che il coniuge ha contrattato non già in proprio, ma in nome dell'altro.
L'accordo nell'indirizzo della vita familiare
L'art. 144 c.c., che si ispira all'art. 29 della Costituzione, stabilisce che i coniugi concordano fra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa. Si sostiene che l'accordo costituisca uno dei doveri che derivano dal matrimonio, pur coordinato con il principio di libertà individuale.
Tutti gli autori sono d'accordo nel ritenere che nelle scelte di indirizzo debbano essere considerate oltre le personalità dei due coniugi anche il profilo economico della famiglia, prendendo come riferimento la concreta contribuzione economica e le spese necessarie all'educazione e all'istruzione dei figli ed agli altri affari della famiglia. I coniugi, in mancanza di uno specifico obbligo, sono tuttavia liberi di operare le scelte ritenute conformi al modo di vita prescelto. L'unico vincolo è dato dalla necessità che vi sia il consenso di entrambi. Il primo comma dell'art. 144 c.c. si occupa del criterio al quale i coniugi devono attenersi nel determinare l'indirizzo della vita familiare, stabilendo l'obbligo di tenere conto delle esigenze di entrambi e di quelli preminenti della famiglia.
L'intervento del giudice
Se i coniugi non raggiungono spontaneamente l'accordo ( qualsiasi accordo grave) possono ricorrere all'intervento di un terzo, che è chiamato a svolgere un'attività di supporto a beneficio della famiglia in crisi e a prestare la propria assistenza per risolvere i contrasti coniugali. In particolare, il 1° comma dell'articolo in esame stabilisce che entrambi i coniugi in caso di disaccordo, possono richiedere l'intervento del giudice (che non è più il pretore bensì il tribunale in composizione monocratica) .Il giudice, in seguito a tale richiesta, svolgendo un ruolo di conciliatore, sente i coniugi e, per quanto opportuno, i figli conviventi ultrasedicenni, per raggiungere una soluzione concordata. In taluni casi (per es. fissazione della residenza o altri affari essenziali) se non si è raggiunta la conciliazione, entrambi i coniugi, possono chiedere al giudice di adottare il provvedimento che ritiene più adatto alle esigenze dell' unità e della vita della famiglia.
L'allontanamento dalla residenza familiare
Oggi, poichè con il matrimonio i coniugi acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri, entrambi perdono il diritto all'assistenza morale e materiale se si allontanano, senza giusta causa, dal tetto coniugale e più precisamente nel caso in cui uno dei coniugi si allontani illegittimamente dalla residenza familiare e che rifiuti, nonostante l'invito dell'altro, di farvi ritorno. L'allontanamento deve essere intenzionale e duraturo e non soltanto dovuto ad un dissenso nella coppia.
Il giudice, secondo le circostanze, può ordinare il sequestro dei beni del coniuge che si è allontanato, affinché non si sottragga all'obbligo di contribuzione e al mantenimento della prole. L'art. 570 del c.p. punisce chiunque, abbandonando il domicilio domestico o comunque serbando una condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge.
La legge sulla violenza familiare
La recente legge 4 aprile 2001 n.154 ha creato un articolato sistema diretto a contrastare ogni forma di violenza maturata all'interno del nucleo familiare.
Oggi il giudice può adottare misure urgenti ed immediate in favore della vittima della violenza familiare. Questa legge, che tutela il convivente debole, non fa distinzione tra coniuge e convivente. La legge n. 154/2001 stabilisce che il giudice, in questi casi, oltre a far cessare la violenza in atto, può decidere l'allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente responsabile dell'abuso. La legge, inoltre, consente al giudice di imporre al coniuge o convivente allontanato, quando è questi colui che provvede al sostentamento della famiglia, il pagamento periodico di un assegno a favore dei familiari.
La legge 149 del 2001 consente al tribunale per i minorenni di disporre l'allontanamento del genitore o convivente che maltratta il minore.
Capitolo quarto
I rapporti patrimoniali tra coniugi
Premessa
Dal vincolo matrimoniale discendono rilevanti effetti patrimoniali, che il codice regola nell'ultimo capo -il sesto- del titolo dedicato al matrimonio, rubricato "Il regime patrimoniale della famiglia".
Dovendo dare una definizione, diremo che il regime patrimoniale della famiglia è rappresentato dalla disciplina delle spettanze e dei poteri dei coniugi e dei familiari in ordine all'acquisto e alla gestione dei beni.
A differenza del codice del '42, che prevedeva tra i coniugi, in mancanza di apposite convenzioni, il regime della separazione dei beni, la riforma del '75 ha introdotto tra i coniugi ,in mancanza di altra dichiarata convenzione, la comunione dei beni, ha disciplinato l'impresa familiare ed ha abolito la dote.
Se espressi volontariamente dai coniugi , invece, si possono avere tre tipi di regimi convenzionali.
Il fondo patrimoniale, che consiste nel destinare uno o più beni ai bisogni della famiglia, che, in parte sottratti alla disponibilità di coniugi, sono garanzia per i creditori.
La comunione convenzionale, il cui regolamento viene fissato dai coniugi in deroga a quello della comunione dei beni.
Infine, il regime della separazione dei beni, col quale la titolarità e la gestione dei beni acquistati durante il matrimonio rimane esclusiva in capo a ciascun coniuge.
I regimi matrimoniali sono integrabili, cioè una comunione dei beni non esclude che si possa scegliere per alcune cose la titolarità personale o che alcuni beni possano essere vincolati come fondo matrimoniale.
Facendo un'indagine sul regime della separazione dei beni, si è notato che esso era agli inizi molto poco usato, mentre oggi prende sempre più piede. I ceti sociali che più lo utilizzano sono quelli alti ed è più praticato al nord rispetto al sud. Sicuramente la scelta di questo regime è oggi da imputare alla oramai parità dei due sessi.
Parte della dottrina, però, ha rilevato che la separazione dei beni danneggi molto la donna che non ha lavoro esterno .Anzi la trova illegittima ed in contrasto con l'art 3,comma 2 della Cost. perché non tutela il principio d'uguaglianza fra i due coniugi.
In questo modo la comunione dei beni è vista come il regime più idoneo, che può bilanciare l'eventuale debolezza della donna. Ed è anche parere dell'autore del libro che la separazione dei beni possa danneggiare davvero molto i familiari "deboli". Si pensi per esempio alla proprietà individuale della casa che potrebbe creare gravi problemi al coniuge debole ed alla eventuale prole. Il nostro ordinamento è carente in questo e non tutela molto il non titolare dell'immobile in cui è ubicata la famiglia. E' auspicabile perciò un intervento del legislatore, che consenta la protezione della casa familiare, così come sarebbe opportuna una regola che preveda la solidarietà fra coniugi per le obbligazione contratte singolarmente nell'interesse della famiglia.
La comunione legale dei beni
Tra i molti sostanziali cambiamenti introdotti con la riforma del diritto di famiglia del 1975 si annovera anche la sostituzione del regime legale di separazione dei beni con quello della comunione.
Ciò comporta che se gli sposi non stipulano alcuna diversa convenzione tra loro ovvero, pur avendola stipulata omettono di renderla pubblica nei modi previsti, i loro rapporti patrimoniali saranno regolati dalle norme sulla comunione legale di cui agli art. 177 e seguenti del codice civile.
Nonostante la riforma sia stata lunga nella sua preparazione ,oggi si presenta alquanto lacunosa, soprattutto nelle parte che riguarda i rapporti patrimoniali. Si può capire come essa sia stata concepita soprattutto per difendere il lavoro casalingo della donna e per tutelare la parità giuridica tra i due coniugi.
Nella comunione tra coniugi la comproprietà nasce come effetto legale, indipendentemente dal fatto che un solo coniuge abbia acquistato il bene ovvero ne sia stato l'intestatario formale.
L'oggetto della comunione.
Nel regime di comunione legale possono esistere tre masse distinte dei beni:
beni immediatamente comuni ,
beni che divengono comuni solo allo scioglimento del regime patrimoniale di comunione,
beni personali.
Sono beni immediatamente comuni:
-gli acquisti di beni mobili ed immobili effettuati, anche singolarmente da ciascuno dei coniugi,
-le aziende costituite da entrambi i coniugi dopo il matrimonio,
-gli utili delle aziende di proprietà esclusiva di un coniuge ma gestite da entrambi.
Fra i beni che rientrano in comunione immediata vi sono anche:
-azioni di società di capitali
-titoli di stato.
Da ciò deriva la definizione della comunione legale come comunione degli acquisti, dove acquisto ha significato doppio: causa dell'incremento patrimoniale familiare e risultato finale.
La comunione de residuo
Quanto alla cosiddetta comunione residuale (art. 177 lett. b-c), si osserva che la norma ha lo scopo di garantire al coniuge proprietario del bene, o che esercita un'attività separatamente dall'altro, di destinare i frutti ed i proventi al soddisfacimento delle proprie personali necessità.
In proposito, si sostiene che l'altro coniuge non possa influenzare le scelte sull'utilizzo di frutti e proventi personali, non vantando alcun diritto su detti beni se non all'atto dello scioglimento della comunione.
Rientrano nella comunione de residuo o residuale con esclusione, pertanto, degli immobili, i seguenti beni mobili o diritti di credito verso terzi:
-stipendi e redditi professionali,
-canoni di locazione di beni personali,
-utili netti ricavati dall'esercizio di un'impresa,
-risparmi liquidi su conti correnti bancari e libretti di risparmio,
-quote di società di persone,
-quote di società a responsabilità limitata ove l'acquisto sia connesso ad una effettiva partecipazione alla vita sociale,
-dividenti derivati da partecipazioni sociali.
I beni personali
Sono esclusi dal regime di comunione i beni personali indicati dall'art. 179c.c.,i
cui frutti, peraltro, sono oggetto di comunione differita.
In relazione al tempo di acquisto, sono personali i beni dei quali ciascun coniuge era titolare prima del matrimonio.
In ordine al titolo d'acquisto, risultano esclusi dalla comunione i beni acquistati per donazione o successione. E' tuttavia consentito al donante e al testatore attribuire il bene alla comunione.
Normalmente, quindi, i beni attribuiti al singolo coniuge a titolo di successione o donazione non cadono in comunione.
I beni di uso strettamente personale, indipendentemente dai mezzi con cui sono stati acquistati, sono personali in virtù della loro destinazione obiettiva, volta la soddisfacimento di esigenze personali del singolo coniuge.
Anche i beni che servono all'esercizio della professione sono caratterizzati da una particolare destinazione che ne giustifica l'esclusione dalla comunione.
Tra questi sono inseriti anche i beni ottenuti a titolo di risarcimento danni e la pensione ottenuta per la perdita totale o parziale della capacità lavorativa.
L'amministrazione della comunione
Nell'amministrare i beni comuni, i due coniugi godono della parità assoluta. La legge conferisce loro il potere di compiere disgiuntamente gli atti di ordinaria amministrazione e congiuntamente quelli di straordinaria amministrazione (art. 180 c.c.). Sono atti di straordinaria amministrazione quelli che potrebbero apportare consistenti modifiche alla composizione e alla consistenza del patrimonio. Nell'ipotesi di amministrazione congiunta ,se il rifiuto di uno dei coniugi paralizza il compimento di un'azione necessaria nell'interesse della famiglia, il legislatore ha previsto una specifica autorizzazione del tribunale.
L'art 184 c.c. stabilisce che possono essere annullati gli atti compiuti da un coniuge, senza il consenso dell'altro, in casi riguardanti immobili, navi, autoveicoli.
La responsabilità gravante sui beni della comunione
La legge prevede obblighi gravanti sui beni comuni, distinguendoli da quelli particolari di ciascuno dei coniugi. In caso di obbligazioni ,dunque, occorre distinguere tra quelle riguardanti la comunione e quelle personali di ciascuno dei coniugi. Nel primo caso i creditori possono subito rifarsi sui beni della comunione e se essi non sono sufficienti, possono rivalersi sui beni di ciascun coniuge nella misura della metà del credito. Se, invece, il debito è personale, ed i creditori non sono soddisfatti dall'agire sui beni del patrimonio di quell'unico coniuge debitore, possono aggredire la comunione ,ma sino al valore corrispondente alla quota corrispondente al coniuge obbligato (il debitore...).
Sono debiti della comunione tutti quelli fatti durante la comunione, insieme o separatamente nell'interesse della famiglia, quelli derivanti dall'amministrazione del patrimonio comune, ogni obbligazione fatta congiuntamente, e le spese per il mantenimento, istruzione ed educazione dei figli.
La cessazione della comunione
L'art 191 c.c. elenca i casi di cessazione della comunione:
rottura del vincolo matrimoniale (annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili),morte presunta o assenza, separazione personale, separazione giudiziale dei beni, mutamento convenzionale del regime, fallimento di uno dei due coniugi.
La separazione giudiziale dei beni può essere pronunziata in caso di interdizione di uno dei coniugi o in casi di cattiva amministrazione della comunione. Essa può esserci anche quando il comportamento di uno dei coniugi mette in pericolo il patrimonio comune con una condotta poco accorta nell'interesse della famiglia.
Infine, può avvenire nel caso in cui un coniuge non contribuisce ai bisogni familiari in misura proporzionale alle sue sostanze e capacità di lavoro.
Le convenzioni matrimoniali e il problema della loro tipicità
La convenzione è un atto di autonomia privata stipulato prima o dopo il matrimonio, anche con terze persone,al fine di regolare il regime patrimoniale della famiglia in modo diverso da quello legale.
Secondo l'opinione prevalente, i coniugi possono adottare un regime patrimoniale diverso da quello comune, purchè siano rispettati gli obblighi fondamentali derivanti dal matrimonio.
La capacità delle parti
Per ciò che concerne la capacità richiesta per stipulare le convenzioni matrimoniali, occorre distinguere la posizione degli degli sposi, da quella di eventuali terzi che intervengono.
Per gli sposi è chiesta la sola capacità di agire; per gli eventuali terzi intervenuti è richiesta la capacità di agire e quella di donare (poiché l'atto del terzo si risolve in un atto di liberalità).
Nel caso sia un minore a sposarsi, egli può prestare consenso alle convenzioni, purché assistito dai genitori.
La forma e la pubblicità
Le convenzioni matrimoniali per avere validità devono essere stipulate con atto pubblico ( art. 162 c.c.); la scelta del regime di separazione può essere dichiarata alla celebrazione del matrimonio.
La pubblicità è necessaria poiché produce effetti verso i terzi. Essa si realizza a margine dell'atto di matrimonio , ed inoltre attraverso la trascrizione nei registri immobiliari.
La comunione convenzionale
Il legislatore della riforma ha voluto affiancare al regime legale (cioè quello della comunione dei beni) l'istituto della comunione convenzionale,con la la loro forma ed i principi già espressi in precedenza.
Per essa è prevista la trascrizione a margine dell'atto di matrimonio e se sono esclusi beni della comunione,anche questi devono essere trascritti.
La comunione convenzionale può cambiare in parte la comunione legale (sarà chiamata comunione ampliativa) o addirittura sostituirlo autonomamente (sarà così un regime autonomo).
Ci sono però dei limiti a questa convenzione.
Non si può creare una comunione universale,dove siano inseriti tutti i beni, compresi quelli personali, per lasciare ad ogni coniuge un minimo di beni collegati alla sua esclusiva personalità.
Il loro patto deve essere chiaramente scritto e non potrà essere regolato dalle leggi.
Non possono essere inseriti nella convenzione i beni strettamente personali,i beni che servono all'esercizio della professione, i beni ottenuti come risarcimento danno o la pensione, per la perdita totale o parziale della capacità lavorativa.
La separazione dei beni
Il regime di separazione dei beni produce l'effetto di attribuire al coniuge che effettua l'acquisto ogni diritto sul bene, in via esclusiva.
L'art. 217 comma 1,c.c. stabilisce che ciascun coniuge ha il godimento e l'amministrazione dei beni di cui è esclusivo titolare.
I patrimoni di marito e moglie restano quindi separati durante il matrimonio, salvi i diritti successori nonché i diritti legati allo status di coniuge
La scelta del regime di separazione va fatta seguendo le modalità di cui all'art. 162 codice civile ovvero con:
-convenzione prematrimoniale, attraverso dichiarazione resa all'ufficiale dello stato civile ovvero al ministro di culto che celebra il matrimonio;
-convenzione successiva al matrimonio, stipulata avanti un Notaio ed alla presenza obbligatoria e non rinunciabile dei testimoni.
Si osserva peraltro che nel regime di separazione vigono particolare regole in materia di onere della prova.
Con ciò si intende che, in caso di contenzioso giudiziale fra i coniugi, questi, ai sensi dell'art. 219 c.c., potranno provare con ogni mezzo, nei loro rispettivi confronti, la proprietà esclusiva del bene mobile acquistato, senza avere però la possibilità della prova mediante testimoni, artt. 2721 e seguenti codice civile.(L'art 2724 c.c., però, prevede che il giudice possa ascoltare testimonianze se il contraente sia davvero impossibilitato moralmente o materialmente a procurarsi la prova scritta).
Il fondo patrimoniale
Il fondo patrimoniale (dopo la riforma del '75 derivato dal "patrimonio familiare" previsto dal precedente codice civile) da luogo a un patrimonio separato la cui destinazione è quella di far fronte ai bisogni della famiglia. Esso è costituito sia da beni determinati, immobili o mobili iscritti in pubblici registri, sia da titoli di credito.Il fondo patrimoniale è compatibile sia con il regime di separazione che di comunione legale dei beni.
La costituzione del fondo puo' essere fatta da entrambi i coniugi (con beni comuni), da uno solo dei coniugi (con un bene di proprieta' esclusiva) o da un terzo (con atto pubblico fra vivi ed accettazione espressa dei coniugi, o con testamento).
Il vincolo di destinazione fa fatto con atto pubblico (quindi con l'assistenza di un notaio). La creazione di un fondo patrimoniale crea una "barriera giuridica" nei confronti dei creditori dei coniugi per i debiti da questi contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia (ad esempio nell'attività professionale o d'impresa).Infatti i creditori,che sono a conoscenza del fondo patrimoniale ( e solo in questo caso), non possono aggredire i beni del fondo per debiti contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia (il creditore deve sapere anche questo al momento del sorgere del debito).
La conoscenza o meno della natura del credito assume rilevanza decisiva, quindi; se il credito e' relativo a questioni estranee alla famiglia e di tale circostanza il creditore e' edotto, nessuna esecuzione puo' essere disposta. Se invece tale circostanza e' ignota al creditore, il fondo e' aggredibile. Infine, il fondo puo' venir meno per cessazione (con lo scioglimento del matrimonio) purche' non vi siano figli minori; in questo caso infatti il fondo dura fino al raggiungimento della maggiore eta' del figlio piu' giovane.
Capitolo sesto
La crisi coniugale
Premessa
In passato, la separazione rappresentava l'unico rimedio al conflitto coniugale. Ai coniugi, in tal modo, era consentito non coabitare, anche se temporaneamente, ed i limitati effetti del momentaneo allontanamento cessavano al momento della loro riconciliazione. Con l'entrata in vigore della disciplina del divorzio, il quadro normativo è radicalmente mutato, considerato che il protrarsi della vita separata per oltre tre anni legittima ciascun coniuge ad agire per lo scioglimento del matrimonio. Si può dire, dunque, che la separazione è l'anticamera del divorzio.
La separazione personale può essere giudiziale o consensuale (art 150 ,comma 2
c.c.) a seconda che essa sia stata determinata da sentenza emessa al termine di un giudizio contenzioso oppure dal consenso di entrambi i coniugi contenuto in un atto omologato dal giudice.
La separazione consensuale
La separazione consensuale è una delle modalità per le quali è possibile sciogliere il vincolo matrimoniale. Quando entrambi i coniugi sono d'accordo sulla volontà di separarsi e risolvono privatamente tutti i problemi relativi alla separazione (affidamento dei figli, divisione del patrimonio, eventuale assegno alimentare, …) possono proporre al giudice la domanda di separazione. Il giudice, prima di omologare la domanda e sancire la separazione, cerca di riconciliare i coniugi.
Il giudice esercita un controllo di legalità sugli accordi dei coniugi
ed ha il potere di richiederne la modifica se detti accordi sono in contrasto con l'interesse dei figli.
(Da ricordare anche quando si parlerà di divorzio....)
I coniugi che vogliono separarsi legalmente o, essendo già separati, vogliono ottenere il divorzio debbono rivolgersi al Tribunale competente per territorio e, se sono completamente d'accordo tra loro sulle condizioni alle quali separarsi o divorziare, possono presentare una domanda congiunta.
Nel caso di domanda congiunta di separazione personale o divorzio il Tribunale competente è quello del luogo di residenza o domicilio di uno dei due coniugi. I coniugi che sono d'accordo possono fare domanda congiunta di separazione personale e di divorzio senza l'assistenza di avvocato difensore. In particolare:
1) l'art. 707 del codice procedura civile stabilisce che davanti al Presidente del Tribunale "i coniugi debbono comparire personalmente senza assistenza del difensore".
2) la Corte di cassazione e la Corte Costituzionale hanno chiarito che, in questo caso, l'assistenza del difensore non è necessaria né obbligatoria, anche se non è vietata.
L'assistenza di un avvocato è assolutamente necessaria, invece, oltre che, sempre e comunque, nel caso in cui i coniugi non sono d'accordo sulle condizioni della loro separazione o del divorzio, quando la causa, anche se iniziata senza avvocato, deve essere proseguita perché il Tribunale non ritiene di omologare la separazione o il divorzio
Separazione Giudiziale
La separazione giudiziale è uno dei modi con il quale si può sciogliere il rapporto matrimoniale. A differenza della separazione consensuale, che prevede un accordo dei coniugi, essa delega al Tribunale le decisioni sui molteplici aspetti dell'interruzione del rapporto (affidamento dei figli, separazione dei beni, assegni familiari, …) in quanto i coniugi non riescono a trovare un punto d'incontro.
La separazione giudiziale può essere chiesta al Tribunale da entrambi i coniugi o anche da uno solo di essi. Prima di procedere, il giudice tenta di riconciliare le parti. In caso positivo viene compilato il verbale di conciliazione. Se la conciliazione non riesce il giudice prende immediatamente le decisioni che reputa necessarie e urgenti. Le decisioni riguardano l'autorizzazione a vivere separati e di conseguenza l'affidamento dei figli e l'assegno di mantenimento. La causa procede secondo il rito ordinario e si conclude con la sentenza che riguarda l'aspetto patrimoniale della separazione, l'affidamento dei figli minori e il cognome della moglie.
Aspetto..patrimoniale
Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri.
L'entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell'obbligato.
Il giudice che pronunzia la separazione può imporre al coniuge di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all'adempimento degli obblighi previsti. La sentenza costituisce titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale. In caso di inadempienza, su richiesta dell'avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all'obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto.
L'abitazione nella casa familiare spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli per consentirgli di continuare a vivere nella casa in cui sono cresciuti.
Qualora sopravvengano giustificati motivi il giudice, su istanza di parte, può disporre in ogni momento la revoca o la modifica dei provvedimenti presi in precedenza.
Figli..minori
Il giudice che pronunzia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa.
In particolare il giudice stabilisce la misura e il modo con cui l'altro coniuge deve contribuire al mantenimento, all'istruzione e all'educazione dei figli, nonché le modalità di esercizio dei suoi diritti nei rapporti con essi.
Il coniuge cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del giudice, ha l'esercizio esclusivo della potestà su di essi ma deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi. Il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.
Il giudice dà inoltre disposizioni circa l'amministrazione dei beni dei figli e, nell'ipotesi che l'esercizio della potestà sia affidato ad entrambi i genitori, il concorso degli stessi al godimento dell'usufrutto legale.
In ogni caso il giudice può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nella impossibilità, in un istituto di educazione.
Nell'emanare i provvedimenti relativi all'affidamento dei figli e al contributo al loro mantenimento, il giudice deve tener conto dell'accordo fra le parti: i provvedimenti possono essere diversi rispetto alle domande delle parti o al loro accordo, ed emessi dopo l'assunzione di mezzi prova dedotti dalle parti o disposti d'ufficio dal giudice.
I coniugi hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli, l'attribuzione dell'esercizio della potestà su di essi e le disposizioni relative alla misura e alle modalità del contributo.
Uso del cognome del marito
Il giudice può vietare alla moglie l'uso del cognome del marito quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole, e può parimenti autorizzare la moglie a non usare il cognome stesso, qualora dall'uso possa derivarle grave pregiudizio.
Cessazione dgli effetti della separazione
I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l'intervento del giudice, con un'espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione. La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione.
La pronuncia di addebito
La separazione può essere chiesta in base alla obiettiva intollerabilità dei coniugi,e quindi a prescindere da un giudizio di colpa; il comportamento colpevole del coniuge acquista peraltro rilevanza ai fini della dichiarazione di addebitabilità.Infatti, il giudice ,in base all'art. 151 c.c.,quando sia richiesto e dove ci siano aspetti rilevanti, nel pronunciare la separazione, dichiara anche a chi dei due coniugi sia essa addebitabile, a causa di comportamenti contrari ai doveri che nascono dal matrimonio.
Bisogna specificare che quello che oggi è chiamato addebito in passato era chiamata colpa.
Affinchè un comportamento che violi i doveri matrimoniali,però,sia dichiarato addebito, non è sufficiente che esso ci sia stato, ma è necessario che esso sia stato la causa dell'intollerabilità della convivenza.
La violazione dei doveri matrimoniali
a) Il dovere di fedeltà
L'infedeltà coniugale potrà essere considerata addebito non se si tratta di un fatto occasionale ,ma se la sua continuazione ha reso il rapporto insanabile.Il dovere di fedeltà non ricopre solo l'aspetto sessuale,ma anche tutti quei ripetuti comportamenti che offendono la dignità dell'altro coniuge.Il dovere di f. è visto dunque come devozione fisica e spirituale verso l'altro coniuge.
b) La violazione del dovere di assistenza morale e materiale e del dovere di
collaborazione
Detta violazione è stata ravvisata anche nell'atteggiamento sempre scostante,privo di manifestazioni di affetto di un coniuge nei riguardi dell'altro. Questa situazione crea una situazione patologica del rapporto a due, come anche vietare all'altro di avere rapporti con la famiglia d'origine.Stesso dicasi non accettare la sterilità dell'altro coniuge,che si è però sottomesso a terapie del caso.Molto discussa è l'ipotesi del rifiuto del rapporto sessuale. Un tempo punito anche dal codice penale, oggi il rifiutarsi categoricamente e ripetutamente costituisce offesa alla dignità dell'altro coniuge.Il congiungimento carnale tra i due coniugi deve considerarsi aspetto dell'obbligo di assistenza ,per cui l'ingiustificato rifiuto è da ritenersi atto addebitabile nella separazione.Infine è ritenuta intollerabile la malattia di mente per la prosecuzione del rapporto a due.
c) La violazione del dovere di coabitazione
E' giustificato l'abbandono della casa familiare in presenza di una tensione all'interno della coppia causata da una suocera troppo invadente. Allo stesso modo è giustificato l'abbandono per scelte professionali, situazione imposta già in precedenza.Il discorso cambia quando l'abbandono della residenza familiare è conseguente all'instaurazione di un rapporto extraconiugale.
Altre fattispecie di interruzione della convivenza:l'allontanamento dalla residenza familiare e la separazione di fatto
Con l'espressione separazione di fatto si vuole far riferimento alle ipotesi in cui all'origine di vivere separati via sia un accordo dei coniugi di porre fine alla convivenza,sia che l'accordo non sia stato sottoposto al giudice per l'omologazione,sia che l'accordo non sia stato raggiunto nel negozio della separazione. Rientra in detta separazione anche l'abbandono da parte di uno con il consenso dell'altro.(Diverso il caso visto in precedenza nel dovere di coabitazione).Questa è detta separazione di fatto per giusta causa, in quanto l'allontanamento volontario di un coniuge mette fine al pericolo di una prosecuzione del rapporto.
La separazione di fatto produce effetti molto limitati,solo in parte assoggettabili alle altre due separazioni (consensuale e giudiziale).In particolare il legislatore equipara la separazione di fatto a quella giudiziale,considerandole entrambe di impedimento all'adozione speciale.
Naturalmente, essendo pur sempre una separazione, rimane tra i coniugi il dovere reciproco di contribuzione.(Come nella legale il più debole è aiutato economicamente dall'altro).In presenza di figli deve essere anche tenuto un comportamento di reciproca collaborazione.
La separazione temporanea
Detta separazione è prevista dall'art.126 c.c. Più che una separazione vera e propria è un provvedimento presidenziale ,prevista nella separazione giudiziale,dove è vista come esigenza di evitare disagi alla coppia ed alla prole.
Lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio
La separazione ed il divorzio sono i rimedi alla crisi del rapporto matrimoniale,ma sono molto diversi fra loro.Se il primo può anche sfociare nella ripresa della convivenza,il secondo crea una frattura insanabile e comporta lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili e la perdita dello status di coniuge.
L'art 149 c.c. stabilisce che avviene lo scioglimento del matrimonio per la morte di un coniuge e negli altri casi previsti dalla legge. Il giudice pronuncia la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario quando accerta che la comunione materiale e spirituale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l'esistenza di una delle cause previste nel successivo art 3.
Le cause di divorzio.
La separazione personale dei coniugi
La separazione legale costituisce sicuramente la causa più frequente di scioglimento del matrimonio.L'art 3 ,n.2,lett b stabilisce che il divorzio può essere chiesto da uno dei coniugi quando sia stata pronunciata,con sentenza passata in giudicato,la separazione giudiziale, ovvero sia stata omologata la separazione consensuale. Per proporre la domanda di divorzio, però,è necessario che siano trascorsi tre anni dalla comparizione dei coniugi dinnanzi al giudice per la procedura si separazione. Quindi, i coniugi che intendono sciogliere il loro rapporto devono prima separarsi e poi divorziare.
Le cause di natura penale
L'art 3 raggruppa una seria di ipotesi che ,in ragione della condanna di uno dei coniugi in sede penale ad una condanna molto lunga o per motivi di disvalore del reato commesso, sono la causa dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio. Ciò perché per questi motivi si ritiene che sia molto difficile la ripresa del consorzio familiare, tant'è vero che solo il coniuge non condannato può chiedere il divorzio. Condizione necessaria è che il reato sia stato commesso dopo il matrimonio, o prima solo se l'altro coniuge non ne era a conoscenza.
Sono causa di scioglimento del matrimonio le condanne:
a) all'ergastolo,
b) per incesto, violenza carnale, atti di libidine, ratto a fine di libidine, ratto di persona minore dei 14 anni o inferma a fine di libidine o di matrimonio,
c) qualsiasi pena per omicidio di un figlio o tentato omicidio del coniuge o di un figlio,
d) qualsiasi pena detentiva per due o più reati di lesioni personali,violazione degli obblighi di assistenza familiare,maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli,circonvenzione di persone incapaci,in danno del coniuge o di un figlio.
In presenza di tali circostanze ,il giudice deve comunque accertare che il comportamento successivo del coniuge condannato sia inidoneo alla convivenza familiare.
Matrimonio non consumato
L'art 3 prevede anche che la mancata consumazione sia causa di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.Si tratta di ipotesi riconducibile alla tradizione canonica,ma a differenza di quanto accade in tale ordinamento, la mancata consumazione non incide sulla validità del matrimonio, ma è solo causa del suo scioglimento. Molto discusso è il modo di dimostrare la mancata consumazione.Oltre alla dimostrata verginità della moglie o dell'impotenza del marito, sono ritenute valide le testimonianze rese da fonti disinteressate.
La rettificazione dell'attribuzione di sesso
La riforma del 1987 ha aggiunto alle cause di divorzio anche quella inerente alla rettificazione dell'attribuzione di sesso.(Cambiamento di sesso).La soluzione è stata presa affinché non permanga un vincolo tra persone dello stesso sesso.
La disciplina processuale
L'art 4, l. n. 898/70 disciplina due tipi di divorzio:quello contenzioso su domanda di uno dei coniugi e quello a domanda congiunta.
Il divorzio su domanda unilaterale segue l'iter della separazione giudiziale.(vedi pag. 25)
Il divorzio a domanda congiunta
L'ultimo comma dell'art 4 disciplina il procedimento di divorzio a domanda congiunta,introdotto dalla legge del 1987 per snellire ed accelerare la procedura di divorzio e riconoscere più ampi spazi all'autonomia dei coniugi.I coniugi presentano domanda di divorzio indicando le condizioni tra di loro pattuite al fine di regolamentare i rapporti coi figli, nonchè i loro rapporti patrimoniali.Il tribunale, dopo aver sentito i coniugi, verificata l'esistenza dei presupposti di legge e valutata la rispondenza delle condizioni all'interesse dei figli, decide con sentenza.Se le condizioni sono in contrasto con l'interesse dei figli,si applica la procedura del divorzio contenzioso.
Capitolo settimo
Gli effetti della separazione e del divorzio nei riguardi dei coniugi
Gli effetti personali della separazione
La legge, nel disciplinare gli effetti della separazione giudiziale fra i coniugi,si riferisce esclusivamente ai rapporti patrimoniali,ed in particolare al mantenimento ed alla somministrazione degli alimenti(art.156 c.c.).Nulla dice circa i rapporti personali,eccettuato l'uso del cognome del marito. Prima della riforma , lo stesso articolo stabiliva che il coniuge senza colpa conservava gli stessi diritti, purché compatibili con la nuova situazione di separato. Veniva perciò a decadere il dovere di coabitazione, ma rimanevano validi gli altri diritti-doveri,tra cui quello della fedeltà. A proposito di quest'ultimo dovere la giurisprudenza non ha mai messo in discussione in passato quest'obbligo, tant'è vero che era punito come adulterio anche dal codice penale.
Oggi tutti i diritti ed i doveri restano sospesi tranne quelli dell'obbligo dell'assistenza patrimoniale e questo succede perchè, sempre più,la separazione è vista unicamente come l'anticamera del divorzio.
Il mutamento del titolo della separazione
Il problema del mutamento del titolo della separazione,vale a dire la trasformazione della separzione da consensuale o giudiziale a giudiziale addebitata, si presenta particolarmente complesso,tant'è che a tutt'oggi costituisce oggetto di vivace dibattito in dottrina e in giurisprudenza.
Certo è evidente che per dei coniugi che vivono separati legalmente è impossibile determinare, con loro comportamenti,fatti da rendere impossibile la prosecuzione del loro rapporto matrimoniale ,se questo è già interrotto.
I giudici hanno così,sin dai primi anni dalla riforma,negato la possibilità del mutamento del titolo della separazione, mentre la Cassazione lo ha tenuto in considerazione per ciò che concerne l'assegno di mantenimento e dei diritti successori, ritenendolo ammissibile.
L'assegno di mantenimento
La separazione, pur non determinando la cessazione del vincolo matrimoniale, comporta la persistenza dei diveri di solidarietà economica che derivano dal matrimonio.Per questo motivo,i coniugi,pur non coabitanti, devono contribuire ai bisogni della famiglia,collaborando ognuno in proporzione alle proprie forze e capacità.
Questo dovere di contribuzione, si trasforma nei riguardi del coniuge economicamente più debole, in quello di corrispondergli un assegno di mantenimento. L'art. 156 c.c. dispone che il giudice stabilisca a vantaggio del coniuge, cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto necessario al suo mantenimento,qualora non abbia adeguati redditi propri. Il concetto di mantenimento,però, va inteso non come stato di bisogno ( distinguendolo quindi anche dagli alimenti), ma come conservazione del tenore di vita goduto durante il matrimonio.
Va osservato che il giudice nello stabilire l'entità dell'assegno, deve valutare i bisogni del più debole considerandone l'età, la salute e la possibilità di provvedere da solo al suo mantenimento,svolgendo un lavoro adeguato alle sue possibilità. Infatti in materia di divorzio ( applicati anche alla separazione) l'art 5 comma 6 dispone che l'assegno è dovuto quando " il beneficiario non abbia mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni obiettivi".
(Il coniuge debole, in definitiva, se è in salute deve cercarsi un lavoro).
Eventuali aiuti economici, continuativi e protratti nel tempo, ricevuti da parenti o genitori, contribuiscono a formare il reddito e sono valutati nella determinazione dell'assegno.
La posizione del coniuge a cui è stata addebitata la separazione
Il coniuge a cui è stata addebitata la separazione perde il diritto al mantenimento e conserva soltanto,ma solo se versa in stato di bisogno,
quello degli alimenti.Stato di bisogno inteso come totale assenza di mezzi di sostentamento e la vera impossibilità di trovare un adeguato lavoro con riferimento alla propria età,attitudini e condizione fisica.
Gli strumenti a garanzia dell'adempimento degli obblighi di carattere patrimoniale
Il giudice,quando pronuncia la separazione può imporre al coniuge che deve versare l'assegno di presentare garanzia nell'adempimento del proprio dovere. Questo accade quando il giudice sospetta il pericolo che l'assegno non sia versato.La garanzia può essere un'ipoteca o una cauzione.Il giudice può ordinare a terzi (datori di lavoro per esempio) di sottrarre una parte della somma da corrispondere a questo coniuge e di versarla direttamente al coniuge avente diritto. C'è da ricordare che nel fissare l'assegno il tribunale debba stabilire un criterio di adeguamento automatico dello stesso con riferimento agli indici di svalutazione monetaria.
Nonostante il silenzio del legislatore, la giurisprudenza più recente sembra orientata ad ammettere che l'assegno di separazione possa,sull'accordo dei due,essere sostituito da una prestazione una tantum oppure dal trasferimento di un diritto reale su un immobile.
La riconciliazione
Per riconciliazione si intende la possibilità di far cessare o il sorgere della separazione, cioè ci può essere riconciliazione dopo la separazione o nel periodo prima della omologazione della separazione. Gli effetti della separazione possono essere fermati da una dichiarazione scritta o orale dei due coniugi o da un comportamento che metta in evidenza l'avvenuto cambiamento(i due coniugi ritornano a coabitare per esempio).
Gli effetti personali del divorzio
Principale effetto del divorzio è il riacquisto per ciascun coniuge della libertà di stato.Dopo la sentenza e la trascrizione nei registri dello stato civile entrambi possono contrarre nuove nozze anche se la donna deve aspettare 300 giorni per la possibilità di gravidanza in atto, a meno che che non ci sia la certezza che non possa esserci (impotenza del coniuge). Non dovrà aspettare questo
periodo anche nel caso che ci sia stata una separazione ininterrotta di tre anni o in caso di matrimonio non consumato.Si discute del divieto di contrarre nuovo matrimonio tra affini in linea retta quando l'affinità derivi dal precedente matrimonio (si sposa con l'ex cognato/a .....ex parenti ,per esempio), ma nulla è previsto con riguardo al divorzio.
Per ciò che concerne l'uso del cognome del marito,che la donna acquisisce con il matrimonio e che conserva in caso di stato vedovile (aggiunge al proprio cognome quello del marito...), con il divorzio la moglie non può più usare il cognome dell'ex coniuge a meno che non sia autorizzata dal tribunale, se il conservarlo corrisponda ad un apprezzabile interesse proprio o dei figli.
Questa possibilità può essere sempre modificata in un secondo momento.
L'assegno di divorzio
Il divorzio,oltre alla cessazione del matrimonio ,comporta il determinarsi di obblighi di carattere patrimoniale di un coniuge nei riguardi dell'altro. Questo accade quando dopo il dinorzio si viene a creare uno squilibrio patrimoniale tra gli sposi. L'ordinamento, a questo punto, cerca di ristabilire un certo equilibrio attraverso l'attribuzione di un assegno di mantenimento ;come avviene in Italia, oppure con l'equa distribuzione dei beni acquistati durante il matrimonio, come avviene invece negli USA Questa divisione, definita come proprietà acquisita dal lavoro di ciascuno dei coniugi durante il matrimonio,viene chiamata attribuzione di proprietà. Essa, al fine di evitare la previsione di un' assegno, serve anche a porre la parola fine tra i due ex coniugi. Nel nostro ordinamento,l'attribuzione di proprietà avviene soltanto per i coniugi in comunione dei beni.
L'effetto patrimoniale,in tutti i modi,senz'altro più rilevante conseguente al divorzio è rappresentato dalla somministrazione di un assegno di mantenimento (una tantum o periodica) a favore de coniuge economicamente più debole. L'art 5,comma 6, prevedendo l'obbligatorietà dell'assegno,indica una serie di criteri da considerare nell'erogazione dello stesso.Il presupposto fondamentale è che tra i due coniugi ci sia uno squilibrio reddituale fra i due ex coniugi. Il più debole però si deve trovare nella vera impossibilità di procurarsi in modo transitorio o permanente i mezzi per riequilibrare il proprio reddito.
(In poche parole dovrebbe cercarsi un lavoro).Prima dell' 87 non era così.Oggi l'assegno ha solo funzione di assistenza e non risarcitoria come lo era prima dell'87.L'assegno spetta a chi non ha mezzi adeguati di procurarsi redditi adeguati. Per mezzi s'intendono anche le proprietà che possono soddisfare la mancanza di reddito da lavoro. Adeguati, affinchè non si crei una forma di rendita parassitaria dal divorzio.
Si è creata una diversità di vedute per l'assegno di divorzio. Alcuni, individuando il fondamento dell'assegno di divorzio come un dovere di solidarietà economica ancora esistente fra i due ex coniugi, finiscono per attribuirgli una funzione analoga all'assegno di mantenimento di cui al'art. 156,
com. 1° c.c.; l'assegno, cioè sopperisce allo stato di bisogno economico del coniuge, inidoneo a mantenere un tenore di vita analogo a quello durante il
matrimonio: Secondo altri invece, nessun legame sopravvive fra gli ex coniugi, per cui la solidarietà post-coniugale deve essere intesa come garanzia di tutela per il coniuge più debole, ma non deve essere intesa come mancata partecipazione di un coniuge alle vicende economiche dell'altro, sicchè "l'adeguatezza" dei mezzi deve essere intesa come la capacità del coniuge di provvedere da sè alle proprie esigenze e bisogni di vita nel rispetto delle attitudini e propensioni personali e solo la carenza di essi impone al coniuge l'obbligo dell'assegno, senza far riferimento al pregresso tenore di vita (in poche parole il coniuge più debole deve svolgere un lavoro nel riguardo delle sue propensioni personali).
La Suprema Corte si è pronunciata mediando fra i due opposti orientamenti. Conservando la natura esclusivamente assistenziale dell'assegno di divorzio i giudici hanno indicato come unico presupposto per concedere l'assegno "l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare il tenore di vita goduto durante il matrimonio, senza che sia necessario una stato di bisogno dell'avente diritto, il quale può anche essere economicamente autosufficiente, giudicando, in dipendenza del divorzio, un apprezzabile deterioramento delle sue condizioni economiche, che devono essere ripristinate, in modo da ristabilire un certo equilibrio". In particolare il livello di vita coniugale da considerare non è solo quello mantenuto durante il matrimonio, ma anche quello che avrebbero potuto mantenere in base alle loro potenzialità economiche.
Al fine però di evitare che si crei un eccessivo vantaggio per il coniuge richiedente per l'assegno sono stati indicati quei criteri che potrebbero ridimensionarlo o addirittura azzerarlo. Infatti in una sentenza emblematica la Cassazione dopo aver ribadito che l'assegno di divorzio deve essere somministrato dopo una attenta indagine per accertare l'inadeguatezza dei mezzi del richiedente ha poi escluso la sua attribuzione per aver considerato giudicato una convivenza matrimoniale troppo breve, valorizzando così solo uno degli indici prefigurati, la durata del matrimonio che dovrebbero concorrerre a determinare l'ammontare dell'assegno. La Corte quindi ha ribadito così che la misura concreta dell'assegno deve essere fissata in base alla valutazione dei diversi criteri enunciati dalla legge, fra i quali anche quello relativo alla durata del matrimonio.
L'obbligo di corresponsione dell'assegno cessa se il coniuge beneficiario passa a nuove nozze (art. 5 c.10) , mentre è discusso l'effetto dell'instaurazione di una convivenza more uxorio( convivenza senza matrimonio).
I criteri per la determinazione dell'assegno
Come già sappiamo, l'assegno spetta al coniuge che si trovi privo di mezzi adeguati a conservare il tenore di vita goduto durante il matrimonio, nonchè nell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
Per determinare invece l'entità dell'assegno, il giudice deve attenersi ai criteri indicati dall'art.5, L. n.898/70 che, come si è detto potrebbero ridurre o addirittura azzerare l'assegno: Detti elementi operano come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, ma mai potrebbero giustificare la pretesa di un tenore di vita superiore a quella goduta durante il matrimonio.
Nella decisione, molto importanti saranno le eventuali responsabilità accertate a carico di quel coniuge al quale sarà stata addebitata la separazione. Bisognerà valutare non solo le cause che hanno determinato la separazione, ma anche l'eventuale comportamento dei coniugi che abbia costituito un impedimento al ripristino del matrimonio. Per ciò che concerne le condizioni dei coniugi, esse sottintendono non tanto le condizioni economiche , bensì quelle personali, vale a dire sociali e di salute, l'età, le consuetudini ed il sistema di vita dipendenti dal matrimonio, il contesto sociale ed ambientale. Saranno considerati anche l'eventuale convivenza more uxorio dell'avente diritto all'assegno o dell'obbligato, nonché i contributi che il coniuge divorziato possa ricevere dalla famiglia di origine. Saranno considerati i redditi di entrambi i coniugi,sia i redditi veri e propri, sia quei cespiti patrimoniali (..fonti di guadagno e di reddito....case in fitto per es.) che potrebbero produrre reddito. L'ultimo criterio elencato dal legislatore è quello della durata del matrimonio, che assume il valore di parametro "fondamentale" di filtro attraverso cui devono essere esaminati e considerati tutti gli altri criteri.
Le caratteristiche dell'assegno:la rivalutazione automatica e la sua liquidazione in un'unica soluzione
La riforma dell'87 ha introdotto all'art. 5, comma 7, l'obbligo per il tribunale di disporre un criterio di adeguamento automatico dell'assegno , "almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria",adeguamento che tuttavia, in caso di palese iniquità, può essere escluso con decisione motivata.
In giurisprudenza si è stabilito, da un lato,che l'adeguamento deve essere disposto anche in mancanza di esplicita richiesta, di modo tale che se il tribunale ha omesso la rivalutazione dell'assegno, la parte interessata può richiedere la correzione.Dall'altro lato, però, questo non trova applicazione in caso di domanda di divorzio congiunto.
La riforma dell'87 inoltre ha stabilito un'alternativa per ciò che concerne il detto assegno. Può essere periodico,oppure in un'unica soluzione.In quest'ultimo caso la somma può essere pagata in denaro oppure mediante il trasferimento di diritti reali su beni mobili e d immobili. Però, mentre nell'assegno periodico c'è rivalutazione, nel caso dell'unica soluzione il beneficiario perde il diritto ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge, nonchè al trattamento pensionistico di riversibilità.
Gli accordi tra i coniugi in vista del divorzio
Ci si è chiesti se i coniugi possano stipulare in sede di separazione accordi preventivi diretti a regolare l'assetto del loro futuro patrimoniale in caso di divorzio.La Corte di cassazione ,che in passato si era mostrata favorevole,ora ha deciso la nullità di detti accordi stipulati in vista del divorzio.Questo perchè questi accordi possono influenzare il comportamento dei coniugi durante il procedimento inducendoli a non contestare l'istanza di divorzio presentata dall'altra parte. Per questo motivo detti accordi sono nulli, in quanto idonei a viziare,o quanto meno a limitare, la libertà di difendersi in giudizio.( Si potrebbe creare anche un commercio di status).
In relazione invece a patti prima di un annullamento del matrimonio,essi sono validi purchè ci sia una valida causa di invalidità del matrimonio.
Le altre conseguenze di natura patrimoniale: il diritto del coniuge divorziato ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto
L'art. 12 bis stabilisce che al coniuge titolare dell'assegno, se non risposato,
spetti una quota dell'indennità di risoluzione rapporto percepita dall'altro coniuge ,anche se maturata dopo la sentenza. E' pari al quaranta per cento della totale indennità proporzionata però agli anni di lavoro coincisi col matrimonio.
Il diritto alla pensione di reversibiltà
L'art. 9, comma 2 e 3 , disciplina la questione della pensione di reversibiltà in caso di morte dell'ex coniuge.Se non c'è un coniuge superstite, l'ex coniuge, solo se titolare dell'assegno però e se non è passato a nuove nozze,ha diritto alla pensione di reversibilità sempre che la pensione sia il frutto di un lavoro eseguito prima del divorzio.Se invece c'è un coniuge superstite (... il divorziato si era risposato), tra questi e l'ex coniuge si divide la pensione in proporzione alla durata dei loro rapporti col defunto.Se ci sono altre persone, il tribunale ripartisce tra tutti.
Con il temine di pensionedi reversibilità si intende quella prestazione di natura previdenziale a cui hanno diritto i superstiti quando il familiar defunto fosse in vita titolare di una pensione di vecchiaia, d'invalidità, di anzianità, o supplementare (una cioè che poi può essere reversibile).
Le garanzie in ordine alla corresponsione dell'assegno
Per il divorzio si attuano le stesse disposizioni della separazione. L'art 8 prevede che l'obbligato presti idonea garanzia quando sussiste il pericolo che questi si sottragga al suo dovere. Il coniuge beneficiario,passati trenta giorni dall'inadempimento del ex coniuge,dopo averlo costituito in mora, può rivolgersi direttamente ai terzi, che corrispondono a questi somme di denaro periodicamente, per ricevere direttamente le somme spettanti. Se anche questi terzi non adempiono a tale richiesta, il richiedente può agire in giudizio contro di essi. In caso di divorzio, a differenza della separazione, il richiedente può agire direttamente contro i terzi senza aspettare l'intervento del giudice.
Le conseguenze successorie
La pronuncia di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio determina il venir meno dello status di coniuge e conseguentemente la perdita dei diritti successori ad esso inerenti.
In caso di morte dell'ex coniuge, il tribunale può riconoscere all'altro, se titolare dell'assegno di cui all'art. 5, qualora non si sia risposato e versi in stato di bisogno,un assegno periodico a carico dell'eredità. Tale assegno però sarà determinato tenendo conto dell'importo di dette somme, della gravità del bisogno,dell'eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero degli eredi e delle loro condizioni economiche.
Capitolo Ottavo
Gli effetti della separazione e del divorzio nei riguardi dei figli
Una disciplina omogenea tra separazione e divorzio con riguardo all'interesse dei figli.
Per ciò che riguarda l'affidamento dei figli il legislatore detta una disciplina pressoché unitaria dei provvedimenti in caso di separazione o di divorzio. L'affidamento della prole nella separazione e nel divorzio e' disciplinato da due disposizioni, l'art. 155 c.c. e l'art. 6, L. n° 898/70, come sostituito dalla l. n° 74/87, che hanno tendenzialmente lo stesso contenuto, dove è primario l'interessere morale e materiale della prole.
Il contenuto è centrato sull'interesse dei figli, affinché essi subiscano il minor danno possibile dalla crisi familiare. Sia nell'uno che nell'altro caso l'affidamento della prole è inteso come riorganizzazione di un modello familiare in cui il minore possa essere educato e possa realizzare il proprio diritto alla formazione ed alla crescita della sua personalità.
Il giudice nel disporre l'affidamento della prole deve fare esclusivamente riferimento all'interesse morale e materiale della stessa e ciò significa che deve tener presente solo ed esclusivamente la posizione dei figli, il loro interesse, lo sviluppo della loro personalità, senza tener conto delle cause della rottura del rapporto coniugale. La funzione di decidere sull'affidamento dei figli è attribuita sempre al giudice.
I criteri per l'affidamento dei figli
Il giudice della separazione, dichiarando a quale dei coniugi devono essere affidati i figli, stabilisce anche in che misura e in che modo l'altro coniuge deve contribuire al loro mantenimento , istruzione ed educazione, e stabilisce anche le modalità di esercizio dei suoi diritti nei loro confronti, Il giudice, nell'interesse morale e materiale del minore, istruisce anche, in base all'art.147 c.c., che i figli dovranno essere educati in modo tale da poter egualmente sviluppare una personalità completa ed armoniosa. A tal fine bisognerà rispettare la capacità, l'inclinazione naturale, le aspirazioni dei figli, poiché il minore è il perno della vicenda che attorno a lui ruota.
A questo proposito la Cassazione afferma che il compito del giudice è quello di individuare il genitore più idoneo a ridurre i danni derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il miglior sviluppo possibile della personalità del minore. Al di là di queste affermazione non è molto facile, indicare in concreto quali siano i criteri a cui il giudice dovrà attenersi nel decidere sull'affidamento. Sicuramente è irrilevante l'eventuale addebito della separazione a carico di uno dei coniugi, questo perchè l'affidamento si sottrae ad una valutazione fondata sui fatti e comportamenti inerenti ai soli rapporti tra i coniugi; allo stesso modo esso non deve rappresentare una forma di sanzione per il coniuge colpevole. Neppure una nuova convivenza da parte di uno dei due genitori, quando la prole è ben accolta da questa nuova famiglia, può rappresentare un elemento contrario all'affidamento. In generale, però, nell'ambito dell'affidamento il giudice sembra ritenere la madre più idonea alla cura dei figli. Se invece alla madre vengono imputati disturbi emotivi, causati, ad esempio, da situazioni di alcoolismo o tossicodipendenza, è il padre ad avere in affidamento la prole. Altro aspetto della problematica dell'affidamento è la rilevanza del fattore religioso. Accade spesso che due ex coniugi di fede religiosa diversa, richiedano l'affidamento dei figli per impartire il loro credo religioso. Questo costituisce un fatto irrilevante ai fini dell'affidamento, in quanto i principi della Costituzione non accettano più discriminazioni basate sul fattore religioso. E' inoltre garantita la libertà religiosa, per cui ogni genitore può educare i figli secondo le proprie convinzioni. Il giudice quindi non terrà conto di questo tranne che il genitore pretenda di imporre la religione, senza tener conto delle inclinazioni ed aspirazioni del figlio.
Anche il fatto di risiedere all'estero non impedisce l'affidamento, anche se il giudice dovrà tener conto delle difficoltà che al genitore non affidatario subentreranno nell'espletamento del suo diritto-dovere di concorrere all'istruzione e all'educazione dei figli.
L a posizione del coniuge non affidatario
Il genitore cui sono stati affidati i figli, salva diversa disposizione del giudice, ha l'esercizio esclusivo della potestà su di essi, anche se le decisioni di maggiore interesse per figli sono prese da entrambi.
Il genitore non affidatario ha comunque il diritto-dovere di vigilare sull'istruzione ed educazione dei figli e può ricorrere al giudice quando ritiene che sia state assunte decisioni non giuste nel loro interesse.
Questo diritto del genitore non affidatario è detto "diritto di visita" . Il giudice della separazione può però subordinare questo diritto di visita al consenso del minore, o, addirittura sopprimere tale diritto se il minore si rifiuta categoricamente di incontrarsi con il genitore. Queste limitazioni però risultano giustificate solo da gravi motivi, per lo più comportamenti del genitore durante il matrimonio (genitore tossicodipendente o violento).
Per ciò che concerne i provvedimenti di natura patrimoniale, il giudice determina il contributo del genitore non affidatario alle spese di mantenimento, di istruzione ed educazione della prole, valutando il suo patrimonio complessivo, costituito oltre che dai redditi da lavoro, da ogni altra forma di reddito ( per esempio il valore dei beni mobili e immobili posseduti).
Si tratta in genere di un assegno periodico che il genitore obbligato è tenuto a corrispondere direttamente all'affidatario . Il coniuge affidatario ha diritto all'assegno di mantenimento dell'altro coniuge, senza l'obbligo di agire come rappresentante del figlio, nè di chiamarlo in causa, ma perchè nasce proprio in capo a lui un credito detto iure proprio. Inoltre, il giudice, nel determinare l'assegno di mantenimento, non è tenuto a specificare quanto dell'assegno spetti all'altro coniuge e quanto ai figli. Poiché il mantenimento continua anche dopo la maggiore età del figlio, fino a quando non abbia questi conseguito una sua autonomia economica, si pone il problema di chi sia il destinatario dell'assegno
quando il figlio è maggiorenne. Se questi non fa richiesta specifica, l'assegno continua ad essere percepito direttamente dal coniuge affidatario. Ultimamente è possibile per il coniuge obbligato risolvere il problema dell'assegno in una unica soluzione, mediante per esempio un'eventuale trasferimento di proprietà al minore. Questo però è considerato solo un contributo al mantenimento, e se per caso, per una cattiva amministrazione, tale bene o proprietà non dovesse più rendere, il genitore obbligato è costretto a continuare a versare un assegno di mantenimento, tranne poi rivalersi sul genitore affidatario.
Le diverse tipologie di affidamento
La consapevolezza delle conflittualità che si vengono a creare dalla disgregazione del nucleo familiare ha indotto il legislatore a prevedere strade alternative a quelle tradizionale dell'affidamento esclusivo. In base all'art.155 c.c. il giudice dichiara a chi deve essere affidata la prole. L'art.6 della legge sul divorzio però aggiunge a detto articolo che nell'interesse dei minori, anche in realzione alla loro età, il tribunale può decidere l'affidamento congiunto o alternato.L'affidamento alternato comporta che il minore venga affidato per periodi prefissati a ciascun genitore, il quale in tale periodo esercita in via esclusiva e indipendente dall'altro la potestà sul figlio. Questa formula però ha portato delle critiche in quanto, può danneggiare l'equilibrio del figlio. Per affidamento congiunto, invece , si intende l'affidamento ad entrambi i coniugi che, esercitando insieme la potestà sui figli, prendono decisioni comuni nell'interesse della prole. Per disporlo i giudici devono constatare una sufficiente maturità dei figli, un accordo sincero dei genitori nel chiederlo, la mancanza di conflittualità tra essi ed abitazioni vicine, o almeno nella stessa città. Purtroppo questo succede raramente.
Quando ci sono gravi motivi, i figli possono essere collocati presso terzi o presso un istituto di rieducazione, con quest'ultima ipotesi solo nel caso in cui non ci siano terzi cui affidare i minori. Nella disciplina del divorzio è previsto che, in caso di temporanea impossibilita' di affidare il minore ad uno dei genitori, il tribunale proceda all'affidamento familiare, Allo stesso modo mancando una famiglia, il minore può essere affidato ad un altra famiglia, possibilmente con figli minori o ad una persona singola o anche ad una comunità di tipo familiare, per assicuragli una continuità di mantenimento, istruzione, educazione.
La revisione successiva dei provvedimenti
Se si creano dei mutamenti delle circostanze in base alla quale sono stati emessi i provvedimenti, i coniugi hanno diritto di chiedere la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli, l'attribuzione dell'esercizio della potestà su di essi e delle disposizioni relative alla misura e alle modalità del contributo.
L'assegnazione della casa familiare
L'art.155,comma 4 c.c. e l'art. 6, comma 6, l. n°898/70 prevedono che il giudice disponga generalmente l'assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario. Queste disposizioni però sono diverse in caso di separazione o di divorzio; infatti con la legge di riforma del 1975, in caso di separazione, la casa spetta al coniuge affidatario della prole, mentre nulla dice in caso di divorzio. Solo dall'87 è stata introdotta una norma analoga in tema di divorzio.
L'art. 15, comma 4c.c. attribuisce al giudice della separazione il potere di assegnare la casa all'affidatario dei figli, soprattutto per la tutela dell'interesse dei figli a non subire un forzoso allontanamento dalla casa. L'art.6, comma 6 l. 898/70 dice che , anche se ci deve essere preferenza per il coniuge affidatario, bisognerà in ogni caso valutare le condizioni economiche dei coniugi per poter eventualmente favorire quello economicamente più debole. Questo fa capire che l'interesse morale e materiale della prole costituisce una ragione per l'assegnazione della casa, ma ciò non esclude la valutazione di altre circostanze. Per questo motivo, con la riforma dell'87, il legislatore, per l'assegnazione della casa in caso di divorzio, ha cercato di proteggere non solo l' interesse dei figli, ma ha cercato di conseguire un riequilibrio delle condizioni dei coniugi, per cui l'assegnazione della casa al genitore affidatario si giustificherebbe come un contributo al suo mantenimento. Infatti, in caso di abitazione appartenente ad entrambi i coniugi,anche se mancano figli minori, o ci sono maggiorenni autosufficienti, la casa familiare viene affidata in generale, all'affidatario (in caso di figli maggiorenni) o a quello economicamente più debole se senza figli.
La famiglia ricomposta
Si parla di famiglia ricomposta o ricostituita con riferimento alla convivenza di una coppia nella quale almeno uno dei due partner sia divorziato e vi sia la presenza dei figli dell'uno e/o dell'altro coniuge o partner. Può capitare, infatti, che dopo la rottura del vincolo coniugale, il coniuge cui sono affidati i figli minori, si unisca nuovamente in matrimonio eventualmente con altro divorziato ed affidatario a sua volta di figli. Si viene così a creare un rapporto molto più complesso di quello classico. Il fenomeno è molto diffuso, anche se oggi mancano dei vocaboli italiani per definire i ruoli all'interno di questa nuova famiglia ( tranne quelli usati una volta: patrigno, matrigna, figliastro...).
Oggi si preferisce adottare la terminologia inglese:step family, step father, step mother, step parents, step child.
Certamente in caso di vedovanza una persona sostituisce un 'altra non più esistente, ma in caso di divorzio si realizza la coesistenza del genitore biologico e di quello sociale (quello vecchio e quello nuovo) e questo crea conflitti tra gli interessati. Questo succede perchè il rapporto genitore-figlio è indissolubile e quindi il nuovo ruolo dello step parents crea una collisione con il rapporto del genitore biologico, che generalmente resta immutato anche dopo la rottura del matrimonio.
La risposta attuale dell'ordinamento italiano alla realtà della famiglia ricomposta è parziale ed insufficiente. Essa è in primo luogo disciplinata con una particolare forma di adozione nei riguardi del figlio del nuovo coniuge. In una famiglia ricostituita con due nuovi coniugi, lo step parents può adottare il figlio del proprio coniuge . Il genitore biologico deve comunque dare il suo consenso.
Al di fuori dell'adozione, non vi sono altre forme di disciplina dei rapporti tra genitore sociale e figli conviventi del coniuge, mentre, in via di fatto, il genitore sociale può essere chiamato a svolgere un compito molto rilevante, sia con riguardo alla funzione educativa che alla tutela degli interessi del minore anche nei confronti dei terzi.
Per ciò che concerne i rapporti tra genitori, coniugi o non coniugi, sicuramente deve essere rispettato l'accordo di convivenza. Attraverso gli stessi accordi i nuovi coniugi possono stabilire obblighi di mantenimento del figlio a carico dello step parents, cercando di evitare conflitti con il genitore biologico. Problemi possono nascere in via successoria; si pensi per esempio alla morte dello step parents, dopo un certo periodo. Nulla spetta come diritto al figlio dell'altro coniuge, e la sua unica possibilità è quella del ricorso al testamento.
Capitolo nono
La famiglia di fatto
Premessa
Negli ultimi anni si sono diffusi diversi modelli familiari che si distaccano da quelli tradizionale e tra questi ha assunto particolare rilievo la convivenza more uxorio.
Questo rapporto, anche se ricalca i tratti essenziali di quello matrimoniale, è privo di qualsiasi formalizzazione del rapporto di coppia, sorretto solo dalla spontaneità di comportamenti dei conviventi.
Questa realtà, pur se sempre più crescente, è ancora priva in Italia di una disciplina giuridica e organica anche se ci sono diverse norme che la interessano. In particolare l'art. 317 bis comma 2 c.c. riconosce la famiglia di fatto e attribuisce la potestà sul figlio naturale ad entrambi i genitori che lo abbiano riconosciuto, se conviventi. Bisogna specificare che pur essendoci una tradizionale tendenza al matrimonio, viene data pari dignità ad ogni altro tipo di convivenza. In assenza di una disciplina legislativa, la stessa terminologia
si è moficata nell'indicare questa realtà: da concubinato a convivenza more uxorio a famiglia di fatto. Il termine concubinato utilizzato fino agli anni 60 aveva una valenza negativa, con pregiudizi anche nello stesso campo sociale,e questo rapporto era ritenuto diverso da quello creato dalla vera famiglia fondata sul matrimonio. Proprio grazie alla Corte Costituzionale, che ha equiparato i figli legittimi a quelli naturali, la scelta tra matrimonio e convivenza non crea più problemi alla prole.
Certamente nella convivenza more uxorio, che a differenza della famiglia fondata sul matrimonio non è costituita da una atto formale, si trova una certa difficoltà nell'individuare gli elementi che devono configurarla. Bisogna dire però che, così come si è espressa la Cassazione, pur mancando un atto formale, la convivenza deve essere sorretta da serenità, stabilità ed inequivocità.
I rapporti personali e patrimoniali tra conviventi
Ci si chiede se i diritti e i doveri che nascono da una convivenza siano gli stessi che nascono da un rapporto matrimoniale: fedeltà, assistenza materiale e morale, collaborazione, coabitazione, contribuzione. Sicuramente quelli che sono obblighi legali per i coniugi in un matrimonio, in una famiglia di fatto sono invece espressione di libera scelta dei conviventi.
Coabitazione, fedeltà e assistenza, però, nella convivenza non sono obblighi come quelli coniugali, essendoci un più ampio spazio di autonomia per i partners; d'altronde la mancata osservanza di detti doveri non fonda alcuna pretesa giuridicamente azionabile. Nell'ambito dei doveri, l'assistenza materiale invece, è vista nella convivenza un dovere di natura morale, non visto però come donazione dell'uomo alla donna quasi a voler riparare del danno che essa può soffrire per tale tipo di rapporto (come succedeva in precedenza).
In ordine ai rapporti patrimoniali si esclude l'applicazione del regime di comunione legale dei beni, ma c'è la possibilità di stipulare una convenzione per gli acquisti comuni durante la convivenza.
La cessazione della convivenza
Il settore in cui ci sono maggiori problemi, a causa di lacune legislative è quello inerente alla cessazione della convivenza, sia per volontà dei conviventi, sia per la morte di uno di essi. E' opinione consolidata che non via sia alcun obbligo di risarcire il danno causato dalla rottura della convivenza, a carico di chi ha deciso di porre termine a questa relazione. La famiglia di fatto, così come nasce da una libera scelta può altrettanto liberamente sciogliersi, senza che il convivente che ne abbia causato la rottura, possa essere ritenuto responsabile civilmente per lo scioglimento di questo rapporto.
In caso di cessazione della convivenza, si pone il problema dell'assegnazione della casa familiare. La persona convivente, legata al partner proprietario dell'immobile, non gode di alcun diritto sulla coabitazione. Il discorso cambia se c'è la prole. In ordine ai profili successori in caso di morte di un convivente, nessuna tutela è prevista per legge a favore del superstite. Con una pronuncia della Corte di Cassazione in caso di morte del conduttore (inquilino in casa in
affitto a cui è intestato il contratto) di un immobile adibito ad uso di abitazione, gli succede nel contratto il convivente superstite.
Un problema dibattuto è stato quello del risarcimento del danno al convivente a seguito dell'uccisione dell'altro. E' stata sempre esclusa ogni forma di risarcimento in questo caso. Però successivamente la Suprema Corte ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale per morte del convivente, avvenuta a seguito di incidente stradale.
La cessazione della convivenza e i provvedimenti riguardanti i figli
L'art. 317 bis c.c. presuppone che è chiaramente individuato il genitore al quale il figlio è affidato e non prende in considerazione l'ipotesi di un contrasto tra i partners circa l'affidamento del minore. Spetterà al giudice stabilire a chi affidare il minore e si registrano, sempre con maggiore frequenza, decisioni dirette a regolare, per ciò che comporta la posizione dei figli, le conseguenze della cessazione della convivenza in modo analogo per quello previsto per i casi di separazione e di divorzio.Questo accade sia per i figli legittimi che per i figli naturali. L'esigenza di tutelare l'interesse dei figli a continuare a vivere nell'abitazione familiare anche dopo la rottura della convivenza tra i genitori, ha giustificato l'assegnazione della casa familiare in favore del genitore affidatario, pur non essendoci una esplicita disposizione in materia, equiparando così la famiglia naturale (quella unita in convivenza) e quella legittima (quella unita in matrimonio).
Il diritto dei figli naturali all'abitazione familiare in caso di interruzione della convivenza fra i genitori, è stato riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale.
I contratti di convivenza
Non essendoci una disciplina che regolamenti i rapporti patrimoniali tra conviventi, questi possono stipulare dei contratti di convivenza, per poter regolare questi rapporti patrimoniali. Queste intese mirano soprattutto ad evitare conflittualità durante la vita di coppia. Per stipulare questi contratti necessita, però, la capacità di agire di questi conviventi. Per esempio, la minore età, che non rappresenta un ostacolo al formarsi di una famiglia di fatto,non da la possibilità di stipulare questi contratti.
Nessun problema se il contratto di convivenza è stipulato per regolare gli aspetti patrimoniali del rapporto,mentre non sono accettate pattuizioni relative agli aspetti personali, quali la fedeltà, l'assistenza morale, la collaborazione e la coabitazione. La pattuizione di prestazione di carattere economico del periodo successivo alla cessazione della convivenza è ritenuta valida, se il fine è quello di aiutare il convivente con maggiore difficoltà economica. Può esserci anche un patto per accomunare in regime di comunione quei beni acquistati durante la convivenza.
I contratti di convivenza richiedono che l'accordo risulti da atto scritto.
Le coppie omosessuali
Negli ultimi anni in molti Stati si è discusso della relazione di convivenza tra persone dello stesso sesso. Queste convivenze oggi sono tutelate sia perchè sono viste come rapporto affettivo, di assistenza e solidarietà, ma soprattutto perchè si vuole che non sia legittimata una discriminazione fondata sull'orientamento sessuale, oggi vietata dall'art.21 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione Europea. C'è notevole differenza tra Stato e Stato: in alcuni queste convivenze vengono equiparate alle convivenze more uxorio, in altri alle coppie unite in matrimonio. La prima legge che si è occupata del fenomeno è stata quella danese (1989) che ha equiparato queste convivenze al matrimonio. Questo modello è stato seguito negli anni successivi da Norvegia, Svezia, Islanda, Olanda e Germania. In altri Paesi invece queste convivenze sono state equiparate alle convivenze more uxorio. Ultimamente nei Paesi Bassi è accettato il matrimonio civile fra persone dello stesso sesso.
I progetti di legge
La lacuna legislativa in tema di convivenze ha portato la dottrina ad interrogarsi sull'opportunità di interventi da attuarsi al più presto. Alcuni, in particolare, ritengono di assimilare la disciplina della famiglia legittima e quella della famiglia di fatto. Altri ritengono che sia conveniente dare alla convivenza more uxorio un'autonomia privata. Altri ancora, che si interpongono fra le due posizioni, vorrebbero uno statuto delle coppie conviventi, per dare a questo tipo di famiglie un minimo di giuridicità coincidente con la disciplina della famiglia legittima. Per tale motivo numerose proposte di legge sono state presentate, e se alcuni intendono disciplinare unicamente i rapporti tra persone di sesso diverso, altri contemplano la possibilità di applicare le disposizioni previste anche alle coppie omosessuali.
Per ciò che concerne il rapporto di filiazione, soprattutto in relazione all'affidamento dei figli in caso di cessazione della convivenza, i disegni di legge prevedono generalmente un rinvio alla disciplina dettata dal codice civile in tema di affidamento dei figli a seguito di separazione personale tra coniugi.
Capitolo undicesimo
L'accertamento dello stato di figliazione legittima.
Lo stato di figlio legittimo
Figli legittimi sono quelli generati dai coniugi in costanza di matrimonio. Il nostro ordinamento determina lo status personale dei figli concepiti dai coniugi perchè comporta l'obbligo di fedeltà e quindi l'esclusività della relazione sessuale, per cui "il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio".
I presupposti della legittimità dei figli sono i seguenti: a) matrimonio dei genitori; b) parto della moglie; c) concepimento in costanza di matrimonio; d) paternità del marito.
Alcune circostanze, tipo il matrimonio e il parto sono provati facilmente da documenti, mentre per il concepimento e la paternità del marito si agisce per presunzione.
a) Il matrimonio può essere civile, ovvero religioso con effetti civili. Per la legittimità dei figli è valido anche il matrimonio nullo. Sono legittimi anche i figli nati prima del matrimonio e riconosciuti dopo. Lo stesso dicasi per i matrimoni invalidati per malafede, tranne che l'invalidità dipenda da bigamia o da incesto.
b) Bisogna ricordare che non necessariamente la donna che ha messo al mondo il figlio ne risulterà giuridicamente la madre; infatti l'ufficiale dello stato civile forma l'atto di nascita sulle dichiarazioni dei soggetti legittimati, entro i dieci giorni successivi alla nascita. Nell'atto di nascita sono individuati il luogo, l'anno, il mese, il giorno e l'ora della nascita, le generalità, la cittadinanza e la residenza dei genitori legittimi. Sono indicati anche il sesso del bambino e il nome che gli viene dato. Per questo motivo il dichiarante denuncia alcune circostanze, mentre in riguardo alla paternità e alla maternità, possono essere raccolte nell'atto solo se la nascita è da unione legittima, se la madre è coniugata, salvo l'obbligo del dichiarante di non nominare la donna se questa non vuole.
c) L'art. 231 c.c. stabilisce che il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio. E' questa però una presunzione, per cui se la moglie è la madre si presume che il marito sia il padre. Logicamente se la madre non viene nominata non può essere attribuita la paternità al marito. E' importante però ricordare che il marito risulta il padre se il figlio nasce dopo 180 giorni dalla data del matrimonio, perchè altrimenti è stato necessariamente concepito prima del matrimonio. In tal caso nessuna certezza c'è che sia proprio il marito il padre. Stesso discorso vale per i figli nati dopo 300 giorni dalla separazione, perchè in questo caso il figlio è stato concepito dopo la rottura tra i due coniugi.
Il figlio in questi due casi risulta legittimo se il padre non ne disconosce la paternità.
La nascita del figlio prima dei 180 giorni dalla celebrazione o dopo 300 giorni dallo scioglimento
Come detto prima il padre potrebbe disconosce il figlio se nato in queste due circostanze. Nel primo caso il padre riconosce il figlio e questi diventa legittimo. Nel secondo caso è più difficile accogliere la legittimità del figlio, perchè è molto difficile, provare la nascita di un figlio con una gravidanza lunga ben 10 mesi (....e 10 sono i mesi passati dalla separazione !!!).
La prova della filiazione, titolo di stato e possesso di stato
La filiazione legittima può essere provata per mezzo dell'atto di nascita, e in mancanza, con il possesso di stato, cioè ricorrendo ad altri mezzi di prova. Il possesso di stato acquista rilievo solo se manca l'atto di nascita, mentre gli altri mezzi di prova se mancano sia l'atto di nascita che il possesso di stato. L'art 236 c.c. dice che la filiazione legittima si prova con l'atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile. In questo atto è scritto tutto: maternità, matrimonio, concepimento, paternità. L'art. 237 dispone che il possesso di stato risulta da una serie di fatti che messi insieme comprovano la legittimità del figlio. Possiamo dire quindi che il possesso di stato è costituito da una serie di indizi che il legislatore valuta alla stregua di prova sufficiente ai fini dell'attribuzione ad un soggetto dello status di figlio legittimo.
Le azioni di stato legittimo in generale
Con l'espressione azione di stato si definisce l'azione con la quale si chiede al giudice una pronunzia sullo stato della persona.
Le azioni di stato legittimo disciplinate dalla legge sono:
1) l'azione di disconoscimento di paternità
2) l'azione di contestazione della legittimità
3) l'azione di reclamo della paternità
Tutte le cause relative allo stato di persone sono di competenza del tribunale.
Il disconoscimento della paternità (presupposti)
Un marito (artt.235 -233),dichiarato padre,in forza alla presunzione di paternità, può disconoscere il figlio e privarlo dello stato di legittimità che gli è stato attribuito. Il padre vuole così dimostrare la falsità di questa presunzione. Egli può farlo in due modi: con l'art 233 che gli consente di disconoscere il figlio nato prima dei 180 giorni dalla data del matrimonio e quindi concepito in precedenza; con l'art. 235 nell'ipotesi del figlio concepito durante il matrimonio e quindi con la presunzione che sia lui il padre.
Prima del 1975 solo il marito poteva disconoscere la paternità, mentre ora possono farlo sia la madre che il figlio. Logicamente l'azione può essere promossa se ci sono i due presupposti: 1) la nascita del figlio; 2) l'esistenza del titolo di stato di figlio legittimo: Non è possibile disconoscere un figlio prima della sua nascita, per cui l'azione sarà ammessa soltanto se esisterà un documento dell'atto di nascita.
L'art 235 consente che il padre disconosca il figlio anche se concepito durante il matrimonio, quando:
i coniugi non hanno coabitato nel periodo fra il 300° e il 180° giorno prima della nascita (in questo lasso di tempo sicuramente è avvenuto il concepimento);
durante questo periodo il marito era impotente, anche se soltanto di generare; in questo periodo la moglie ha commesso adulterio o ha tenuto nascosta la propria gravidanza e la nascita del figlio.
Nel primo caso basta provare la sua assenza da casa, nel secondo provare la sua mancata capacità di concepire un figlio, nel terzo provare adulterio della moglie, anche se questo non è sufficente ad escludere la paternità. In tal caso il presunto padre cercherà di provare tramite riconoscimento del DNA o del gruppo sanguigno di escludere la propria paternità. Il giudice è tenuto ad ammettere la prova genetica , anche se non può obbligare la parte a sottoporsi al prelievo. Il rifiuto immotivato della parte, consente al giudice di desumere una prova contro di lui.
Il termine di decadenza per esercitare l'azione di disconoscimento della paternità è: sei mesi dalla nascita del figlio, per la madre; un anno dalla nascita per il padre oppure un anno da quando è tornato nell'abitazione coniugale .
L'eventuale sentenza che accoglie l'azione di disconoscimento deve essere annotata nell'atto di nascita, con conseguente eliminazione del nome del marito.
Lo status di figlio sarà quello di figlio naturale riconosciuto dalla madre.
La contestazione di legittimità
L'azione di contestazione di legittimità è diretta a far dichiarare l'inesistenza dello stato di legittimità del soggetto contro cui è rivolta. L'azione è esercitata attaccando uno dei seguenti presupposti di legittimità: a) esistenza o validità del matrimonio fra i coniugi; b)effettività del parto della donna indicata come madre; c) corrispondenza fra il bimbo nato e quello dichiarato; d) concepimento durante il matrimonio.
L'azione quindi cercherà di dimostrare che o non c'è matrimonio fra i coniugi, o che la donna non abbia partorito, o che il figlio nato non sia quello dichiarato, o che sia stato concepito fuori dal matrimonio.
Il reclamo di legittimità
I presupposti dai quali sorge l'interesse all'azione di reclamo si ricavano dall'art. 241 c.c. e sono: a) la mancanza dell'atto di nascita o del possesso di stato; b) pur essendoci l'atto di nascita, il figlio vi figuri come nato da ignoti; c) pur essendoci un atto di nascita il figlio è stato iscritto sotto falso nome, per cui i veri genitori non sono quelli indicati nell'atto.
Colui che reclama lo stato di figlio legittimo deve provare tutti i presupposti necessari per l'esistenza di tale stato: maternità, matrimonio tra i genitori, concepimento in matrimonio, paternità.
Legittimato all'azione di reclamo è il figlio o i suoi discendenti se è morto in età minore o nei cinque anni dopo aver raggiunto la maggiore età.
L'azione deve essere rivolta contro entrambi i genitori e, in caso di morte di uno di essi o di tutti e due, contro gli eredi. La sentenza che accoglie il reclamo di legittimità accerta l'esistenza dello stato di figlio legittimo con effetto verso i genitori e i loro parenti con annotazione nell'atto di nascita e conseguente attribuzione del cognome del padre e perdita del cognome che gli era stato attribuito in precedenza.
Capitolo dodicesimo
L'accertamento dello stato di filiazione naturale
Il riconoscimento del figlio naturale
Il riconoscimento del figlio naturale è un atto unilaterale, spontaneo ed irrevocabile del genitore, da effettuarsi nell'atto di nascita o nell' apposita dichiarazione posteriore alla nascita o al concepimento. Con il riconoscimento, il genitore dichiara la propria maternità o paternità nei confronti di una determinata persona.Il riconoscimento è spontaneo ed è a discrezione di chi lo effettua. La discrezionalità è però condizionata dalla vericità del rapporto biologico e il mancato riconoscimento può dar luogo ad una giudiziale genitorialità ed anche ad una apertura della procedura dell' adottabilità.
Il riconoscimento è quindi un atto giuridico in senso stretto, in quanto atto umano volontario. Bisogna chiarire però che il riconoscimento effettuato da uno dei genitori non produce effetti sull'altro se non vuole effettuare il riconoscimento. Chi non vuole riconoscere ha diritto a non essere menzionato.
L'art 250 c.c. dispone che un figlio può essere riconosciuto dal padre e dalla madre anche se questi erano uniti in matrimonio con altre persone al momento del concepimento. E' il superamento dell'antico divieto legato ai figli adulterini.
I requisiti per effettuare il riconoscimento
Il riconoscimento del figlio naturale può essere effettuato solo dal genitore.
Il genitore deve essere in grado di intendere e volere ed è ammesso anche il minore che ha raggiunto i sedici anni perchè lo si ritiene essere in possesso delle dette qualità.
L'assenso del figlio ultrasedicenne
La legge richiede che se deve riconosciuto un minore con più di sedici anni questi deve dare il suo consenso. Se il minore, con meno di sedici anni, è già stato riconosciuto da un altro, deve essere quest'ultimo a dare il suo consenso.Il riconoscimento più efficace e veloce è quindi quello che riguarda un minore con meno di sedici anni non riconosciuto.
La legge cerca così di proteggere il riconoscimento di persone già adulte e magari socialmente già ben realizzate, alle quali il riconoscimento potrebbe causare un pregiudizio.
Il consenso al riconoscimento
Il genitore che intende riconoscere il figlio con meno di sedici anni,che è stato però già riconosciuto da un altro, deve ottenere il consenso dall'altro.Questo per tutelare l'interesse del minore che è sotto la tutela di chi per primo lo ha riconosciuto, nel caso di riconoscimenti tardivi.( Nel caso di un rifiuto ci può essere un controllo giudiziale).L'art 250 c.c. prevede che il consenso non possa essere rifiutato se sussiste davvero un interesse del minore nel nuovo riconoscimento.
In giurisprudenza si è negato il riconoscimento nel caso in cui il genitore abbia una personalità morale negativa, soprattutto quando, oltre ad una situazione economica precaria, vi sia il rischio che il riconoscimento possa turbare la situazione affettiva del minore.
Il divieto di riconoscimento dei figli incestuosi
L'art 251 c.c. stabilisce il divieto del riconoscimento dei figli nati da persone legate da un vincolo di parentela, anche naturale, in linea retta all'infinito o in vincolo di affinità all'infinito.Se all'epoca del concepimento,però, i genitori ignoravano la loro parentela e dunque il concepimento era avvenuto in buona fede, nonostante il matrimonio sia stato reso nullo, il figlio può essere riconosciuto.Lo stesso dicasi anche di un solo genitore ignaro della parentela. In questi casi però si pronuncia il giudice, che avrà sempre riguardo per l'interesse del figlio. L'atto di impedire il riconoscimento di figli incestuosi, concepiti in mala fede da genitori moralmente riprovevoli, permette l'adottabilità di questi nati, quali figli di ignoti.
L'inammissibilità del riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo
L'art 253 c.c. stabilisce che un figlio riconosciuto legittimo non possa essere riconosciuto naturale da altri.
La forma del riconoscimento
Il primo comma dell'art 254 c.c. dispone che il riconoscimento del figlio naturale " è fatto nell'atto di nascita, oppure con una dichiarazione posteriore al concepimento o alla nascita, davanti ad un ufficiale dello stato civile o al giudice tutelare o in un atto pubblico o in un testamento,qualunque sia la forma di questo.L'atto di riconoscimento della filiazione naturale è pubblicizzato attraverso l'iscrizione nei registri dello stato civile.
L'impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità
L'art 263 c.c. stabilisce che il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall'autore del riconoscimento,dal riconosciuto o da chiunque abbia interesse a farlo. L'azione è imprescrittibile.
Il falso riconoscimento può essere fatto in buona fede, nel senso che l'autore è convinto di essere il genitore, oppure in mala fede ( in questa ipotesi rientra il cosiddetto riconoscimento per compiacenza, nel senso che un uomo riconosce un figlio della sua convivente concepito prima con un altro uomo).
L'impugnativa del riconoscimento per violenza e incapacità
Il riconoscimento può essere impugnato anche per violenza o se è stato effettuato da interdetto giudiziario.
La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità
La legge di riforma del diritto di famiglia , oltre a rimuovere il divieto di riconoscimento dei figli adulterini, ha ampliato la possibilità dei padri di riconoscere i figli, dando loro la possibiltà di dimostrare con ogni mezzo e prova la partecipazione al concepimento. Questo è avvenuto per equiparare sempre più la figura materna a quella paterna. Per dichiarare la sua paternità può far anche richiesta del riconoscimento del DNA e questo elemento biologico è ritenuto sufficiente. Al contrario, il padre che non vuole riconoscere il figlio non potrà mai invocare la possibilità di non aver voluto quel figlio,o che la madre gli avesse garantito l'assoluta certezza dell'impossibilità del concepimento o che si sarebbe potuta interrompere la gravidanza. Si sono così ribaltate le situazioni dell'uomo e della donna. Quest'ultima può interrompere la gravidanza, può impedire il concepimento,può non riconoscere il figlio ed abbandonarlo, rendendolo adottabile. L'uomo invece non potrà sottrarsi all'accertamento della paternità.
L'azione di riconoscimento giudiziale promossa dal figlio è imprescrittibile e
può essere proseguita dai suoi eredi se dovesse morire.L'azione continua anche se dovesse morire il genitore e da la possibilità di chiedere parte dell'eredità anche in ritardo.
La prova della paternità e della maternità
Nell'accertamento giudiziale la maternità è dimostrata se è provata l'identità di colui che si pretende essere il figlio e di colui che fu partorito. Questa però non è l'unica prova ammissibile, poiché è accettata ogni altra che possa dimostrare la filiazione. In pratica però la dichiarazione di maternità assume scarso rilievo, poiché, se il figlio è stato abbandonato in virtù di un mancato riconoscimento al
momento della nascita e quindi reso adottabile, essa è preclusa quando il figlio è stato adottato. Relativamente alla prova della paternità naturale l'attore può fornirla con ogni mezzo ed autorizza il giudice a considerarla valida quando sono verificati fatti specifici come l'unione dei coniugi la momento del concepimento,l'esistenza di una dichiarazione scritta del padre,l'esistenza del possesso di stato di figlio naturale. Queste semplici circostanze sono sufficienti se non esistono eccezioni da parte del convenuto. Oggi il padre grazie alla prova del DNA può provare con la quasi certezza di essere o non essere l'autore del concepimento. Con questo nuovo modo è esclusa anche la possibilità di sottrarsi al riconoscimento se la madre ha avuto rapporti con altri uomini nel periodo del concepimento. Se il presunto padre si sottrae senza alcun valido motivo al prelievo ematico,il giudice ritiene che tale comportamento rappresenti la prova del suo coinvolgimento.
Il giudizio di ammissibilità
L'azione di dichiarazione giudiziale della paternità e maternità deve essere sempre autorizzata dal tribunale, che deve motivarla in ordine al primario interesse del minore. Con la locuzione " interesse del minore" la Corte costituzionale ha inteso far riferimento ad un interesse da valutarsi di volta in volta,tenuto conto della personalità e della condotta del genitore.
Gli effetti della dichiarazione
La sentenza che dichiara la filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento. Con la sentenza il giudice stabilisce anche eventuali provvedimenti per il mantenimento,istruzione,educazione ed interessi patrimoniali del figlio. Il genitore che ha provveduto da solo al mantenimento del figlio minore riconosciuto può richiedere all'altro il rimborso di quanto sarebbe stato a suo carico a partire dalla nascita.
La filiazione non riconoscibile
La costituzione attribuisce anche ai figli non riconoscibili il diritto al mantenimento, all'istruzione e all'educazione, e,se ricorre lo stato di bisogno,agli alimenti, anche se maggiorenne.In sede successoria, ai figli privi di stato viene riconosciuto il trattamento dei figli naturali (art. 580 c.c.).Spetta loro un assegno vitalizio pari all'ammontare della rendita della quota di eredità alla quale avrebbero diritto ,se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta.
La legittimazione del figlio naturale
La legittimazione è quell'atto che permette al figlio nato fuori dal matrimonio di assumere la qualità di figlio legittimo. La riforma ha così equiparato la posizione del figlio legittimo a quella del figlio naturale.
Il giudice civile prevede due forme di legittimazione , per susseguente matrimonio dei genitori del figlio naturale o per provvedimento dell'autorità giudiziaria. Il susseguente matrimonio dei genitori legittima automaticamente i figli nati prima del matrimonio. L'altra forma di legittimazione per provvedimento del giudice,è prevista per i casi in cui vi sia impossibilità alla legittimazione, pur con susseguente matrimonio, poiché un genitore non vuole riconoscere il figlio.
Capitolo quattordicesimo
L'adozione e l'affidamento
L'evoluzione dell'istituto
Il minore ha diritto di crescere nella propria famiglia e, per assicurare questo e per evitare un abbandono, lo Stato,la regione o gli enti locali vengono in aiuto delle famiglie bisognose. Se la famiglia non è in grado di provvedere alla crescita ed all'educazione del minore, la legge disciplina gli istituti dell'affidamento e dell'adozione. L'affidamento ha lo scopo di fornire un ambiente familiare al minore che ne è momentaneamente privo; l'adozione,invece, crea un nuovo rapporto di filiazione fra soggetti che non sono uniti da vincolo di sangue. Mentre prima l'adozione serviva soprattutto a consentire di trasmettere il cognome ed il patrimonio a famiglie senza figli, oggi , nella sua profonda evoluzione, ha lo scopo principale di inserire un minore,privo di famiglia che sia in grado di provvedere alle sue esigenze di vita,in una nuova famiglia, in un ambiente adatto alla sua crescita.Solo indirettamente l'adozione assolve la funzione di soddisfare l'interesse degli adottanti ad avere un figlio.
La svolta fu introdotta nel 1967, poi adeguata ai principi espressi nella Convenzione di Strasburgo (ma ratificata in Italia solo nel 1974), che introdusse l'adozione speciale. Se prima il limite massimo di età era di otto anni, con essa si rende possibile l'adozione per tutti i minori. Con essa fu anche regolata l'adozione internazionale.
L'affidamento dei minori
L'affidamento ,a differenza dell'adozione che crea una situazione irreversibile,costituisce un rimedio temporaneo.L'affidamento può aver luogo solo se la famiglia non è in grado di offrirgli le cure di cui il minore necessita e se anche gli aiuti dello Stato non sono stati in grado di dare buoni frutti.
L'affidamento viene disposto a favore di una famiglia (possibilmente con figli minori) o di una persona singola.Se ciò non è possibile si può ricorrere ad una comunità di tipo familiare ed in ultima analisi ad un istituto di assistenza pubblico.
Nel caso che i genitori che esercitano la potestà manifestano il loro consenso (affidamento consensuale) l'affidamento viene disposto dal servizio sociale e reso esecutivo dal giudice tutelare.Se invece i genitori non sono d'accordo l'affidamento può essere disposto dal tribunale dei minori.La legge n. 149/2001 ha stabilito che la durata dell'affidamento non superi i due anni, pur essendo prorogabile se la sospensione può arrecare pregiudizio al minore.La legge stabilisce che l'affidatario ha il dovere di accogliere il minore presso di sé e di provvedere al suo mantenimento, alla sua istruzione ed alla sua educazione, tenendo sempre conto delle indicazioni fornite dai genitori che non siano, però, decaduti dalla potestà.Il servizio sociale,con sostegno educativo e psicologico, deve agevolare i rapporti tra il minore e la sua famiglia, per agevolargli il rientro.
L'affidamento finisce quando la situazione di temporanea difficoltà della famiglia d'origine cessa, oppure se la continuazione di esso può arrecar danno al minore. Se il minore viene definitivamente abbandonato si apre la procedura di adottabilità.
L'adozione dei minori
L'adozione rappresenta un rimedio estremo cui fare ricorso solo quando la famiglia d'origine non possa offrire al minore quel minimo di cure e di affetto che sono indispensabili per una sana ed equilibrata crescita. Specificando che l'indigenza dei genitori non rappresenta causa per eventuale adozione, spetta allo Stato,le regioni e gli enti locali, aiutare le famiglie a rischio, allo scopo di prevenire situazioni di abbandono.Ai sensi dell'articolo 7, comma 1, l'adozione è consentita solo nei confronti dei minori dichiarati in stato di adottabilità.Per l'art. 8 sono dichiarati adottabili i minori in stato di abbandono perchè privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o parenti tenuti a provvedervi (sono quelli entro il 4° grado).Ad escludere l'abbandono non è sufficiente che tali soggetti si limitino a manifestare la loro disponibilità per il futuro, ma occorre che sia già maturato un rapporto affettivo col bambino.Si discute molto sulle cause che possano determinare l'abbandono. Sovente esso è determinato dalla mancanza di quel minimo di cure materiali,calore affettivo e aiuto psicologico indispensabili per lo sviluppo e la formazione della personalità del minore. Si precisa anche lo stato di abbandono non richiede necessariamente un comportamento omissivo da parte dei genitori,ma sussiste anche quando questi ultimi, con comportamenti omissivi, espongono ad un grave e irreversibile pregiudizio il sano sviluppo psico-fisico del minore. L'abbandono, pertanto, prescinde da qualsiasi elemento di volontarietà o di colpevolezza dei genitori. E' stata affermata la sussistenza di stato di abbandono in ipotesi di condotta gravemente immorale o disordinata dei genitori.
La legge impedisce la dichiarabilità di stato di abbandono quando la mancanza di assistenza materiale e morale è dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio.(Sono esclusi per esempio la possibile carcerazione o malattia inguaribile del genitore).Il giudice è tenuto ad ascoltare le manifestazioni di disponibilità da parte di quei genitori che in passato hanno avuto un comportamento pregiudizievole verso il figlio.
I requisiti degli adottanti
L'art 6, comma 1, stabilisce che gli aspiranti adottanti devono essere uniti in matrimonio da almeno tre anni e che non ci sia, o ci sia stata, una separazione,neppure di fatto.La legge non prevede l'adottamento da parte di una persona singola, se non in casi del tutto particolari (art 25, comma 4; art 44);possibilità invece contemplata nella C. di Strasburgo.
Il secondo requisito richiesto è quello dell'età: l'età degli adottanti deve superare di almeno diciotto anni quella dell'adottato e la differenza di età deve essere al massimo quarantacinque anni.
Sotto il profilo sostanziale si richiede che i coniugi siano affettivamente capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare. Quanto all'idoneità economica la C.C. ha stabilito che non dovrebbe rappresentare un ostacolo il fatto che si tratti di una famiglia di condizioni economiche modeste, purchè sia in grado di assicurare al minore un mantenimento decoroso e disponga di un regolare reddito che non lo faccia dipendere totalmente dall'assistenza pubblica o privata.
Il procedimento e gli effetti
L'adozione legittimante viene pronunciata al termine di un complesso procedimento che si snoda attraverso tre passaggi: la dichiarazione di adottabilità, l'affidamento preadottivo e il provvedimento di adozione. Il nuovo art 8, comma 4, prescrive che il procedimento di adottabilità deve svolgersi sin dall'inizio con l'assistenza legale del minore e dei genitori o degli altri parenti che abbiano rapporti significativi col minore. Molto importante la volontà del minore che deve essere obbligatoriamente ascoltato se ha più di dodici anni; se più piccolo è considerata la sua capacità di discernimento (art. 12 della Conv. di New York del 1989 sui diritti del fanciullo).
Chiunque, ai sensi dell'art 9, ha facoltà di segnalare all'autorità pubblica situazioni di abbandono.Il procuratore della Rep., assunte le informazioni necessarie, chiede con ricorso al tribunale per i minorenni di dichiarare lo stato di adottabilità di quei minori che si trovino in stato di abbandono.Il tribunale ,valendosi dei servizi sociali e degli ordini di pubblica sicurezza, effettua approfonditi accertamenti al fine di verificare se sussista effettivamente lo stato di abbandono.
Se il minore ha genitori o parenti entro il quarto grado, essi vengono convocati innanzi al tribunale per essere ascoltati e per verificare la loro disponibilità a prendersi cura del minore. Se essi non si presentano senza giustificato motivo o se la loro audizione ha dimostrato la persistenza della mancanza di assistenza morale e materiale, il tribunale provvede a dichiarare lo stato di adottabilità.Si procede all'immediata adottabilità, invece, se il minore risulta figlio di ignoti o se questi sono deceduti e non vi sono parenti entro il quarto grado.
Alla dichiarazione di adottabilità, divenuta definitiva, segue l'affidamento preadottivo alla coppia di coniugi che abbia presentato la relativa domanda al tribunale per i minorenni; la domanda, che può essere presentata anche a più tribunali minorili, decade dopo tre anni, ma può essere rinnovata.Il tribunale per i minorenni procede all'accertamento dei requisiti della coppia richiedente e da luogo ad adeguate indagini. La precedenza è data alle domande dirette all'adottamento dei minori con più di cinque anni o con handicap accertato.Sulla base delle indagini viene scelta la coppia che appare maggiormente idonea al minore. Durante la fase del preadottamento il tribunale vigila allo scopo di verificarne il buon andamento.Se subentrano fatti che rendono inidonea la convivenza il tribunale può revocare l'affidamento preadottivo. Dopo un anno vengono ascoltati i coniugi affidatari ed il minore, se ha superato i dodici anni o capace di discernimento se più piccolo. Verificata la sussistenza dei requisiti, il tutore e coloro che hanno vigilato,si pronunciano sull'adozione in camera di consiglio. Il minore che ha compiuto i quattordici anni deve manifestare il suo consenso.Se durante l'anno uno dei due coniugi muore,l'altro può richiedere l'adozione per entrambi: in tal caso l'adozione ,per il deceduto,produce effetti dalla data di morte. Se durante l'anno i coniugi si separano, l'adozione può essere espressa a favore di uno dei due coniugi, o di entrambi, considerando come primario l'interesse del minore.
La sentenza definitiva viene scritta a margine dell'atto di nascita dell'adottato, che diviene figlio legittimo degli adottanti, assumendone e trasmettendone il cognome. Cessano per contro tutti i rapporti con la famiglia d'origine, salvi i divieti matrimoniali. L'adozione non è suscettibile di revoca.
L'adozione dei minori nei casi particolari: le singole ipotesi
L'adozione dei minori in casi particolari si differenzia dall'adozione legittimante per la previsione di requisiti meno rigidi per gli aspiranti adottanti e per la maggiore semplicità del procedimento.Le differenze sono soprattutto negli effetti che sono più limitati;infatti non vengono interrotti i rapporti fra l'adottato e la sua famiglia d'origine. L'adottato mantiene tutti i rapporti, diritti e doveri compresi, con la famiglia originale e non crea rapporti di parentela coi parenti dell'adottante. Inoltre non è necessaria la sussistenza di uno stato di abbandono per l'adozione.
L'adozione particolare ( art 44) può essere pronunciata a favore: a)di persone coniugate o singole unite al minore da parentela entro il sesto grado qualora il minore sia orfano; b)del coniuge, quando il minore è figlio dell'altro coniuge; c)di persone coniugate o singole se si tratta di un minore orfano con handicap, d) di persone singole o coniugate se è stata constatata l'impossibilità di procedere all'affidamento preadottivo ( rientrano casi di minori difficili o quando la coppia sia quella alla quale era stato lasciato il minore in affidamento).
Se l'adozione è richiesta da una coppia, essa potrà essere pronunciata solo su istanza di entrambi i coniugi. L'adozione è consentita anche se esistono figli legittimi.E' comunque vietata l'adozione del proprio figlio naturale.
Il procedimento, gli effetti e la revoca
Il giudice competente a pronunciarsi è il tribunale dei minorenni del distretto in cui si trova il minore:Deve essere verificata la sussistenza dei requisiti necessari all'adozione con sempre in primo piano l'interesse del minore. Occorre il consenso dell'adottante e dell'adottando che ha più di quattordici anni. Deve essere comunque sentito il minore se ha più di dodici anni, o meno, se in grado di discernimento. Occorre altresì l'assenso dei genitori e del coniuge dell'adottando. Per effetto dell'adozione, gli adottanti acquistano la potestà sul minore, con l'obbligo di mantenerli, istruirli ed educarli. Essi amministreranno i beni dell'adottato, ma non spetta loro l'usufrutto legale. L'adottato assume il cognome dell'adottante e lo antepone al proprio.L'adottato assume i diritti successori spettanti ad un figlio legittimo, mentre nessun diritto acquista l'adottante.
Questo tipo d'adozione, a differenza di quella legittimante, è revocabile.(Casi di tentato omicidio tra adottante e adottato o pene per l'adottato, per delitti nei loro confronti,non inferiori a tre anni, o viceversa).
L'adozione internazionale: la Convenzione dell'Aja e la riforma del 1998
L'adozione internazionale,cioè la possibilità di adottare bambini di altre nazioni,ha avuto la sua prima regolamentazione nel 1983. Era però questa molto inadeguata, in quanto molto spesso gli adottanti si recavano all'estero e prendevano contatti con personale non qualificato o addirittura con le famiglie stesse del minore da adottare,col rischio di compiere veri e propri abusi. A questi problemi ha dato una soluzione la Convenzione dell'Aja del 29 Maggio 1993 per la tutela dei bambini e la cooperazione nell'adozione internazionale di cui anche l'Italia si è resa firmataria.
La convenzione individua in modo preciso le condizioni necessarie affinché l'adozione possa aver luogo: dichiarazione di adottabilità del minore da parte delle autorità straniere;accertamento da parte delle stesse autorità dell'impossibilità di adozione nello stato di origine,di modo che l'adozione internazionale sia l'unica via praticabile.
La legge 31 Dicembre 1998,n. 476 con cui l'Italia ha ratificato e ha dato esecuzione alla Convenzione, ha opportunamente riservato al tribunale per i minorenni i compiti propriamente giudiziari, attribuendo invece compiti di carattere amministrativo e di politica generale alla Commissione per le adozioni internazionali.
La nuova legge ha introdotto altresì l'obbligo per coloro che aspirano all'adozione interna- zionale di rivolgersi ad uno degli enti aurorizzati,ponendo così fine "all'adozione fai da te.
Il procedimento e gli effetti.
Per adottare un bambino straniero (art. 29/bis) gli aspiranti adottanti devono presentare una dichiarazione di disponibilità al tribunale per i minorenni del luogo in cui risiedono (gli italiani all'estero devono presentarla al tribunale dei minori della loro ultima residenza in Italia o, in mancanza, a quello di Roma.
Tramite la dichiarazione di disponibilità, i coniugi chiedono che venga riconosciuta la loro idoneità all'adozione: i requisiti necessari sono i medesimi richiesti per l' adozione nazionale.
Il tribunale trasmette agli enti locali la dichiarazione e questi accertano le condizioni e motivazioni degli aspiranti adottanti. Finita l'indagine trasmettono l'esito al tribunale, che entro due mesi si pronuncia sull’idoneità dei coniugi.
Il decreto di idoneità viene trasmesso, con tutta la documentazione, alla Commissione per le adozioni internazionali e all'ente cui i coniugi hanno dato l'incarico. L'ente prende contatto con l'autorità straniera e riceve le proposte di incontro, con le caratteristiche del minore individuato. L'ente cura, inoltre, il primo incontro fra il minore e gli adottanti. Pronunciata l'adozione da parte dell'autorità straniera, affidando il minore agli adottanti,l'ente informa subito la Commissione e chiede che venga autorizzato l'ingresso del minore in Italia.La commissione, ricevuta la documentazione e valutate le conclusioni, nel rispetto del superiore interesse del minore, autorizza l'ingresso.
Ricevuta l'autorizzazione della Commissione, gli uffici consolari rilasciano al minore il visto d'ingresso per l'adozione. Entrato in Italia, il bambino gode di ogni diritto riconosciuto dalla legge al minore italiano in affidamento familiare.
Il provvedimento straniero produce effetti legittimanti, ma il tribunale per i minorenni fa una nuova serie di controlli nell'interesse del minore. Se,infatti, l'adozione deve essere perfezionata dopo l'arrivo del minore in Italia, il tribunale dei minori riconoscerà il provvedimento straniero come affidamento preadottivo di un anno. Sentito poi il parere del minore, il tribunale si pronuncerà sulla sua permanenza nella nuova famiglia.
Il minore straniero abbandonato in Italia.
Al minore straniero che venga a trovarsi in stato di abbandono in Italia, si applicano in forza dell'art. 37 bis, le disposizioni italiane in materia di adozione, di affidamento e di provvedimenti necessari in caso di urgenza. Esempi sono i minori profughi o rifugiati, oppure minori che, trovandosi in Italia per scopi diversi dall'adozione, si siano poi venuti a trovare in una situazione di abbandono ( ad esempio per morte e per disinteresse dei genitori esercenti la potestà).
Il diritto dell'adottato a conoscere le proprie origini
La legge n. 149/2001 ha in parte modificato l'art. 28 introducendo nuovi principi rispetto al passato. Rimane invariato l'obbligo di rilasciare attestazioni dello stato civile con la sola indicazione del nuovo cognome, senza fare riferimento ai genitori di sangue, come invariato rimane il divieto per l'ufficiale di stato civile e l'ufficiale di anagrafe di fornire indicazioni o rilasciare certificati da cui risulti il rapporto di adozione,salvo espressa autorizzazione dell'autorità giudiziaria. Sono state introdotte,invece, nuove disposizioni in ordine alla possibilità per l'adottato di avere notizie sulla propria famiglia d'origine; possibilità negata in passato anche al raggiungimento della maggiore età, tranne nei casi della salvaguardia della salute dell'adottato. La nuova legge stabilisce innanzitutto a carico dei genitori adottivi l'obbligo di informare il minore sulla propria condizione di figlio adottato, nei modi e nei termini da loro ritenuti più idonei. Durante la minore età è possibile per i nuovi genitori, se sussistono gravi motivi,avere notizie dei genitori di sangue. Anche il figlio, per tali motivi ,può sapere della famiglia d'origine se ha raggiunto la maggiore età. Dopo i venticinque anni può avere informazioni sulla famiglia d'origine in ogni caso.
La legge però non permette di avere informazioni se la madre naturale non ha riconosciuto il figlio o se uno dei suoi genitori ha dichiarato di non essere nominato, o abbia acconsentito all'adozione ponendo la condizione di rimanere anonimo.
L'adozione dei maggiorenni
L'adozione dei maggiorenni ha una funzione diversa da quella dell'adozione del minore. Quest'ultima, infatti, è posta a tutela del minore che si trova in stato di abbandono o cerca il suo inserimento in una famiglia idonea,rescindendo ogni legame con la famiglia d'origine.La prima invece soddisfa, più che altro, l'interesse dell'adottante, privo di discendenti legittimi o legittimati, ad acquisire un figlio cui trasmettere il proprio cognome e le proprie sostanze. La corte Costituzionale ha dichiarato che l'adozione dei maggiorenni possa avvenire anche in presenza di figli legittimi o legittimati maggiorenni, cosa che in passato non era possibile. Tra l'adottato e l'adottante ci devono essere almeno diciotto anni di differenza.
Nessuno può essere adottato da più di una persona, tranne che non siano marito e moglie. E' vietato adottare i propri figli nati fuori dal matrimonio.
Per detta adozione occorrono i consensi dell'adottato e dell'adottante , con la possibilità di revoca prima della decisione del tribunale. Occorrono inoltre i consensi dei genitori dell'adottando e del coniuge dell'adottante e dell'adottando che non sia legalmente separato. Il tribunale, dopo aver verificato che ci siano fattori di convenienza per l'adottando,si pronuncia con sentenza. La sentenza definitiva che dispone l'adozione è trascritta in un apposito registro tenuto presso la cancelleria del tribunale ed annotata a margine dell'atto di nascita dell'adottato.
Gli effetti dell'adozione sono i medesimi dell'adozione particolare: mantenimento dei rapporti con la famiglia d'origine, acquisto del cognome e acquisto dei diritti successori solo in capo all'adottato.
L'adozione può essere revocata per indegnità dell'adottato.
Capitolo quindicesimo
La parentela e l'obbligo alimentare
La parentela e l'affinità
La parentela è il legame di sangue che unisce persone discendenti da un medesimo stipite. L'intensità del vincolo va determinata tenendo conto di due elementi: la linea e il grado.Sono parenti in linea retta le persone discendenti l'una dall'altra (nonni, genitori, figli), mentre sono di parenti in linea collaterale le persone che hanno un ascendente comune, ma che non discendono l'uno dall'altro ( fratelli, cugini, ecc.). Il grado è l'intervallo generazionale che separa tra loro due o più soggetti; nella linea retta, per ogni generazione si computa un grado, escludendo però lo stipite ( tra padre e figlio intercorre una parentela di primo grado); nella linea collaterale, il computo deve essere eseguito effettuando la somma dei gradi che intercorrono tra ognuno dei due parenti e il comune ascendente, il quale deve essere escluso dal computo ( due fratelli sono, infatti, parenti di secondo grado).
Il vincolo di parentela non viene riconosciuto dalla legge oltre il sesto grado, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati.
La parentela viene tradizionalmente distinta in legittima, quando si tratta di vincoli di sangue in circostanza di matrimonio e naturale, che pone questioni alquanto dibattute in dottrina. Prima del diritto di famiglia, infatti, si riteneva che il rapporto di filiazione naturale fosse circoscritta solo al rapporto tra il genitore e il figlio e i discendenti di questo. Oggi le novità introdotte dalla riforma tendono ad allargare il concetto di parentela naturale, almeno in linea retta.
La parentela è produttiva di effetti patrimoniali e non patrimoniali. Tra gli effetti patrimoniali ricordiamo quelli previsti nel campo della successione necessaria, legittima e in ordine agli alimenti. Tra gli effetti non patrimoniali ricordiamo l'impedimento a con- trarre matrimonio, la legittimazione a proporre istanza di interdizione e la non riconoscibilità dei figli incestuosi.
L'affinità è il vincolo che unisce un coniuge ai parenti dell'altro coniuge, computata anch'essa in virtù della linea e del grado.
Gli alimenti
L'obbligo alimentare, al cui adempimento sono tenuti determinati soggetti indicati dal- la legge, consiste nella prestazione , a favore di colui che versa in stato di bisogno, dei mezzi necessari per vivere. Il dirito alimentare ha carattere personale, dal che deriva l'impossibilità dei creditori di rifarsi su di esso e cessa con la morte dell'obbligato. Il
sorgere dell'obbligo alimentare è legato alla sussistenza di presupposti determinati, il primo dei quali è rappresentato dal particolare legame, di parentela o riconoscenza, che deve unire obbligato e alimentando. L'altro presupposto è che l'alimentando si trovi in una situazione di bisogno, non avendo cespiti patrimoniali e che sia impossibilitato a svolgere attività lavorativa idonea a produrre un adeguato reddito e che ci sia disponibilità economica da parte dell'obbligato. Quanto alla disponibilità dell'obbliga-to, essa deve essere valutata tenendo in considerazione le sue esigenze di vita e quella dei suoi familiari,oltre alla misura dei beni e dei redditi di cui gode. (Sul contenuto del concetto di bisogno,esso è da intendere come il necessario per la vita che comprende il vitto, l'abitazione, il vestiario, le cure mediche e tutto ciò che serve ad assicurare una vita dignitosa; se minore, in più, ciò che serve alla sua educazione ed istruzione.
I soggetti tenuti all'obbligo alimentare
L'art. 433 c.c. oltre a individuare i soggetti tenuti all'obbligo alimentare, stabilisce anche l'ordine di carattere progressivo per adempiervi. Il coniuge è il primo soggetto sul quale grava l'obbligo di prestare gli alimenti. E' da ricordare che il coniuge a cui sia stata addebitata la separazione, ma che si trovi in stato di bisogno, può pretendere gli alimenti. Allo stesso modo il coniuge a cui sia stata imputata la nullità del matrimonio deve prestare gli alimenti, se l'altro è in stato di bisogno. Stesso dicasi per un coniuge "assente".
Obbligati agli alimenti, subito dopo il coniuge, sono i figli legittimi, legittimati, naturali o adottivi, e, in mancanza di costoro, i discendenti prossimi, anche naturali (figli naturali equiparati ai legittimi).
Dopo questo primo ordine la seconda categoria di obbligati è quella dei genitori. Essi, come sappiamo, provvedono ai figli minorenni e a quelli maggiorenni ancora privi di autonomia. Se un maggiorenne, dopo un periodo di autonomia, si ritrova in uno stato di bisogno, ha diritto agli alimenti da parte di essi. Stesso dicasi per gli adottanti, che hanno la precedenza sui genitori di lui.
All'obbligo alimentare sono tenuti anche gli affini, quali generi, nuore e i suoceri.
Gli ultimi soggetti tenuti all'obbligo alimentare sono i fratelli e le sorelle.
Una volta individuati i soggetti su cui incombe l'obbligo alimentare, il codice civile prevede che ci possa essere un concorso di obbligati, ciascuno in proposizione alle condizioni economiche.
L'adempimento dell'obbligo alimentare
Quanto ai modi attraverso i quali è possibile somministrare gli alimenti, all'obbligato è lasciata la possibilità di scegliere alternativamente tra la prestazione di un assegno periodico, in via anticipata, e l'accoglimento e il mantenimento del bisognoso nella
propria casa. Se le condizioni di base del bisognoso o dell'obbligato cambiano, il giudice può modificare, su domanda dell'interessato, la misura della prestazione alimentare.
Il diritto agli alimenti si estingue per morte dell'alimentando o dell'alimentato.
Fonte: http://studiando.altervista.org/UNIVERITY/opzionali/Sesta-riassunto.doc
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