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Capitolo 1: "Legittimazione e compiti del diritto penale"
1. Teorie della pena e tipi di Stato.
Un grande storico del diritto, Rudolf Von Jhering, aveva affermato che la storia della pena è una continua evoluzione. Nel 1700 c'erano ancora pene terribili come la pena di morte eseguita con modalità atroci, le pene corporali come il taglio del naso e della lingua e pene infamanti come la gogna e la berlina; nel corso dei due secoli successivi le sanzioni penali sono diventate meno dure: la pena detentiva ha pian piano sostituito queste pene inumane fino all'abolizione totale in molti paesi della pena di morte; infatti il carcere oggi ha un ruolo centrale nei sistemi penali. La risposta agli interrogativi su "che cosa legittimi il ricorso dello Stato all'arma della pena", cioè quali sono i presupposti e gli scopi che giustificano l'inflizione deliberata ad un essere umano di una pena e, in particolare, della privazione della libertà personale, è stata data dalle Teorie della pena: la teoria retributiva, la teoria generalpreventiva e la teoria specialpreventiva.
Secondo la teoria retributiva la pena è un male inflitto dallo Stato per compensare, cioè retribuire, il male che un uomo ha inflitto ad un altro uomo o alla società (occhio per occhio, dente per dente). Quindi si punisce perché è giusto non perché la pena sia utile in vista di un qualsiasi scopo. La teoria retributiva è una teoria assoluta, cioè non è interessata agli effetti della pena, è svincolata dalla considerazione di un qualsiasi fine da raggiungere.
Invece le teorie preventive sono teorie relative, cioè sono incentrate sugli effetti della pena.
Secondo la teoria generalpreventiva la pena è un mezzo per orientare le scelte di comportamento della generalità dei suoni destinatari, attraverso: (1 l'intimidazione, associata al contenuto afflittivo della pena, alla quale si assegna una funzione di controspinta psicologica, cioè che neutralizza le spinte a delinquere dei consociati; (2 l'orientamento culturale, cioè attraverso l'azione pedagogica che viene svolta dalla norma penale nel lungo periodo, che quindi crea nella collettività una spontanea adesione ai valori espressi dalla legge. Quest'ultimo effetto piano piano dovrebbe cioè sostituirsi all'obbedienza che viene dettata dal timore della pena.
Mentre secondo la teoria specialpreventiva la pena è uno strumento per prevenire che l'autore di un reato possa in futuro commettere altri reati attraverso: (1 la risocializzazione, cioè aiutando il condannato ad inserirsi nella società nel rispetto della legge; (2 se il condannato non vuole o non può essere risocializzato, attraverso l'intimidazione insieme al contenuto afflittivo della pena, alla quale si assegna una funzione di controspinta psicologica che neutralizza le spinte a delinquere del condannato; (3 se il condannato non è risocializzabile e non si lascia intimidire, attraverso la neutralizzazione, cioè rendendo il condannato inoffensivo, o comunque cercando di rendergli più difficile la commissione di nuovi reati.
Non esiste una teoria della pena che si imponga come vincente sulle altre, perché la legittimazione della pena varia a seconda del tipo di Stato in cui si pone il problema: in uno Stato teocratico ogni comportamento immorale o peccaminoso può essere represso come reato e la pena può legittimarsi nella giustizia divina, cioè come retribuzione del male; invece in uno Stato totalitario, dove si esige che il cittadino abbia una fedeltà incondizionata nella legge, si reprime come reato qualsiasi sintomo di ribellione e quindi la pena ha il compito di ottenere la fedeltà alla legge. I tre principali poteri dello Stato: legislativo, esecutivo, giudiziario, esercitano un potere punitivo: il potere legislativo deve selezionare i comportamenti penalmente rilevanti e deve dettare comandi e divieti e minacciare le pene ai trasgressori; il potere esecutivo riguarda l'esecuzione da parte del giudice delle pene inflitte; il potere giudiziario accerta la violazione delle norme legislative e infliggere pene adeguate nel caso concreto.
2. La legittimazione del ricorso alla pena da parte del legislatore.
Il ricorso della pena da parte del legislatore non può avere fini trascendenti o etici, cioè non può avere come fine la retribuzione del male del reato con un male equivalente e non può reprimere un comportamento solo perché è ritenuto riprovevole da un codice etico; ma il ricorso della pena da parte del legislatore ha come fine la prevenzione generale che ha come limite la funzione di prevenzione speciale, cioè di rieducazione, che la Costituzione assegna alla pena nello stadio della sua inflizione e esecuzione, prevista dall'articolo 27, 3 comma del codice penale, quindi devono evitare pene che comportano la segregazione a vita del condannato, o che sono tanto severe da non essere sentite come giuste dal loro destinatario, il quale potrebbe quindi rifiutare qualsiasi forma di aiuto per essere reinserito nella società. Da questo punto di vista nel nostro ordinamento risulta un problema la pena dell'ergastolo che, essendo una pena detentiva a vita, non da la possibilità per il condannato di ritornare nella società, tuttavia ciò è stato temperato prevedendo una serie di istituti, come la liberazione condizionale, che danno al condannato prospettive di essere reinserito nella società.
I criteri guida per selezionare i fatti penalmente rilevanti, fornendo una risposta alla domanda su quali contenuti possono avere le leggi che prevedono i reati sono: i principi di offensività, di colpevolezza, di proporzione, di sussidiarietà.
Secondo il principio di offensività non ci può essere un reato senza offesa a un bene giuridico, cioè a una situazione di fatto o giuridica, carica di valore, modificabile e quindi offendibile per effetto di un comportamento dell'uomo; cioè il legislatore non può punire nessuno per quello che è o per quello che vuole, ma può punire solo fatti che ledono o pongono in pericolo l'integrità di un bene giuridico. Tutto ciò è stato affermato dalla Corte costituzionale che ha attribuito al principio di offensività un rango costituzionale come vincolo oltre che per il giudice, anche per il legislatore: infatti la Corte ha affermato che il principio di offensive età opera su due piani: come precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprima in astratto un contenuto visivo, e come criterio interpretativo applicativo affidato al giudice nel caso concreto.
Secondo il principio di colpevolezza non ci può essere reato se l'offesa al bene giuridico non è personalmente rimproverabile al suo autore, in quanto rientrava nella sua sfera di controllo. Questo principio attraverso il principio di personalità della responsabilità penale prevista dall'articolo 27, 1 comma, della costituzione, è dotato di un rango costituzionale correlato alla funzione general preventiva della pena, infatti se il fine della pena è quello di orientare le scelte di comportamento dei consociati, gli effetti così ottenuti possono essere raggiunti solo se il fatto vietato è frutto di una libera scelta dell'autore, o può essere da lui evitato con la dovuta diligenza.
Secondo il principio di proporzione non ci può essere reato se i vantaggi per la società, che derivano dalla minaccia e dall'applicazione di una pena per un'offesa colpevole ad un bene giuridico, sono superiori ai costi immanenti alla pena stessa, cioè meritano il ricorso alla pena solo le offese sufficientemente gravi, che vengono arrecate colpevolmente a questo o quel bene giuridico, se invece i danni per la società e per l'individuo che derivano dal ricorso alla pena, non sono controbilanciati dalla dannosità sociale, il legislatore dovrà rinunciare ad attribuire a quei fatti rilevanza penale.
Secondo il principio di sussidiarietà la pena può essere utilizzato soltanto quando nessun altro strumento a disposizione dello Stato, sia esso sanzionatorio (ad esempio sanzione amministrativa) oppure no (ad esempio interventi di politica sociale) è in grado di assicurare al bene giuridico una tutela altrettanto efficace nei confronti di una determinata forma di aggressione, cioè oltre che meritata, proporzionata alla gravità del fatto, la pena deve essere necessaria, quindi si può fare ricorso a essa solo come ultima ratio.
Nei principi di proporzione è di sussidiarietà il legislatore ha compiuto a partire dal 1967 interventi di depenalizzazione, attraverso varie leggi che hanno trasferito molti reati tra gli illeciti amministrativi, si tratta soprattutto di illeciti non sufficientemente gravi che quindi non facevano apparire proporzionata la sanzione penale (ad esempio le violazioni in materia di circolazione stradale). Sia il principe di proporzione e sia quello di sussidiarietà sono collegate alla costruzione: il principio di proporzionalità è collegato al principio della rieducazione del condannato previsto dall'articolo 27, 3 comma della costituzione che dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato; mentre il principio di sussidiarietà è collegato al principio previsto dall'articolo 13, 1 comma della costituzione, dove si riconosce un carattere inviolabile alla libertà personale.
3. La legittimazione dell'inflizione della pena da parte del giudice.
Lo scopo che legittima l'inflizione della pena da parte del giudice è previsto dalla Costituzione all'articolo 27, 3 comma, che afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato; inoltre tra i vari tipi di pena previste per uno stesso reato il giudice dovrà scegliere quella più idonea a prevenire il rischio che il condannato possa di nuovo delinquere, intimidendolo o favorendo il suo reinserimento nella società; per questo motivo il giudice poi dovrà scegliere il quantum della pena, cioè la commiserazione della pena entro i limiti minimo e massimo che sono fissati da norme incriminatrice. Se il condannato pensasse che gli viene applicata una pena che è sproporzionata per eccesso rispetto alla sua colpevolezza, ogni prospettiva di rieducazione attraverso la pena sarebbe frustrata. E ciò è vietato proprio dal principio costituzionale di colpevolezza previsto dall'articolo 27, 1 comma della Costituzione che, non solo vincola il legislatore nella costruzione del reato, ma anche il giudice nella commisurazione della pena la quale, per favorire la rieducazione condannato, dovrà essere scelta dal giudice al di sotto del tetto segnato dalla misura della colpevolezza per il singolo fatto.
Un'altra giustificazione dell'inflizione della pena da parte del giudice è l'esigenza della prevenzione generale dei reati: cioè la previsione della pena deve essere seguita dalla sua applicazione in concreto con la pronuncia della sentenza di condanna, ciò per confermare la serietà della minaccia prevista dalle norme incriminatrice, in modo da far capire ai trasgressori della norma che non potranno violarla senza essere poi non essere puniti (ad esempio se gli autori di fatti di corruzione venissero scoperti e poi puniti, ciò provocherebbe una riduzione di questo tipo di reato). Però la prevenzione generale non può incidere nella commisurazione della pena, cioè il giudice non può quantificare la pena per distogliere i terzi dal commettere dei reati in futuro, perché questa pene esemplari contrastano con due principi costituzionali: 1. con il principio di personalità della responsabilità penale prevista dall'articolo 27, 1 comma della costituzione, perché una parte della pena che viene applicata al singolo si fonderebbe non su ciò che ha fatto lui ma su ciò che in futuro potranno fare altre persone; 2. con il principio della dignità dell'uomo il quale non può essere considerato come un mezzo per conseguire scopi estranei alla sua persona, previsto dall'articolo 3, 1 comma del codice penale.
Per alcuni tipi di reati di gravità medio bassa il giudice può stabilire che la pena non venga eseguita, oppure può sostituirla con pene diverse e meno gravi di quella inflitta. In questa fase domina l'idea della prevenzione speciale: cioè il giudice che ha di fronte l'autore di un reato non grave può decidere di evitargli gli effetti desocializzanti del carcere attraverso la sospensione condizionale della pena (in genere entro il limite di due anni di pena detentiva) se pensa che questo soggetto in futuro non commetterà altri reati; oppure il giudice può prevedere la sostituzione della pena detentiva breve (cioè non eccedente i due anni) con una pena non privativa, cioè con una pena pecuniaria o una libertà controllata, o solo parzialmente privativa della libertà personale, cioè la semidetenzione, e quando dovrà scegliere tra questi vari tipi di pena sostitutiva il giudice dovrà scegliere quella più adatta a favorire il reinserimento sociale del condannato, o che comunque comporti per il condannato minori rischi di desocializzazione.
4. La legittimazione dell'esecuzione della pena da parte del potere esecutivo.
L'esecuzione della pena ha un fondamento special preventivo, infatti la pena inflitta dal giudice deve essere eseguita e questo compito è affidato agli organi del potere esecutivo (cioè gli organi del ministero della giustizia come l'apparato dell'amministrazione penitenziaria, e gli organi del ministero dell'interno come la polizia di Stato). È per un'esigenza di prevenzione generale che le pene stabilite dal legislatore e inflitte dal giudice devono poi essere eseguite, perché altrimenti un sistema in cui nessuno si preoccupi di eseguire questa pene perderebbe tutta la sua credibilità. Per quanto riguarda in particolare la pena detentiva la sua esecuzione ha una finalità di prevenzione speciale perché ha lo scopo di favorire la rieducazione del condannato per consentire un suo reinserimento nella società, rispettandone le regole.
Tuttavia ci sono dei limiti alla funzione rieducativa: in primo luogo affinché sia fatta salva la dignità dell'uomo e la pena rispetti il principio di umanità la rieducazione non può avere la forma della trasformazione coattiva dalla personalità, ma deve avere la forma dell'offerta di aiuto; inoltre se il condannato non è suscettibile né di essere reinserito nella società, né sembra sensibile agli effetti di intimidazione e ammonimento della pena, lo scopo della pena non è più quello della rieducazione ma quello della neutralizzazione del condannato, come accade ad esempio per molti esponenti di spicco della criminalità organizzata, della mafia e delle organizzazioni terroristiche, infatti in questi casi il fine della pena è la difesa della società dal rischio che il detenuto mantenga dal carcere contatti con le organizzazioni criminali di appartenenza e quindi continui a delinquere anche durante l'esecuzione della pena, come previsto dagli articoli 4 bis e 41 bis dell'ordinamento penitenziario.
5. I rapporti tra il diritto penale e gli altri rami dell'ordinamento.
La disciplina stabilita dal nostro ordinamento ha previsto una articolata e differenziata efficacia del giudicato penale di condanna nei giudizi extra penali, cioè civili, amministrativi e disciplinari.
*Nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato o che sia intervenuto nel processo penale, la condanna con sentenza penale irrevocabile è pronunciata in seguito al dibattimento e ha efficacia di giudicato riguardo all'accertamento del fatto, della sua liceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, la stessa efficacia ha anche la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata a norma dell'articolo 442, cioè resa nel giudizio abbreviato salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il giudizio abbreviato (come stabilisce l'articolo 651, 1 e 2 commi del codice di procedura penale). Tutto ciò colloca fuori dall'area dell'efficacia del giudicato le sentenze di applicazione della pena su richiesta dell'imputato e del pubblico ministero, perché si tratterebbe di un procedimento speciale caratterizzato da una limitazione delle garanzie della difesa che impedisce l'attuazione degli effetti della sentenza penale nei procedimenti extra penali.
*Negli altri giudizi civili e amministrativi la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in seguito al dibattimento ha efficacia di giudicato quando si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali oggetto del giudizio penale, purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa (come stabilisce l'articolo 654 del codice di procedura penale); anche in questo caso sono escluse le sentenze di condanna non pronunciate in esito a un dibattimento.
*Nei giudizi disciplinari la sentenze irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità riguardo all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso (come stabilisce l'articolo 653, comma 1 bis del codice di procedura penale); la stessa efficacia nel giudizio per responsabilità disciplinare è stata attribuita anche alla sentenza pronunciata a seguito del patteggiamento, cioè nel caso di applicazione della pena su richiesta dell'imputato e del pubblico ministero (come stabilisce l'articolo 445, 1 comma del codice di procedura penale).
I rapporti del diritto penale di altri rami dell'ordinamento riguardano anche l'accessorietà e l'autonomia del diritto penale rispetto alla disciplina extra penale dei fatti che costituiscono le figure di reato. Ci sono due gruppi d'ipotesi: a. Ci sono norme incriminatrici in rapporto di accessorietà con gli altri rami dell'ordinamento che disciplinano materie che sono in parte già previste dal rito civile o amministrativo e alle cui regole il giudice penale dovrà far riferimento, non dovrà solo constatare dei fatti ma dovrà anche applicare quelle regole giuridiche extra penali. E' Il campo occupato dagli elementi normativi della fattispecie legale (ad esempio nel furto l'altruità della cosa indica che la cosa non è di proprietà dell'autore del furto, e il relativo accertamento comporta l'applicazione al caso concreto delle regole civilistiche sui modi di acquisto del diritto di proprietà); b. Invece altre norme incriminatrici sono caratterizzate da autonomia rispetto agli altri rami dell'ordinamento, in primo luogo come autonomia del significato da attribuire a un dato termine, anche se è presente in quegli altri rami. Certe volta è la legge a conferire quel significato autonomo stabilendo che cosa significa questo o quel termine, qualunque sia la norme incriminatrice in cui compaia; altre volte invece è in via di interpretazione che si stabilisce il significato di un dato termine e lo si adatta alle esigenze di tutela dei beni giuridici che caratterizzano una determinata norma incriminatrice (ad esempio la nozione di possesso di una cosa mobile all'interno dell'appropriazione indebita, che viene ricostruita abbracciando rapporti con la cosa, come la custodia, più ampi di quelli compresi sotto quella nozione dal diritto civile.
L'autonomia del diritto penale rispetto agli altri rami dell'ordinamento si manifesta anche sotto altri profili: infatti per soddisfare l'esigenza di tutela che è espressa dalle varie norme incriminatrici, viene ampliato in via interpretativa il raggio d'azione reprimendo fatti che non troverebbero tutela in altri rami dell'ordinamento (ad esempio il caso della truffa che viene commessa nell'ambito di un contratto illecito).
Anche l'unità dell'ordinamento giuridico riguarda i rapporti tra il diritto penale e gli altri rami del diritto pubblico e privato, e questa unità si esprime nella coerenza che caratterizza l'ordinamento giuridico, al cui interno sono inconcepibili contraddizioni insanabili (ad esempio è inammissibile che uno stesso fatto venga considerato allo stesso tempo lecito e illecito, è normale che possono manifestarsi delle antinomie, ma è lo stesso sistema che deve fornire gli strumenti per eliminarle); il primo compito dell'interprete è di trovare la via per realizzare la coerenza dell'ordinamento. Gli istituti che fanno emergere la connessione tra i vari settori dell'ordinamento e l'unità del sistema sono le cause di giustificazione, cioè doveri e facoltà che derivano da norme situate in ogni settore dell'ordinamento e che, rispettivamente, autorizzano o impongono la commissione di un fatto rendendolo lecito nell'intero ordinamento e che quindi impediscono l'applicazione delle sanzioni previste per quel fatto dai vari settori dell'ordinamento.
6. Diritto penale e problemi probatori.
Una regola di rango costituzionale: il principio della presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva previsto dall'articolo 27, 2 comma della cost., impone all'accusa l'onere di provare la sussistenza degli elementi costitutivi del reato.
Il codice di procedura penale del 1988 ha fissato le regole probatorie sulla cui base va pronunciata la sentenza di assoluzione: non solo quando c'è la prova che il fatto non sussiste, che l'imputato non lo ha commesso, che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato, o che è stato commesso da una persona non imputabile o non punibile per qualche ragione (come stabilisce l'articolo 530, 1 comma del codice di procedura penale), ma anche quando c'è il dubbio che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona non imputabile, perché manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova (come stabilisce l'articolo 530, 2 comma del codice di procedura penale. Inoltre il giudice può pronunciare una sentenza di assoluzione anche se c'è la prova che il fatto commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa di non punibilità, o se c'è il dubbio sull'esistenza di esse. Questo quadro però è esplicitamente contraddetto dal legislatore che viola le regole probatorie quando elabora le norme incriminatrici che delineano i cosiddetti reati di sospetto, cioè quei reati al cui interno c'è una regola probatoria anomala perché essa solleva la pubblica accusa dal peso di provare la presenza di un elemento costitutivo del reato e trasferisce sul imputato l'onere di provare l'assenza di quell'elemento: la Corte costituzionale ha affermato l'illegittimità costituzionale di questa norme incriminatrici.
Esistono anche le violazione delle regole probatorie da parte della giurisprudenza quando essa modifica la struttura del reato sempre per sollevare l'accusa dall'onere probatorio, quindi ricostruisce la fisionomia di un elemento costitutivo per rendere più agevole la prova della sua sussistenza nel caso concreto. Tra i reati di cui viene modificata illegittimamente la struttura c'è innanzitutto il dolo, che è composto dalla rappresentazione e dalla volizione di un fatto di reato, e quindi è presente e provato solo se si accerta che l'agente ha avuto l'effettiva rappresentazione e volizione di quel fatto, invece una rappresentazione solo potenziale può fondare solo un rimprovero di colpa; però quando l'accusa non riesce a provare la rappresentazione del fatto, spesso il giudice interviene in suo soccorso modificando la struttura del dolo e ritenendo sufficiente accertare che l'agente potesse e dovesse prevedere la realizzazione del fatto, trasformando quindi la prova del dolo incavo della colpa.
Esiste inoltre lo stravolgimento del rapporto di causalità: si tratta del rapporto tra due elementi del fatto di reato: l'azione (o l'omissione) e l'evento concreto che deve essere conseguenza dell'azione o omissione come stabilisce l'articolo 40, 1 comma del codice penale. A volte non si può provare
la sussistenza di un rapporto di derivazione causale tra un'azione e un singolo evento concreto perché non sono ancora disponibili leggi scientifiche con cui spiegare se quell'evento concreto è davvero riconducibile a quella determinata azione, come alla sua causa; ci possono magari essere indagini epidemiologiche, che però mostrano solo come quel tipo di azione possa avere aumentato la probabilità del verificarsi di eventi del genere di quello che si è verificato in concreto. Per aggirare questo ostacolo probatorio la giurisprudenza stravolge la fisionomia del rapporto di causalità, e quindi quel rapporto non dovrebbe più intercorre tra azione e evento ma tra azione e pericolo dell'evento; così la categoria dei reati di evento (ad esempio omicidio, lesioni) vedrebbe la sua struttura completamente modificata. Le ragioni di questo stravolgimento da parte della giurisprudenza sono politico-criminali, perché si vogliono soddisfare i bisogni di punizione che sono alimentati dalla moderna società del rischio, caratterizzata da fenomeni che possono mettere in serio pericolo l'incolumità delle popolazioni; però è solo il legislatore che può assolvere questo compito elaborando nuove norme incriminatrici, mentre la tendenza della giurisprudenza a stravolgere la fisionomia del rapporto di causalità è contra legem.
7. La legislazione penale italiana: cenni.
Il primo codice penale in vigore nel regno d'Italia fu approvato nel 1889 e rimase in vigore dal 1890 al 1931, si chiamava codice Zanardelli, dal nome del ministro guardasigilli del tempo, e aveva le caratteristiche del diritto penale liberale. Nella parte generale riaffermava i principi di garanzia dell'Illuminismo: il principio di legalità, di irretroattività, di colpevolezza; aveva previsto l'abolizione della pena di morte, aveva abbassato sensibilmente i livelli edittali di pena. Nella parte speciale prevedeva un rapporto tra Stato e cittadino non autoritario, prevedendo anche una vasta gamma di delitti contro la libertà la quale, era considerata da Zanardelli una prerogativa naturale dell'uomo, e introducendo una reazione scriminante agli atti arbitrari del pubblico ufficiale.
Al codice Zanardelli succede il codice Rocco, così chiamato dal nome del ministro guardasigilli del tempo, Alfredo Rocco, esso è stato approvato nel 1930 ed è entrato in vigore nel 1931. A differenza del codice precedente, il codice Rocco nasce nel contesto di uno Stato autoritario: dal 1926 in Italia si era instaurato un regime che prevedeva lo svolgimento dell'attività politica da parte di un solo partito e incriminava l'appartenenza a partiti diversi da quello fascista. L'influenza della cultura liberale a fatto sì che nella parte generale del codice vengano conservati alcuni principi di garanzia come i principi di legalità e di irretroattività delle norme incriminatrici, invece altri principi come quello di colpevolezza vengono interrogati, vengono introdotte numerose ipotesi di responsabilità oggettiva e in molti casi si considerano penalmente responsabili persone che al momento del fatto erano incapaci di intendere e di volere. Tra le pene ricompare, già anticipata nel 1926, la pena di morte prevista sia per i diritti politici e sia per quelli comuni. Nella parte speciale che ha previsto un innalzamento dei livelli di pena, con un ampio ricorso alla pena dell'ergastolo, c'è un ampliamento dei delitti contro la personalità dello Stato, mentre si aboliscono i delitti contro la libertà politica; si puniscono molte manifestazione del pensiero prevedendo vari reati di opinione (ad esempio i reati di vilipendio alle istituzioni o agli emblemi dello Stato, l'apologia di reato); si incrimina lo sciopero qualunque sia il suo scopo; si prevede una tutela privilegiata per la religione cattolica considerata come religione dello Stato dopo la firma dei patti lateranensi tra il regime fascista e la Chiesa cattolica; scompare la reazione scriminante agli atti arbitrari del pubblico ufficiale.
Subito dopo la caduta del fascismo e prima ancora della nascita del nuovo Stato repubblicano, il governo provvisorio ha abolito la pena di morte e ripristinato la reazione scriminante agli atti arbitrari, nonché le circostanze attenuanti generiche che serviranno come strumento per mitigare delle pene previste nel codice e nella legislazione speciale. È stata proposta anche la progettazione di un nuovo codice penale, infatti dal 1948 al 2003 ci sono state varie proposte che però non hanno mai avuto successo. Comunque la mancata riforma globale del codice penale non ha impedito di modificare importanti istituti sia dalla parte generale che dalla parte speciale del codice.
Per quanto riguarda la parte generale sono state importanti: una legge del 1974 che modifica in senso favorevole al re il trattamento sanzionatorio del concorso di reati, la disciplina della sospensione condizionale della pena e quella del giudizio di bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti; la riforma penitenziaria del 1975; una legge del 1981 che, oltre ad operare una vasta depenalizzazione di illeciti minori, introduce la nuova tipologia delle pene sostitutive della detenzione breve; una legge del 1990 che elimina la responsabilità oggettiva per le circostanze aggravanti; la riforma del 2005 della prescrizione del reato, della recidiva e delle attenuanti generiche con la legge ex Cirielli; una riforma del 2006 che ha ampliato i limiti della legittima difesa nei luoghi di privata dimora; infine nell'ambito della legge intitolata "modifiche al codice penale in materia di reati di opinione" (legge 85 del 2006) è stata parzialmente riformata la disciplina della successione di leggi penali.
Invece nella parte speciale ci sono state: la riforma della disciplina dell'aborto nel 1978; interventi sulla disciplina della criminalità organizzata, comune o con finalità di terrorismo; una serie di modifiche alla normativa in materia di delitti contro la pubblica amministrazione; la riforma nel 1996 dei delitti contro la libertà sessuale; l'introduzione nel 1998 e nel 2006 di nuove norme incriminatrici per la repressione della pedofilia; la nuova disciplina dei reati in materia di schiavitù nel 2003; l'introduzione di una norma rivolta a reprimere le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili nel 2006.
Nel tempo hanno assunto un ruolo sempre più importante le leggi penali speciali (chiamate anche leggi complementari, cioè situate fuori dal codice penale) e a cui si applicano gli istituti della parte generale del codice. Sono diventato oggetto di leggi speciali oltre alle materie come quella fallimentare, societaria e tributaria, anche i reati in materia di ambiente, di urbanistica, di lavoro, di armi, di mercati finanziari e di stupefacenti.
Un impulso molto importante al superamento dei caratteri illiberali della legislazione penale è stato dato dalla corte costituzionale, che in particolare ha valorizzato i principi costituzionali di colpevolezza, di riserva di legge e di eguaglianza, oltre ai diritti di libertà sanciti dalla costituzione come la manifestazione del pensiero, lo sciopero, la riunione. Sono state molto importanti due decisioni della corte fondate sui principi di colpevolezza: nella prima la corte ha limitato l'irrilevanza dell'errore sulla legge penale ai soli casi in cui l'errore non sia scusabile, nella seconda la corte ha messo al bando la responsabilità oggettiva individuando nella colpa un limite invalicabile per l'attribuzione della responsabilità penale. Per quanto riguarda il principio di riserva di legge la corte ha dichiarato illegittima la norma incriminatrice del delitto di plagio e di una norma in materia di espulsione dello straniero. Per quanto riguarda invece le pronunce di accoglimento fondate sul principio di eguaglianza ci sono state: quella che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della conversione delle pene pecuniarie in pene detentive, una serie di sentenze in materia di misure di sicurezza che hanno portato il legislatore nel 1986 a richiedere che il giudice accerti la pericolosità per l'applicazione delle misure di sicurezza. Per quanto riguarda invece la parte speciale due sentenze hanno dichiarato l'illegittimità della norma che poneva il vilipendio della sola religione cattolica e della norma che prevedeva pene più grave per le offese alla religione cattolica recate attraverso il vilipendio di chi la professa o dei i ministri di culto, nonché una sentenza che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme incriminatrici dell'adulterio e del concubinato che comportavano un trattamento più severo per l'infedeltà della moglie rispetto a quella del marito. Per quanto riguarda i diritti costituzionali libertà, in base all'articolo 21 della costituzione che sancisce la libertà di manifestazione del pensiero, ci sono state delle sentenze con cui la corte ha dichiarato l'illegittimità delle norme incriminatrici delle associazioni antinazionali, della propaganda fatta per distruggere o deprimere il sentimento nazionale, del pubblico incitamento a pratiche contro la procreazione, nonché sentenze che hanno ristretto l'area di applicazione della fattispecie di pubblica apologia di delitti e di pubblica istigazione all'odio tra le classi sociali. Infine riguardo all'articolo 40 della costituzione che sancisce il diritto di sciopero, la corte nel 1960 con delle pronunce ha eliminato dall'ordinamento la figura delittuosa dello sciopero per fini contrattuali e ha ridimensionato la figura dello sciopero politico.
Nonostante tutto ciò resta l'esigenza di una nuova codificazione penale in modo da avere un corpo normativo coerente in cui trovino piena espressione i valori e i principi che ispirano lo Stato democratico previsto dalla costituzione.
SEZIONE 2: LA LEGGE PENALE
Capitolo 2: " Le Fonti"
1. La funzione di garanzia del principio di legalità.
Il diritto penale già dal 1700 si è caratterizzato per la durezza delle sue sanzioni. È stato il pensiero illuministico a chiedere pene più miti e di stabilire limiti alla potestà punitiva dello Stato, a cominciare dal principio di legalità, cioè della riserva alla legge del compito di individuare i reati e le pene per mettere il cittadino al sicuro dagli arbitri del potere esecutivo e del potere giudiziario. In particolare Montesquieu ha stabilito il principio della separazione dei poteri e ha affermato il primato della legge penale nella materia penale, a garanzia del cittadino non solo dagli arbitri del potere esecutivo manca da quelli di giudici. Inoltre Beccaria ha evidenziato il principio di precisione della legge penale, cioè l'esigenza di leggi chiare e precise. Infine Feuerbach ha coniato la formula "nullum crimen, nulla poena sine lege", individuando altri due caratteri della riserva di legge: il divieto di analogia (cioè il divieto di applicare la legge penale a casi che il legislatore non ha previsto espressamente), e il principio di determinatezza (cioè il legislatore può reprimere con la pena solo ciò che può essere provato nel processo).
Anche dopo l'avvento del fascismo l'eredità del pensiero liberale ha consentito la riaffermazione nel codice penale del 1930 del principio di legalità. In particolare la legalità dei reati e delle pene è prevista nell'articolo 1 del codice penale che afferma che "nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite". Siccome accanto alle pene sono state previste anche le misure di sicurezza come sanzioni penali, il legislatore del 1930 ha esteso anche ad esse la garanzia del principio di legalità, infatti l'articolo 199 del codice penale stabilisce che "nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti". Inoltre nell'articolo 14 delle Preleggi viene di nuovo affermato il divieto di analogia per le leggi penali, infatti si afferma che "le leggi penali non si applicano oltre i casi e i tempi in essere considerati".
La costituzione repubblicana ha recepito il principio di legalità in tutti i suoi significati. L'articolo 25, 2 comma della costituzione stabilisce che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge", mentre l'articolo 25, 3 comma, con una disposizione dedicata alle misure di sicurezza, stabilisce che "nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge". Ciò significa che, dato il carattere rigido della costituzione, il principio di legalità acquista forza vincolante anche nei confronti del legislatore a cui spetta il monopolio della scelta dei fatti da punire e delle relative sanzioni: deve formulare le leggi penali in modo chiaro (principio di precisione), non deve incriminare fatti che non possono essere provati nel processo ( principio di determinatezza ), deve imporre al giudice il divieto di estensione analogica delle norme incriminatrice e deve sua volta formulare le norme incriminatrice in modo rispettoso del divieto di analogia (principio di tassatività).
La matrice originaria del principio di legalità è politico-istituzionale, perché deriva dai principi dello Stato liberale di diritto in cui era il Parlamento ad avere la potestà punitiva, perché era l'unico potere che rappresentava la volontà popolare, mentre il potere esecutivo era espressione solo dalla maggioranza parlamentare e il potere giudiziario era privo di qualsiasi investitura da parte dei cittadini. Con l'affermazione dello Stato democratico e con l'introduzione del suffragio universale, dato che il Parlamento resta l'unico organo espressione dell'intera volontà popolare, attribuirgli il monopolio della produzione delle norme penali significa assicurare una forte legittimazione politica alle scelte punitive dello Stato e una più forte preclusione agli interventi dei poteri esecutivo e giudiziario.
2. La riserva di legge come riserva di legge formale dello Stato.
1) Decreto legge, decreto legislativo e norma penale.
La riserva di legge in materia penale ha come fondamento politico l'esigenza che le scelte punitive siano riservate solo al Parlamento, come espressione dell'intero popolo, cioè impone di interpretare la formula "legge" nell'articolo 25, 2 comma della costituzione come legge formale, escludendo quindi i decreti legislativi e i decreti legge dalle fonti del diritto penale. Diverso invece è l'orientamento della prassi parlamentare e governativa: infatti il governo ha sempre fatto ricorso al decreto legge in materia penale soprattutto nella fase anteriore al divieto di reiterazione dei decreti legge non convertiti che è stato previsto dalla corte costituzionale con la sentenza 360 del 1996; inoltre il Parlamento fa uso della delega legislativa soprattutto per dare attuazione a direttive comunitarie. La dottrina interpreta la riserva di legge in materia penale come riserva di legge in senso materiale, che comprende anche gli atti normativi del potere esecutivo che hanno forza di legge, cioè i decreti legislativi e i decreti legge. Per quanto riguarda il decreto legge in caso di conversione i suoi contenuti vengono incorporati in una legge formale, mentre in caso di mancata conversione gli effetti del decreto-legge risultano travolti fin dall'inizio (secondo l'articolo 77 della costituzione). Per quanto riguarda invece il decreto legislativo la sua inclusione nel concetto di legge previsto all'articolo 25 della costituzione sarebbe legittimato dal fatto che il Parlamento deve dettare i principi nei criteri direttivi per l'esecutivo (come stabilisce l'articolo 76 della costituzione), il monopolio delle scelte punitive da parte del Parlamento sarebbe salvaguardato dal fatto che le deleghe al governo devono avere i caratteri di analiticità e di chiarezza.
Tuttavia questi argomenti della dottrina che sostengono la riserva di legge in senso materiale non sono persuasivi: infatti il decreto-legge non può essere fonte di norme penali perché in caso di mancata conversione gli effetti sulla libertà personale non risultano più reversibili; anche il decreto legislativo non può essere incluso tra le fonti di norme penali perché da un lato la prassi è lontanissima dai caratteri di analiticità e chiarezza previsti dalla dottrina come condizione per la legittimità della delega, dall'altro lato l'attribuzione al potere esecutivo delle scelte politiche è un dato che appartiene alla tecnica della delega legislativa e la determinazione dei principi e dei criteri direttivi può circoscrivere ma comunque non può eliminare la discrezionalità politica del potere esecutivo nell'esercizio della delega; infine dato che la creazione di norme incriminatrici è un potere che non può essere attribuito agli atti normativi emanati da un singolo ministro, non si comprende perché dovrebbe essere consentito agli atti emanati dall'intero governo, infatti sia gli uni che gli altri sono opera del potere esecutivo a cui devono essere precluse le scelte punitive che spettano solo al Parlamento.
2) I decreti governativi in tempo di guerra.
La riserva di legge formale prevista dall'articolo 25, 2 comma della costituzione, ha come unica deroga i decreti governativi in tempo di guerra che, in base all'articolo 78 della costituzione possa essere fonte di norme penali attraverso la delega espressa dal Parlamento; infatti l'articolo 78 afferma "le camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al governo i poteri necessari", per stato di guerra si intende solo la guerra con gli altri Stati. Questo articolo consente alle camere di delegare il potere punitivo in tempo di guerra solo al governo e non all'autorità militare, la quale non può legiferare attraverso lo strumento dei bandi militari che non possono essere inclusi tra le fonti di norme penali.
3) Legge regionale e diritto penale.
Non può essere fonte di norme incriminatrici neanche la legge regionale, come stabilisce l'articolo 117, 2 comma, lettera 1 della costituzione che afferma che "lo Stato ha la legislazione esclusiva in materia di ordinamento penale", la ratio di questa preclusione è appunto che solo il Parlamento rappresenta la volontà dell'intero popolo mentre l'assemblea regionale rappresenta solo i cittadini di una determinata regione, e quindi le norme penali emanate da una avrebbero come destinatari anche cittadini di altre regioni che, per condotte che vengono tenute nel territorio di una regione diversa dalla loro, si vedrebbero applicare delle norme incriminatrici che sono emanate da un organo che è privo di rappresentatività nei loro confronti.
Sono illegittime le leggi regionali che: 1. Creano un nuovo tipo di reato o abrogano una norma incriminatrice preesistente, 2. Ne modificano la disciplina sanzionatorio; 3. Sostituiscono la sanzione penale con una sanzione amministrativa; 4. Configurano una nuova causa di estinzione della punibilità o ampliano la portata di una causa di estinzione preesistente.
L'unica eccezione alla preclusione per le regioni di emanare norme penali incriminatrici è stabilita dallo statuto della regione Trentino Alto Adige per le leggi della regione e delle province di Trento e di Bolzano: l'articolo 23 dallo statuto regionale stabilisce che "la regione e le province utilizzano, a presidio delle norme contenute nella rispettive leggi, le sanzioni penali che le leggi dello Stato stabiliscono per le stesse fattispecie"; ci sono però dei limiti: infatti le fattispecie che la legge regionale o provinciale possono sanzionare con pena devono essere già previste dalla legge penale dello Stato, la ragione o la provincia la devono solo ricalcare, stabilendo le stesse pene previste da questa legge dello Stato, e ciò ovviamente a condizione che si tratti di una delle materie che sono state attribuite alla competenza della regione o delle province di Trento e di Bolzano.
Le regioni non possono dettare norme penali solo per quanto riguarda le norme incriminatrici, ciò non vale per le norme scriminanti che non sono norme penali; però c'è un limite alla possibilità per la regione di individuare le cause di giustificazione: infatti nelle materie di legislazione concorrente, cioè statale e regionale, la potestà legislativa della regione deve rispettare i principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (come stabilisce l'articolo 117, 3 comma della costituzione), la legge regionale non può modificare la disciplina delle cause di giustificazione (ad esempio la legittima difesa) che esprimono principi generali dell'ordinamento. La legge regionale può tutelare propri precetti solo con sanzioni amministrative e solo nel caso in cui uno stesso fatto sia espresso sia da una norma penale che da una norma amministrativa di fonte regionale.
4) Diritto dell'Unione Europea e diritto penale.
Lo sviluppo della Comunità europea, che ha portato nel 1992 alla creazione dell'Unione europea, ha incrementato i problemi riguardanti i rapporti tra il diritto comunitario e il diritto penale degli Stati membri.
Un primo problema (che è stato risolto in senso negativo) riguarda l'esistenza di una potestà sanzionatoria penale dell'Unione europea. I Trattati istitutivi della Comunità non hanno attribuito alle istituzioni comunitarie il potere di creare norme incriminatrici, e anche se fosse stato previsto questo potere, queste norme incriminatrici non avrebbero potuto avere ingresso nel nostro ordinamento dove vige il principio della riserva di legge in materia penale attribuita solo al Parlamento nazionale per quanto riguarda l'emanazione di norme incriminatrici; inoltre il Consiglio (che è l'organo comunitario in cui si concentra la potestà normativa) è composto dai ministri dei Governi degli Stati membri e quindi non ha rappresentanza democratica. Quindi gli organi dellUunione europea possono tutelare gli interessi comunitari solo con sanzioni amministrative.
Però l'Unione europea può imporre al legislatore di Stati membri l'obbligo di emanare norme penali a tutela di determinati interessi. A questo proposito bisogna distinguere tra le procedure e gli strumenti normativi che riguardano il primo pilastro dell'Unione europea (cioè il diritto comunitario in senso stretto che nasce sulla base del trattato istitutivo della Comunità europea) e quelli che riguardano il terzo pilastro (cioè la cooperazione intergovernativa tra gli Stati membri in materia di giustizia e affari interni).
Per quanto riguarda il primo pilastro, fino ad ora il diritto comunitario non ha imposto agli Stati obblighi di criminalizzazione espliciti, anche se l'esistenza di questi obblighi è stata affermata dalla Corte di giustizia della Comunità europea per quanto riguarda i procedimenti per infrazione che sono stati avviati contro gli Stati membri per violazione del diritto comunitario (ad esempio capita che la comunità attraverso lo strumento della direttiva richieda agli Stati membri di apprestare una tutela adeguata a determinati interessi comunitari, e se questa tutela può essere realizzata solo prevedendo sanzioni penali, allora lo Stato membro sarà tenuto ad apprestare sanzioni penali). Lo stesso discorso vale per quelle direttive che impongono agli Stati membri di estendere ad un determinato interesse comunitario una tutela analoga a quella già prevista per un interesse nazionale corrispondente (ad esempio nel nostro ordinamento è stato introdotto l'articolo 640 bis del codice penale che punisce la captazione fraudolenta di erogazioni che provengono sia dallo Stato o da altri enti pubblici, sia dalla Comunità europea). Nel 2005 la Corte di giustizia ha stabilito che gli strumenti normativi del primp pilastro, soprattutto le direttive, possono imporre agli Stati membri l'obbligo di prevedere sanzioni penali a tutela di interessi comunitari, perciò si può prevedere che presto il legislatore comunitario potrà usare questa competenza spogliando i legislatori nazionali della discrezionalità nella scelta tra sanzioni penali o altre sanzioni (civili o amministrative) nelle materie comunitarie (come l'ambiente, la sicurezza del lavoro, l'immigrazione).
Per quanto riguarda invece il terzo pilastro, i suoi strumenti normativi e in particolare le convenzioni e le decisioni-quadro, prevedono degli obblighi di criminalizzazione con lo scopo di armonizzare le legislazioni penali degli Stati membri per promuovere la cooperazione giudiziaria e di polizia nella lotta contro la criminalità transnazionale (ad esempio criminalità organizzata, terrorismo, traffico di stupefacenti, traffico di esseri umani, pedopornografia).
L'incidenza del diritto dell’Unione europea sulla discrezionalità del legislatore italiano è notevole, non solo per quanto riguarda gli obblighi di criminalizzazione, ma anche perché ci sono vincoli sulla conformazione dei precetti e sulla natura e misura delle sanzioni penali che lo Stato è tenuto ad adottare. Però da questi strumenti non derivano effetti diretti per il cittadino che potrà essere assoggettato ad una sanzione penale solo se una legge nazionale prevede come reato il fatto che ha commesso. Comunque gli Stati membri tendono a conformarsi spontaneamente agli obblighi comunitari e soprattutto ad adempiere agli obblighi di criminalizzazione anche per evitare le sanzioni stabilite dal diritto europeo nel caso di violazione di questi obblighi, infatti settori molto ampi del diritto penale italiano, soprattutto per quanto riguarda la legislazione penale complementare oggi sono conformati e plasmati dal diritto europeo: il legislatore italiano infatti ha recepito con decreti legislativi le indicazioni contenute nelle direttive o nelle decisioni-quadro (sulla base della legge annuale comunitaria), e con le leggi formali di attuazione degli obblighi che derivano dal diritto europeo.
Anche il giudice penale degli Stati membri è vincolato dal diritto dell'Unione Europea. In primo luogo, per quanto riguarda il primo pilastro (cioè il diritto comunitario in senso stretto) c'è la possibilità che norme comunitarie dotate di efficacia diretta, contrastanti con norme penali statali, né parigino, in tutto o in parte, l'applicabilità, in base al principio della prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale; queste norme comunitarie possono avere la loro fonte nei trattati, nei regolamenti e nelle direttive (purché siano direttive dettagliate e sempre che sia decorso il termine per l'attuazione della direttiva da parte dello Stato membro). L'incompatibilità della norma penale nazionale con una norma comunitaria può essere totale o parziale: quando l'incompatibilità è totale la norma comunitaria rende inapplicabile la norma penale in tutta la sua estensione (ad esempio la legge 851 del 1938 che attribuiva l'esclusiva della raccolta e della vendita del latte nelle zone urbane alle centrali del latte e puniva con l'ammenda la violazione di questa esclusiva, infatti in questo caso c'era un contrasto con i regolamenti comunitari che sopprimevano l'esclusiva di vendita a favore delle centrali del latte, contrasto che era stato rilevato dalla Corte di giustizia della Comunità europea e dalla Corte di Cassazione che hanno escluso l'applicabilità delle norme penali nazionali incompatibili con i regolamenti comunitari); quando invece l'incompatibilità è parziale il campo di applicazione della norma penale verrà limitato e saranno estromesse le ipotesi che sono regolate diversamente dalla norma comunitaria (ad esempio il caso dell'etichettatura di solventi e di vernici affrontato dalla Corte di giustizia nel 1979: la legge italiana imponeva che l'etichettatura contenesse indicazioni ulteriori rispetto a quelle previste da una direttiva comunitaria che non fu attuata tempestivamente dal legislatore italiano; la corte di giustizia ha stabilito che dopo la scadenza del termine per l'attuazione della direttiva gli Stati membri non possono pretendere nulla di più di quanto previsto dalla direttiva comunitaria, con la conseguenza che le norme penali che impongono indicazioni ulteriori non potranno essere applicate a chi si è conformato alle prescrizioni comunitarie). In tutti i casi di incompatibilità tra norma penale e diritto comunitario, se c'è una sentenza definitiva di condanna per un fatto che è stato previsto dalla norma penale inapplicabile, cessa l'esecuzione della condanna e i suoi effetti penali vengono meno.
In secondo luogo, per quanto riguarda sia il primo pilastro che il terzo, un altro vincolo è l'obbligo di interpretazione conforme alla normativa comunitaria: cioè il giudice nazionale è tenuto a interpretare la normativa nazionale che attua gli obblighi di fonte comunitaria in senso conforme alla lettera e alla ratio dello strumento comunitario che fonda questi obblighi scegliendo, tra i possibili significati della legge nazionale, quello che è più conforme alle pretese del diritto dell'Unione. In materia penale il giudice ha come limite insuperabile ai suoi poteri normativi quello del divieto di analogia (cioè il giudice non potrà mai, neanche attraverso un'interpretazione conforme, attribuire alla norma penale nazionale un significato che va oltre il suo tenore letterale).
5) Consuetudine e diritto penale.
Non può creare norme incriminatrici neanche la consuetudine (si tratta della cosiddetta consuetudine incriminatrice), perché il fondamento politico della riserva di legge previsto dall'articolo 25 della costituzione è di attribuire solo al Parlamento il monopolio delle scelte punitive; inoltre bisogna anche considerare il carattere impreciso delle norme consuetudinarie. Non c'è spazio neanche per la consuetudine integratrice, cioè per il rinvio della legge alla consuetudine per l'individuazione di un elemento del reato. Inoltre la gerarchia delle fonti impedisce alla consuetudine di abrogare norme legislative incriminatrici (si tratta della cosiddetta consuetudine abrogatrice), infatti le leggi possono essere abrogate in modo espresso o tacito solo da leggi posteriori (come stabilisce l'articolo 15 delle preleggi).
Tuttavia la consuetudine può essere fonte di cause di giustificazione (si tratta della cosiddetta consuetudine scriminante), perché sono le norme incriminatrici sono oggetto della riserva di legge prevista dall'articolo 25 della costruzione, ad esempio la consuetudine di lanciare fuochi d'artificio a Capodanno giustifica il fatto penalmente rilevante di disturbare il riposo delle persone attraverso schiamazzi o rumori.
6) Corte costituzionale e legge penale.
La riserva di legge prevista dall'articolo 25, 2 comma della costituzione stabilisce che la Corte costituzionale attraverso il sindacato sulle norme incriminatrici non può ampliare la gamma dei comportamenti penalmente rilevanti e rendere più rigido il trattamento sanzionatorio di un reato, inoltre stabilisce che la corte sindacando la legittimità di norme che aboliscono un reato o lo trasformano in un illecito amministrativo, non può far rivivere un reato abolito o depenalizzato dal legislatore. L'unica ipotesi in cui la corte può sindacare una norma che ha abolito un reato, facendo rivivere la norma incriminatrice che è stata abrogata dal legislatore è quella in cui questa norma attua un obbligo costituzionale espresso di incriminazione (se ad esempio una norma che abolisse l'incriminazione prevista dall'articolo 608 del codice penale per il reato di abuso di autorità contro arrestati o detenuti, che attua l'obbligo espresso di incriminazione prevista dall'articolo 13, 4 comma della costituzione, che afferma che "è punita ogni violenza fisica o morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà", la disposizione incriminatrice fatta rivivere dalla corte del essere applicata a tutti gli fatti commessi dopo la pronuncia della corte, mentre per i fatti anteriori non può essere applicata a causa del principio di irretroattività).
La riserva di legge invece consente il controllo di costituzionalità delle norme incriminatrici che producono l'effetto di eliminare una figura di reato, di ridurne il campo di applicazione o di mitigare la sanzione prevista dalla legge; inoltre consente di controllare una legge di depenalizzazione che abbia mantenuto in vita, senza una buona ragione, come ipotesi di reato, fatti che sono omogenei a quelli che sono stati trasformati in illeciti amministrativi.
3. Riserva di legge e atti del potere esecutivo.
1) Riserva assoluta, relativa o tendenzialmente assoluta?
Dato che l'unica fonte delle norme incriminatrici è la legge forma dello Stato, si è posto il problema di stabilire se l'esclusione degli atti del potere esecutivo sia totale o parziale, cioè se la riserva di legge prevista dall'articolo 25, 2 comma della costituzione sia una riserva assoluta (cioè è la legge che individua gli elementi del reato e del trattamento sanzionatorio),una riserva relativa (cioè la legge rinvia a una fonte di rango inferiore per l'individuazione del precetto e delle sanzioni), oppure se sia una riserva tendenzialmente assoluta (cioè la legge rinvia a una fonte sublegislativa la specificazione sul piano tecnico dei singoli elementi del reato già individuati dalla legge). Il problema è diverso a seconda che si tratti dei rapporti tra la legge penale e gli atti normativi generali astratti del potere esecutivo, o dei rapporti tra la legge penale e i provvedimenti individuali e concreti del potere esecutivo.
2) Legge penale e atti normativi generali e astratti del potere esecutivo.
Per quanto riguarda i rapporti tra la legge penale e gli atti normativi generali astratti del potere esecutivo (ad esempio regolamenti e decreti ministeriali), secondo un primo orientamento, favorevole alla riserva assoluta, è legittima ogni forma di rinvio da parte della legge a una fonte subordinata (ad esempio una norma di fonte legislativa che si limita a prevedere una sanzione penale per la violazione di un determinato precetto che, dopo l'emanazione della legge, verrà individuato da un regolamento, cioè la norma dice "chiunque viola quanto avrà stabilito dal regolamento X. verrà punito con la penna Y.", perciò viene punita la disobbedienza come tale alle norme della pubblica amministrazione). Questa impostazione svuota la riserva di legge perché non è il Parlamento a decidere quali sono le azioni e le omissioni che vanno punite ma l'autorità amministrativa con atti normativi generali astratti.Un secondo orientamento invece è favorevole alla riserva relativa e riconosce che le norme generali e astratte che sono emanate da fonti subordinate alla legge, attraverso il rinvio della norma legislativa, integrano il precetto e quindi definiscono la figura del reato, per salvare la ratio della riserva di legge si ritiene che l'atto normativo che proviene dalla fonte subordinata non può avere lo spazio illimitato che invece viene gli viene attribuito dalla teoria della disobbedienza come tale, cioè il principio previsto dall'articolo 25 della costituzione sarebbe rispettato quando se è la legge a indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire la pena (come stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza 26 del 1966); però la corte costituzionale stessa stabilisce che il criterio della sufficiente specificazione è molto vago e quindi legittima l'apporto dell'esecutivo per definire i reati, quindi l'intento di salvare la ratio della riserva di legge risulta fallito. Secondo il vertice un terzo orientamento che utilizza la formula della riserva tendenzialmente assoluta la legge non può rinviare ad atti generali e astratti del potere esecutivo a meno che non si tratta di atti che si limitino a specificare sul piano tecnico degli elementi che sono già stati descritti dalla legge, perché il carattere solo tecnico dell'integrazione esclude che attraverso questi atti il potere esecutivo scelga i fatti da punire e le sanzioni (ad esempio i decreti ministeriali che contengono l'elenco delle sostanze stupefacenti di cui è penalmente vietato lo spaccio).
Quindi merita approvazione lo schema della riserva tendenzialmente assoluta perché il carattere solo tecnico dell'integrazione non comporta scelte politiche da parte del potere esecutivo.
3) Legge penale e provvedimenti individuali e concreti del potere esecutivo.
Per quanto riguarda i rapporti tra la legge penale e i provvedimenti individuali e concreti del potere esecutivo le norme penali che sanzionano l'inottemperanza a classi di provvedimenti della pubblica amministrazione (ad esempio l'articolo 650 del codice penale che punisce chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'autorità per ragioni di igiene) non violano la riserva di legge perché questo singolo provvedimento amministrativo è estraneo al precetto penale in quanto non aggiunge nulla all'astratta previsione della legge, è solo un accadimento concreto che appartiene alla classe dei provvedimenti descritti dalla norma incriminatrice. Lo stesso discorso vale per le norme penali che sanzionano l'inosservanza a classi di provvedimenti dell'autorità giudiziaria (ad esempio l'articolo 388, 2 comma del codice penale che punisce chi elude l'esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguarda l'affidamento di minori o di altre persone incapaci, o prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito). Le norme che puniscono l'inosservanza di classi di provvedimenti amministrativi o giudiziari violano la riserva di legge nel caso del principio di precisione (che pone un limite agli interventi discrezionali del potere giudiziario nell'individuazione dei fatti penalmente rilevanti), questo è il caso di quel provvedimenti, la cui inosservanza è sanzionata penalmente, che sono descritti dalla legge in modo impreciso (ad esempio l'articolo 650 del codice penale che riguarda quel provvedimenti emanati dall'autorità per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico); dato che queste formule sono molto generiche ogni giudice deve integrare il precetto in violazione della riserva di legge, individuando lui stesso quali sono i provvedimenti la cui inosservanza va sanzionata penalmente.
4) Norme penali in bianco.
Le norme penali in bianco sono quelle in cui il precetto è stabilito in tutto o in parte da una norma di fonte inferiore alla legge, cioè la legge lascia in bianco il contenuto del precetto lasciando poi alla fonte sublegislativa il compito di specificarne il contenuto. Secondo la riserva tendenzialmente assoluta una norma, il cui precetto viene lasciato in bianco dalla legge e poi viene stabilito da un atto generale e astratto del potere esecutivo, è costituzionalmente illegittima a meno che, l'apporto del potere esecutivo, non sia solo di carattere tecnico. Invece è costituzionalmente legittima una norma che sanzione l'inosservanza di provvedimenti amministrativi individuali e concreti, sempre che la norma di fonte legislativa individui precisamente la classe di provvedimenti di cui reprime l'inosservanza.
4. Riserva di legge e potere giudiziario.
Per mettere al sicuro i cittadini dagli arbitri del potere giudiziario la riserva di legge impone al legislatore il rispetto di tre principi: del principio di precisione, del principio di determinatezza e del principio di tassatività, che sono parte integrante del principio di legalità e hanno il loro fondamento nell'articolo 25, 2 comma della costituzione..
5. Il principio di precisione.
1) Il fondamento del principio di precisione.
Il principio di precisione impone al legislatore di formulare le norme penali nella forma più chiara possibile, cioè il legislatore ha l'obbligo di disciplinare con precisione il reato e le sanzioni penali per evitare che il giudice assuma un ruolo creativo e si occupi invece solo dell'applicazione della legge. Il principio di precisione è garanzia per la libertà e la sicurezza del cittadino, il quale (come afferma la Corte costituzionale nella sent. 364 del 1988) solo in leggi chiare e precise può trovare in ogni momento cosa gli è lecito e cosa gli è vietato. Inoltre il rispetto del principio di precisione assicura una serie di esigenze che sono proprie del sistema penale:
*è una condizione indispensabile perché la minaccia legislativa della pena operi come uno strumento di prevenzione generale, intimidendo i potenziali autori dei reati, in modo da consentire al cittadino di sapere se il suo comportamento potrebbe comportare oppure no una pena;
*se le leggi vengono formulate in modo impreciso non è possibile muovere all'agente un rimprovero di colpevolezza, infatti la corte costituzionale ha ritenuto che sarebbe possibile appellarsi alla scusa dell'interpretazione sbagliata della legge penale che ha portato a pensare di non commettere un fatto penalmente irrilevante;
*solo se le norme incriminatrici sono precise l'imputato può esercitare pienamente il diritto di difesa, perché una norma imprecisa impedisce all'imputato e al difensore tecnico di individuare l'oggetto dell'accusa e di fornire elementi di prova a sua discolpa.
2) Principio di precisione e tecniche di formazione delle norme penali.
Le norme penali possono risultare più o meno precise a seconda delle tecniche che il legislatore utilizza per formularle. Quella che assicura più precisione è la tecnica casistica, cioè la descrizione analitica di specifici comportamenti, oggetti, situazioni (ad esempio l'art. 538, 2 comma c.p. sulle lesioni personali gravissime, stabilisce che la lesione personale è gravissima se dal fatto deriva: 1.una malattia certamente o probabilmente insanabile; 2.la perdita di un senso, 3.la perdita di un arto o una mutilazione che renda l'arto inservibile, o la perdita dell'uso di un organo o della capacità di procreare; 4.la deformazione o lo sfregio permanente del viso). Un ricorso indiscriminato alla tecnica casistica ha come unico costo lo sviluppo eccessivo della legislazione penale; inoltre questa tecnica presenta delle lacune, però la sua adozione non espone il giudice alla tentazione di colmare le lacune attraverso l'analogia perché questa tentazione è stata neutralizzata dal divieto di applicazione analogica delle norme penali (previsto dall'art 14 delle Preleggi e dall'art.1 c.p.); solo il legislatore è legittimato a riempire le lacune, come ha fatto spesso anche il legislatore italiano per disciplinare nuovi fenomeni non previsti dalla legislazione precedente (ad esempio nel 1993 ha affiancato alla figura base della truffa, prevista dall'art. 640 c.p.,una nuova incriminazione che reprime la frode informatica).
Il ricorso a clausole generali comporta invece un rischio di imprecisione, perché si tratta di formule sintetiche che comprendono un gran numero di casi che il legislatore rinuncia a specificare (ad esempio una norma che descrivesse le lesioni gravissime con una clausola generale del tipo "la lesione è gravissima se la persona viene lesa molto seriamente nel corpo o nella mente").l'uso di questa tecnica è legittimo solo se i termini sintetici utilizzati dal legislatore consentono di individuare in modo sufficientemente certo le ipotesi riconducibili sotto la norma incriminatrice (ad esempio il legislatore formulando le norme incriminatrici dell'omicidio, delle lesioni personali e dell'incendio non descrive tutte le condotte attraverso le quali è possibile causare la morte, la malattia, l'incendio, perché viene utilizzato il termine "cagionare" che consente di individuare con sufficiente precisione le classi di condotte vietate, dato che è un termine che rinvia alle leggi scientifiche, universali o statistiche, attraverso le quali il giudice può affermare o negare la presenza di un rapporto di causalità tra una determinata azione e la morte, o la malattia, o l'incendio che si sono verificati nel caso concreto).
Il ricorso a definizioni legislative, che a volte sono necessarie a causa dei molteplici significati dei termini usati dal legislatore, è una tecnica coerente con il principio di precisione; questa tecnica è utilizzata sia nella parte generale (ad esempio dove si definiscono il dolo e la colpa) e sia nella parte speciale dove si definiscono spesso termini che ricorrono in diverse norme incriminatrici (ad esempio il legislatore usa formule come: agli effetti della legge penale si considera, o si intende).
A volte il legislatore utilizza termini o concetti descrittivi per individuare gli elementi del reato, cioè termini che si riferiscono e descrivono oggetti della realtà fisica o psichica che possono essere accertati con i sensi o attraverso l'esperienza (ad esempio l'uomo, la previsione, la volizione), e che non garantiscono il rispetto del principio di precisione perché alcuni presentano una zona grigia che rende difficile o addirittura impossibile l'individuazione esatta dei fatti ai quali il termine fa riferimento (ad esempio un termine come il vilipendio). Quando il legislatore descrive un fatto con un solo termine che ha un significato impreciso, la norma sarà illegittima perché contrasta con l'articolo 25, 2 comma della costituzione (ad esempio la norma incriminatrice dell'incesto che, da un lato si limita a descrivere il fatto di reato con la formula "chiunque commette incesto", dall'altro lascia l'incertezza se sia necessaria la congiunzione carnale o se invece sia rilevante qualsiasi atto sessuale).
Altre volte il legislatore può utilizzare un concetto normativo per individuare un elemento del reato, cioè un concetto che si riferisce ad un'altra norma giuridica o extra giuridica (ad esempio l'altruità, il matrimonio); questa tecnica è compatibile con il principio di precisione a due condizioni: il concerto normativo non deve comportare incertezze circa l'individuazione della norma richiamata e circa il contenuto e l'ambito applicativo della norma. Queste condizioni sono rispettate soprattutto quando la norma richiamata é una norma giuridica (ad esempio il concetto di altruità con cui si individuano le cose passibili di furto e di altri reati contro il patrimonio, sia perché questo concetto evoca la nozione di proprietà (prevista dall'art. 832 c.c.) come "diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno e esclusivo", e sia perché i criteri normativi che consentono di stabilire se la cosa sia di proprietà oppure no dell'agente sono chiari e precisi.
Se invece la norma richiamata è extra giuridica il princiioe di precisione è tendenzialmente rispettato quando il rinvio riguarda una norme tecnica (ad esempio le regole dell'arte dell'oculista o dell'ortopedico la cui violazione comporta la colpa per imperizia), se si tratta invece di norme etico-sociali gli elementi del reato che vengono individuati sono imprecisi a causa della vaghezza di questa norme (ad esempio gli attentati alla morale familiare commessi col mezzo della stampa periodica, l'art. 565 c.p. punisce chi col mezzo della stampa periodica "espone o mette in rilievo circostanze tali da offendere la morale familiare", infatti in questo caso non è chiaro se con la formula "morale familiare" la legge si riferisca solo alla morale sessuale).
3) Il principio di precisione nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Secondo la Corte costituzionale il fondamento del principio li precisione sta nell'art. 25 cost. Che è espressione del limite che la riserva di legge pone agli interventi del potere giudiziario, obbligando il legislatore a formulare norme chiare e precise. La corte per molto tempo ha rigettato le censure di imprecisione che sono state mosse da molti giudici di merito nei confronti di determinate norme incriminatrici; infatti la corte ha affermato che i termini utilizzati dal legislatore sono diffusi e generalmente compresi, sia facendo riferimento al diritto vivente (cioè un'interpretazione giurisprudenziale uniforme) e sia manipolando la norma censurata con la tecnica della sentenza interpretativa di rigetto (in modo da attribuire alla norma le caratteristiche di precisione che non aveva). A partire dagli anni '80 del secolo scorso la corte ha valorizzato appieno il principe di precisione sia sul piano delle enunciazioni di principio e sia dichiarando costituzionalmente illegittime alcune norme sottoposte al suo sindacato (ad esempio con la sent. 34 del '95 ha dichiarato illegittimo l'art. 7 bis, 1 comma del decreto legge 416 del 1989 convertito nella legge 39 del '90, che puniva lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione che non si adopera per ottenere dall'autorità diplomatica o consolare competente il rilascio del documento di viaggio che occorre; la corte ha motivato la sua decisione affermando che l'espressione usata dal legislatore di non adoperarsi per ottenere il rilascio del documento di viaggio non permette di stabilire precisamente quando l'inerzia del soggetto che si vuole sanzionare raggiunga la soglia penalmente rilevante, quindi questa norma non rispetta il principio di tassatività perché la sua applicazione è affidata all'arbitrio dell'interprete).
4) Principio di precisione e recente legislazione penale.
Anche la recente legislazione penale è più attenta a rispettare il principio di precisione (ad esempio l'art. 644 c.p. sull'usura del 1996 prevede, oltre ai parametri numerici fissati dalla legge, il concetto di interessi usurari che nella disciplina precedente era affidato all'arbitrio dei giudici).
6. Il principio di determinatezza.
Il principio di determinatezza esprime l'esigenza che le norme penali descrivano fatti suscettibili di essere accertati e provati nel processo, quindi non basta che la norma abbia un contenuto comprensibile, ma deve anche rispecchiare una fenomenologia empirica che può essere verificata nel corso del processo attraverso massime d'esperienza o leggi scientifiche, solo così il giudizio di conformità del caso concreto alla previsione astratta non è abbandonato all'arbitrio del giudice.
La norma incriminatrice del plagio previsto dall'art. 603 c.p.è stata dichiarata illegittima dalla corte costituzionale (con la sentenza 96 del 1981) perché contrasta con il principio di determinatezza in quanto, anche se il significato del precetto è chiaro, non potevano essere verificate empiricamente "le attività che potrebbero concretamente esplicarsi per ridurre una persona in totale stato di soggezione".
7. Il principio di tassatività.
1) Il principio di tassatività come vincolo per il giudice.
Il terzo principio che, in base alla riserva di legge, il legislatore è tenuto a rispettare è il principio di tassatività, in base al quale il legislatore è vincolato a imporre al giudice il divieto di estensione analogica delle norme penali di sfavore e a formulare le norme penali in modo da rispettare questo divieto di analogia.
Il divieto di analogia a sfavore del reo (la cosiddetta analogia in malam partem) è prevista dall'art.1 c.p. in base al quale il giudice non può punire fatti che non siano espressamente preveduti come reato dalla legge, e dall'ar. 14 delle preleggi in base al quale il giudice non può applicare le leggi penali oltre i casi e i tempi in esse considerati. In Italia si discute se, in base alla legge 40 del 2004 che riguarda "Le norme in materia di procreazione medicalmente assistita", commette un reato chi fa ricerca su cellule staminali embrionali importate dall'estero; questa legge all'articolo 13 vieta sotto minaccia di pena qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano. Queste due attività sono simili ma diverse perché la cellula staminale viene ricavata da un embrione che ha cessato di esistere, quindi la ricerca su cellule staminali embrionali non è prevista come reato dalla legge e solo il legislatore potrebbe colmare questa lacuna, mentre se lo facesse l'interprete, violerebbe il principio di tassatività.
Il significato letterale della legge rappresenta la linea di confine tra l'interpretazione estensiva e l'analogia: un'interpretazione è estensiva se il giudice attribuisce alla norma un significato che abbraccia tutti i casi che possono essere ricondotti al suo tenore letterale, mentre il giudice fuoriesce dall'interpretazione se collega alla norma situazioni che non sono riconducibili a nessuno dei suoi possibili significati letterari, soprattutto, viola il divieto di analogia se estende la norma a casi simili a quelli che sono contemplati dalla legge, solo perché c'è l'esistenza di una disciplina comune.
Quando l'analogia riguarda le norme incriminatrici, la Corte di cassazione distingue tra l'interpretazione (che è consentita) e l'analogia (che è vietata). Da questa distinzione certe volte la cassazione trae delle conseguenze coerenti (ad esempio nell'omissione di soccorso, prevista dall'art. 593 c.p., la giurisprudenza ritiene che l'espressione "trovare" si riferisca solo a chi è in presenza di una persona in pericolo, mentre solo un'estensione analogica della norma consentirebbe di includere la notizia, ricevuta magari attraverso una telefonata, del ritrovamento da parte di altre persone di una persona in pericolo). Altre volta però la cassazione ha violato il divieto di analogia (ad esempio ciò che è accaduto per quanto riguarda la riproduzione abusiva di programmi per elaboratore elettronico, cioè il software, prima dell'introduzione della normativa nel 1992 la giurisprudenza riconduceva il software alla legge sul diritto d'autore, anche se il tenore letterale di questa legge, che faceva riferimento alle opere di letteratura scientifica, non consentiva di abbracciare i programmi per elaboratore elettronico).
Un altro caso in cui opera il divieto di analogia è quello in cui viene sanzionata penalmente la violazione di un precetto contenuto in una disposizione extra penale che appartiene a un settore dell'ordinamento che ammette il ricorso all'analogia (ad esempio nel diritto societario gli interpreti estendono con l'analogia il divieto di acquistare quote della società stabilito dall'art. 2483 c.c. per gli amministratori della società a responsabilità limitata anche al caso, non previsto da questo articolo, di assunzione di partecipazioni in altre imprese, previsto dall'art. 2361 c.c per le società per azioni. Questa estensione analogica è legittima sul terreno civilistico ma non su quello penale, l'articolo 2630 c.c che punisce gli amministratori che violano l'articolo 2483 non può essere applicato agli amministratori della società a responsabilità limitata che assumono partecipazioni in altre imprese). Quindi l'analogia è vietata agli effetti penali ma è ammissibile ai fini extra penali.
2) Il principio di tassatività come vincolo per il legislatore.
Il divieto di analogia vincola anche il legislatore ordinario perché: si oppone all'eliminazione delle disposizioni che vietano al giudice l'applicazione analogica delle norme incriminatrici; vieta l'introduzione di norme che consentono l'analogia nel diritto penale; non consente di creare fattispecie ad analogia espressa. Il divieto di analogia vincola il legislatore ordinario soprattutto nei casi in cui la norma si apre con la descrizione di una serie di condotte, situazioni o oggetti, e si chiude con formule del tipo "e altri simili", "e altri analoghi", questa norme violano il principio di tassatività quando contengono elenchi di ipotesi eterogenee e, soprattutto, quando descrivono una sola ipotesi a cui segue il riferimento a casi simili, si parla a questo proposito di fattispecie ad analogia espressa perché la formulazione della norma consente un'attività creatrice di norme da parte del singolo giudice che è incontrollabile (ad esempio negli articoli 600, 601 e 602 c.p. nel testo originario si parlava di schiavitù e di condizione analoga alla schiavitù, siccome non c'erano indicazioni legislative che inquadravano la schiavitù in un concetto di genere più ampio, era il giudice che doveva individuare le condizioni analoghe alla schiavitù secondo lo schema tipico del procedimento analogico e, di conseguenza, questa norme incriminatrici erano esposte a censura di incostituzionalità in base all'art. 25, 2 comma della costituzione. Il legislatore del 2003 ha poi riformulato l'articolo 600 "riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù", cui fanno riferimento gli articoli 601 "tratta di persone" e 602 "acquisto e alienazione di schiavitù". Per eliminare ogni dubbio di illegittimità costituzionale per violazione dei principi tassatività, la legge 228 del 2003 ha stabilito che per schiavitù e servitù s'intende "l'esercitare su una persona poteri che corrispondono a quelli del diritto di proprietà, o ridurre o mantenere una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali, o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento".
Invece sono costituzionalmente legittima le norme che contengono formule del tipo "e altri simili", "e altri analoghi" se sono precedute dalle elencazione di una serie di ipotesi omogenee che consentono di individuare un genere sotto il quale ricondurre sia i casi che sono menzionati espressamente e sia quelli che vengono evocati con quelle formule (ad esempio la norma che puniva la vendita e la consegna di schiavi o grimaldelli a persona sconosciuta: tra i soggetti che potevano commettere questo reato il legislatore annoverava "chiunque eserciti il mestiere di fabbro o un altro mestiere simile"). Per decidere sulla conformità o difformità della norma incriminatrice rispetto al divieto di analogia, anche la Corte costituzionale ha fatto riferimento all'omogeneità o eterogeneità dei casi menzionati in questa norma: nella sentenza 120 del 1963 la corte ha affermato che solo l'omogeneità delle indicazioni esemplificative consente di individuare un preciso criterio di identificazione delle attività che sono simili a quelle menzionate espressamente, escludendo la possibilità che una norma attribuisca al giudice il potere di ampliare per analogia il precetto penalmente sanzionato.
8. L'analogia a favore del reo.
Il divieto di analogia in materia penale opera solo quando l'applicazione analogica andrebbe a sfavore dell'agente, si tratta dell'analogia in malam partem: infatti l'art. 1 c.p. e l'art. 14 delle Preleggi vietano al giudice di ricorrere all'analogia per punire fatti penalmente irrilevanti, o per applicare pene più gravi di quelle previste dalla legge; quindi il divieto di analogia non si estende alle norme che escludono o attenuano la responsabilità, si tratta dell'analogia in bonam partem. In base all'art. 14 delle preleggi il divieto di analogia non interessa solo le leggi penali ma anche quelle che dettano una disciplina eccezionale, anche se la loro estensione analogica andrebbe a favore della gente. Però il ricorso all'analogia ha tre limiti: 1. La norma di favore non deve ricomprendere il caso in esame neanche se viene interpretata in modo estensivo; 2. La lacuna che individua l'interprete non deve essere intenzionale, cioè frutto di una precisa scelta del legislatore; 3. La norma di favore non deve avere carattere eccezionale.
Il divieto stabilito dall'art. 14 delle Preleggi non riguarda invece le norme che prevedono le cause di giustificazione, e questo perché non si tratta né di norme penali (perché sono norme che hanno finalità proprie e che si trovano in ogni luogo dell'ordinamento), né norme eccezionali (perché esprimono principi generali dell'ordinamento, ad esempio la legittima difesa prevista dall'art. 52 c.p. esprime il principio generale che considera lecito respingere la violenza con la violenza; il 1 comma dell'art. 52 per quanto riguarda il "pericolo attuale" comporta in problema dell'estensione analogica delle cause di giustificazione, soprattutto per quanto riguarda la legittima difesa, ad esempio nel caso della donna maltrattata che non avendo altre vie d'uscita uccide il marito durante il sonno, secondo una piccola parte della dottrina quel concetto riguarda non solo i pericoli in atto ma anche quelli che potrebbero sorgere in futuro e che possono essere scongiurati solo da un'azione difensiva immediata, invece la maggioranza della dottrina pensa che l'estremo del pericolo attuale comprenda soli pericoli in atto ed è solo attraverso un'estensione analogica della legittima difesa che potrebbe operare anche per i pericoli futuri, che possono essere evitati solo con un'azione difensiva immediata.).
La responsabilità per dolo è esclusa dall'art. 59, 4 comma c.p. nel caso in cui il soggetto commette un fatto penalmente rilevante nell'erronea convinzione di commetterlo in presenza degli estremi di una causa di giustificazione. Invece manca una disciplina per i casi in cui la gente commette il fatto nell'erronea convinzione di trovarsi in presenza di una cosiddetta quasi giustificante o quasi scriminante (cioè ci si chiede ad esempio se, colui che provoca volontariamente la morte di un uomo pensando erroneamente che la vittima, essendo un malato terminale, lo abbia richiesto per porre fine alle sue sofferenze, deve rispondere di omicidio comune o di omicidio del consenziente. Con l'applicazione analogica dell'art.59, 4 comma si può configurare solo l'omicidio del consenziente: infatti l'analogia non è vietata innanzitutto perché torno a favore del reo, e poi perché la disciplina di questo articolo non ha carattere eccezionale perché si tratta dell'applicazione delle regole generali sulla responsabilità per dolo). Dunque l'agente risponde per dolo nei limiti della sua rappresentazione e volizione (se si è rappresentato e ha voluto un fatto illecito non deve rispondere per dolo, invece se si è rappresentato e ha voluto un fatto che è parzialmente giustificato dall'ordinamento, ad esempio l'omicidio del consenziente, deve rispondere solo per questo reato.
Non si possono applicare per analogia le cause di esclusione della punibilità perché hanno il carattere di norme eccezionali: infatti per il diritto penale l'autore di un fatto penalmente rilevante deve essere punito con le sanzioni che sono previste dalla legge ed è solo un'eccezione che egli rimanga del tutto, o in parte, impunito, ciò può accadere ad esempio per ragioni di opportunità politica come ad esempio l'ambasciatore di uno Stato estero, o per ragioni politico criminali ad esempio l'autore di un tentativo che volontariamente decide di non portare a compimento l'azione. Invece non ammettono estensione analogica le norme che prevedono circostanze attenuanti, perché sono il frutto della scelta politico criminale di dare importanza attenuante a determinate situazioni (ad esempio la norma che prevede l'attenuante del risarcimento del danno esige che il danno sia stato riparato interamente e quindi non può essere estesa per analogia ai casi in cui il danno è stato riparato parzialmente).
9. Il principio di legalità delle pene.
La riserva di legge non riguarda solo i reati ma anche le relative sanzioni, cioè la legge dovrà prevedere il tipo, i contenuti e la misura delle pene. Inoltre è necessario considerare tutti tipi di pene: le pene principali, sostitutive delle pene detentive, bene derivanti dalla conversione della pena pecuniaria, pene accessorie, misure alternative alla detenzione e effetti penali della condanna.
Il principio di legalità delle pene innanzitutto vincola il giudice, infatti l'art. 1 c.p. stabilisce che "nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite". Infatti la corte di cassazione ha annullato molte condanne a pene diverse da quelle previste dalla legge. Tuttavia il principio di legalità delle pene vincola anche il legislatore: l'art.25, 2 comma cost. afferma che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge", quindi il tipo, i contenuti e la misura delle pene devono avere la loro fonte nella legge. Anche se la corte costituzionale ha attribuito un carattere assoluto alla riserva di legge in materia di pene (cioè ha escluso l'intervento di fonti sublegislative per definire gli aspetti secondari delle pene), l'opinione più diffusa è che si tratti invece di una riserva tendenzialmente assoluta, cioè che consente alle fonti sublegislative di intervenire nell'individuazione della pena, soprattutto per quanto riguarda l'aspetto dell'integrazione tecnica della pena. Quindi la legge deve determinare il tipo di pena che può essere applicata dal giudice per ogni tipo di reato (e ciò può avvenire sia nella norma incriminatrice, sia attraverso clausole generali, con la libertà controllata, o con una pena pecuniaria sostitutiva). E, inoltre la legge deve determinare con precisione il contenuto delle sanzioni penali (ad esempio c'era un dubbio sulla legittimità costituzionale della disciplina dell'affidamento in prova al servizio sociale, cioè una misura che è alternativa alla detenzione il cui contenuto è stabilito dalla legge con delle clausole che sono generiche, ad esempio prescrizioni che impediscono al soggetto di svolgere delle attività che lo possano portare al compimento di altri reati, però quali sono queste prescrizioni verrà poi stabilito da ogni singolo magistrato di sorveglianza). E, infine la legge deve determinare la misura delle sanzioni penali: un sistema di pene fisse sarebbe il più preciso (ad esempio cinque anni di reclusione, oppure € 3000 di multa); però nella costituzione ci sono dei principi (ad esempio di eguaglianza, di rieducazione del condannato) che comportano che sia il giudice a individuare la pena. Per trovare il punto di equilibrio tra la legalità e l'individuazione della pena è necessaria la predeterminazione legale, per ogni figura di reato, di una cornice di pena, cioè di un minimo e di un massimo entro il quale il giudice deve scegliere la pena che gli sembra più adeguato ad ogni singolo caso (ad esempio per il diritto di estorsione l'art.629 c.p. prevede una reclusione che va dai 5 ai 10 anni e la multa che va da 516 a 2065 euro). Quindi ci sono quattro corollari: 1. Il principio di legalità si oppone alla previsione di pene indeterminate nel massimo, cioè se non c'è un limite massimo fissato dalla legge l'ammontare della pena per le ipotesi più gravi deve essere deciso dal singolo giudice; 2. La cornice edittale deve essere individuata con precisione, ad esempio per il trattamento sanzionatorio del concorso formale di reati e del reato continuato l'art. 81, 1 2 2 comma c.p., individua la pena base che è di aumentare fino al triplo; ma una formula ambigua afferma "pena che dovrebbe infliggersi per violazione più grave" e non è chiaro se per violazione più grave ci si riferisce al reato più grave in astratto, cioè quello per cui è prevista dalla legge la pena massima più elevata, o in concreto, cioè quello che, tra i reati concorrenti, il giudice ritiene che meriti la pena più elevata; 3. La cornice edittale non deve essere troppo ampia, cioè il giudice deve farsi legislatore del caso concreto formulando propri giudizi di disvalore sulla stessa figura astratta di reato; 4. Il principio di legalità della pena stabilisce che la legge deve dettare criteri vincolanti per il giudice nella commisurazione della pena, stabilendo i fini della pena a cui deve ispirarsi il giudice nella commisurazione (ad esempio se un giudice ritiene di dover dare importanza alla prevenzione speciale intimidatrice, cioè all'esigenza di scoraggiare il condannato dal commettere in futuro altri reati, potrebbe infliggere la reclusione nel limite massimo previsto dalla legge per il delitto di furto nei confronti di chi, giudicato per il furto di una bicicletta vecchia, abbia già in precedenza commesso una serie di altri piccoli furti).
10. Il principio di legalità delle misure di sicurezza.
Le misure di sicurezza (che sono previste dagli artt.199 e seguenti c.p.) sono sanzioni: personali come ad esempio la libertà vigilata, o patrimoniali come ad esempio la confisca, che si applicano in aggiunta alla pena nei confronti di soggetti imputabili o semi imputabili, o in luogo della pena nei confronti di soggetti incapaci di intendere o di volere. Come le pene, anche le misure di sicurezza sono sottoposte al principio di legalità, infatti l'art.199 dice che è "nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti". Anche per le misure di sicurezza il principio di legalità viene considerato un principio costituzionale, infatti l'art.25, 3 comma cost.dice che "nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge", quindi il legislatore ordinario non può lasciare che siano fonti subordinate, in particolare il potere esecutivo, a disciplinare le misure di sicurezza, e non può neanche dettare una disciplina indeterminata perché sarebbe il giudice a individuare i presupposti, la tipologia e i contenuti delle misure di sicurezza.
Il primo presupposto per l'applicazione delle misure di sicurezza è la commissione di un fatto preveduto dalla legge come reato (in casi eccezionali può trattarsi anche di un quasi reato, ad esempio l'accordo per commettere un delitto che poi non viene commesso; in questi casi deve essere la legge a stabilire che la misura di sicurezza deve essere applicata). Il secondo presupposto è la pericolosità sociale dell'agente, cioè la probabilità che egli possa commettere nuovi reati. La pericolosità sociale va accertata in concreto dal giudice.
La disciplina vigente non sembra compatibile sia con il principio di precisione (che impone al legislatore di fare di tutto per ridurre al minimo l'arbitrio del giudice nella formulazione del giudizio di pericolosità, perché per essere compatibile con il principio di precisione il giudizio di pericolosità dovrebbe riferirsi alla commissione di reati futuri), e sia con il principio di determinatezza (infatti le scienze criminologiche denunciano l'assenza di leggi scientifiche o di massime di esperienza che consentono di affermare nel caso concreto la pericolosità sociale di una persona).
Il legislatore deve anche individuare il tipo di misure di sicurezza che deve essere applicato dal giudice, perché può accadere che si prevede l'applicabilità di una misura di sicurezza senza precisarne la specie; l'art.215, 3 comma c.p. dice che "quando la legge stabilisce una misura di sicurezza senza indicarne la specie, il giudice dispone che si applichi la libertà vigilata, a meno che trattandosi di un condannato per delitto ritenga di disporre la sua assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro". È insufficiente anche l'impegno del legislatore per individuare i contenuti delle misure di sicurezza, sia delle misure personali detentive (i cui contenuti non sono specificate dalla legge, in modo da distinguer una misura di sicurezza dall'altra e le misure dalle pene), sia di quelle non detentive (ad esempio l'art, 228, 2 comma c.p. dice che "alla persona in stato di libertà vigilata siano imposte dal giudice prescrizioni idonee a evitare le occasioni di nuovi reati). Infine, a differenza delle pene, la riserva di legge consente misure di sicurezza indeterminate nel massimo, che è un carattere proprio di questa sanzione, in quanto essa dipende dalla pericolosità sociale dell'agente.
11. L'interpretazione nel diritto penale.
Interpretare una norma significa individuare il suo significato in modo da poter ricondurre sotto il suo ambito un determinato caso concreto. In ambito penale la riserva di legge (prevista dall'art.25, 2 comma cost.) impone la fedeltà del giudice alla legge, con la conseguenza che egli non potrà mai applicare per analogia norme penali sfavorevoli all'agente (divieto di analogia in malam partem), cioè il giudice non potrà ricondurre sotto la norma casi non riconducibili a nessuno dei suoi possibili significati laterali.
Per interpretare una legge penale, il giudice deve procedere prima di tutto ad una sua "interpretazione conforme al significato letterale", cioè deve individuare quali siano i possibili significati letterali della legge penale; restare dentro la cornice dei possibili significati letterali diventa impossibile quando le norme sono imprecise, infatti solo norme chiare e precise consentono di stabilire se il giudice fa opera di interpretazione o di creazione delle norme incriminatrici, muovendosi all'interno o al di fuori dei limiti segnati dai possibili significati letterali. Quando il legislatore usa dei termini vaghi e quindi la norma può essere riempita di qualsiasi contenuto, la sorte della norma è segnata: il giudice non può interpretarla perché deve solo investire la corte costituzionale per farne dichiarare l'illegittimità costituzionale (in base all'art.25, 2 comma cost.). Quando invece la norma non è imprecisa, per cercare i significati dei vari termini, il giudice può attingere a svariati linguaggi:
_al linguaggio comune, che è depurato dai pregiudizi depositati dalle letture giurisprudenza e dottrinali, per individuare ad esempio il significato letterale del termine "violenza", che tra l'altro compare nell'art. 610 c.p. che prevede il "delitto di violenza privata", e che nel linguaggio comune evoca la lesione o, al massimo, la creazione di un imminente pericolo di lesione della vita, dell'integrità fisica o della libertà di movimento;
_al linguaggio giuridico, per individuare il significato letterale dei cosiddetti elementi normativi giuridici, che compaiano nei settori del diritto penale che disciplinano materie in parte già giuridicamente trasformate dal diritto civile e amministrativo, alle cui regole il giudice dovrà perciò necessariamente fare riferimento: non dovrà solo constatare dei fatti, ma anche interpretare le regole giuridiche extra penali e applicarle a quei fatti (ad esempio il significato del termine "altruità", il quale denota che la cosa non è di proprietà dell'autore dei delitti di furto, come stabiliscono l'art.624 c.p. sull'appropriazione indebita e l'articolo 646 c.p. sul danneggiamento, ma questo termine va ricostruito facendo riferimento alle regole civilistiche suoi modi di acquisto del diritto di proprietà);
_al linguaggio economico-aziendale, da cui la disciplina penale delle società commerciali trae dei termini come: situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, il cui significato impone al giudice di impadronirsi del sapere, che spesso gli viene fornito dai periti, necessario per accertare se sussistono in concreto i fatti previsti dalle figure legali che li descrivono e reprimono (ad esempio false comunicazioni sociali, previste dagli articoli 2621 e 2622 c.c.; falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione, prevista dall'articolo 2624 c.c.; ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, prevista dall'articolo 2638 c.c.);
_al linguaggio medico: la disciplina penale posta a tutela dell'integrità fisica, negli artt.582,583 e 590 c.p, impiega un termine: la "malattia nel corpo", tratto dal linguaggio medico, a cui vengono attribuiti significati controversi tra loro: parte della giurisprudenza interpreta come malattia ogni alterazione dell'organismo, anche di breve durata (ad esempio contusioni, escoriazioni), invece un'altra parte della giurisprudenza e la dottrina prevalente interpretano la malattia come una riduzione delle funzionalità, il cui esito può essere il ritorno alla condizione precedente o l'adattamento a nuove condizioni di vita;
_al linguaggio biologico, per individuare ad esempio il significato letterale del termine "embrione umano", utilizzato dalla legge sulla procreazione medicalmente assistita (legge 40 del 2004). Embrioni e cellule staminali derivate dagli embrioni sono delle realtà biologicamente diverse, infatti quando il ricercatore opera su cellule staminali embrionali l'embrione ha cessato di esistere; il divieto di sperimentazione riguarda gli embrioni e non le cellule staminali embrionali, a meno che non si voglia infrangere il divieto di analogia in malam partem; però la sicurezza dell'interprete cessa di fronte al termine embrione che è presente in più disposizioni della legge 40: l'art.14 vieta sotto minaccia di pena la crioconservazione di embrioni, la soppressione di embrioni e la produzione di più di tre embrioni nell'ambito di ciascun trattamento di procreazione assistita. Al termine embrione la scienza medica biologica attribuisce significati diversi: secondo l'accezione più ampia l'embrione è già la cellula uovo (l'oocita) dove è penetrato lo spermatozoo; secondo accezioni più restrittive l'embrione è il prodotto del concepimento che si è impiantato nell'utero, o il prodotto del concepimento a partire dal quattordicesimo giorno dopo la fecondazione; secondo invece accezioni intermedie esiste (come ritiene l'ordinamento tedesco) un embrione dal momento della fusione dei nuclei o dal momento in cui compare il genoma definito. Quale sia il significato più adatto per il nostro ordinamento deve essere deciso da criteri diversi dal tenore letterale delle norme in cui compare la parola embrione.
Se, pur attingendo a questi linguaggi, non è ancora possibile stabilire quale sia il significato letterale da attribuire a un termine all'interno della legge penale, il giudice ricorre a un ulteriore attività di interpretazione:
A) l'interpretazione sistematica, che consiste nel coordinamento tra più disposizioni di pari grado. Ad esempio è l'interpretazione sistematica tra l'articolo 582 (che si occupa delle lesioni personali) e l'articolo 581 c.p. (che è si occupa del delitto di percosse, cioè quelle violenze fisiche che consistono nel cagionare lievi alterazioni anatomiche, come ematomi e escoriazioni) che consente di attribuire al termine malattia il significato di produzione di un processo morboso con apprezzabile riduzione di funzionalità dell'organismo umano; il che spiega la diversità delle pene stabilite dalla legge: la sola multa per le percosse, la reclusione da tre mesi a tre anni per le lesioni personali lievi.
Questo tipo di interpretazione serve anche per risolvere certi dubbi che in altri ordinamenti vengono abbandonati all'arbitrio dell'interprete. Ad esempio ci si domanda se agli effetti dei delitti di omicidio, era uomo: il frutto vivo e vitale del concepimento al momento della nascita, o già durante il parto quando il feto si distacca dall'utero materno. È una domanda che la legge penale italiana risolve avvicinando la norma che configura il delitto di omicidio doloso a quella che configura il delitto di infanticidio , e stabilisce che in presenza di certe condizioni, ad esempio l'abbandono materiale o morale, si considera un omicidio attenuato, cioè meritevole di una pena minore, la condotta della madre che cagiona la morte del feto durante il parto, perciò si applicherà la normale disciplina dell'omicidio doloso in assenza di quelle condizioni, essendo uomo, del quale si cagiona morte, anche il feto durante il parto. L'interpretazione sistematica può anche rafforzare i risultati già raggiunti attraverso un'interpretazione conforme al significato letterale della norma: ad esempio nel caso del diritto di omissione di soccorso, prevista dall'art.593 c.p. , la giurisprudenza prevalente ritiene che l'espressione "trovare" si riferisca a chi si trova in presenza di un corpo inanimato o di una persona in pericolo, solo un'applicazione analogica della norma consentirebbe di includere anche la semplice notizia del ritrovamento da parte di altri di una persona in pericolo (come nel caso di chi viene avvertito attraverso una telefonata che altrove una persona giace al suolo ferita); per frenare un'indebita dilatazione della rilevanza, la cassazione ha sottolineato che se il legislatore avesse voluto includere tra i presupposti del reato la notizia, data all'agente da altri, del corpo inanimato o della persona in pericolo, si sarebbe espresso come si è espresso nell'ipotesi dell'art.489, 2 comma del codice della navigazione "il comandante che abbia notizia del pericolo corso da una nave o da un aereomobile è tenuto ad accorrere".
B) l'interpretazione a fortiori (a maggior ragione), che impone di chiarire i dubbi interpretativi sollevati da una norma alla luce di un'altra norma di portata più ampia (ad esempio è l'interpretazione a fortiori dell'art. 56, alla luce dell'art.115, che consente di escludere gli atti preparatori dal significato del termine "atti diretti in modo non equivoco", se infatti sono penalmente irrilevanti gli atti preparatori di un delitto compiuti da più persone, a maggior ragione saranno penalmente irrilevanti gli atti preparatori compiuti da una sola persona).
La lettera della legge, anche se dilatata a tutti i suoi possibili significati, rappresenta però solo il limite esterno imposto all'opera dell'interprete, entro questo limite il giudice deve ricorrere nella materia penale a quella particolare interpretazione sistematica denominata "interpretazione conforme alla costituzione", che comporta l'adozione di una serie di criteri selettivi dei fatti penalmente rilevanti:
-il principio di offensività che opera imponendo all'interprete l'espulsione dalla fattispecie legale di fatti che, pur riconducibili entro la cornice dei possibili significati letterali, sono in concreto inoffensivi del bene giuridico tutelato (ad esempio la falsa testimonianza che cade su circostanze che non sono influenti sul processo decisionale del giudice);
-il principio di colpevolezza che vincola l'interprete a subordinare l'attribuzione della responsabilità, anche in quelle fattispecie originariamente ispirate alla logica della responsabilità oggettiva, alla possibilità di muovere all'agente almeno un rimprovero di colpa;
-il principio di precisione che non consente all'interprete di attribuire alla norma significati compatibili con il tenore letterale, ma che conferirebbero contorni inguaribilmente imprecisi al divieto o al comando imposto dalla legge (ad esempio la nuova configurazione del delitto di abuso di ufficio, previsto dall'art.323 c.p., che oggi individua le condotte abusive sulla base del contrasto con norme di legge o di regolamento, sbarrando quindi la strada all'orientamento che considera penalmente rilevanti anche comportamenti individuati attraverso i parametri dell'eccesso e dello sviamento di potere, o attraverso gli elastici principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione enunciati nell'art.97 cost.);
-il principio costituzionale di imparzialità della pubblica amministrazione che può contribuire a individuare la portata di una causa di giustificazione di quei fatti, come l'uso legittimo delle armi e di ogni altro mezzo di coazione fisica, infatti l'impiego di questi mezzi deve essere proporzionato, cioè la sua legittimità è subordinata al bilanciamento di tutti gli interessi in gioco;
-l'enorme divario di rango costituzionale tra il bene della vita e il bene patrimonio pone l'interprete della nuova disciplina della legittima difesa nel domicilio e negli esercizi commerciali (prevista dall'art.52, 2 e 3 comma c.p.) di fronte all'alternativa se la codificazione della licenza di uccidere deve essere sottoposta alla corte costituzionale, come disciplina da dichiarare costituzionalmente illegittima perché contrasta con gli artt 2, 3, 32, 1 comma e con l'art. 42, 2 comma cost., o deve invece essere sottoposta a un'interpretazione conforme a cost. da parte del giudice ordinario che in via sistematica lega la norma come se legittimasse la difesa con le armi, entro i limiti della necessità, solo se c'è un pericolo che investe sia l'incolumità fisica, sia il patrimonio;
-dalla costituzione si può ricavare un argomento che rafforza una lettura restrittiva della formula embrione nella legge sulla procreazione assistita: riferire al oocita fecondato i divieti previsti dall'art.14 della legge 40 del 2004, cioè il divieto di produrre più di tre embrioni e il divieto di crioconservare gli embrioni, comporterebbe costi elevati per la salute della donna che sarebbe costretta a sottoporsi a continue stimolazioni ormonali e a prelievi di oociti nel caso, molto frequente, di insuccesso del primo trattamento. Dato che l'art.32, 1 comma cost. impegna la Repubblica a tutelare la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività,tra i possibili significati letterali della formula embrione, l'interprete dovrà scegliere dei significati che siano coerenti con l'impegno costituzionale alla tutela della salute, quindi dovranno essere preferiti quei significati che facciano salva la possibilità di produrre in numero superiore a tre e crioconservare oociti fecondati in uno stadio anteriore (ad esempio alla comparsa del genoma definito), cioè si dovrà ritenere che prima di quello stadio non ci sia ancora un embrione.
Se poi una legge penale italiana dà attuazione a una norma dell'Unione europea, il giudice italiano ha l'obbligo di "un'interpretazione conforme alla normativa europea", cioè deve scegliere, tra i possibili significati letterali della legge italiana, quello conforme, o più conforme, alle pretese del diritto dell'Unione europea.
CAPITOLO 3: "I LIMITI ALL'APPLICABILITA' DELLA LEGGE PENALE"
A) LIMITI TEMPORALI
1. Il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli all'agente.
In uno Stato liberale di diritto il cittadino deve poter sapere prima di agire se dal suo comportamento potrà derivare una responsabilità penale e quali sono le sanzioni in cui potrà incorrere, solo così può compiere liberamente le sue scelte, assumendosi la responsabilità delle sue azioni; ecco perché i fondatori dei principi dello Stato liberale di diritto per la tutela del cittadino hanno introdotto il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli all'agente nei confronti del giudice e del legislatore. Il rispetto di questo principio è imposto al giudice dall'art.2, 1 comma c.p. che dice che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato", inoltre il 3 comma vieta al giudice di applicare retroattivamente una legge successiva sfavorevole al reo, infatti dice che "se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo". Inoltre questo principio viene considerato un principio costituzionale vincolante per il legislatore, infatti l'art.25, 2 comma cost. dice che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso", e il divieto riguarda sia la punizione di fatti che al tempo della loro commissione non costituivano reato, sia la punizione più severa di fatti che già costituivano reato.
Il principio di irretroattività della legge penale ha conseguenze sulla configurazione e sul funzionamento del sistema penale: in primo luogo è condizione indispensabile perché la minaccia della pena da parte del legislatore funzioni come uno strumento di prevenzione generale, cioè se il suo fine è quello dell'intimidazione di potenziali delinquenti, questo effetto può essere raggiunto solo se il comportamento vietato viene fissato dalla legge prima del fatto; in secondo luogo questo principio impone al legislatore di includere tra i presupposti dell'applicazione della pena la colpevolezza dell'agente, per garantire al cittadino libere scelte di azione infatti è necessario che non gli venga attribuita la responsabilità penale per fatti a lui non rimproverabili, quindi può essere attribuita solo la responsabilità di un fatto che al momento in cui lo ha commesso egli ha previsto e voluto (il dolo), o che avrebbe evitato se avesse impiegato la dovuta diligenza (la colpa), se conosceva o poteva conoscere la norma penale che vietava il compimento del fatto (errore inescusabile sulla legge penale) e se era capace di intendere e di volere (l'imputabilità).
2. Nuove incriminazioni e trattamento penale più severo.
La legge penale sfavorevole all'agente può individuare una figura di reato integralmente nuova, cioè che comprende una classe di fatti che in base alla disciplina previgente erano tutti penalmente irrilevanti (il legislatore del 1974 ad esempio ha ampliato la tutela della riservatezza della vita privata reprimendo una nuova classe di comportamenti in aggiunta a quelli già previsti dall'art.614 c.p sulla violazione del domicilio, infatti nell'art.615 bis dice che "chiunque mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva o sonora si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata che si svolge nell'abitazione, in ogni altro luogo di privata dimora o nelle appartenenze di essi"). Inoltre la legge penale favorevole all'agente può ampliare una figura di reato preesistente sia attraverso interventi su disposizioni della parte speciale (ad esempio la riformulazione dell'arte 648 bis c.p. con cui il legislatore del 1993 ha incluso nel delitto di riciclaggio la sostituzione di denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, mentre la versione precedente della norma si concludeva dicendo "provenienti da una ristretta gamma di delitti di particolare gravità"), sia da interventi su disposizioni della parte generale (ad esempio una riforma della disciplina del tentativo che attribuisse rilevanza penale anche al tentativo inidoneo). La legge penale favorevole all'agente comporta anche una disciplina meno favorevole per l'agente, in particolare una pena principale,una pena accessoria e effetti penali della condanna più severi di quanto previsto nella legge vigente al tempo in cui il reato è stato commesso.
È sorta la domanda se il principio di irretroattività riguardi anche le misure di sicurezza, perché l'art.25, 3 comma cost. enuncia il principio di legalità ma non quello di irretroattività, inoltre l'art. 200 c.p.,1 comma dice che "le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione" e al 2 comma dice che "se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo dell'esecuzione". Nessuno può essere sottoposto a una misura di sicurezza per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso o secondo una legge successiva, non costituisce reato, quindi gli spazi per l'applicazione retroattiva della disciplina sulle misure di sicurezza sono circoscritti perché l'esigenza che la legge preveda il fatto come reato è uno dei presupposti per l'applicazione delle misure di sicurezza, il legislatore non può stabilire che una misura di sicurezza si applichi a fatti che non costituivano reato al momento della loro commissione, per quanto riguarda il giudice poi in base all'art.2, 1 comma c.p. la qualificazione del fatto come reato non può derivare da una legge sopravvenuta, inoltre il 2 comma stabilisce l'inapplicabilità di una misura nel caso in cui una legge successiva alla commissione del fatto abbia abolito l'incriminazione in deroga a quanto previsto dall'art.2 c.p. in materia di successione di leggi penali, l'art.200, 1 e 2 comma c.p. disciplina il caso in cui il fatto fosse previsto come reato già al tempo della sua commissione e la legge del tempo prevedesse già l'applicabilità di una misura di sicurezza, ma una legge successiva abbia disciplinato diversamente le modalità di esecuzione della misura, in questo caso l'art.200 impone al giudice di cognizione di applicare la legge in vigore al momento in cui egli dispone la misura, se poi la legge in vigore al momento dell'esecuzione è diversa, il giudice dell'esecuzione dovrà applicare la nuova legge. Quindi questa disciplina comporta l'applicabilità retroattiva della legge sopravvenuta che ridisciplina le modalità esecutive della misure di sicurezza anche quando le modalità risultano più gravose per l'agente.
3. Principio di irretroattività e diritto processuale penale.
Le norme che regolano il processo penale non rientrano nel divieto di irretroattività perché non interferiscono con le libere scelte di azione del cittadino; nel diritto processuale penale opera il principio tempus regit actum, cioè il principio secondo cui gli atti processuali già compiuti conservano la loro validità anche dopo un mutamento della disciplina legislativa, mentre gli atti da compiere sono immediatamente disciplinati dalla nuova legge processuale, anche se sono collegati ad atti compiuti in precedenza. A volte l'appartenenza di una norma al diritto penale sostanziale o al diritto processuale è una questione controversa, e quindi per alcuni istituti che si collocano ai confini tra due settori dell'ordinamento nasce il problema di stabilire se sono interessati o no dal divieto di irretroattività. In questi casi la soluzione viene trovata facendo riferimento alla funzione che la costituzione assegna al principio di irretroattività. Un altro problema riguarda l'efficacia nel tempo di una legge che allunga la durata del tempo necessario per la prescrizione di un reato: in questo caso bisogna distinguere a seconda che all'entrata in vigore della legge sia già decorso il tempo per la prescrizione del reato (in questo caso un'applicazione retroattiva della nuova disciplina va esclusa e l'agente non è punibile e può fare affidamento su questo stato di cose, ad esempio può distruggere materiale probatorio a sua discolpa) o la prescrizione non sia ancora maturata ((in questo caso la legge che sancisce l'allungamento dei termini potrebbe trovare applicazione retroattiva, cioè potrebbe essere applicata anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, e ciò soddisfa l'aspettativa del cittadino di sapere prima se e in quale misura potrà essere punito, e non di fargli sapere per quanto tempo dovrà stare nascosto dopo aver commesso il fatto per poter poi tornare tranquillamente alla vita di tutti i giorni).
4. Il principio di irretroattività delle norme penali favorevoli all'agente.
Il giudice ha l'obbligo di applicare retroattivamente (cioè a fatti commessi prima della sua entrata in vigore) una legge penale successiva favorevole all'agente, in base all'art.2, commi 2, 3, e 4 c.p. In particolare il 2 comma dice che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali", quindi la norma sopravvenuta abolisce l'incriminazione e quindi si applica retroattivamente, cioè anche a fatti commessi prima della sua entrata in vigore: se non è ancora stata pronunciata la condanna il soggetto deve essere prosciolto, invece se è già stata pronunciata cessa l'esecuzione della pena e ogni effetto penale della condanna (restano ferme solo le obbligazioni civili che nascono dal reato, ad esempio quelle che hanno per oggetto il risarcimento del danno, e la misura di sicurezza patrimoniale della confisca). Il principio di retroattività della legge più favorevole trova applicazione anche nell'ipotesi di successione di leggi penali modificative della disciplina, infatti il 4 comma dice che "se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile", quindi anche la legge sopravvenuta in modifica in senso favorevole all'agente la disciplina di un reato si applica retroattivamente, a condizione però che la sentenza di condanna non sia ancora passata in giudicato. Infine il 3 comma dice che "se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'art.133", quindi se la modifica favorevole al reo consiste nel prevedere una pena pecuniaria anche se la legge precedente prevedeva una pena detentiva, la legge sopravvenuta si applica retroattivamente senza che sia applicato il limite del giudicato (quindi si tratta di una retroattività illimitata).
A questo principio fanno eccezione le leggi temporanee e le leggi eccezionali, alle quali si applica il diverso principio dell'incondizionata applicazione della legge del tempo in cui il fatto è stato commesso. Inoltre questo principio, a differenza del principio di retroattività della norma penale favorevole all'agente, non è coperto da garanzia costituzionale, e quindi vincola il giudice, ma non il legislatore ordinario che vi può derogare attraverso una previsione espressa che rispetti il principio di eguaglianza/ragionevolezza dell'art.3 cost.
5. L'abolizione del reato (art. 2, 2 comma c.p.).
L'abolizione del reato prevista dall'art.2, 2 comma c.p. esprime una scelta politico-criminale del legislatore che non ritiene più meritevole o bisognosa di repressione penale una classe di fatti che prima erano inclusi nel catalogo dei reati. Questa abolizione riguarda sia il caso in cui venga integralmente soppressa una figura di reato (ad esempio l'istigazione all'aborto che prima era considerata un delitto nell'art.548 c.p. e che poi la legge 194 del 1978 ha estromesso dall'area penalmente rilevante) e sia il caso in cui vengano ridefiniti i contorni del reato, determinando quindi una restrizione dell'area applicativa di un'incriminazione preesistente, questo risultato può derivare sia da interventi su disposizioni della parte speciale (ad esempio la riformulazione dell'art.323 c.p. con cui il legislatore del 1997 ha ridefinito in senso restrittivo il diritto d'abuso d'ufficio) e sia su disposizione della parte generale (ad esempio potrebbe ipotizzarsi la riformulazione degli artt, 40 e 41 c.p. che modellasse la disciplina della causalità non più secondo la teoria condizionalistica ma secondo la teoria della causalità adeguata).
6. La successione di norme integratrici.
Nei casi in cui successivamente alla commissione del fatto, viene modificata una norma giuridica in varia forma richiamata dalla norma incriminatrice, sorge la domanda se e quando sia applicabile il principio di retroattività della norma penale più favorevole; la risposta varia a seconda che la norma integri o no la norma incriminatrice: solo se la norma integra la norma incriminatrice si può parlare di successione di norme integratrici della norma penale perché la modifica si ripercuoterà sulle scelte politico-criminali e sul giudizio di disvalore espresso dal legislatore nella configurazione del reato; se invece la norma incriminatrice fa riferimento a un'altra norma attraverso un elemento normativo della fattispecie, la norma richiamata non integra la norme incriminatrice perché non contribuisce a esprimere la scelta politico-criminale racchiusa nella figura astratta del reato, quindi la modifica della norma richiamata non incide sulla fisionomia del reato e non dà vita a fenomeni, anche parziali, di abolizione. A questo proposito ci sono alcuni esempi molto importanti:
-La disposizione incriminatrice della contraffazione di monete (prevista dall'arte 453,n. 1 c.p.) attraverso la formula "aventi corso legale nello stato" richiama le norme extra penali che individuano le monete utilizzabili come mezzi di pagamento. Se viene emanata una norma che determina la cessazione del corso legale di una determinata moneta, non c'è una parziale abolizione del reato, perché la scelta politico-criminale di reprimere la contraffazione di monete e il disvalore espresso dalla figura astratta del reato non vengono intaccati dalle vicende normativa che stabiliscono l'entrata o la fuoriuscita di una determinata moneta,chi ha contraffatto banconote che avevano corso legale al momento della contraffazione dovrà essere condannato anche se quelle banconote successivamente hanno perduto corso legale (ad esempio è ancora punibile chi ha contraffatto la lira prima dell'introduzione dell'euro);
-la calunnia, che consiste nell'incolpare di un reato una persona che si sa che è innocente (prevista dall'art.368 c.p.), non viene intaccata, e quindi non c'è un'abolizione del reato, se in seguito a un'innovazione legislativa il fatto oggetto della falsa incolpozione non è più previsto dalla legge come reato;
-non c'è nessuna parziale abolizione del reato neanche nel caso di omicidio colposo (che consiste nel cagionare per colpa la morte di un uomo e che è previsto dall'art.589 c.p.) se viene eliminata la norma giuridica cautelare che rendeva colposa la condotta dell'agente al momento del fatto.
Sono norme integratrici le norme definitorie, cioè le norme, penali o extra penali, con cui il legislatore chiarisce il significato dei termini utilizzati nelle disposizione incriminatrici in modo da individuare il contenuto del precetto penale, quindi la norma definitoria viene modificata restringendo l'ambito dell'incriminazione e ci sarà una parziale abolizione del reato con efficacia retroattiva rispetto ai fatti commessi prima della modifica in base all'art. 2, 2 comma c.p. (ad esempio la legge 39 del 1975 ha abbassato da 21 a 18 anni il limite della maggiore età, quindi è stato ristretto l'ambito di applicazione delle norme incriminatrici che si riferiscono al minore come elemento costitutivo del fatto; è il caso dell'arte.573 c.p. che prevede il delitto di separazione consensuale di minorenne, a causa della ridefinizione del concetto di minore è diventata penalmente irrilevante la sottrazione consensuale di una persona di età compresa fra 18 e 21 anni, se invece questo fatto fosse stato commesso prima della ridefinizione del concetto di minore si doveva applicare l'art.2, 2 comma per cui l'agente doveva essere prosciolto perché il fatto non è più preveduto dalla legge come reato, se c'era stata condanna definitiva ne cessava l'esecuzione e ogni altro effetto penale.
Si parla di norma integratrice anche nel caso in cui una disposizione legislativa prevede una sanzione penale per la violazione di un precetto contenuto in un'altra disposizione legislativa (ad esempio le leggi speciali che contengono nella parte finale previsioni del tipo "chiunqueviola gli artt. x, y e z della presente legge è punito con la pena K."), se viene abrogata la disposizione che contiene il precetto, questa disposizione viene riformulata riducendone l'estensione e ci sarà un'abolizione totale o parziale del reato. Sono norme integratrici anche quelle che colorano il precetto delle norme penali in bianco (ad esempio l'eliminazione di una sostanza da un elenco di stupefacenti contenuto in un decreto ministeriale determinerà una parziale abolizione dei reati in materia di stupefacenti, con effetto retroattivo per chi ha agito prima della modifica del decreto ministeriale).
7. La successione di norme modificative della disciplina (art. 2, 3 e 4 comma c.p.).
Può accadere che una legge posteriore alla commissione del fatto non modifichi la fisionomia astratta del reato eliminando totalmente o parzialmente o ampliando l'incriminazione, infatti la modificazione può riguardare solo la disciplina del reato, quindi è necessario stabilire se sia più favorevole o meno favorevole all'agente la disciplina della nuova legge o della legge vigente al momento del fatto. Se la legge posteriore è meno favorevole il principio di irretroattività stabilisce che deve essere applicata la legge vigente al momento del fatto, se invece la nuova legge è più favorevole sarà questa ad essere applicata in base al principio della retroattività della legge più favorevole, infatti l'art.2, 4 comma c.p. dice che "se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo." Inoltre il giudice è tenuto ad applicare o l'una o l'altra legge, senza poter combinare disposizioni dell'una e dall'altra. Esiste però un limite per la retroattività della legge posteriore più favorevole: essa infatti si applica "salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile", perché per salvaguardare la certezza degli accertamenti giudiziari ormai esauriti prevale l'intangibilità della cosa giudicata sull'esigenza di un trattamento più favorevole.
Per decidere quale legge sia più favorevole all'agente il giudice deve effettuare un giudizio in concreto caso per caso, cioè prima deve applicare idealmente al caso concreto la legge vigente al momento del fatto, poi la legge posteriore, in ogni sua fase, e le eventuali leggi intermedie, e infine deve confrontare i risultati che derivano dall'applicazione ideale al caso concreto delle due leggi per decidere quale sia la legge più favorevole; il giudice per decidere deve considerare l'intera disciplina: la specie (ad esempio la pena pecuniaria è più favorevole della pena detentiva), la misura della pena principale, la pena accessoria, gli effetti penali della condanna, le misure di sicurezza, le cause di estinzione del reato e della pena, le cause di giustificazione (ad esempio se la legge più recente prevede un massimo di pena più alto, cioè tre anni di reclusione invece di due, e un minimo più basso, cioè sei mesi invece di un anno, rispetto alla legge vigente al momento del fatto, il giudice in base all'art.133 c.p. deciderà quale legge applicare a seconda che l'autore del fatto meriti il minimo della pena oppure il massimo, se merita il minimo applicherà la legge posteriore che prevede sei mesi di reclusione, se invece merita il massimo applicherà la legge anteriore che prevede due anni di reclusione).
Un'ipotesi particolare di legge posteriore più favorevole è quella in cui dopo la commissione di un reato punito con pena detentiva, quindi con arresto, reclusione o ergastolo, entri in vigore una nuova legge che preveda per quel reato una sola pena pecuniaria, cioè ammenda o multa (ad esempio il delitto di vilipendio alla nazione che prima era punito con la reclusione da uno a tre anni, mentre ora con la multa da 1000 a € 5.000). Se la nuova legge entra in vigore prima che sia stata pronunciata la sentenza irrevocabile, in base all'art.2, 4 comma c.p., verrà applicata la nuova legge e quindi verrà inflitta la pena pecuniaria; se invece la nuova legge entra in vigore dopo la pronuncia di una sentenza definitiva di condanna (a pena detentiva), in base all'art.2, 4 comma, dovrebbe essere inflitta la pena detentiva perché prevale l'intangibilità della cosa giudicata, come prevedeva anche il codice penale del 1930. Ora però grazie alla riforma legislativa effettuata con la legge 85 del 2006, che riguarda l'intervento sui reati di opinione, nell'art.2 c.p. è stato introdotto un nuovo 3 comma che dice che "se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'art.135"; quindi la legge più favorevole posteriore travolge il giudicato e la conversione viene effettuata secondo il criterio di ragguaglio previsto dall'art.135 (ad esempio € 38 di pena pecuniaria equivalgono a un giorno di pena detentiva), l'ammontare della pena pecuniaria che risulta dalla conversione non può eccedere l'ammontare massimo della pena pecuniaria prevista dalla nuova legge. È il giudice dell'esecuzione che è competente ad adottare il provvedimento di conversione, quindi se il condannato sta scontando la pena dovrà sospendere l'esecuzione e disporre la liberazione del condannato, perché la conversione, come stabilisce il 3 comma dell'art.2, deve essere immediata.
8. Leggi eccezionali e leggi temporanee.
Il principio della retroattività della legge penale più favorevole non opera per le leggi eccezionali e per le leggi temporanee, infatti l'art.2, 5 comma c.p. dice che "se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti". La legge eccezionale è una legge emanata per fronteggiare situazioni oggettive di carattere straordinario (ad esempio calamità, epidemie) la cui disciplina è quindi legata a questa situazione di fatto, il legislatore, col ritorno alla normalità, potrà abolire il reato previsto dalla legge eccezionale o mitigarne il trattamento sanzionatorio perché è venuta meno la situazione di fatto che aveva dato origine a quelle disciplina. Lo stesso vale per la legge temporanea, cioè una legge che contiene la predeterminazione espressa del periodo di tempo in cui avrà vigore, infatti anche questa è una norma dettata per far fronte a situazioni straordinarie però, a differenza delle leggi eccezionali, è la stessa legge temporanea a stabilire per quanto tempo resterà in vigore.
9. Il decreto legge decaduto o non convertito.
In base alla riserva di legge formale prevista dalla 25, 2 al comma cost. il decreto legge non dovrebbe essere incluso tra le fonti di norme penali, però la prassi si muove in senso opposto e il codice penale del 1930 includeva il decreto legge nella disciplina della successione delle leggi. Per quanto riguarda i problemi relativi all'efficacia nel tempo dei decreti legge in materia penale, in primo luogo l'art. 25, 2 comma cost. e l'art. 2, 1 comma c.p. impongono, rispettivamente al legislatore e al giudice, che un decreto-legge convertito in legge che contenga una nuova incriminazione col trattamento penale più severo non può avere efficacia retroattiva. Più complesso è il problema riguardo ai decreti legge decaduti o non convertiti in legge se contengono un'abolizione del reato o una disciplina penale più favorevole all'agente. L'art. 2, 5 comma c.p. diceva che la disciplina della successione delle leggi penali contenuta nei commi precedenti doveva applicarsi anche nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge, però faceva riferimento alla disciplina dei decreti legge non convertiti vigente nel 1930, quindi prima dell'entrata in vigore della costituzione, si tratta quindi di una disciplina differente da quella che ora è prevista dalla 77, 3 comma cost. che prevede la perdita di efficacia sin dall'inizio dei decreti legge non convertiti, escludendo quindi la possibilità di una successione di leggi penali. Il 5 comma va letto alla luce della sentenza della corte costituzionale 51 del 1985 che ha dichiarato l'illegittimità di questa disposizione nella parte in cui rendeva applicabile ai decreti legge decaduti o non convertiti l'intera disciplina della successione di leggi penali favorevoli al reo.
Bisogna distinguere tra i fatti commessi prima dell'emanazione del decreto-legge non convertito, i cosiddetti fatti pregressi (in base ai quali se un determinato fatto fosse preveduto come reato dalla legge del tempo, l'abolizione del reato o la disciplina più favorevole prevista dal decreto legge non convertito non avrà nessun affetto e l'agente sarà punibile in base alla legge in vigore al tempo del fatto) e i fatti commessi dopo l'emanazione del decreto e prima dello spirare del termine per la sua conversione, i cosiddetti fatti concomitanti (per i quali il principio di irretroattività impone di applicare la disciplina più favorevole contenuta nel decreto legge non convertito, quindi se il decreto-legge non convertito prevedeva l'abolizione del reato l'agente non sarà punibile, e se c'è già stata la condanna, cesseranno l'esecuzione e gli effetti penali; se invece il decreto-legge prevedeva una disciplina in concreto più favorevole, il giudice dovrà applicare questa disciplina, e ciò in forza della ratio del principio di irretroattività perché anche se per effetto della mancata conversione del decreto-legge la norma incriminatrice o comunque meno favorevole è la legge vigente al momento del fatto, però questa legge non poteva essere conosciuta dall'agente e quindi la sua applicazione contrasterebbe con il principio di irretroattività.
10. La dichiarazione di illegittimità costituzionale.
La dichiarazione di illegittimità di una legge penale non è riconducibile alla disciplina della successione di leggi penali, perché è regolata dall'art.136 cost. e dall'art. 30, 3 comma della legge 87 del 1953, che stabiliscono che a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione nessun giudice può applicare una legge dichiarata incostituzionale ai fatti che si sono verificati in qualsiasi tempo, in particolare per quanto riguarda il diritto penale il giudice dell'esecuzione non può continuare ad applicare la legge penale dichiarata incostituzionale che è stata alla base di una sentenza di condanna passata in giudicato, infatti l'ultimo comma della legge 87 dice che "quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali". Inoltre è sorta la questione se la corte costituzionale possa sindacale la legittimità delle norme penali di favore (cioè norme che prevedono cause di giustificazione, scusanti, ecc.) dichiarandone l'incostituzionalità ed estendendo quindi l'area della responsabilità penale o rendendo applicabile un trattamento più severo. La corte ritiene di poter sindacare le norme penali di favore perché non sono una zona franca, cioè sottratta al controllo di legittimità (ad esempio la corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di una legge regionale del Friuli Venezia Giulia che autorizzava la caccia di animali protetti, integrando di conseguenza il fatto di furto; la corte ha conservato questa norma in contrasto con l'articolo quattro della sotto regionale che vincola la potestà legislativa della regione agli obblighi internazionali assunti dallo Stato, in particolare al rispetto della convenzione di Berna del 1979 sulla conservazione della vita selvatica e dell'ambiente naturale in Europa). Infine, per quanto riguarda gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale di favore bisogna distinguere fra i fatti commessi prima della dichiarazione di illegittimità (dovrà essere applicata la norma penale di favore e quindi l'agente dovrà essere prosciolto o dovrà essere punito meno severamente, in base al principio di irretroattività) e i fatti commessi a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione della corte (per i quali dovrà essere applicata la disciplina più sfavorevole che risulta dalla pronuncia della corte costituzionale). Se ad esempio una norma autorizza l'autorità di pubblica sicurezza ad adottare provvedimenti restrittivi della libertà personale comunicandoli all'autorità giudiziaria non entro quarantott'ore ma entro cinque giorni, l'ufficiale di polizia giudiziaria che ha agito sulla base di questa norma prima della sua dichiarazione di illegittimità costituzionale dovrebbe essere prosciolto, mentre se ha agito sulla base di questa norma dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale realizzerebbe il delitto di arresto illegale.
11. Il tempo del commesso reato.
In assenza di una disciplina legislativa, nella successione delle leggi penali è molto importante il problema dell'individuazione del tempo in cui è stato commesso il fatto (cosiddetto tempus commissi delicti) soprattutto nel caso di una nuova incriminazione o del trattamento penale più severo di un fatto già previsto come reato dalla legge. La funzione generale preventiva delle norme incriminatrici ha stabilito che l'agente si sottrae all'azione motivante e deterrente della norma incriminatrice quando agisce o omette di compiere l'azione doverosa, quindi per i reati commissivi il tempo del commesso reato viene individuato nel momento dell'azione o dell'ultima azione prevista dalla norma incriminatrice, mentre per i reati omissivi, propri e impropri, nel momento in cui andava compiuta l'azione doverosa (si tratta della teoria della condotta). Se esaurita l'azione o l'omissione, l'evento richiesto dalla norma incriminatrice si verifica dopo un lungo intervallo di tempo (ad esempio la morte dell'uomo nei delitti di omicidio), la legge non può più orientare il comportamento del suo destinatario e quindi va respinta la teoria dell'evento che fa riferimento all'evento per individuare il tempo in cui è stato commesso il reato.
Nei reati permanenti il reato si considera commesso nel momento in cui il soggetto compie l'ultimo atto con cui volontariamente mantiene la situazione antigiuridica (ad esempio nel sequestro di persona, previsto dall'art.605 c.p., che comporta la privazione della libertà personale, se durante il sequestro il legislatore rende la pena più severa e, nonostante ciò, gli autori del sequestro continuano a mantenere in vita la privazione della libertà personale della vittima, si applicherà la legge più severa perché è la legge del tempo del commesso reato). Lo stesso vale per i reati abituali, per i quali il reato si considera commesso nel momento in cui si realizza l'ultima condotta che integra il fatto di reato (ad esempio nel reato di maltrattamenti in famiglia, previsto dall'art.572 c.p. il tempo del commesso reato sarà l'ultima percorsa o ingiuria, quindi all'agente si applicherà l'eventuale sanzione più severa prevista da una legge che sia entrata in vigore durante la serie di atti di maltrattamento).
B) Limiti spaziali
12. La tendenziale universalità della legge penale italiana.
La disciplina che il codice penale dedica all'efficacia della legge penale nello spazio esprime una tendenziale adesione al principio di universalità, infatti la legge penale italiana è applicabile a tutti i fatti da essa previsti come reato commessi dovunque, da chiunque e contro chiunque, ad eccezione di alcuni reati di limitata gravità previsti dagli artt. 9 e 10 c.p. (cioè le contravvenzioni, i delitti puniti con la pena pecuniaria, i delitti che lo straniero commette ai danni dello Stato italiano o del cittadino puniti con la reclusione inferiore a un anno, i delitti commessi dallo Stato straniero ai danni della Comunità europea, di uno Stato estero o di un altro straniero puniti con la reclusione inferiore nel minimo a tre anni). Nel caso dei reati commessi all'estero ci sono degli ostacoli processuali alla perseguibilità del reato, perché è necessaria la presenza dell'autore nel territorio dello Stato dopo la commissione del reato, la richiesta del ministro della giustizia, l'istanza o la querela della persona offesa o la mancata estradizione dell'autore, la previsione del fatto come reato sia da parte della legge italiana che di quella straniera; si tratta della cosiddetta doppia incriminazione.
13. La nozione di territorio dello Stato.
La legge penale italiana si applica a tutti i reati commessi nel territorio dello Stato, indipendentemente che l'autore sia un cittadino o uno straniero, infatti l'art. 6, 1 comma c.p. dice che "chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana". L'art.4, 2 comma c.p. dice che "agli effetti della legge penale, è territorio dello Stato il territorio della Repubblica e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato", quindi il territorio dello Stato è individuato dai confini politici stabiliti da convenzioni internazionali, trattati, atti di annessione, ecc., quindi comprende il suolo dello Stato, le acque interne, il lido dal mare, il sottosuolo (nei limiti della sua utilizzabilità e raggiungibilità), lo spazio aereo nazionale (il cosiddetto soprassuolo, cioè lo spazio aereo che sovrasta il territorio della Repubblica e il mare territoriale, limitatamente allo spazio atmosferico), il mare territoriale (che si estende fino a 12 miglia marine dalle coste continentali e insulari della Repubblica, in base all'art. 2, 2 comma del codice della navigazione). Secondo l'art.4, 2 comma c.p. "le navi e gli aeromobili italiani sono considerati territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera", quindi i reati che vengono commessi a bordo delle navi e degli aeromobili italiani si considerano commessi nel territorio dello Stato sia che la nave e l'aereo si trovino in acque o spazi aerei internazionali, o nell'ambito del territorio straniero. L'estensione della legge penale italiana, in base al diritto internazionale, è illimitata se si tratta di navi e aeromobili militari italiani che si trovano in uno stato estero, invece l'estensione della legge penale italiana è limitata e quindi è esclusa se la vittima del reato è una persona diversa dai membri dell'equipaggio, se il fatto turba la tranquillità dello Stato estero o se è stato richiesto l'intervento dell'autorità locale, nel caso si tratti di navi o aerei civili italiani, quindi commerciali o da diporto, perché in questi casi il fatto ricade sotto la legge e la giurisdizione dello Stato estero. [In caso di reati commessi a bordo di navi o aeromobili stranieri militari e civili, dato che il codice penale italiano non dice nulla, si applica una norma del diritto internazionale, rilevante nel nostro ordinamento in base all'art.10 cost. che dice che quei reati si devono considerare commessi in territorio estero anche se la nave e l'aereo si trovano in territorio italiano; dovrà intervenire la legge italiana solo se la vittima del reato è una persona diversa da quella dell'equipaggio, il fatto turba la tranquillità dello Stato italiano, è stato richiesto l'intervento dell'autorità italiana].
14. I reati commessi nel territorio dello Stato.
Il legislatore accogliendo la teoria dell'ubiquità, all'art.6, 2 comma c.p. dice che "il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l'azione o l'omissione, che lo costituisce, è qui avvenuta in tutto in parte, o si è qui verificato l'evento che è la conseguenza dell'azione od omissione"; quindi con una finzione giuridica ("si considera") questa disciplina estende l'applicabilità della legge italiana anche se solo un frammento del reato si è verificato in Italia. A questo proposito è importante stabilire quando l'azione o l'omissione sia realizzata almeno in parte nel territorio dello stato.
Per quanto riguarda l'azione, si devono considerare solo i comportamenti tipici, cioè i comportamenti che sono riconducibili al tipo di azione descritto nella norma incriminatrice; non ci sono difficoltà per individuare l'azione tipica nei reati a forma vincolata, cioè nei reati nei quali la legge esige che l'azione sia compiuta con determinate modalità: tipica è l'azione che corrisponde allo specifico modello di comportamento descritto nella norma incriminatrice (ad esempio nella bigamia è tipico ogni comportamento riconducibile alle varie forme in cui si può contrarre un matrimonio avente effetti civili). Per quanto riguarda invece i reati a forma libera, cioè quel reati in cui la legge attribuisce rilevanza a qualsiasi comportamento umano che abbia causato un determinato evento, il legislatore solo apparentemente non individua l'azione tipica. Nei reati dolosi a forma libera l'azione tipica è individuata attraverso il mezzo utilizzato dall'agente. Nei reati colposi a forma libera sarà tipica ogni azione che abbia colposamente creato il pericolo che si è concretizzato nell'evento (ad esempio nel delitto di omicidio doloso del quale risponde chiunque cagiona la morte di un uomo, il delitto può essere realizzato con azioni diverse, ma se Tizio decide di provocare la morte di Caio attraverso un veleno, sarà tipica l'azione con cui Tizio riempie di veleno la bevanda offerta a Caio; sarà parte di questa azione l'inizio del versamento del veleno nella bevanda, non sarà invece parte e quindi non sarà importante per determinare il luogo in cui è stato commesso il reato, l'acquisto del veleno. Quindi il reato si considererà commesso in territorio estero se il veleno è stato acquistato in Italia ma è stato versato nella bevanda di Caio in Francia). Invece nel caso di un omicidio colposo in materia di circolazione stradale, se ad esempio un meccanico ha eseguito con imperizia la riparazione dei freni di un'auto rendendoli insensibiie all'azionamento da parte del conducente, il quale così ha travolto e ucciso un pedone, se la riparazione è avvenuta in Italia e la morte del pedone è avvenuta all'estero, il reato si considererà commesso in Italia, perché la condotta colposa del meccanico si è realizzata in Italia.
Per quanto riguarda i reati la cui condotta consiste in un'omissione, il reato si considererà commesso nel territorio dello Stato se qui doveva essere realizzata l'azione doverosa che è stata omessa, e nel caso in cui si dovessero compiere più azioni, se almeno una di queste azioni dovesse essere compiuta nel territorio dello Stato.
nei reati di evento, sia commissivi che omissivi, la legge penale italiana risulta applicabile quando nel territorio dello Stato sia verificato l'evento descritto nella norma incriminatrice, Nei reati di evento la legge penale italiana risulta applicabile quando nel territorio dello Stato si sia verificato l'evento descritto nella norma incriminatrice e ciò anche se l'azione o l'omissione che lo hanno rispettivamente causato o non impedito sono state compiute all'estero (ad esempio se Tizio viene investito da un'auto in territorio sloveno, in prossimità del confine con l'Italia, e dopo essere stato trasportato in ospedale a Trieste muore dopo alcuni giorni a causa delle ferite riportate, il delitto di omicidio colposo si considererà commesso in Italia perché l'evento morte è avvenuto in Italia).
Nel caso invece dei reati abituali (ad esempio i maltrattamenti in famiglia) il reato si considera commesso in Italia quando qui è stato compiuto anche solo uno degli atti la cui reiterazione integra il reato (ad esempio una percossa). Ne reati permanenti (ad esempio il sequestro di persona) l'applicabilità della legge italiana è assicurata dal compimento in Italia anche di una sola parte del fatto (ad esempio una persona che viene sequestrata all'estero e poi viene trasferita in Italia).
Anche se il codice penale italiano non disciplina i casi in cui il reato viene commesso in territorio estero, se in Italia sono state compiute condotte di partecipazione materiale o morale che hanno contribuito a realizzare il fatto, nel silenzio della legge si ritiene che la commissione in Italia di una qualsiasi condotta di partecipazione (ad esempio istigazione, accordo) fonda l'applicazione della legge penale italiana.
15. I reati commessi all'estero punibili incondizionatamente secondo la legge italiana.
La legge penale italiana si applica anche a molti reati commessi integralmente all'estero dal cittadino o dallo straniero, si tratta di reati previsti dall'art.7, nei numeri dall' 1 al 5 c.p. e che offendono interessi preminenti dello Stato: i delitti contro la personalità dello Stato, i delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e dell'uso di questo sigillo contraffatto, di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano; i delitti commessi dai pubblici ufficiali a servizio dello Stato, con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alle loro funzioni; ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge (ad esempio la norma sull'abbandono di persone minori prevista all'art.591 c.p., che al 2 comma stabilisce che è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chi abbandona all'estero un cittadino italiano minore degli anni 18 a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro) e convenzioni internazionali (ad esempio in tema di schiavitù o prostituzione) stabiliscono l'applicabilità della legge penale italiana. Tutti questi delitti sono puniti secondo la legge italiana incondizionatamente.
16. I delitti politici commessi all'estero.
Per combattere gli avversari del regime fascista che si erano rifugiati all'estero, il legislatore del 1980 ha stabilito che la legge penale italiana si applica ai delitti politici commessi all'estero dal cittadino o dallo straniero ai danni di un interesse politico dello Stato italiano o di un diritto politico di un cittadino italiano. L'art.8, 3 comma c.p. contiene la definizione del delitto politico e dice che "agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato, o un diritto politico del cittadino. È considerato delitto politico anche il diritto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici". Questa nozione comprende il delitto oggettivamente politico, cioè che offende le componenti essenziali dello Stato: la sua indipendenza, sicurezza, integrità territoriale, la forma di governo; mentre non sono oggettivamente politici i delitti che offendono il funzionamento degli apparati dello Stato, come la pubblica amministrazione o l'amministrazione della giustizia (ad esempio la corruzione, la violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo, giudiziario, la calunnia, la falsa testimonianza, ecc.); sono oggettivamente politici anche di delitti che offendono un diritto politico del cittadino (ad esempio alcune ipotesi di reato previste dalle leggi elettorali che offendono il diritto politico al voto).La definizione presente nell'art.8 comprende anche il delitto soggettivamente politico, cioè un delitto comune (ad esempio un omicidio o una rapina) che l'agente ha commesso perché è stato ideologicamente motivato dall'obiettivo di incidere sulle componenti essenziali dello Stato, sulla struttura dei singoli poteri statuali o sui rapporti tra Stato e cittadino (ad esempio provocare il distacco di una parte del territorio dello Stato, o privare del diritto di voto una parte della popolazione). Anche un delitto comune determinato "solo in parte da motivi politici" viene considerato un delitto politico (ad esempio l'omicidio del segretario di un partito italiano che si trova in territorio estero può essere dovuto, oltre che all'obiettivo di provocare un colpo di Stato, anche da personali finalità di vendetta).
I delitti politici sono puniti dalla legge italiana a condizione che vi sia la richiesta del Ministro della giustizia, e vi sia anche la querela (se si tratta di delitti perseguibili a querela).
17. I delitti comuni commessi all'estero dal cittadino.
In applicazione del principio di universalità, l'art.9 c.p. stabilisce che i delitti comuni puniti con pena detentiva, commessi dal cittadino all'estero, sono puniti secondo la legge italiana a una serie di condizioni graduate secondo la gravità del reato:
- quando si tratta di un delitto punito con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, la legge italiana è applicata a condizione che il cittadino, dopo la commissione del reato, sia presente nel territorio dello Stato (art.9, 1 comma).
-Quando si tratta di delitti puniti con la reclusione inferiore nel minimo a tre anni, la legge italiana è applicata a condizione che sia stata proposta la querela, perché si tratta di delitti perseguibili a querela della persona offesa; se si tratta di delitti perseguibili d'ufficio che offendono un bene giuridico individuale che riguarda un cittadino italiano, deve essere stata proposta istanza di procedimento da parte della persona offesa o, in caso di inerzia della parte, deve essere stata avanzata una richiesta dal ministro della giustizia; se si tratta invece di delitti perseguibili d'ufficio che offendono beni collettivi, istituzionali (purché non riguardino uno Stato estero) o diffusi, la perseguibilità è subordinata alla richiesta del ministro della giustizia (art.9, 2 comma). Inoltre per questi delitti puniti con la reclusione inferiore nel minimo a tre anni, la perseguibilità è subordinata alla presenza del cittadino nel territorio dello Stato dopo la commissione del reato.
-Quando si tratta di un delitto che offende un bene pertinente alle comunità europee, a uno Stato estero o a un cittadino straniero, l'applicabilità della legge penale italiana è subordinata: alla presenza del cittadino nel territorio dello Stato, alla querela o all'istanza della persona offesa, alla richiesta del ministro della giustizia, che dovrà eventualmente cumularsi con la querela e con l'istanza; alla non concessione da parte del governo italiano dell'estradizione del cittadino o alla non accettazione dell'estradizione del cittadino da parte del governo dello Stato estero (art.9, 3 comma).
-Un'altra condizione per l'applicabilità della legge penale italiana ai reati comuni commessi all'estero dal cittadino, anche se non c'è nessuna espressa indicazione legislativa, è la condizione della doppia incriminazione del fatto, cioè il fatto deve essere previsto come reato sia dalla legge italiana e sia dalla legge dello Stato straniero in cui il reato è stato commesso.
18. I delitti comuni commessi all'estero dallo straniero.
L'art.10 c.p. stabilisce che i delitti comuni commessi dalla straniero all'estero, sono puniti secondo la legge italiana sulla base di una serie di limiti e di condizioni diverse a seconda che il delitto offenda lo Stato o un cittadino italiano, le Comunità europee,uno Stato estero o uno straniero:
-La legge penale italiana, per i delitti comuni commessi all'estero dallo straniero, si applica a tutti i delitti puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a un anno (art.10, 1 comma).inoltre è necessario che ricorrano tre condizioni: la presenza dell'agente nel territorio dello Stato; la proposizione della querela, se si tratta di delitti perseguibili a querela della persona offesa; se si tratta di delitti perseguibili d'ufficio che offendono un bene individuale che riguardano un cittadino italiano, deve essere stata proposta istanza di procedimento da parte della persona offesa, o nel caso di inerzia della parte, richiesta del ministro della giustizia; se si tratta di delitti perseguibili d'ufficio a danno dello Stato italiano la perseguibilità è subordinata alla richiesta del ministro della giustizia.
-La legge penale italiana si applica ai delitti comuni commessi all'estero dallo straniero a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero o di una straniero, solo se si tratta di delitti puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni (art.10, 2 comma); sono inoltre necessarie le altre condizioni: la presenza dell'agente nel territorio dello Stato; la richiesta del ministro di giustizia; la non concessione da parte del governo italiano dell'estradizione dello straniero, o la non accettazione dell'estradizione da parte del governo dello Stato estero.
-Un'altra condizione per l'applicabilità della legge penale italiana ai reati comuni commessi all'estero dallo straniero è la condizione della doppia incriminazione del fatto.
19. Il rinnovamento del giudizio.
Una caratteristica della tendenziale universalità della legge penale italiana è: la riserva della giurisdizione italiana su tutti i fatti assoggettati alla nostra legislazione penale, in base agli articoli dal 6 al 10 c.p.; questa riserva di giurisdizione è piena e incondizionata per i reati commessi nel territorio dello Stato, infatti l'art.11, 1 comma c.p. dice che "nel caso indicato nell'art.6, il cittadino o lo straniero è giudicato nello Stato, anche se sia stato giudicato all'estero"; invece per i delitti, sia politici che comuni, commessi all'estero dal cittadino o dallo straniero, il rinnovamento del giudizio in Italia è subordinato alla richiesta del ministro della giustizia.
Secondo il codice penale del 1930 la persona già giudicata all'estero può essere giudicata per lo stesso fatto anche in Italia perché, nei rapporti internazionali, non opera il principio ne bis in idem, cioè il principio che vieta di giudicare due volte una persona per lo stesso fatto. Tuttavia in base alla legge 350 del 1989 e alla convenzione del 19 giugno del 1990 di applicazione degli Accordi di Schengen a cui l'Italia ha aderito, l'Unione europea ha riconosciuto il principio del ne bis in idem, e quindi gli Stati membri sono impegnati a non rinnovare il giudizio quando lo stesso fatto è stato giudicato in un altro paese dell'Unione.
20. Il riconoscimento delle sentenze penali straniere.
Secondo il codice del 1930 la riserva di giurisdizione si manifesta anche nella tendenziale irrilevanza delle sentenze penali straniere, infatti esse sono ineseguibili in Italia per quanto riguarda la pena principale inflitta dal giudizio dello Stato estero; quindi possono essere riconosciuti sono alcuni aspetti secondari della sentenza: per stabilire la recidiva o un altro effetto penale della condanna (ad esempio l'esclusione della sospensione condizionale della pena), per dichiarare l'abitualità, la professionalità nel reato alla tendenza a delinquere, per applicare una pena accessoria, per applicare una misura di sicurezza personale. Inoltre il riconoscimento della sentenza straniera può produrre alcuni effeti di diritto civile, infatti il riconoscimento può essere operato: ai fini delle restituzione o del risarcimento del danno; inoltre la sentenza penale straniera può essere riconosciuta ad altri effeti civili, ad esempio l'esclusione dalla successione per indegnità che può essere dichiarata dal giudice italiano, ad esempio nel caso in cui una sentenza straniera ha accertato che la persona legittimata a sucedere è responsabile dell'omicidio di colui del quale dovrebbe essere erede.
I paesi membri del Consiglio d'Europa di recente hanno stipulato diverse convenzioni per la lotta alla criminalità, che hanno ampliato la possibilità del riconoscimento delle sentenze penali straniere; attraverso esse può essere dato esecuzione in Italia alle pene principali inflitte da un giudice straniero e l'esecuzione della pena principale, iniziata all'estero, può proseguire in Italia se c'è il trasferimento della persona condannata; inoltre le sentenze penali straniere possono essere riconosciute anche per la confisca che il giudice straniero ha disposto sui beni che si trovano nel territorio dello Stato, a condizione che si tratti di beni che sarebbero confiscabili se si procedesse secondo la legge italiana; poi è confiscabile il valore dei proventi del reato, cioè una somma di denaro che corrisponde al valore del prezzo, del prodotto o del profitto del reato.
Esistono alcune condizioni necessarie affinché nel sistema penale italiano si possa procedere al riconoscimento di una sentenza penale straniera: in primo luogo la doppia incriminazione del fatto; in secondo luogo, in base all'art.12, 1 comma c.p., non basta che la legge italiana preveda quel fatto come reato, ma occorre che lo preveda come delitto; mentre il 2 comma dell'art.12 afferma che deve esistere un trattato di estradizione con lo Stato estero, anche se non è necessario che il delitto rientri tra quelli per i quali è prevista l'estradizione e, in assenza di un trattato di estradizione, si può procedere al riconoscimento della sentenza straniera attraverso la richiesta del ministro della giustizia.
21. L'estradizione.
La più antica e vitale forma di cooperazione internazionale nella lotta alla criminalità è l'estradizione, che consiste in un procedimento attraverso cui uno Stato consegna a un altro Stato una persona che si trova nel suo territorio affinché, nello Stato richiedente, sia sottoposto a giudizio (si tratta in questo caso dell'estradizione processuale) o all'esecuzione di una pena che gli è già stata inflitta (si tratta dell'estradizione esecutiva); inoltre si parla di estradizione attiva e di estradizione passiva a seconda che si guardi all'estradizione dal punto di vista dello Stato che la richiede o dello Stato che la concede
L'art.13, 1 comma c.p. individua le fonti dell'estradizione nella legge penale italiana, nelle convenzioni e negli usi internazionali. In base all'art.696 c.p.p.prevalgono le norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato italiano e le norme di diritto internazionale generale, quindi le norme di diritto internazionale prevalgono sul diritto interno, al quale invece compete solo un ruolo limitato nei casi in cui manchino norme di diritto internazionale. Attraverso norme di rango costituzionale è stato stabilito un limite invalicabile per l' estradabilità del cittadino per i reati comuni, infatti l'art.26, 1 comma cost. dice che "l'estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali", o come stabilisce l'art.3, 4 comma c.p. "non è ammessa l'estradizione del cittadino, salvo che sia espressamente consentita nelle convenzioni internazionali".
L'art.13 al 2 comma pone come condizione per l'estradizione la doppia incriminazione del fatto, cioè è necessario che il fatto concreto oggetto della domanda di estradizione integri un reato sia secondo la legge italiana, sia secondo la legge dello Stato estero, è irrilevante che il fato abbia una diversa qualificazione giuridica nei due ordinamenti o che sia punito con pene diverse. Per la doppia incriminazione, il caso concreto dev'essere considerato sotto i profili del fatto e della colpevolezza (ad esempio l'estradizione non può essere concessa se il fatto concreto per cui viene richiesta è un fatto lecito secondo la legge italiana o secondo la legge dello Stato estero, perché è come sempre senso di una causa di giustificazione); inoltre l'estradizione è subordinata alla punibilità, in base alla legge dei due Stati, del fatto antigiuridico e colpevole, cioè l'insieme delle condizioni che a giudizio dei legislatori italiani ed estero decidono dell'opportunità politica o politico-criminale dell'inflizione della pena (ad esempio l'estradizione sarà esclusa se non si è verificata una condizione obiettiva di punibilità). Invece è irrilevante per concedere l'estradizione che il reato, nell'ordinamento dello Stato richiesto, sia sottoposto a condizioni di procedibilità, cioè alla condizione che decide l'opportunità di instaurare un procedimento diretto ad accertare la responsabilità penale (ad esempio è irrilevante la mancata presentazione in Italia della querela per un reato che nello Stato richiedente è perseguibile d'ufficio).
Un'altra condizione per l'estradizione è stabilita dal principio di specialità dell'estradizione (previsto dall'articolo 699 e 721 c.p.p.) che comporta il divieto per lo Stato che ottiene l'estradizione di sottoporre l'estradato a restrizione della libertà personale a qualsiasi titolo (in esecuzione di una pena, o di una misura di sicurezza, o di un provvedimento cautelare disposto dal giudice per finalità processuali) per fatti anteriori e diversi da quelli per le quali l'estradizione è stata concessa; però questo divieto viene meno in quattro casi: 1) quando lo Stato richiedente ha domandato e ottenuto un'estradizione supplettiva, cioè l'estensione dell'estradizione per perseguire altri reati commessi precedentemente; 2) quando l'estradato si sia volontariamente trattenuto nel territorio dello Stato che ha ottenuto l'estradizione per almeno 45 giorni dalla sua definitiva liberazione (o perché è cessata l'esecuzione della pena o perché è stato prosciolto); 3) quando l'estradato, dopo aver lasciato il territorio dello Stato al quale era stato consegnato, vi abbia fatto volontariamente ritorno; 4) quando l'estradato abbia manifestato il consenso ad essere processato per un reato anteriore e diverso da quello per cui è stata concessa l'estradizione. Inoltre il principio di specialità dell'estradizione comporta il divieto di consegnare l'estradato a un altro Stato estero.
Questo principio di specialità ha la ratio di impedire richieste di estradizione fraudolente con cui lo Stato richiedente miri a trattenere l'estradato, limitandone la libertà personale anche per reati anteriori e diversi da quelli a cui si riferisce l'estradizione. Inoltre è molto importante l'art.9 della Convenzione relativa alla procedura semplificata di estradizione del 1995 che da là facoltà agli Stati membri dell'Unione europea di dichiarare che acconsentono all'estradizione della persona che rinuncia espressamente alla regola della specialità.
L'estradizione, come stabilisce l'art.705, 1 comma c.p.p., si basa poi sui principi di sussidiarietà (cioè l'estradizione non può essere concessa se per lo stesso fatto e nei confronti della persona per la quale essa è domandata, è in corso un procedimento penale nello Stato italiano) e del ne bis in idem (cioè l'estradizione è impedita quando per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona è stata pronunciata in Italia una sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento).
La Costituzione prevede dei limiti personali all'estradizione: il cittadino è estradabile per reati comuni solo se l'estradizione è espressamente prevista nelle convenzioni internazionali (art.26, 1 comma cost.) però, mentre tra i Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione europea di estradizione del 1957, l'estradizione del cittadino può essere rifiutata, nei rapporti tra gli Stati dell'Unione europea l'estradizione non può essere rifiutata per il motivo che la persona oggetto della domanda di estradizione è cittadino dello Stato membro richiesto; inoltre gli articoli 26, 2 comma e 10, 4 comma cost. vietano l'estradizione del cittadino e dello straniero per reati politici. Per quanto riguarda proprio i reati politici, in dottrina ci sono posizioni contrastanti: un primo indirizzo in accordo con l'art.8 c.p. dice che la nozione di reato politico comprende sia i reati oggettivamente politici, sia i reati comuni commessi in tutto o in parte per motivi politici; un secondo indirizzo accoglie questa nozione di reato politico ma ritiene che il divieto di estradizione operi solo se c'è pericolo di persecuzione politica o di discriminazione da parte dello Stato che ha richiesto l'estradizione; un terzo orientamento ritiene che il divieto di estradizione operi solo nei confronti degli autori di reati commessi all'estero per far cessare un regime illiberale (ad esempio la costituzione di un'associazione sovversiva per instaurare un ordinamento democratico) o per affermare un diritto di libertà il cui esercizio è negato in quel regime (ad esempio l'organizzazione di scioperi in uno Stato che nega questo diritto). L'esigenza, di questi ultimi due indirizzi, di evitare che il divieto di estradizione per reati politici si traduca in una salvaguardia indiscriminata di soggetti politicamente motivati, oggi e soddisfatta da molte norme:
-dalla legge costituzionale 1 del 1967 che ha consentito l'estradizione per i delitti di genocidio;
-dalla Convenzione europea per la repressione del terrorismo che ha reso possibile da parte dell'Italia l'estradizione per vari delitti determinati da motivi politici di terrorismo;
-dalla Convenzione di Dublino in materia di estradizione fra gli Stati membri dell'Unione Europea del 1996 (non ancora ratificata dall'Italia) che ha eliminato virtualmente il divieto di estradizione per i reati oggettivamente o soggettivamente politici, basandosi sul presupposto che tra gli Stati membri dell'Unione ormai s'è creato uno spazio giuridico comune che determina un'omogeneità istituzionale che non giustifica più il permanere della barriera protettiva del divieto di estradizione per i reati politici;
-il codice di procedura penale del 1988 all'art.698 che, oltre a ribadire il divieto di estradizione per reati politici, ha affermato che non può essere concessa l'estradizione quando vi è ragione di ritenere che l'imputato o il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali e sociali, o a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.
Infine è vietata l'estradizione da parte dell'Italia per reati per i quali l'ordinamento dello Stato richiedente preveda la pena di morte, indipendente dal fatto che lo Stato estero assicuri che la pena di morte non sarà inflitta, o se già inflitta, che non sarà eseguita.
C) LIMITI PERSONALI
22. Le eccezioni all'obbligatorietà della legge penale italiana.
L'art.3, 1 comma c.p. consente l'eccezionale sottrazione di determinate categorie di soggetti all'applicabilità della legge penale italiana derivante da norme di diritto pubblico interno o di diritto internazionale. La dottrina chiama queste eccezioni "immunità". Si distingue tra l'immunità di diritto sostanziale (che comporta l'inapplicabilità della sanzione penale, ed eventualmente delle sanzioni extra penali) e l'immunità di diritto processuale (che comporta l'esenzione dalla giurisprudenza penale ed eventualmente anche extra penale); inoltre si distingue tra l'immunità funzionale (che riguarda solo i fatti compiuti nell'esercizio della specifica funzione da cui deriva l'immunità) e l'immunità extra funzionale (che riguarda anche i fatti estranei all'esercizio della specifica funzione da cui deriva l'immunità).
23. Le immunità di diritto pubblico interno.
Le immunità di diritto pubblico interno sono:
-l'immunità di cui gode il Presidente della Repubblica, infatti l'art.90 cost. dice che "il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla costituzione". Si tratta di un' immunità funzionale di diritto sostanziale che ha natura di causa di giustificazione perché rende leciti tutti gli atti compiuti dal Presidente della Repubblica (atti ufficiali che devono essere controfirmati, atti dovuti, atti discrezionali, atti compiuti come membro di organi collegiali, le esternazioni contenute in messaggi alle camere o in discorsi ufficiali); però non è un immunità assoluta perché il Presidente della Repubblica può rispondere per i reati di alto tradimento (cioè i delitti contro la personalità dello Stato, previsti dall'art 77 del codice penale militare di pace [c.p.m.p.]: attentati contro l'integrità, l'indipendenza o l'unità dello Stato, attentato contro organi costituzionali, ogni altro delitto contro la personalità dello Stato come ad esempio la guerra civile e la rivelazione di segreti di Stato) e di attentato alla costituzione (cioè la commissione "con atti violenti" di un fatto diretto e idoneo a mutare la costituzione dello Stato o la forma di governo) commessi nell'esercito delle sue funzioni. Per questi reati il giudice competente è la Corte costituzionale; invece non è prevista nessuna immunità per i reati commessi prima dell'assunzione della carica o al di fuori dell'esercizio delle funzioni, per i quali giudica l'autorità giudiziaria ordinaria.
-Per i membri del Parlamento la costituzione all'art.68, 1 comma attribuisce un' immunità funzionale di diritto sostanziale dicendo che non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Si tratta di una causa di giustificazione che rende leciti i fatti penalmente rilevanti che vengono commessi nell'ambito degli atti tipici del mandato parlamentare (ad esempio interrogazioni e interpellanze) e nella divulgazione del contenuto di quegli atti; invece restano fuori dall'immunità i fatti materiali (ad esempio le lesioni o le percosse commesse dal parlamentare in aula o in una commissione), le opinioni manifestate nell'ambito dell'attività politica (ad esempio in un dibattimento televisivo) e gli atti tipici della funzione parlamentare che siano frutto di reati (ad esempio di una corruzione). L'art.68, 2 e 3 comma cost. attribuisce ai parlamentari anche una limitata immunità processuale penale, cioè nel loro confronti può essere iniziato un procedimento penale ma, il compimento di alcuni atti del processo (ad esempio una perquisizione personale domiciliare,un'intercettazione di conversazioni o comunicazioni) e l'adozione di misure restrittive della libertà personale (ad esempio la custodia cautelare in carcere) hanno bisogno dell'autorizzazione da parte della camera a cui il parlamentare appartiene; però il parlamentare può essere privato della libertà personale se deve essere eseguita una sentenza definitiva di condanna e nei casi di arresto obbligatorio in flagranza. Questa immunità processuale riguarda tutti comportamenti del parlamentare anche se non sono riconducibili all'esercito delle sue funzioni e se sono precedenti all'assunzione della carica, sia che si tratti di manifestazione del pensiero o di attività materiali: quindi si tratta di "un immunità extra funzionale".
-La costituzione all'art.122, 4 comma riconosce ai consiglieri regionali un' immunità di diritto sostanziale analoga, per quanto riguarda i contenuti e gli effetti giuridici, a quella dei parlamentari, è infatti dice che "i consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni". Si tratta di una causa di giustificazione che rende leciti i fatti penalmente rilevanti che vengono compiuti dal consigliere regionale nell'esercizio della funzione legislativa, in quella di indirizzo politico o nell'attività di auto-organizzazione del consiglio. Però i consiglieri regionali non godono dell'immunità processuale.
-La legge costituzionale 1 del 1953 all'art.5 stabilisce che i giudici della Corte costituzionale godono di un' immunità funzionale di diritto sostanziale per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Si tratta di una causa di giustificazione e quindi esclude ogni responsabilità penale e extra penale. Inoltre durante la loro carica i giudici costituzionali godono anche di un' immunità processuale extra funzionale più ampia di quella riconosciuta ai membri del Parlamento, infatti senza autorizzazione della corte costituzionale i giudici non possono essere privati della libertà personale e non possono essere sottoposti a procedimenti penali, e ciò comporta che non possono neanche essere disposte intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, o il sequestro della corrispondenza (come stabilisce la legge costituzionale 1 del 1948 all'art.3, 2 comma che fa riferimento al testo originario dell'art.68 cost.).
-L'art.32 bis della legge 195 del 1958, introdotto dall'art.5 della legge 1 del 1981 attribuisce un' immunità funzionale di diritto sostanziale ai componenti del Consiglio Superiore della Magistratura stabilendo che non sono punibili per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni e concernenti l'oggetto della discussione, però questa immunità ha effetti limitati perché i componenti del CSM vengono esonerati solo dalla responsabilità penale e non da quella civile e amministrativa, non si tratta quindi di una causa di giustificazione ma di una causa di esclusione della punibilità.
24. Le immunità di diritto internazionale.
Le immunità di diritto internazionale sono:
-l'art. 8 del Trattato del Laterano attribuisce un'immunità assoluta al Sommo Pontefice, la cui persona è definita "sacra e inviolabile". Si tratta di un immunità di diritto sostanziale che si estende a tutti i rami dell'ordinamento, riguarda anche gli atti compiuti al di fuori delle sue funzioni e il diritto processuale; nel diritto penale questa immunità ha natura di causa personale di esclusione della punibilità, quindi non si estende ad eventuali concorrenti nella commissione di fatti penalmente rilevanti. L'art.11 del Trattato del Laterano attribuisce la stessa immunità alle persone fisiche che operano in qualità di organi degli enti centrali della Chiesa cattolica, cioè gli enti della curia romana a cui competono attività di governo religioso della chiesa.
-Quando si trovano in tempo di pace in territorio italiano anche il Capo di Stato estero, i suoi familiari e il suo seguito godono di un immunità assoluta di diritto sostanziale processuale, penale ed extra penale, che riguarda anche gli atti compiuti al di fuori dell'esercizio delle funzioni.
-Quando si trovano nel territorio dello Stato italiano anche i capi e i membri di governi stranieri, i componenti delle missioni speciali inviate in Italia da uno Stato estero e i rappresentanti di Stati esteri in conferenze internazionali e in organizzazioni intergovernative godono di un immunità di diritto sostanziale sia penale che extra penale che riguarda però solo gli atti compiuti nell'esercizio delle funzioni.
-Gli agenti diplomatici stranieri godono dell'immunità dalla giurisdizione penale, civile e amministrativa dello Stato italiano anche per gli atti compiuti al di fuori dell'esercizio delle loro funzioni; i membri del personale tecnico e amministrativo della missione diplomatica sono esentati dalla giurisdizione penale dello Stato italiano, mentre sono esentati dalla giurisdizione civile e amministrativa solo per gli atti compiuti nell'esercizio delle funzioni.
-I funzionari e gli impiegati consolari stranieri godono di un immunità funzionale di diritto sostanziale, penale e extra penale; nel diritto penale l'immunità ha natura di causa personale di non punibilità; inoltre non possano essere arrestati, assoggettati a custodia cautelare in carcere per gli atti compiuti al di fuori dell'esercito delle funzioni, a meno che non si tratti di un crimine grave punito con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
[La ratio di queste immunità di diritto internazionale è quella di non turbare i rapporti tra gli Stati e di non ostacolare l'attività di organismi internazionali nel territorio dello Stato, quindi non sono cause di giustificazione ma cause personali di esclusione della punibilità che non si estendono a chi abbia partecipato alla commissione di un fatto previsto come reato dalla legge italiana, inoltre nel caso di un fatto illecito commesso da questi soggetti immuni si potrà reagire per legittima difesa].
-L'art.9 del Protocollo sui privilegi delle immunità delle Comunità europee stabilisce che i membri del Parlamento europeo non possono essere ricercati, detenuti o perseguiti per le opinioni e voti espressi nell'esercizio delle loro funzioni, quindi godono di un immunità funzionale, penale e extra penale; inoltre godono di un immunità processuale extra funzionale per la durata delle sessioni dell'assemblea.
-Godono di un immunità extra funzionale alcuni funzionari di organismi internazionali (ad esempio il segretario generale, i sottosegretari generali e il direttore generale dell'Onu) quando si trovano in territorio italiano; godono di un immunità funzionale i rappresentanti degli Stati membri presso l'Onu e i funzionari delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite, mentre per gli atti estranei alle funzioni godono di una limitata immunità processuale penale, cioè sono esenti da misure cautelari restrittive della libertà personale; godono di un immunità funzionale anche i membri della Corte internazionale di giustizia e della Corte europea dei diritti dell'uomo.
-Gli appartenenti alle forze armate di uno Stato estero che si trovano nel territorio italiano in tempo di pace sono soggetti solo alla legge dello Stato di appartenenza per i reati commessi in servizio.
-Gli appartenenti alle forze armate dei paesi partecipanti alla Nato che si trovano in Italia e il personale civile che accompagna questa forza armata o vi è impiegato, godono di una disciplina speciale stabilita dalla Convenzione di Londra del 1951, resa esecutiva con la legge 1335 del 1955; questa convenzione prevede la giurisdizione esclusiva dello stato di origine per i fatti non punibili in base alla legge italiana, e la giurisdizione esclusiva dello Stato italiano per i fatti non punibili in base alla legge dello Stato di origine. Gli altri fatti considerati come reati sia dalla legge italiana che da quella dello Stato di appartenenza del militare sono sottoposti alla giurisdizione concorrente di entrambi gli Stati, a cui vengono attribuite sfere di giurisdizione prioritaria . La giurisdizione dello stato di appartenenza è prioritaria: per i reati che attentano alla sicurezza di quello stato (ad esempio tradimento, spionaggio), per i reati che offendono la persona o la proprietà di un membro delle forze armate dello Stato di appartenenza, dal personale civile, del loro coniuge o dei figli a carico, per i reati che risultano da ogni atto o negligenza compiuti nell'esercizio del servizio; una volta che lo stato di appartenenza ha pronunciato la sentenza di assoluzione o di condanna, lo stato italiano non può più giudicare gli stessi fatti. Per tutti gli altri reati commessi nel territorio italiano è prioritaria la giurisdizione del nostro Stato. Comunque lo Stato estero e lo Stato italiano possono rinunciare alla loro priorità giurisdizionale.
D) Un sistema penale sovrastatuale
25. Il diritto penale internazionale.
I limiti spaziali, personali e, in una certa misura, anche quelli temporali, non possono essere applicati nei confronti del diritto penale internazionale.
Il diritto penale internazionale è un corpus normativo autonomo dal diritto penale statale, che ha la sua fonte nel diritto internazionale ed è dotato di efficacia vincolante sugli individui senza necessità di mediazione del diritto interno; esso riguarda i cosiddetti crimina iuris gentium (o crimini internazionali), cioè gravissime violazioni di norme internazionali poste a tutela di beni e valori ritenuti meritevoli di particolare protezione dall'intera comunità internazionale. Si tratta di: crimini di guerra, crimini contro l'umanità, genocidio e aggressione (chiamato anche crimine contro la pace).
L'esistenza del diritto penale internazionale è stata controversa, perché si tratta di una complessa interazione tra due sistemi, il diritto internazionale e il diritto penale interno che sono fondati su principi diversi, spesso contrapposti; ad esempio il diritto internazionale non conosceva la soggettività internazionale delle persone fisiche, solo gli Stati potevano essere portatori di diritti e destinatari di obblighi a livello internazionale, quindi la nascita del diritto penale internazionale coincide con il riconoscimento dell'individuo quale soggetto di diritto internazionale, e soprattutto con il riconoscimento della responsabilità penale dell'individuo sul piano internazionale.
Il riconoscimento dei crimini internazionali, che devono essere penalmente sanzionati a prescindere dai limiti territoriali o dalla nazionalità di chi li commette, è avvenuto per via consuetudinaria ed è rispecchiato negli Statuti di svariati tribunali internazionali istituiti nel corso del XX secolo; infatti le origini del diritto penale internazionale risalgono al periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale, quando si tentò di reprimere i crimini compiuti dall'esercito tedesco durante il conflitto che avevano suscitato orrore a livello internazionale. Il trattato di Versailles del 1919 prevedeva inoltre la responsabilità di Guglielmo II, quale kaiser tedesco, e l'istituzione di un tribunale militare internazionale per trarlo in giudizio insieme ai militari tedeschi che si erano macchiati di gravi violazioni delle leggi e degli usi di guerra; però questo tribunale non fu mai istituito e Guglielmo II si rifugiò in Olanda è resto impunito, solo pochi cittadini tedeschi responsabili di quei crimini furono giudicati davanti alla Corte suprema di Lipsia. Fu solo dopo la seconda guerra mondiale con l'istituzione del Tribunale Militare di Norimberga nel 1945, e di quello di Tokio nel 1946 che fu riconosciuto il principio della responsabilità penale internazionale dell'individuo e, in questi tribunali, furono giudicati i maggiori criminali di guerra. Inoltre la giurisprudenza di questi tribunali ebbe enorme importanza per l'affermazione dei cosiddetti "Principi di Norimberga", approvati dall'assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1946, e che costituirono il primo passo verso una codificazione del diritto penale internazionale, cui seguirono poco dopo alcuni progetti importanti elaborati dalla Commissione di diritto internazionale dell'Onu: un progetto di "Codice dei crimini contro la pace e la sicurezza dell'umanità" nel 1950 e un progetto di "Statuto per una Corte penale internazionale" , che furono riuniti infine in un unico progetto nel 1995 e costituirono la base per l'adozione dello Statuto di Roma nel 1988 al termine della conferenza diplomatica che si è svolta a Roma nel giugno-luglio 1998, a cui parteciparono circa 160 Stati. In anni più recenti sono stati istituiti il Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia con sede all'Aia nel 1993, istituito per giudicare i gravi crimini commessi nel corso del conflitto balcanico degli anni 90, e il Tribunale internazionale per il Ruanda con sede ad Arusha nel 1994, istituito per giudicare i fatti di genocidio accaduti in Ruanda nel 1994.
Di recente c'è stata una svolta nella giustizia penale internazionale con l'entrata in vigore il 1 luglio del 2002 dello Statuto di Roma, che ha istituito la Corte Penale Internazionale ( ICC) con sede all'Aia. Lo statuto di Roma attualmente è stato ratificato da 100 Stati e rappresenta il primo esempio di giurisdizione penale permanente, indipendente, sovrastatuale, con competenza sui crimini più gravi, motivo di allarme per l'intera comunità internazionale, che siano stati commessi dopo la sua entrata in vigore. Inoltre per la prima volta la Corte ha carattere complementare rispetto alle giurisdizione nazionali, cioè in base all'art.17 dello statuto si attiva solo se lo Stato, che sarebbe competente, non procede nel caso specifico. Per quanto riguarda la competenza territoriale, la Corte ha giurisdizione sui crimini commessi sul territorio di uno degli Stati membri o da parte di un loro cittadino; inoltre c'è un meccanismo di segnalazione alla Corte da parte del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che è indipendente dai criteri di territorialità e di nazionalità, che è stato utilizzato di recente dal Consiglio di sicurezza che ha trasmesso alla Corte penale internazionale la notizia dei crimini commessi in Darfur dal luglio 2002, su cui il procuratore della Corte ha aperto un'indagine anche se il Sudan non ha ratificato lo Statuto di Roma e quindi non è membro della Corte.
Lo statuto di Roma è importante anche perché per la prima volta ha effettuato una sorta di codificazione del diritto penale internazionale, inoltre esso prevede una "parte generale" che contiene i principi generali di diritto penale: il principio di legalità, di irretroattività, di personalità della responsabilità penale, la disciplina delle forme di commissione del reato, dei criteri di imputazione suggestiva, dell'immunità, dell'imputabilità e delle cause di esclusione della responsabilità. Queste norme derivano da un difficile compromesso tra tradizione giuridica molto diverse tra loro infatti,una prima fondamentale differenza rispetto al diritto penale interno, riguarda il principio di legalità, perché il sistema delle fonti di diritto penale internazionale è incompatibile con l'adozione del principio di legalità dei reati e delle pene così come conosciuto negli ordinamenti di tradizione romanistico-continentale, cioè come legalità in senso formale; lo statuto all'art.21 stabilisce che in assenza di regole ricavabili dallo statuto o dal regolamento dì procedura e prova, o dal diritto internazionale pattizio o consuetudinario, la corte applica i principi generali di diritto dedotti dalle leggi nazionali, sempre che non siano in contrasto con lo statuto e il diritto internazionale.
La comunità internazionale sta così muovendo i primi passi verso la creazione di un "diritto penale a vocazione universale", cioè che non è vincolato da limiti segnati dai territori nazionali e dalla giurisdizione statuale. Gli Stati, sacrificando il trattato istitutivo della Corte, entrano volontariamente a far parte di questo sistema accettando una limitazione della propria sovranità nella misura in cui ammettono la giurisdizione sussidiaria della Corte nei casi previsti dal trattato. L'Italia è tra i paesi che hanno maggiormente contribuito all'elaborazione della Statuto e lo ha ratificato con la legge 232 del 1999, rendendo così esecutivo il trattato nel nostro ordinamento; però manca ancora nell'ordinamento italiano una legge di adeguamento della legislazione interna alle disposizioni dello Statuto.
CAPITOLO 4
LA NOZIONE DI REATO E LA DISTINZIONE TRA DELITTI E CONTRAVVENZIONI
La peculiarità delle sanzioni come nota distintiva dei reati
Un fatto costituisce reato qnd la legge gli ricollega una pena. E’ dunque solo in base ad un criterio nominalistico,che i reati si identificano e si distinguono dagli altri tipi di illecito. Il legislatore trova nella Costituzione limiti e direttive di fondo x le sue scelte di incriminazione,ma si tratta sempre di scelte largamente discrezionali.
Nn tutte le sanzioni penali assolvono peraltro alla funzione di identificare i reati. Tale compito è affidato alle sole pene principali:ergastolo,reclusione,multa,arresto,ammenda,inoltre x i reati militari,reclusione militare.
Sn ulteriori pene principali x i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace la permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità,ma nn assolvono alla funzione di identificare i reati xkè sn sempre previste in alternativa alla multa o all’ammenda.
Nn rappresentano invece un criterio di identificazione dei reati,ne le pene accessorie,ne le misure di sicurezza,ne le pene sostitutive della detenzione breve. Le pene accessorie x definizione accedono alla condanna ad una pena principale:di conseguenza la funzione di identificazione del reato è già assolta dalla pena principale.
Le misure di sicurezza possono essere applicate solo alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato. Quindi l’applicazione della misura di sicurezza presuppone già la commissione di un fatto che sia identificato come reato.
Infine le pene sostitutive alla detenzione breve nn possono identificare i reati in qnt sostitutive:presuppongono l’inflizione di una pena principale e solo in via eventuale sono applicate dal giudice in sostituzione della pena detentiva.
La distinzione dei reati in delitti e contravvenzioni
I reati si dividono in due categorie:delitti e contravvenzioni:l’art. 39 c.p. dispone che i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni,secondo la diversa specie delle pene x essi stabilita da qst codice. Anche x la bipartizione in delitti e contravvenzioni si fa riferimento alle sole pene principali.
Si ha un delitto in caso di :
Si ha una contravvenzione in caso di:
Sn inoltre delitti i resti militari puniti cn la reclusione militare.
La rilevanza della distinzione tra delitti e contravvenzioni riguarda la diversa disciplina cui vengono assoggettate le due classi di reati sotto molteplici profili,tra cui spiccano l’elemento soggettivo del reato e il tentativo.
L’elemento soggettivo di regola richiesto x i delitti è il dolo salvi i casi in cui la legge da espressamente rilevanza alla colpa o alla preterintenzione:infatti l’art. 42 c.p. stabilisce che nessuno può essere punito x un fatto preveduto dalla legge come delitto,se nn l’ha commesso cn dolo,salvo di casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge. Le contravvenzioni invece possono essere commesse sia cn dolo che cn colpa:nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria ,sia essa dolosa o colposa. Solo eccezionalmente sn previste contravvenzioni che debbono necessariamente essere commesse cn dolo,oppure contravvenzioni che debbono essere commesse x colpa.
Il tentativo è di regola configurabile solo x i delitti. Eccezionalmente in alcune leggi speciali possono comparire contravvenzioni rilevanti anche nella forma del tentativo.
Ulteriori differenze di disciplina tra delitti e contravvenzioni riguardano tra l’altro:le pene principali(es: i limiti massimi previsti)le cause di estinzione del reato,le cause di estinzione della pena,le circostanze.
La recidiva interessa ora,a seguito della riforma realizzata dalla c.d. ex Cirielli,soltanto gli autori di delitti. A norma dell’art. 99 nella versione della legge 251/05,l’aumento di pena previsto x la recidiva può infatti applicarsi soltanto a chi dopo essere stato condannato x un delitto nn colposo,ne commette un altro,commette cioè un altro delitto nn colposo.
La distinzione tra il reato e gli altri illeciti:
a) reato e illecito civile
La specie delle pene principali elencate nell’art 17 c.p. rappresenta il criterio x distinguere il reato dall’illecito civile. Qnd un fatto costituisce illecito civile ,ma nn è al contempo sanzionato cn una delle pene principali,nn possono sorgere dubbi circa la sua estraneità al diritto penale:quel fatto nn costituisce reato. Uno stesso fatto può peraltro costituire sia un reato sia un illecito civile;in tal caso l’ordinamento reagisce in una forma peculiare:anche la fine di attentare le reazioni delle vittime dei reati,estende l’area del danno risarcibile al danno nn patrimoniale,apprestando a tale scopo due tipi di sanzioni civili:il risarcimento e la pubblicazione della sentenza di condanna.
b)Reato e illecito amministrativo
Anche nei rapporti cn l’illecito amministrativo,l’unico criterio x identificare i reati è offerto dal nome delle pene principali. Qnd la legge commina sanzioni pecuniarie nn designate come multa o ammenda ci si trova in presenza di una sanzione amministrativa.
Nell’ordinamento italiano le sanzioni pecuniarie amministrative nn hanno un nome tecnico. Si utilizza la generica perifrasi sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro x identificare l’ambito di applicazione della legge.
Diversi ordini di ragioni richiamano l’attenzione del penalista sull’illecito amministrativo.
- In primo luogo,l’illecito amministrativo affianca nell’ordinamento giuridico statale l’illecito penale,reprimendo offese a beni giuridici selezionate in base ai principi di proporzione e di sussidiarietà:il ricorso alla sanzione amministrativa in luogo della sanzione penale è dunque un importante strumento di deflazione del sistema penale a disposizione del legislatore. E d tale di strumento il legislatore si è avvalso ampiamente.
- In secondo luogo,la previsione di illeciti amministrativi è l’unica via che può percorrere il legislatore regionale x la tutela sanzionatoria dei bei giuridici.
- In terzo luogo lo schema della responsabilità amministrativa è stato recentemente adottato dal legislatore italiano,cn gli opportuni adeguamenti alle peculiarità dei nuovi destinatari,x configurare una responsabilità da reato a carico degli enti,dotati o no di personalità giuridica.
La disciplina generale dell’illecito amministrativo abbraccia sia profili di diritto sostanziale sia di diritto processuale.
Qnt al diritto sostanziale la scelta di fondo del legislatore del 1981 è stata nel senso di una larga mutazione di principi penalistici. In qst logica si collocano tra l’altro:l’enunciazione dei principi di legalità e di irretroattività in termini ricavati dall’art. 25 cost. che detta il principio di legalità dei reati e delle pene e il principio di irretroattività della legge penale;la disciplina della capacità di intendere e di volere che contiene un richiamo espresso ai criteri indicati nel codice penale;la disciplina dell’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo che riproduce le disposizioni del codice penale relative alla responsabilità nelle contravvenzioni e all’errore sul fatto di reato;la disciplina del concorso di persone che adotta lo schema della responsabilità concorrente di tutti i partecipi nell’illecito;la disciplina del concorso fra norme penali e norme sanzionatorie amministrative che estende ai rapporti tra illecito penale e illecito amministrativo di fonte statale il principio di specialità adottato nell’art 15 c.p. x individuare ipotesi di concorso apparente di norme all’interno del sistema penale.
Qnt ai profili procedimentali e processuali,basterà segnalare che la sanzione amministrativa viene irrogata,nella forma dell’ordinanza –ingiunzione dall’ufficio periferico del ministero nella cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce la violazione,ovvero in assenza di un tale ufficio,dal Prefetto. Contro l’ordinanza – ingiunzione,l’interessato può proporre opposizione davanti al giudice di pace,ovvero davanti al tribunale.
Sia il procedimento x l’irrogazione delle sanzioni amministrative,sia le eventuali successive fasi giurisdizionali nn coinvolgono il giudice penale:il giudice di pace e il tribunale davanti ai quali può essere proposta opposizione al provvedimento che irroga la sanzione amministrativa sn infatti il giudice di pace civile e il tribunale civile. Il giudice penale conosce dell’illecito amministrativo solo nel caso di connessione obiettiva cn un reato.
La responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche
La ratio della responsabilità
Il fatto che la persona fisica può commettere reati è un’idea che la dottrina penalistici contemporanea dell’ Europa continentale presenta come ovvia e immutabile.
Nel giro di un decennio il panorama legislativo è mutato radicalmente. Anche i paesi europei continentali prevedono oggi la diretta responsabilità delle imprese:perlopiù responsabilità penale,autonoma rispetto a quella eventuale delle persone fisiche che agiscono x l’impresa.
Le cause d qst svolta scaturiscono da un duplice ordine di fattori. In primo luogo è sempre più pressante la necessità politica di fronteggiare la criminalità delle imprese:le più diverse forme di attività imprenditoriali generano patologie anche su scala internazionale,esponendo a pericolo e ledendo beni individuali,collettivi,spesso con vittimizzazione di massa. La risposta a quelle patologie è avvenuta su scala internazionale,europea e mondiale,una serie di normative ha impegnato gli stati membri dell’Onu o dell’Unione europea ad introdurre nei loro ordinamenti la responsabilità diretta delle persone giuridiche.
Oggi perciò nn vi è più paradiso d’impunità x la criminalità delle imprese,anche se si tratta spesso di responsabilità amministrativa,come in Italia,Germania e Spagna. Uniformi sono anche i crateri che fondano la responsabilità da reato delle imprese. Adottando il recente modello dei sistemi anglosassoni extraeuropei,i criteri di attribuzione della responsabilità rispecchiano le patologie che si annidiano colpevolmente nell’impresa come organizzazione:tali criteri sono la colpa d’organizzazione ,ovvero una politica criminale d’impresa.
I reati ascrivibili all’ente
La responsabilità da reato delle persone giuridiche è stata introdotta dal d.lgs. 231/01 che ratificava e dava esecuzione a una serie di convenzioni europee,in particolare convenzioni in materia di corruzione.
Qst forma di responsabilità riguarda attualmente una serie di delitti contro la pubblica amministrazione,i delitti di falsità in monete,i delitti commessi cn finalità di terrorismo o di eversione,le pratiche di mutilazione di organi genitali femminili,i delitti in materia di schiavitù,di prostituzione minorile e di pornografia minorile,alcuni gravi reati transnazionali che si ambientano nella criminalità organizzata,reati societari e abuso di mercato.
L’iniziale campo di applicazione della responsabilità da reato delle persone giuridiche era costituito da una serie di delitti dolosi ai danni della P.A. o delle comunità europee,indicati nel citato d.lgs:malversazione a danno dello stato o di altro ente pubblico o delle comunità europee;indebita percezione di erogazioni pubbliche comunitarie;corruzione;concussione.
Successive convenzioni internazionali hanno via via spinto il legislatore italiano ad allungare l’elenco dei reati ascrivibili agli enti.
Il catalogo è destinato a crescere;sarà invece oggetto di controversie interne ,x es l’estensione della responsabilità degli enti ai delitti colposi contro la persona da infortuni sul lavoro e contro la pubblica incolumità.
La natura amministrativa della responsabilità dell’ente
Dal 2001 in poi anche il nostro ordinamento ha dunque fatto spazio al principio societas delinquere potest:ci si chiede se però qst tipo di responsabilità sia penale o amministrativa. L’inquadramento come responsabilità penale si lascerebbe preferire x un triplice ordine di ragioni.
Però si può obbiettare che:
Inoltre alcune disposizioni che regolano la responsabilità da reato degli enti sarebbero costituzionalmente illegittime se davvero trattasse di responsabilità penale.
- In primo luogo il significato minimale del principio la responsabilità penale è personale,è che si può essere puniti solo x un fatto proprio . Urterebbero contro qst principio alcune disposizioni della legge istitutiva della responsabilità delle persone giuridiche che prevedono una responsabilità dell’ente x fatto altrui:nel caso di fusione x incorporazione,l’ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione;dispone l’art. 30 che gli enti beneficiari della scissione,sia totale che parziale,sono solidalmente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute all’ente scisso x i reati commessi anteriormente alla data dalla quale la scissione ha avuto effetto.
- In secondo luogo se si trattasse di responsabilità penale,sarebbe costituzionalmente illegittima la disposizione dell’art. 6 che,all’opposto qualora i reati siano commessi dai c.d. soggetti in posizione apicale accolla sull’ente l’onere della prova di aver adottato efficaci modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi e di aver affidato a un organismo dell’ente dotato di poteri autonomi il compito di una efficiente vigilanza sul funzionamento dei modelli di organizzazione. Anche se si trattasse di un mero onere di allegazione delle fonti di prova ,in ogni caso il rischio della prova mancata,ricadrebbe sull’ente,e nn sull’accusa. L’una e l’altra regolamentazione della responsabilità da reato delle persone giuridiche nn trovano invece,nessun ostacolo di principio,tantomeno di rango costituzionale,nell’inquadramento della responsabilità come responsabilità amministrativa;la scelta del legislatore di denominarla in tal modo è pertanto in armonia cn le scelte operate dal d.lgs. 231/2001.
Infine nessuna delle sanzioni applicabili all’ente è designata dalla legge cn il nome di una pena principale,anzi quelle sanzioni sono espressamente designate come sanzioni amministrative e la sanzione pecuniaria ,lungi dall’essere chiamata multa o ammenda, è etichettata espressamente come sanzione amministrativa pecuniaria.
La cerchia degli enti responsabili da reato e la colpa di organizzazione come criterio minimale di attribuzione della responsabilità.
La disciplina dettata dal d. lgs 231/2001 delimita la cerchia degli enti ai quali può essere attribuita la responsabilità amministrativa da reato:gli enti forniti di personalità giuridica,le società e le associazioni anche prive di personalità giuridica. Sono invece esclusi lo stato,gli enti pubblici territoriali,gli altri enti pubblici nn economici,nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
Qnt ai criteri di attribuzione della responsabilità da reato all’ente ,il primo criterio è che il reato sia stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti in posizione apicale o da soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti apicali:un criterio inapplicabile qnd quei soggetti abbiano agito nell’interessa esclusivo proprio o di terzi.
Il secondo criterio su cui si fonda l’attribuzione all’ente della responsabilità x i reati commessi tanto da soggetti in posizione apicale ,qnt da soggetti sottoposti alla direzione e vigilanza dei soggetti apicali,è la rimproverabilità all’ente di una colpa di organizzazione:cioè la mancata adozione o l’inefficace attuazione di un modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi ovvero il mancato affidamento del compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli a un organismo autonomo dell’ente.
Problemi probatori
Sul terreno della prova si opera una distinzione tra i reati commessi da soggetti in posizione apicale e reati commessi da soggetti sottoposti all’altrui direzione.
Nel primo caso l’onere di provare l’assenza di una colpa d’organizzazione grava sull’ente:nel dubbio,all’ente andranno inflitte le sanzioni previste dalla legge. L’onere sarà tuttavia assolto nell’eventualità che l’ente provi che,pur essendo efficace il modello di organizzazione ed efficiente l’organismo di controllo,l’ente nn era cmq in grado di impedire la commissione del reato da parte dei soggetti in posizione apicale,xkè costoro hanno agito eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e gestione.
Il dubbio nn nuoce all’ente ,qnd invece si tratti di reati commessi d soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza:la legge nn opera,in tal caso,nessuna inversione dell’onere della prova. Graverà perciò sull’accusa l’onere di provare il difettoso funzionamento del modello di organizzazione e /o dell’organismo di controllo.
Il dolo dell’ente:la politica di impresa finalizzata alla commissione del reato
La colpa di organizzazione è il criterio minimale sul quale si fonda la responsabilità da reato dell’ente. Tuttavia è possibile che il reato sia espressione di una politica d’impresa finalizzata alla commissione del reato:in tal caso la responsabilità troverà il proprio fondamento in una sorta di dolo dell’ente.
Talora è la stessa legge a prevedere espressamente qst forma di responsabilità:x i delitti cn finalità di terrorismo o di eversione,qnd l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di quei delitti;x il delitto di pratiche di mutilazione di organi genitali femminili qnd l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione del delitto represso dall’art. 583 c.p.;x le ipotesi delittuose di associazione a delinquere cn carattere transnazionale indicate nella legge 46/2006,qnd l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di quei reati.
In tutti qst casi la sanzione comminata è la dissoluzione dell’ente nella forma dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività ai sensi dell’art. 16 co. 3.
Ogni altro reato inoltre può essere espressione di una politica d’impresa finalizzata alla sua commissione,e in tale eventualità l’ente sarà del pari sanzionato cn l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività,ciò accadrà qnd l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di qst o quel reato.
L’autonomia della responsabilità dell’ente
Il d lgs. 231/2001 sancisce l’autonomia dalla responsabilità dell’ente rispetto alla responsabilità dell’autore:il cumulo delle due responsabilità è solo eventuale . La più importante e frequente ragione dell’autonoma responsabilità dell’ente risiede nella complessità dei processi produttivi e gestionali che ,molto spesso impediscono di identificare il singolo autore o gli autori del fatto di reato,inoltre si deve tener conto dell’irresponsabilità individuale organizzata(tendenza ad adottare all’interno dell’ente meccanismi che impediscono l’identificazione dell’autore o degli autori di reato). Di qui l’ordine in cui la disciplina legislativa elenca le ipotesi in cui si configura un’autonoma responsabilità dell’ente:qnd l’autore del reato nn è stato identificato;seguono ulteriori e ben diverse ipotesi:qnd l’autore del reato nn è imputabile,qnd il resto si estingue x una causa diverso dall’amnistia.
Essendo l’autonoma responsabilità dell’ente responsabilità a reato,va accertato la sussistenza di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi del reato che gli viene ascritto x colpa di organizzazione o x una politica criminale di impresa. Qnt alla sussistenza del dolo si tratta di un autentico dolo che va provato cn l’ausilio di tutti i criteri indiziari normalmente utilizzati x accertare il dolo.
Le sanzioni
Le sanzioni comminate all’ente sono:
La prescrizione dell’illecito dell’ente
La disciplina della prescrizione dell’illecito dell’ente è modellata sulla falsariga degli illeciti civili:5 anni dalla consumazione del reato ,e inizio di un nuovo periodo di prescrizione dopo ogni atto interruttivo.
Capitolo 5: "ANALISI E SISTEMATICA DEL REATO"
1. La parte generale del diritto penale.
Il codice penale e le leggi speciali, previste dall'arte 16 c.p., prevedono e puniscono una molteplicità di reati, non puniscono genericamente chiunque compia una malefatta, ma puniscono in modo specifico chi commette un omicidio,un furto,una calunnia,ecc. L'individuazione di un numero chiuso di specifiche figure di reato rappresenta l'espressione di uno stadio evoluto del diritto penale per due aspetti: in primo luogo attraverso questo numero chiuso si realizza la prima autolimitazione della potestà punitiva statuale: si accorda al cittadino un'assicurazione scritta in base alla quale egli verrà punito soltanto se ne ricorrono i presupposti legali e soltanto entro i limiti stabiliti dalla legge; in secondo luogo l'individuazione delle singole figure del reato è un processo in continuo svolgimento, che rispecchia molti fenomeni: l'emersione di nuovi beni (ad esempio l'ambiente) o di nuove forme di aggressione a beni già protetti (ad esempio la frode informatica), l'individuazione di specifiche incriminazioni in molti tipi di reati (per esempio il riciclaggio di denaro sporco che è una forma moderna di ricettazione).
Oltre alla formulazione di una più ricca tipologia di reati raggruppati nella parte speciale della legislazione penale, la dottrina ha proceduto ad estrarre dai singoli reati elementi comuni con cui sono stati elaborati nuovi concetti recepiti dalla parte generale delle codificazione, sono nati così i concetti che compaiono nel primo libro del codice penale italiano del 1930 sotto il titolo "Dei reati in generale" (ad esempio il rapporto di causalità, il dolo, la colpa, il tentativo, l'imputabilità). Sono concetti generali perché fissano alcuni elementi comuni a molti reati descritti nella parte speciale, inoltre sono astratti perché dipendono, nel loro contenuto, dai singoli reati a cui devono essere accostati per acquistare rilevanza giuridica (ad esempio non esiste un dolo in sé, ma il dolo di omicidio). Oltre ai concetti generali presenti nella parte generale del codice, la dottrina giuridica deve elaborare ulteriori concetti generali e astratti (ad esempio i concetti di fatto, antgiuridicità, colpevolezza, punibilità) per venire incontro alle esigenze didattiche e sistematiche proprie di ogni opera di scienza, e per fornire alla prassi giudiziaria gli strumenti per applicare correttamente la legge.
2. L'esigenza di una scomposizione analitica del reato.
La dottrina oggi avverte l'esigenza di una scomposizione analitica del reato. Ciascun elemento del reato è presupposto indispensabile per l'applicabilità della pena nel caso concreto; quindi ogni reato può essere espresso con la formula matematica "se vi sono A+B+C dev'esserci X : la pena". Ogni reato risulta composto da una serie di elementi disposti uno dopo l'altro in un ordine logico: il reato è :
-un fatto umano (cioè una specifica offesa al bene giuridico, ad esempio la sottrazione di una cosa mobile altrui);
-antigiuridico (cioè è disapprovato dall'ordinamento, ad esempio la sottrazione viene considerata un fatto lecito se è compiuta da un ufficiale giudiziario nell'adempimento dei suoi doveri per trasportare la cosa mobile pignorata alla casa delle aste);
-colpevole (cioè è personalmente rimproverabile a chi lo ha realizzato, ad esempio la capacità di intendere e di volere al momento della sottrazione);
-punibile (cioè l'opportunità di applicare la pena nel caso concreto).
Non si tratta dell'unico modello di analisi del reato, perché una parte della dottrina ne propone altri, quindi è necessario scegliere il modello che rispecchia meglio la fisionomia che il reato possiede nel nostro ordinamento.
3. Oggettivismo e soggettivismo: un'alternativa nell'analisi del reato.
Per scegliere un determinato modello di analisi del reato, sorge la domanda se l'interprete deve innanzitutto accertare se è stato commesso il fatto, cioè l'offesa al bene giuridico che individua ciascuna figura di reato, e solo dopo deve domandarsi se l'autore del fatto ha agito con dolo o con colpa, quindi se ne è responsabile; oppure se l'interprete deve prima volgere la propria attenzione all'autore, domandandosi quali fossero le sue intenzioni, se sia stato disattento o imprudente, e solo dopo deve accertare se le sue intenzioni o la sua disattenzione si siano tradotte nel fatto costitutivo di un determinato reato.
L'alternativa tra il primato del fatto o il primato dell'autore nell'analisi del fatto, cioè l'alternativa tra primato dell'oggettivo o primato del soggettivo può essere sciolta ricordando che la preferenza deve essere accordata allo schema di analisi che rispecchia meglio la struttura del reato in un dato ordinamento, e quindi a seconda che il legislatore abbia collocato il fatto o l'autore al centro della struttura del reato.
In genere il legislatore italiano ha costruito il tipi di reato assegnando il primato all'oggettivo rispetto al soggettivo, cioè al fatto rispetto all'autore, perché nella legislazione italiana il reato è innanzitutto un'offesa a uno o più beni giuridici; alla colpevolezza viene attribuito il ruolo successivo di individuare le condizioni che consentono di rimproverare il fatto al suo autore. Questo vincolo imposto dalla costituzione opera anche nei confronti dell'interprete; infatti il giudice, l'avvocato, lo studente nell'analisi del fatto dovrà partire dall'individuazione del fatto incriminato riservando a uno stadio successivo l'accertamento della personale responsabilità di chi ha commesso il fatto.
4. La sistematica quadripartita del reato.
Lo schema di analisi del reato che meglio rispecchia la fisionomia che ogni reato possiede nel nostro ordinamento è quello che individua nel reato quattro elementi:
-un fatto (umano);
-l'antigiuridicità del fatto;
-la colpevolezza del fatto antigiuridico;
-la punibilità del fatto antigiuridico e colpevole.
Quindi il reato è un fatto (umano) antigiuridico, colpevole, punibile, di conseguenza punibile può essere solo un fatto umano antigiuridico e colpevole, colpevole può essere solo un fatto umano antigiuridico, antigiuridico può essere solo un fatto umano. Il fatto è fondamento e pietra angolare della struttura del reato.
5. Il fatto.
Il fatto è l'insieme degli elementi oggettivi che individuano e caratterizzano ogni singolo reato come specifica forma di offesa a uno o più beni giuridici (ad esempio la truffa è caratterizzata da una specifica forma di offesa al patrimonio, cioè da artifizi o raggiri che provocano l'induzione di altri in errore, il compimento di un atto di disposizione da parte della vittima dell'inganno e il conseguimento di un ingiusto profitto da parte dell'agente o di un terzo, con altrui danno, si tratta quindi di un danno patrimoniale, con altrui profitto, che deriva da un'attività fraudolenta).
Essendo il fatto una specifica forma di offesa ad uno o più beni giuridici, esso è composto dagli elementi oggettivi che concorrono a descrivere quella forma di offesa:
-la condotta: cioè un'azione (ad esempio nella truffa gli artifizi o i raggiri) o un'omissione, cioè il mancato compimento di un'azione giuridicamente doverosa (ad esempio nell' omissione di soccorso il mancato avviso all'autorità del ritrovamento di un minore di anni 10 abbandonato o smarrito);
-i presupposti della condotta: cioè le situazioni, di fatto o di diritto, che devono preesistere o coesistere con la condotta (ad esempio lo stato di gravidanza nel procurato aborto senza il consenso della donna);
-l'evento o gli eventi: cioè gli accadimenti temporalmente e spazialmente separati dalla condotta e da questa causati (ad esempio l'errore, l'atto di disposizione, il profitto e il danno nella truffa);
-il rapporto di causalità tra condotta ed evento (ad esempio nella truffa gli artifizi o raggiri devono essere causa dell'errore in cui cade la vittima);
-l'oggetto materiale: cioè la persona o la cosa sulla quale incide l'azione (ad esempio la cosa mobile altrui nel furto) o l'omissione (ad esempio la denuncia di reato nei delitti di omessa denuncia) o l'evento (ad esempio la persona umana vivente nell'omicidio);
-le qualità o le relazioni giuridiche o di fatto richieste per il soggetto attivo del reato nei cosiddetti reati propri, cioè nei reati che possono essere commessi solo da soggetti qualificati (ad esempio la qualità di pubblico ufficiale nel delitto di peculato);
-l'offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice nella forma del danno (cioè la lesione totale o parziale dell'integrità della situazione, di fatto o giuridica, tutelata da norme incriminatrici, ad esempio la morte dell'uomo nell'omicidio come lesione del bene vita) o in quella del pericolo (cioè la probabilità del verificarsi di una lesione, ad esempio il pericolo per l'incolumità pubblica nel delitto di strage).
Non tutti gli elementi menzionati compaiono in ogni forma di reato. Una condotta, nella forma dell'azione o dell'omissione, e un'offesa, nella forma del danno o del pericolo, sono presenti in qualsiasi fatto penalmente rilevante, ma ci sono dei reati in cui il fatto è costituito solo da un'azione o da un'omissione dannosa o pericolosa, si tratta dei reati di mera condotta, mentre nei reati di evento il fatto consta di una condotta, di uno o più eventi e di un rapporto di causalità che collega la condotta all'evento o agli eventi.
Gli elementi costitutivi del fatto di regola sono espressamente previsti dalla norma incriminatrice, ma a volte sono sottintesi, cioè la loro presenza è tacitamente richiesta dalla norma per la configurazione del fatto (ad esempio nella truffa è un elemento sottinteso il compimento di un atto di disposizione patrimoniale da parte della persona indotta in errore).
Nella grande maggioranza dei casi gli elementi del fatto di reato sono individuati dal legislatore come elementi positivi, cioè come elementi la cui presenza nel caso concreto è necessaria per la sussistenza del fatto. A volte però la legge richiede per l'esistenza del fatto l'assenza di una qualche situazione di fatto o giuridica: in questo caso si parla di elementi negativi del fatto (ad esempio risponde di procurato aborto chiunque cagiona l'interruzione della gravidanza senza il consenso della donna); la fisionomia particolare degli elementi negativi si riflette anche sul piano del dolo (che esige la consapevolezza dell'assenza ad esempio del consenso) e sul piano della colpa (ad esempio che si configura solo quando l'assenza della concessione edilizia fosse conoscibile con la dovuta diligenza).
Per individuare gli elementi del fatto di reato il legislatore può usare sia concetti descrittivi, sia concetti normativi: si parla di concetti descrittivi quando il legislatore usa termini che fanno riferimento ad oggetti della realtà fisica o psichica, suscettibili di essere accertati con i sensi o comunque attraverso l'esperienza (ad esempio la condotta del delitto di violenza sessuale, previsto dall'art.609 bisc.p., è descritta in parte attraverso la formula "compiere o subire atti sessuali");si parla invece di concetti normativi quando il legislatore ricorre a un concetto che fa riferimento a una norma o a un insieme di norme giuridiche, con la conseguenza che quell'elemento del reato può essere compreso soltanto sotto il presupposto logico della norma richiamata (ad esempio nel delitto di bigamia previsto dall'art. 556 del codice penale vengono individuati attraverso concetti normativi sia la condotta, cioè il contrarre un matrimonio avente effetti civili, sia il presupposto della condotta che consiste nell'essere legato da un matrimonio avente effetti civili.
6. L'antigiuridicità.
L'antigiuridicità esprime il rapporto di contraddizione tra il fatto e l'intero ordinamento giuridico, questo rapporto di contraddizione non c'è quando anche una sola norma, che si trova in qualsiasi luogo dell'ordinamento facoltizza o rende doverosa la realizzazione del fatto.
Si dà il nome di cause di giustificazione all'insieme delle facoltà e dei doveri derivanti da norme, presenti in qualsiasi luogo dell'ordinamento, che autorizzano o impongono la realizzazione di un fatto penalmente rilevante (ad esempio l'art. 52, 1 comma c.p. prevede che un fatto penalmente rilevante possa essere commesso nell'esercizio della facoltà della legittima difesa, cioè per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa. Se il fatto è commesso in assenza di ogni causa di giustificazione, il fatto è antigiuridico e costituirà reato se concorreranno gli altri estremi del reato (la colpevolezza e la punibilità); se invece è commesso in presenza di una causa di giustificazione, il fatto è lecito e quindi non costituisce reato perché viene meno l'elemento dell' antigiuridicità: è lecito in qualsiasi luogo dell'ordinamento e quindi non può essere soggetto a nessun tipo di sanzione. In questo senso la dottrina parla di efficacia universale delle cause di giustificazione (ad esempio chi cagiona la morte di un uomo per legittima difesa non potrà essere assoggettato né a pena, né alla sanzione civilistica del risarcimento dei danni morali e materiali, nè all'eventuale sanzione disciplinare della rimozione da un pubblico impiego).
7. La colpevolezza.
La colpevolezza dell'agente è l'insieme dei requisiti dai quali dipende la possibilità di muovere all'agente un rimprovero per aver commesso il fatto antigiuridico. I requisiti su cui si fonda (e si gradua) il rimprovero personale per aver commesso il fatto antigiuridico sono:
-dolo o colpa;
-assenza di scusanti, o normalità delle circostanze concomitanti alla commissione del fatto;
-conoscenza o conoscibilità della norma penale violata;
-capacità di intendere e di volere.
Tutti questi requisiti su cui si fonda la colpevolezza vanno riferiti e collegati al singolo fatto antigiuridico commesso dall'agente.
A) Il dolo è la rappresentazione e la volizione di tutti gli estremi del fatto antigiuridico (ad esempio se un cacciatore durante una battuta di caccia crede che dietro un cespuglio ci sia un cinghiale, mentre invece c'è un altro cacciatore e lo spara, causandone la morte, non c'è il dolo dell'omicidio perché ciò che l'agente si era rappresentato e aveva voluto realizzare è un fatto diverso da quello commesso, cioè l'uccisione di un cinghiale.
B) La colpa consiste nella negligenza, nell'imprudenza, nell'imperizia o nell'inosservanza di norme giuridiche preventive ed deve abbracciare tutti gli elementi del fatto antigiuridico (ad esempio se un automobilista dopo aver attraversato con il semaforo rosso un incrocio, prosegue a velocità moderata e 50 m dopo causa la morte di un bambino che era uscito di corsa da un cortile per inseguire il suo pallone, la condotta dell'agente nella fase dell'attraversamento dell'incrocio è colposa, però non c'è nessun nesso tra la colpa e l'investimento mortale del bambino che si è verificato oltre l'incrocio, perché la funzione cautelare della norma violata non era quella di fare arrivare l'automobilista qualche minuto più tardi sul luogo del sinistro ma quella di prevenire il verificarsi di scontri o investimenti nella zona dell'incrocio delimitato dei semafori; quindi il conducente non risponderà di omicidio colposo ma incorrerà solo nelle sanzioni previste dal codice della strada per avere attraversato l'incrocio con il semaforo rosso).
C) La colpevolezza esige anche che il fatto antigiuridico, doloso o colposo, sia commesso dall'agente in assenza di scusanti, cioè di circostanze anormali che, nella valutazione legislativa, influenzano in modo irresistibile la volontà dell'agente alle sue capacità psicofisiche e rendono inesigibile un comportamento diverso da quello tenuto nel caso concreto (ad esempio non si espone a un rimprovero di colpevolezza, e quindi non è punibile, chi commette fatti antigiuridici dolosi di falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento, cioè pregiudizio, nella libertà o nell'onore).
D) La conoscenza o la conoscibilità della norma penale violata comporta che l'agente sapesse, o potesse sapere usando la dovuta diligenza, che il fatto antigiuridico, doloso corposo, da lui commesso, era represso da una norma incriminatrice (ad esempio la corte costituzionale ha considerato non colpevole chi ignora di commettere un fatto vietato da una norma incriminatrice perché ha ricevuto assicurazioni erronee sull'irrilevanza penale del fatto da parte degli organi amministrativi competenti a vigilare sull'osservanza delle norme).
E) non è colpevole, e quindi non può essere punito, chi al momento in cui ha commesso il fatto non era imputabile (art. 85 c.p.); ed è imputabile chi è capace sia di intendere (cioè di rendersi conto del significato o delle conseguenze dei propri atti) sia di volere (cioè di inibire o attivare i propri impulsi); ad esempio l'art.88 c. p. stabilisce nel caso di un omicidio commesso da uno psicopatico, affetto da manie di persecuzione, che vede in un innocuo condomino l'autore delle vessazioni di cui si ritiene vittima, che non sarà responsabile di omicidio doloso perché il fatto antigiuridico di omicidio doloso non gli è rimproverabile per difetto di imputabilità, se ritenuto socialmente pericoloso potrà però essere sottoposto alla misura di sicurezza dell'ospedale psichiatrico giudiziario.
8. La punibilità.
La punibilità consiste nell' insieme delle condizioni, ulteriori ed esterne, rispetto al fatto antigiuridico e colpevole, che possono fondare o escludere l'opportunità di punirlo.
È controverso se la punibilità debba essere collocata tra gli elementi del reato, o se appartenga ad un diverso ed ulteriore capitolo del diritto penale, cioè se il nome di reato debba attribuirsi solo a un fatto antigiuridico, colpevole e punibile, o se invece ad integrare il reato siano sufficienti i primi tre elementi, cioè il fatto, l'antigiuridicità e la colpevolezza, salvo prendere atto che l'assoggettamento dell'autore di un fatto antigiuridico e colpevole alla pena passa attraverso un accertamento autonomo e successivo che ha per oggetto la punibilità. Ecco perché viene accolta la prima soluzione: la pena è ciò che caratterizza il diritto penale rispetto agli altri rami dell'ordinamento e ciò che caratterizza il reato rispetto a ogni altra figura di illecito; è la stessa fisionomia del reato che reclama una sistematica che colloca la punibilità tra gli elementi del reato. In astratto il reato è individuato dalla comminatoria legale di una pena; mentre in concreto si può parlare di reato solo in presenza di un fatto antigiuridico, colpevole e punibile.
Le scelte del legislatore sull'opportunità di punire un fatto antigiuridico e colpevole possono esprimersi nell'individuazione di un duplice ordine di condizioni: a) condizioni che fondano la punibilità; b) condizioni, o cause, che escludono la punibilità.
Fondano la punibilità quelle che il legislatore designa come "condizioni obiettive di punibilità" (previste dall'art. 44 c. p.): si tratta di quegli accadimenti, menzionati in una norma incriminatrice, che esprimono solo valutazioni di opportunità circa l'infezione della pena (ad esempio la dichiarazione di fallimento nel reato di bancarotta).
Escludono la punibilità, e quindi possono chiamarsi "cause di esclusione della punibilità":
A) alcune situazioni contestuali alla commissione del fatto che attengono alla posizione personale dell'agente o ai suoi rapporti con la vittima, si tratta delle cause personali di non punibilità (ad esempio la non punibilità di chi ha commesso la gran parte dei delitti contro il patrimonio a danno di un congiunto);
B) alcuni comportamenti dell'agente susseguenti alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole, si tratta delle cause sopravvenute di non punibilità (la ritrattazione nei delitti di falso giuramento, falsa testimonianza e falsa perizia l'interpretazione);
C) alcuni fatti naturali o giuridici successivi alla commissione del fatto antigiuridico colpevole, che o sono del tutto indipendenti da comportamenti dell'agente o comunque non si esauriscono in un comportamento dell'agente, si tratta delle cause di estinzione del reato (ad esempio la morte del reo prima della condanna).
A volte il legislatore rimette al giudice il compito di valutare l'opportunità di un'effettiva punizione dell'autore di un fatto antigiuridico e colpevole (ad esempio nel caso dell'oblazione nelle contravvenzioni punite con pene alternative , arresto o ammenda, la non punibilità del contravventore che chiede di pagare tempestivamente una somma corrispondente alla metà del massimo dell'ammenda prevista dalla legge per la contravvenzione commessa, è subordinata alla valutazione discrezionale del giudice circa la gravità del fatto, come stabilisce l'art.162 bis c.p.).
9. Il carattere vincolante della sistematica quadripartita.
L'ordine nel quale sono disposti gli elementi del reato secondo la sistematica quadripartita: il fatto, la sua antigiuridicità, la colpevolezza per il fatto antigiuridico e la punibilità del fatto antigiuridico e colpevole, è un ordine logico che ha un fondamento normativo nell'art.129, 1 comma c.p.p., il quale impone il proscioglimento in ogni stato e grado del processo quando il giudice riconosce che il fatto non sussiste o che non costituisce reato (cioè che c'è la presenza di cause di giustificazione, l'assenza dei requisiti della colpevolezza, l'assenza di condizioni obiettive di punibilità o la presenza di cause di esclusione della punibilità). Questo ordine logico e normativo vincola il giudice il quale, senza aver prima accertato l'esistenza di un fatto antigiuridico doloso o colposo, non può escludere la responsabilità solo perché c'è la presenza di una causa di giustificazione, oppure perché non sussiste la capacità di intendere o di volere; inoltre il giudice senza aver prima accertato l'esistenza di un fatto antigiuridico e colpevole non può assolvere l'imputato solo per l'assenza di una condizione oggettiva di punibilità o per la presenza di una causa di esclusione della punibilità. L'art.129, 2 comma c.p.p. prevede lo stesso anche nel caso in cui sia presente una causa di estinzione del reato: il proscioglimento deve essere imposto non per la presenza di una causa di estinzione del reato, ma perché dagli atti del processo emerge la prova che il fatto non sussiste, o che l'imputato non lo ha commesso, oppure che il fatto non è antigiuridico o che il fatto è antigiuridico ma non è colpevole. La sistematica quadripartita garantisce sia all'analisi teorica e sia alla prassi giudiziaria: completezza, razionalità e verificabilità, cioè nell'accertamento della responsabilità penale non si trascurerà nessun aspetto rilevante per il diritto.
10. L'inquadramento dei reati omissivi nella sistematica quadripartita.
E' sorto il problema se alcune specificità dei reati omissivi, cioè dei reati caratterizzati dal mancato compimento di un'azione giuridicamente doverosa, impongono una trattazione separata rispetto ai reati commissivi, cioè ai reati caratterizzati dal compimento di azioni vietate, o se quelle specificità possono essere inquadrate nella sistematica quadripartita e, quest'ultima, sembra la soluzione preferibile.
Per molto tempo nell'elaborazione della teoria del reato si è pensato alle norme penali come a un insieme di divieti di agire e si sono perciò assunti come prototipo i reati commissivi, cioè i reati caratterizzati da azioni pericolose o dannose per i beni giuridici commesse in violazione di quei divieti; però il diritto penale risulta composto oltre che da divieti di agire, anche da comandi di agire, quindi accanto ai reati commissivi compaiono i reati omissivi, cioè i reati caratterizzati dall'omissione delle azioni imposte da quei comandi per proteggere beni giuridici. Però dato che era stato assunto come prototipo i reati commessi, la teoria del reato ha applicato le regole proprie dei reati commissivi anche ai reati omissivi, e ciò ha messo in ombra le caratteristiche strutturali dei reati omissivi; ciò però non causava molti danni finché lo Stato puniva raramente le condotto omissive, perché dominava l'idea ottocentesca che la prevenzione dei pericoli competeva allo Stato e l'aiuto al vicino e ai terzi costituiva un dovere sono morale, indifferente per il diritto penale. Tuttavia negli ultimi decenni con l'avvento dello Stato sociale e del governo pubblico dell'economia, è avvenuta una crescita progressiva dei comandi di agire la cui inosservanza viene sanzionata penalmente per assicurare efficacia agli interventi e ai controlli degli organi pubblici, e ciò anche a causa della crescita dei pericoli per i beni fondamentali come la vita, salute e l'ambiente creati dall'industrializzazione.
A) IL FATTO NEI REATI COMMISSIVI
1. L'azione.
Nozione.
Al centro di ogni fatto complessivo penalmente rilevante c'è un'azione umana, e ciò per la fisionomia del diritto penale italiano che reprime gli attacchi dell'uomo all'integrità dei beni giuridici e non la mera volontà di offendere un bene che non si sia tradotta in un'attività esteriore (congitationis poenam nemo patitur). L'unica caratteristica dell'azione che accomuna tutti i reati commissivi è il carattere di attività esteriore.
Reati a forma libera e reati a forma vincolata.
Per descrivere le azioni penalmente rilevanti il legislatore può utilizzare due tecniche. Può esigere che l'azione sia compiuta con determinate modalità, e si parla in questo caso di reati a forma vincolata, cioè l'azione concreta sarà rilevante, cioè tipica, solo se corrisponde allo specifico modello di comportamento descritto nella norma incriminatrice. Oppure il legislatore può attribuire rilevanza a ogni comportamento umano che abbia causato, con qualsiasi modalità un determinato evento, si parla allora di reati a forma libera, cioè l'azione concreta penalmente rilevante si individuerà nei reati dolosi in funzione del mezzo impiegato in concreto dall'agente, sarà la tipica attività che consiste nell'uso del mezzo impiegato dall'agente per causare dell'evento, e nei reati colposi sarà tipica qualsiasi azione che abbia colposamente creato il pericolo che si è concretizzato nell'evento. La scelta del legislatore tra le due tecniche dipende dall'importanza del bene giuridico la cui aggressione è penalmente repressa.
Il legislatore tutela da ogni lato i beni ritenuti di alto rango, cioè rinuncia a selezionare una determinata modalità con cui può essere recata l'offesa, attribuendo rilevanza alla causazione pura e semplice dell'evento, come accade nella tutela prevista dal codice penale per i beni della vita e dell'integrità fisica (ad esempio gli artt. 575 e 589 c.p. non richiedono che la morte sia provocata attraverso specifiche forme di comportamento, ma danno importanza a qualsiasi condotta, strangolare, accoltellare, avvelenare, che cagiona la morte di un uomo. L'utilizzo di particolari mezzi come ad esempio le armi, viene valorizzato solo nell'ambito delle circostanze aggravanti).
Una tutela frammentaria invece attribuita ai beni di minor rango, che vengono cioè protetti solo contro specifiche classi di comportamenti scelte dal legislatore per la loro particolare capacità offensiva, oppure per la loro attitudine a rendere più vulnerabile il bene giuridico tutelato, come accade nella tutela del bene giuridico patrimonio (ad esempio in alcuni delitti il patrimonio deve essere attaccato con vere e proprie forme di frode a danno della vittima, ad esempio nella truffa chiunque con artifici o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a se o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno; in altri delitti l'offesa al patrimonio consiste nell'abuso di situazioni di vulnerabilità della vittima, ad esempio nella circonvenzione di persone incapaci).
A volte il legislatore configurando un reato a forma vincolata dà importanza al compimento di più azioni che devono essere realizzate secondo una determinata successione temporale (ad esempio nel furto si richiede che l'agente sottragga una cosa mobile altrui a chi la detiene e, successivamente, se ne impossessi).
Reati di possesso e reati di sospetto.
Soprattutto nella parte speciale del diritto penale compaiono spesso i reati di possesso, cioè i reati nei quali l'oggetto del divieto è il possesso, la detenzione, di questa o quella cosa (ad esempio l'art.453, 1 comma n. 3 c.p. contempla il delitto di detenzione di monete falsificate). Controversa è la questione sulla presenza di un'azione in queste figure di reato, perché il possesso indica solo la disponibilità di una determinata cosa, cioè la possibilità di farne uso, l'idea del reato come offesa creata attraverso l'azione umana può esserci solo come requisito tacito, ma necessario, del fatto di reato, si tratta di un'azione che consiste nel procurarsi o nel ricevere la cosa, se quella cosa è stata ricevuta dal soggetto inconsapevolmente l'azione consisterà nell'esercitare sulla cosa un controllo diretto a conservarne la disponibilità.
Uno speciale sottogruppo dei reati di possesso è costituito dai reati di sospetto, e il carattere particolare di questi reati è di natura processuale, cioè riguarda l'inserzione nella norma incriminatrice di un'autonoma regola di giudizio, in contrasto con la presunzione di non colpevolezza prevista dall'art.27, 2 comma cost., l'onere della prova della destinazione o della provenienza lecita della cosa incombe sull'imputato, e finché il giudice è in dubbio si impone una pronuncia di condanna (un esempio è il possesso ingiustificato di chiavi o di grimaldelli, l'art.707 c.p. dice che "chiunque, essendo stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, o di chiavi genuine o di strumenti atti ad aprire o a forzare serrature, dei quali non giustifichi l'attuale destinazione, è punito").
2. I presupposti della condotta.
In molte figure di reato la rilevanza penale di un fatto è subordinata alla condizione che l'azione venga compiuta in presenza di determinate situazioni di fatto o giuridiche, che devono preesistere all'azione o ne devono accompagnare l'esecuzione. Queste situazioni di fatto sono chiamate: presupposti della condotta. A volte in assenza di un dato presupposto non è neanche possibile la realizzazione dell'azione tipica (ad es. in assenza del presupposto gravidanza, non può realizzarsi la condotta che consiste nel compiere, senza il consenso della donna, atti interruttivi della gravidanza). Altre volte, in assenza del presupposto l'azione è possibile, ma è lecita (ad es. contrarre un matrimonio avente effetti civili è una cosa lecita e assume rilevanza penale solo se l'agente è legato da un precedente matrimonio avente effetti civili o contrae il matrimonio con una persona già coniugata).
3. L'evento.
Spesso la norma incriminatrice richiede il verificarsi di un evento, cioè di un accadimento temporalmente e spazialmente separato dall'azione e che da questa deve essere causato; dato che l'evento è un elemento del fatto di reato, il nome di evento spetta solo a quelle conseguenze dell'azione che sono espressamente o tacitamente previste dalla norma incriminatrice, e non alle eventuali ulteriori conseguenze non prese in considerazione dalla singola norma (ad es. nel reato di omicidio il nome di evento spetta alla morte che deve essere cagionata dall'agente, invece ulteriori conseguenze dell'azione, come il dolore o il danno patrimoniale sofferto dai familiari della vittima, non sono eventi in senso penalistico perché non sono contemplati nella descrizione dei fatti di reato). Inoltre l'evento può consistere:
-in una modificazione della realtà fisica (ad esempio la malattia del corpo o della mente, cioè l'evento costitutivo dei diritti di lesione personale dolosa o colposa);
-in una modificazione della realtà psicofisica (ad esempio l'errore indotto dall'agente attraverso artifici o raggiri nella truffa);
-in un'alterazione della realtà economico-giuridica (ad esempio il danno e il profitto nella truffa);
-in un comportamento umano (l'atto con effetti giuridici dannosi a cui è indotta la vittima nella circonvenzione di incapaci).
Il legislatore utilizza la nozione di evento in molte previsioni normative di parte generale: nella definizione del rapporto di causalità (l'art.40, 1 comma c.p. dice che "nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione), e nella definizione del diritto doloso (l'art. 43, 1 comma c.p. dice che "il delitto è doloso quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione o dell'omissione e da quella legge fa dipendere l'esistenza del diritto, è preveduto e voluto dall'agente come conseguenza della propria azione od omissione).
In tutti questi casi l'evento viene definito come evento naturalistico, tuttavia parte della dottrina parla anche di evento giuridico (o evento in senso giuridico), si tratta dell'offesa (danno o pericolo) al bene tutelato dalla norma incriminatrice che è l'elemento costitutivo di tutti i fatti penalmente rilevanti. La nozione di evento giuridico è sinonimo dell'offesa.
4. Il rapporto di causalità.
Nozione.
Quando tra gli estremi del fatto compare un evento, l'evento rileva solo se è stato causato dall'azione: tra la azione e l'evento deve sussistere un rapporto di causalità, come stabilisce, sotto la rubrica "rapporto di causalità", l'art.40,1 comma c.p., il quale dice che "nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui la legge fa dipendere l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione". Dottrina e giurisprudenza hanno fornito tre risposte all'interrogativo su cosa sia necessario per poter affermare che una data azione è causa di un dato evento.
Le principali teorie della causalità sono: 1) la teoria condizionalistica; 2) la teoria della causalità adeguata; 3) la teoria della causalità umana.
Teoria condizionalistica.
La teoria condizionalistica (o della condicio sine qua non) parte dalla premessa che ogni evento è la conseguenza di molti fattori causali, che sono tutti egualmente necessari perché l'evento si verifichi: giuridicamente rilevante come causa dell'evento è ogni azione che non può essere eliminata mentalmente, cioè immaginata come non avvenuta, senza che l'evento concreto venga meno, perciò basta che l'azione di Tizio sia uno degli antecedenti senza i quali l'evento non si sarebbe verificato perché quell'azione possa considerarsi causa dell'evento, ad es. se Tizio colpisce con uno schiaffo Caio, che era affetto da un grave vizio cardiaco e Caio per lo spavento umore, sia lo schiaffo, sia spavento, sia la malattia di cuore sono antecedenti necessari della morte ed è sufficiente che Tizio abbia posto in essere una di queste condizioni perché la sua azione si consideri causa dell'evento concreto: decisivo è che senza lo schiaffo di Tizio Caio non sarebbe morto.
Questa concezione della causalità trova piena applicazione anche in due casi discussi in dottrina.
-un primo caso è quello della causalità ipotetica: ad esempio sorge la domanda se sussiste il rapporto di causalità nel caso del medico che pratica un'iniezione mortale a un malato terminale per alleviare le sofferenze, dal momento che si tratta di una persona che comunque sarebbe morta dopo qualche tempo, e la risposta è affermativa, perché l'evento che rappresenta il punto di riferimento del rapporto di causalità non è l'evento che è stato descritto dalla norma incriminatrice, cioè nell'omicidio la morte di un uomo, ma è l'evento concreto individuato attraverso le modalità della sua verificazione, compreso le modalità spazio temporali, cioè la morte di Tizio per assunzione di una certa quantità di morfina, in un certo ospedale, a una certa ora di un certo giorno; inoltre il rapporto di causalità va accertato tenendo conto del decorso causale effettivo e non solo ipotetico, cioè che poteva verificarsi ma non si è verificato, quindi bisogna domandarsi come sono andate le cose non come potevano andare, se non fosse stata praticata l'iniezione mortale il malato non sarebbe morto il giorno x alle ore y come conseguenza della somministrazione di quella sostanza.
-Un secondo caso è quello della causalità addizionale: ad esempio sorge la domanda se sussiste il rapporto di causalità tra l'azione di Tizio, che ha somministrato a Caio una dose di veleno sufficiente ad uccidere, e la morte di Caio, se anche Sempronio ha versato, all'insaputa di Tizio, una dose mortale dello stesso veleno nella stessa bevanda assunta da Caio. Si potrebbe credere che nè l'azione di Tizio, né quella di Sempronio possano essere considerate causa dell'evento morte: eliminando mentalmente l'azione di Tizio, Caio sarebbe morto comunque per avvelenamento nello stesso tempo e luogo in cui è morto, e lo stesso varrebbe per Sempronio ; la conseguenza paradossale quindi sarebbe che la morte di Caio non sarebbe stata causata nè da Tizio nè da Sempronio , però questo paradosso viene meno tenendo presente che il rapporto di causalità va accertato in relazione all'evento concreto descritto alla luce di tutte le sue modalità e, in questo caso, bisogna considerare la quantità di veleno reperito dal medico legale nel corpo della vittima, cioè il risultato dell'accumulo del veleno somministrato se da Tizio che da Sempronio, quindi non si possono eliminare mentalmente le azioni di nessuno dei due senza che l'evento concreto venga meno, quindi sia l'azione di Tizio che quella di Sempronio sono cause dell'evento morte di Caio.
La formula dell'eliminazione mentale che consente di immaginare che quell'azione non è mai stata compiuta e che quindi l'evento concreto non si è verificato, è una formula vuota, cioè da riempire di contenuti per poter essere applicata ai casi concreti, e questi contenuti vanno ricavati dal leggi scientifiche, cioè da enunciati che esprimono successioni regolari di accadimenti, frutto dell'osservazione sistematica della realtà fisica o psichica. Viene chiamato "sussunzione del caso concreto" sotto quella legge, il procedimento che deve essere seguito per utilizzare le leggi scientifiche in modo da spiegare il perché di un determinato evento concreto: la premessa maggiore di questo procedimento è una legge scientifica che descrive la successione regolare tra la classe di accadimenti A e la classe di accadimenti B, la premessa minore è un caso concreto sussumibile sotto quella legge scientifica, cioè l'azione umana A è stata seguita dall'evento B, la conclusione è che quell'azione concreta è causa di quell'evento concreto (ad esempio le leggi balistiche e della scienza medica affermano che tra l'azione "sparare un colpo di pistola al cuore di un uomo" è l'evento "morte dell'uomo per arresto cardiaco" vi è una successione regolare: Tizio ha sparato con una pistola al cuore di Caio e Caio è morto a seguito della rottura del muscolo cardiaco, quindi l'azione di Tizio è stata causa della morte di Caio). Quindi in base alla teoria condizionalistica la causa dell'evento è ogni azione che, tenendo conto di tutte le circostanze che si sono verificate, non può essere eliminata mentalmente, sulla base di leggi scientifiche, senza che l'evento concreto venga meno.
Le leggi scientifiche che possono esser utilizzate dal giudice per la spiegazione causale dell'evento possono essere leggi universali (cioè enunciati che asseriscono regolarità senza eccezioni nella successione di eventi; ad esempio la legge della dilatazione termica che dice che se un corpo viene di riscaldato si dilata, ha carattere universale perché in tutti i casi empiricamente osservati al riscaldamento del corpo segue la sua dilatazione. Però difficilmente il giudice può utilizzare questo tipo di leggi), o leggi statistiche (si tratta di leggi, a cui molto spesso deve ricorrere il giudice, che enunciano regolarità statistiche emerse dall'osservazione della realtà empirica e che affermano che in un gran numero di casi all'accadimento A segue l'accadimento B (ad esempio la ricerca farmacologica può affermare che in molti casi la somministrazione di un determinato farmaco a una donna incinta provoca la nascita di bambini affetti da gravi malformazioni, attraverso legge statistica il giudice potrà spiegare nel caso concreto l'insorgere della malformazione come conseguenza della condotta del medico che ha prescritto quella medicina, e il medico risponderà di lesioni colpose se avrà prescritto quella medicina ignorando quei rischi che erano noti alla scienza medica e che erano segnalati dal produttore del farmaco).
Il giudice dovrà escludere la sussistenza del rapporto di causalità se, pur sospettando un legame causale tra una data azione e un dato evento, non può rafforzare questo sospetto, non potendo rintracciare una legge scientifica in base alla quale spiegare l'evento. I risultati delle indagini epidemiologiche non sono leggi scientifiche che possono essere utilizzate per spiegare il perché di una evento concreto perché studiano la causa delle patologie nelle popolazioni e non è causa della patologia di una singola persona, e quindi la causa di un singolo evento concreto (ad esempio se viene accertato che in una popolazione esposta all'azione di una certa sostanza sono stati riscontrati 200 casi di una patologia tumorale, di cui normalmente risultano 100 casi, da questa differenza statistica si può ricavare un'informazione che non è in grado di far concludere che una singola persona colpita da tumore rientri tra le 100 che sono malate a causa di quella sostanza piuttosto che fra le altre 100 che normalmente, per altre cause, contraggono la stessa patologia, le indagini epidemiologiche, in base ai loro risultati statistici, possono solo servire per vietare l'impiego di quella sostanza minacciando pene ai contravventori.
Altre volte il giudice si può trovare davanti a una pluralità di possibili spiegazioni causali dell'evento, ciascuna fondata su una diversa legge scientifica (ad esempio la perizia A ritiene che la causa della caduta di una valanga che ha messo in pericolo la pubblica incolumità sia il passaggio di sciatori che si sono avventurati fuoripista, mentre la perizia B riconduce l'evento a fattori estranei all'opera dell'uomo, come il crollo del fronte del ghiaccio su cui si era accumulata la neve), tra le varie spiegazioni il giudice deve dare preferenza a quella che meglio si attaglia al caso concreto (in questo esempio sceglierà la seconda spiegazione se le dimensioni della valanga, la testimonianza di chi ha visto il distacco di una parete di ghiaccio, rendono più probabile che la valanga sia stata causata da fattori naturali).
La teoria condizionalistica ha tre corollari:
-il concorso di fattori causali preesistenti, simultanei o sopravvenuti non esclude il rapporto di causalità tra l'azione e l'evento, quando l'azione è una condizione necessaria dell'evento, e ciò vale anche se i fattori estranei all'opera dell'uomo sono rari o anormali (ad esempio non è escluso il rapporto di causalità se la morte di una persona vittima di una lesione personale è dovuta alla sua vulnerabilità a causa dell'emofilia);
-il rapporto di causalità non è escluso nemmeno se il fattore causale ulteriore rispetto all'azione dell'uomo consiste in un fatto illecito di un terzo, come nel caso della persona ricoverata in ospedale per una ferita di arma da fuoco, se la morte è dovuta a un grave errore del chirurgo che lo ha operato per estrarre il proiettile;
-il rapporto di causalità è escluso quando tra l'azione e l'evento si è inserita una serie causale autonoma, cioè una serie causale che è stata da sola sufficiente a causare l'evento, in questo caso l'azione è solo un antecedente temporale e non una condicio sine qua non dell'evento (ad esempio se Tizio avvelena Caio, il quale muore investito da un'automobile prima che il veleno faccia effetto, Tizio non avrà causato l'evento morte, e quindi non risponderà di omicidio doloso consumato, ma solo di tentato omicidio).
Teoria della causalità adeguata.
La teoria della causalità adeguata, in aggiunta a quanto previsto dalla teoria condizionalistica, si propone di escludere il rapporto di causalità quando nel decorso causale, accanto all'azione umana, siano intervenuti fattori, preesistenti, simultanei o sopravvenuti, anormali, quindi richiede che l'evento sia una conseguenza normale o almeno non improbabile dell'azione. Questo limite è giustificato innanzitutto dal fatto che eventi imprevedibili non possono essere evitati neanche da un uomo prudente e giudizioso, inoltre la punizione di chi ha causato un evento imprevedibile non soddisfa nè le esigenze della giusta retribuzione nè quelle della prevenzione.
Per accertare la sussistenza del rapporto di causalità, questa teoria impone di compiere una prognosi postuma, articolata in due momenti: in primo luogo il giudice deve compiere un viaggio nel passato, cioè idealmente deve tornare al momento in cui il soggetto ha agito e deve formulare così un giudizio ex ante, cioè deve chiedersi, sulla base di leggi scientifiche e dei dati disponibili al momento dell'azione, quali erano i normali o non improbabili sviluppi causali dell'lazione; in secondo luogo il giudice deve confrontare il decorso causale che si è verificato con quelli che erano prevedibili (ad esempio se il pedone investito da un automobilista è morto per dissanguamento siamo in presenza di un rapporto di causalità adeguata perché quel decorso causale era non improbabile; se invece la morte del padrone investito è avvenuta nell'ambulanza che lo trasportava in ospedale in seguito all'incidente, il rapporto di causalità è escluso per il carattere anormale del concreto decorso causale.
Teoria della causalità umana.
La teoria della causalità umana, in aggiunta a quanto previsto dalla teoria condizionalistica, richiede anche che l'evento non deve essere dovuto al concorso di fattori eccezionali, quindi il rapporto di causalità si considera escluso non, come sostiene la teoria della causalità adeguata, tutte le volte in cui il decorso causale è anormale, ma solo nei casi in cui tra l'azione e l'evento intervengono fattori causali rarissimi, cioè che hanno una minima probabilità di verificarsi. La ratio di questo limite è che possono considerarsi opera dell'uomo solo gli sviluppi causali che l'uomo può dominare con i suoi poteri conoscitivi e volitivi e tra gli sviluppi dominabili non possano essere ricompresi quelli dovuti al concorso di fattori causali rarissimi; di conseguenza secondo questa teoria la gamma di eventi che possono essere causati da un'azione risulta più ristretta rispetto a quanto stabilito dalla teoria condizionalistica, ma più ampia rispetto a quanto stabilito dalla teoria della causalità adeguata. Questi fattori causali rarissimi sono ad esempio fattori causali che preesistono all'azione come l'emofilia della persona ferita, oppure fattori causali sopravvenuti, come un incendio divampato nell'ospedale in cui il ferito è stato ricoverato.
L'accoglimento della teoria condizionalistica nell'art.41 c.p.
Il legislatore italiano all'art.41 c.p., sotto la rubrica "concorso di cause ", ha dettato una serie di regole per dare una risposta all'interrogativo su ciò che è necessario per poter affermare che una data azione ha causato un dato evento. Il primo e il terzo comma dell'art. 41 enunciano due corollari della teoria condizionalistica:
-il 1 comma stabilisce che "il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento", cioè per l'esistenza del rapporto di causalità basta che l'agente abbia posto in essere uno solo degli antecedenti necessari dell'evento.
-il 3 comma stabilisce che "le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui", cioè un'azione che è condizione necessaria dell'evento ne resta la causa anche se tra i fattori causali c'è un fatto illecito altrui.
-il 2 comma invece dice che "le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento", anche se la disciplina di questo comma è stata oggetto di controversie, sembra che anche essa aderisca alla teoria condizionalistica perché esprime un'ulteriore corollario di questa teoria e non contiene nessuna formula che evochi né l'idea di valutazioni prognostiche nè l'intervento di fattori causali rarissimi. Se, come dice questo comma, le cause sopravvenute sono state da sole sufficienti a determinare l'evento, è evidente che tra l'azione e l'evento si è inserita una serie causale autonoma che fa sì che quell'azione rappresenti non una condizione necessaria dell'evento ma solo un antecedente temporale; però quell'azione che solo temporalmente precede l'evento può di per sè costituire reato, infatti il secondo comma prosegue dicendo che "se l'azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita" (ad esempio se Tizio colloca nella casa di Caio una bomba a orologeria, ma prima che la bomba esploda Caio muore per un problema cardiaco, e quindi per una causa sopravvenuta che è stata da sola sufficiente a determinare la morte, Tizio non avrà causato l'evento morte e quindi non dovrà rispondere di omicidio doloso consumato ma solo di omicidio tentato).
La teoria condizionalistica non ha bisogno di correttivi.
L'adesione da parte del legislatore italiano alla teoria condizionalistica non comporta un eccessivo ampliamento dell'area della responsabilità penale. In primo luogo nelle ipotesi di responsabilità per dolo o per colpa, l'esigenza delle teorie della causalità adeguata e della causalità umana di delimitare la responsabilità, è soddisfatta quando una volta che è stata accertata l'esistenza del rapporto di causalità tra l'azione e l'evento si va a esaminare se quell'evento è stato causato dolosamente o colposamente (ad esempio nel caso dell'emofiliaco la morte conseguente alla ferita dolosamente o colposamente prodotta dall'agente non potrà essere rimproverata a quest'ultimo nè a titolo di dolo nè a titolo di colpa, se l'esistenza di quella malattia non era né conosciuta nei conoscibile con la dovuta diligenza). In secondo luogo la teoria della causalità umana è inutile e spesso arriva a conseguenze paradossali (ad esempio nel caso dell'emofiliaco, questa teoria esclude l'esistenza del rapporto di causalità quando la morte è dovuta all'intervento di questo fattore causale, quindi esclude la responsabilità penale per omicidio doloso o colposo, di conseguenza Tizio non dovrebbe rispondere di omicidio doloso anche se era a conoscenza della malattia di Caio e l'ha ferito con l'intenzione di ucciderlo). Inoltre la teoria condizionalistica sembra comportare un eccessivo ampliamento dell'area della responsabilità penale nel caso in cui l'evento viene posto a carico dell'agente a titolo di responsabilità oggettiva, cioè solo perché l'azione dell'agente lo ha materialmente causato, senza che sia necessario accertare il dolo o la colpa. Una delle ragioni che sono alla base della teoria della causalità adeguata è quella di arricchire la struttura del rapporto di causalità ne reati aggravati dall'evento, introducendo un limite che coincide con quello della colpa: infatti non può essere rimproverato all'agente per colpa un evento che per la sua anormalità non poteva essere previsto, e quindi evitato, neanche da un uomo giudizioso e dotato del massimo di conoscenze; ciò rispondeva a esigenze politico-criminali, però oggi dopo l'avvento della costituzione, tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva non sono più riconosciute nel nostro ordinamento, infatti la corte costituzionale ha riconosciuto rango costituzionale al principio di colpevolezza traendone la conseguenza che un elemento del fatto deve essere investito almeno dalla colpa, quindi le ragioni politico-criminali sono venuta meno. Infine non regge neanche l'obiezione mossa alla teoria condizionalistica di aprire la strada a un "regresso all'infinito", andando cioè alla ricerca della causa penalmente rilevante anche tra gli antecedenti più remoti dell'evento; infatti se questo regresso infinito fosse un problema non si capirebbe perché la giurisprudenza non si ponga questo problema, in verità il problema della causalità si pone solo per un comportamento che si sospetta che sia antigiuridico e colpevole.
5. L'oggetto materiale.
In alcune figure di reato l'azione o l'evento devono incidere su una persona o una cosa, le quali sono chiamate: oggetto materiale del reato. Nel caso di una persona, ad esempio nei delitti di omicidio e di lesioni personali, oggetto materiale è un uomo (termine che comprende tutte le persone di sesso maschile e femminile, adulti, vecchi e bambin); ci sono poi delitti in cui l'oggetto materiale può essere solo una donna (ad esempio il procurato aborto su una donna non consenziente). Nel caso invece di cose,nel furto ad esempio l'oggetto materiale è la cosa mobile altrui.
6. Le qualità o le relazioni del soggetto attivo nei reati propri.
La maggior parte dei reati possono essere commessi da chiunque, si tratta in questo caso del reato comune; però ci sono dei reati che possono essere commessi solo da chi possiede determinate qualità o si trova in determinate relazioni con altre persone, in questo caso si tratta del reato proprio. La fisionomia del fatto come offesa a un bene giuridico dipende dalle qualità o dalle relazioni richieste per il soggetto attivo nel reato proprio, cioè si tratta di una posizione del soggetto che riflette un particolare rapporto con il bene giuridico, che può essere attaccato direttamente solo da chi appartiene a una cerchia determinata di soggetti.Ciò è molto importante per il concorso di persone: da un lato il soggetto privo della qualifica richiesta dalla norma incriminatrice (il cosiddetto estraneo) che ha agevolato o istigato la persona qualificata (il cosiddetto intraneo) alla commissione del reato proprio concorre oggettivamente in questo reato perché ha contribuito all'offesa del bene giuridico tutelato dalla norma (ad esempio chi ha istigato con successo o ha agevolato il pubblico ufficiale nella commissione di un fatto di corruzione propria, cioè nel ricevere denaro per compiere un atto contrario ai doveri d'ufficio, e quindi con la sua attività ha contribuito a offendere l'imparzialità della pubblica amministrazione); dall'altro lato si potrà avere un concorso doloso all'offesa che caratterizza il reato proprio solo se l' agevolatore o l'istigatore conosca gli elementi del fatto, a cominciare dalla qualità del soggetto attivo (quindi si potrà rispondere di concorso doloso in corruzione propria solo se l'istigatore o l'agevolatore conosceva la qualità di pubblico ufficiale di chi ha ricevuto denaro per compiere l'atto contrario ai doveri d'ufficio).
Per quanto riguarda la natura delle qualità o delle relazioni del soggetto attivo, può trattarsi sia di qualità o relazioni "di fatto", sia di qualità o relazioni "giuridiche". Nel caso delle qualità o relazioni di fatto un esempio è l'aborto auto procurato dalla donna senza l'osservanza delle condizioni fissate dalla legge, infatti si tratta di un reato proprio della donna che viene punito meno severamente rispetto all'aborto procurato da terzi. Per quanto riguarda invece le qualità o le relazioni giuridiche un esempio è il delitto di abuso d'ufficio che può essere realizzato solo in presenza delle qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, cioè solo dai soggetti che possono arricchirsi indebitamente o possono prevaricare il cittadino agendo in conflitto di interessi o violando le regole dell'attività amministrativa.
7. L'offesa.
Nozione.
Un altro elemento costitutivo del fatto penalmente rilevante è l'offesa al bene o ai beni tutelati, che può assumere la forma della lesione o del pericolo per l'integrità del bene o dei beni.
L'offesa come elemento espresso o come elemento sottinteso del fatto di reato.
L'offesa al bene giuridico nella fattispecie legale può emergere a volte in modo espresso e altre volte in modo sottinteso. L'offesa al bene protetto è un elemento espresso del fatto di reato quando viene menzionato esplicitamente nella norma incriminatrice (ad esempio l'art.594, 1 comma c.p., per quanto riguarda i delitti di ingiuria, dice che "chiunque offende l'onore o il decoro di una persona presente"). L'offesa può essere considerata un elemento costitutivo espresso del fatto di reato anche quando all'interno del reato la legge individua un elemento costitutivo che rappresenta l'equivalente fenomenico dell'offesa al bene giuridico (ad esempio nel caso di omicidio l'evento morte di un uomo esprime la lesione del bene giuridico vita umana). L'offesa è invece un elemento sottinteso del fatto di reato, e quindi va fatta emergere in via interpretativa, quando non compare nella norma incriminatrice né direttamente né indirettamente, anche se comunque la norma vieta una condotta in quanto crea il pericolo del verificarsi di un evento offensivo; in queste ipotesi l'offesa al bene giuridico assume un ruolo molto importante nella ricostruzione degli esatti contorni del fatto di reato (ad esempio l'art.372 c.p., che prevede la falsa testimonianza, dice che "chiunque, deponendo come testimone davanti all'autorità giudiziaria, afferma il falso o nega il vero, o tace, in tutto o in parte, ciò che sta intorno ai fatti sui quali è interrogato", le condotte tipiche sono incriminate perché creano il pericolo di decisioni del giudice fuorviate da testimonianze false o reticenti rese su circostanze rilevanti, offendendo così il bene giuridico "corretta formazione delle decisioni del giudice". Perciò la dottrina e la giurisprudenza considerano irrilevanti le dichiarazioni false o reticenti che cadono su circostanze ininfluenti sul processo decisionale del giudice, come il supertestimone di un incidente stradale che, interrogato sulle ragioni della sua presenza sul luogo dell'incidente, indica una ragione falsa per nascondere una scappatella coniugale). Il giudice deve conformarsi a un criterio interpretativo fondamentale: la lettera della legge rappresenta solo il limite esterno imposto all'opera dell'interprete, entro questo limite, per ricostruire i fatti penalmente rilevanti, l'offesa al bene giuridico rappresenta un criterio selettivo indispensabile, che determina l'espulsione dal tipo legale dei comportamenti inoffensivi.
Reati di danno e reati di pericolo.
L'offesa può assumere le forme della lesione (o danno), che consiste nella distruzione, alterazione in peggio o diminuzione di valore dell'entità in cui si concretizza il bene giuridico, o del pericolo, che esprime la probabilità della lesione. Se l'offesa consiste nella lesione o danno del bene giuridico si configura un reato di danno (o di lesione) perché il legislatore reprime fatti che compromettono l'integrità dei beni (ad esempio è il caso della vita umana ne reati di omicidio); se invece l'offesa consiste nella messa in pericolo del bene giuridico si configura un reato di pericolo e, in questo cas,o il legislatore anticipa la tutela, cioè reprime fatti che minacciano l'esistenza o il godimento del bene (ad esempio nei delitti di strage, incendio, inondazione, il legislatore reprime i comportamenti umani che mettono in pericolo la vita o l'integrità fisica di un indeterminato numero di persone).
Reati di pericolo concreto e reati di pericolo astratto.
All'interno della categoria dei reati di pericolo si distingue tra: reati di pericolo concreto (cioè quelli in cui il giudice deve accertare se, nel singolo caso concreto, il bene giuridico ha corso un effettivo pericolo, sia quando il pericolo è un elemento espresso del fatto di reato e sia quando è un elemento implicito, da ricostruire in via interpretativa), e reati di pericolo astratto (cioè quelli in cui il legislatore, sulla base di leggi di esperienza, ha presunto che una classe di comportamenti, nella generalità dei casi, è fonte di pericolo per il bene giuridico). Ad esempio la norma che reprime la condotta del conducente di un autoveicolo che attraversa l'incrocio stradale non rispettando il semaforo rosso: se la norma adotta lo schema del pericolo concreto il giudice deve accertare se al momento dell'attraversamento sopraggiungevano nella zona dell'incrocio, autorizzati dal semaforo verde, altri veicoli o pedoni con il quale il trasgressore poteva entrare in collisione, provocando eventualmente la morte o le lesioni personali di un utente della strada rispettoso delle regole del traffico; l'illecito non si può configurare se non sopraggiungeva nessuno, perché nessuno ha corso il pericolo di morte o di essere ferito. Invece se il legislatore, come accade nell'attuale disciplina del codice della strada, adotta lo schema del pericolo astratto, il giudice non deve accertare se qualcuno sopraggiungeva al momento dell'attraversamento dell'incrocio perché, anche se risulta che non c'era nessuno, l'illecito sussiste perché c'è stato l'attraversamento col rosso che il legislatore ha vietato in quanto è pericoloso per le persone e per le cose.
Per accertare il pericolo concreto il giudice dovrà stabilire se c'era la probabilità, e non la semplice possibilità, della lesione del bene giuridico, si tratta di una prognosi ex ante in concreto a base totale, cioè il giudice deve fare un viaggio nel passato in cui vengono prese in considerazione le circostanze esistenti al momento in cui si è compiuta l'azione e si è verificato l'evento e, per formulare una prognosi, deve utilizzare il massimo di conoscenze (leggi scientifiche, situazione di fatto) disponibili al momento del giudizio, comprese le eventuali, occasionali conoscenze ulteriori (scientifiche o di fatto) del singolo agente; così il giudice stabilirà se il bene giuridico, nel singolo caso concreto, ha corso il pericolo di essere leso (ad esempio in un procedimento penale per strage, previsto dall'art. 422 c.p. in cui è imputato uno scienziato, dipendente di una grande impresa chimica che, animato dal proposito di uccidere un collega, ha messo una sostanza da lui ritenuta letale nell'impianto di aerazione del palazzo dove i due lavorano, si è poi allontanato dal luogo di lavoro. Per accertare il pericolo per l'incolumità pubblica, che è l'elemento costitutivo del fatto di strage, il giudice non dovrà tener conto della soggettiva convinzione dell'agente di avere immesso nell'impianto di aerazione una sostanza letale, ma dovrà interpellare un perito che, utilizzando leggi scientifiche disponibili al momento del giudizio, stabilirà se quella sostanza rappresenta davvero una minaccia per la vita o per la salute di quella moltitudine di persone; se poi non verrà confermato il carattere letale della sostanza, ma emergerà che l'agente solo sulla base delle sue ricerche e sperimentazioni pensava che fosse letale, il perito per stabilire se la pubblica incolumità ha corso un pericolo nel caso concreto, terrà conto anche delle conoscenze scientifiche dell'agente. Ipotizzando che si è verificato un errore tecnico dell'agente e che quel nella sostanza letale sia entrata in circolo con l'aria condizionata non a mezzogiorno, quando la vittima era presente nel laboratorio e il palazzo era affollato da lavoratori e visitatori, ma a mezzanotte quando l'edificio era chiuso al pubblico e ogni attività lavorativa era interrotta e l'unica persona presente era un sorvegliante, in base a queste circostanze concrete il perito concluderà che c'era l'insussistenza di un pericolo per la pubblica incolumità e il giudice riterrà non integrato il fatto costitutivo del delitto di strage).
E' difficile inquadrare un illecito penale tra i reati di pericolo astratto o i reati di pericolo concreto. La giurisprudenza tende ad ingigantire il numero dei reati di pericolo astratto (ad esempio nei reati di atti osceni in un luogo esposto al pubblico, la legge considera osceni gli atti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore; però l'offesa al pudore si verifica solo quando gli atti sono visibili da terzi e la dottrina ritiene che il reato non sussiste quando per la natura del luogo o il momento del fatto la possibilità che l'atto sia visto deve essere esclusa). Quindi deve essere contrastata la tendenza della giurisprudenza ad ingigantire il numero dei reati di pericolo astratto perché un reato di pericolo concreto può verificarsi anche quando la norma incriminatrice non prevede espressamente il pericolo come elemento costitutivo del fatto (ad esempio nella falsa testimonianza il pericolo costituisce il fatto di reato anche se è un elemento sottinteso). I reati di pericolo astratto sono una gamma ristretta che comprende solo le ipotesi in cui la tutela del bene giuridico non è realizzabile se non con la tecnica del pericolo astratto; ciò accade per alcuni beni collettivi, come i beni ambientali, le cui dimensioni sono tali che solo eccezionalmente possono essere offesi da una singola condotta, infatti l'offesa è in genere il risultato del cumularsi di una pluralità di condotte dello stesso tipo (ad esempio la purezza dell'acqua marina non può essere compromessa dalle sostanze inquinanti fuoriuscite dagli impianti di una piccola impresa, ma solo dal combinarsi di questo comportamento con altri dello stesso tipo precedenti, concomitanti o successivi, quindi per la purezza delle acque marine non c'è un pericolo concreto ma pericolo astratto).
B) LE PECULIARITA' DEL FATTO NEI REATI OMISSIVI
8. L'omissione.
L'omissione consiste nel mancato compimento di un'azione che si ha l'obbligo giuridico di compiere. Nei reati omissivi, caratterizzati cioè dall'omissione delle azioni imposte da comandi di agire per proteggere i beni giuridici, a seconda che il legislatore richieda o non richieda oltre all'omissione anche la presenza di un evento, si distingue tra: i reati omissivi propri (o di mera omissione) e i reati commissivi impropri (o omissivi mediante omissione).
9. I reati omissivi propri.
I reati omissivi propri sono quelli nei quali il legislatore reprime il mancato compimento di un'azione giuridicamente doverosa, indipendentemente dal verificarsi o meno di un evento come conseguenza dell'omissione; questi reati sono configurati direttamente da singole norme incriminatrici che descrivono sia l'azione doverosa la cui omissione è penalmente rilevante, sia i presupposti in presenza dei quali sorge l'obbligo giuridico di agire (ad esempio il delitto di omissione di soccorso previsto dall'art.593 c.p., che prevede due ipotesi: nella prima l'omissione penalmente rilevante consiste nell'omettere di dare immediato avviso all'autorità e il presupposto di questa condotta omissiva e l'aver trovato abbandonato o smarrito un fanciullo minore di anni 10 un'altra persona incapace di provvedere a se stessa; nella seconda ipotesi l'omissione penalmente rilevante consiste nell'omettere di prestare l'assistenza o di dare immediato avviso all'autorità e il presupposto di questa condotta omissiva è il trovare un corpo umano che sia o sembri inanimato o una persona ferita o in pericolo). L'obbligo giuridico di agire presuppone il potere materiale di compiere l'azione doverosa (ad esempio se a ritrovare abbandonato o smarrito un fanciullo minore di anni 10 è il portatore di un grave handicap fisico, solo e sprovvisto di mezzi per comunicare a distanza, il mancato avviso all'autorità non integrerà un'omissione penalmente rilevante).
Anche nei reati omissivi propri è presente l'offesa al bene tutelato, come elemento sottinteso del fatto (ad esempio nell'omissione di soccorso di una persona ferita l'offesa consiste nel mantenimento di una preesistente situazione di pericolo per la vita o l'integrità fisica che si aveva l'obbligo di rimuovere compiendo le azioni doverose imposto dalla legge; il reato non si configura ad esempio quando Tizio non presta l'assistenza o non dà immediato avviso all'autorità ma vi provvede contestualmente un'altra persona presente nel luogo in cui si trova la persona in pericolo, in questo caso infatti l'omissione di Tizio risulta inoffensiva).
10. I reati omissivi impropri.
Nozione.
I reati omissivi impropri (o reati commissivi mediante omissione sono quei reati in cui la legge incrimina il mancato compimento di un'azione giuridicamente doverosa imposta per impedire il verificarsi di un evento: in questi casi l'evento è un elemento costitutivo del fatto. Il dovere giuridico di agire ha un'estensione più ampia di quella che caratterizza i reati omissivi propri perché include nel suo oggetto anche l'impedimento dell'evento (ad esempio nel caso di un bambino che corre il pericolo di affogare in una piscina sotto gli occhi del bagnino e di un amico dal bagnino, anche lui esperto nuotatore, se entrambi rimangono inerti e il bambino muore, il bagnino che ha il dovere giuridico di proteggere la vita dei bagnanti, realizzerà un fatto di omicidio, quindi un reato omissivo improprio, mentre l'amico risponderà di omissione di soccorso e quindi di un reato omissivi proprio). L'obbligo di impedire l'evento presuppone il relativo potere materiale (se ad esempio il padre non sa nuotare, non risponderà del mancato impedimento della morte del figlio per aver assistito impotente al suo annegamento senza buttarsi in acqua per salvarlo).
I reati omissivi impropri sono il risultato del combinarsi di una disposizione di parte generale (cioè l'art.40, 2 comma c .p.) e di norme incriminatrice di parte speciale che vietano la causazione dell'evento: infatti l'art.40, 2 al comma dice che "non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo", se questa disposizione si combina ad esempio con l'art.575 c.p. che vieta di cagionare la morte di un uomo, ne risulta una norma incriminatrice che dice "chiunque non impedisce la morte di un uomo, avendo l'obbligo giuridico di impedirla, è punito".
Il giudice deve attenersi a due criteri vincolanti per stabilire se e quando l'omesso impedimento di un evento sia penalmente rilevante:
-non basta la mera possibilità materiale di impedire l'evento, nè un obbligo di attivarsi che abbia la sua fonte in norme di natura etico-sociale, ma rileva solo il mancato compimento di un'azione impeditiva dell'evento imposta da una norma giuridica;
-è il contenuto delle singole norme giuridiche che decidere quali siano i presupposti in presenza dei quali sorge l'obbligo di impedire l'evento e quali siano gli eventi il cui verificarsi deve essere impedito.
Le fonti dell'obbligo di impedire l'evento.
L'art.40, 2 comma c.p. impone il rispetto del primo criterio quindi subordina la rilevanza penale dell'omesso impedimento di un evento alla presenza di un "obbligo giuridico" di impedirlo, si tratta di un obbligo che fa del suo destinatario il garante dell'integrità dei beni giuridici, impegnandolo a neutralizzare i pericoli causati da comportamenti di terzi o da forze della natura. Attraverso la formula "obbligo giuridico di impedire l'evento" l'art.40, 2 comma rinvia a norme giuridiche extra penali ovunque ubicate, cioè a norme contenute in leggi in senso formale o in senso materiale, in atti generali e astratti del potere esecutivo (cioè regolamenti, decreti ministeriali, ecc.), atti normativi emanati da organi degli enti locali (regioni, province, comuni) o fonti del diritto privato (come un contratto o un atto unilaterale con cui si assume l'obbligo di impedire una classe di eventi).
Obblighi di protezione e obblighi di controllo.
Dalle norme giuridiche che fondano l'obbligo di impedire un dato evento è possibile trarre il contenuto e i presupposti degli obblighi giuridici; si può distinguere tra gli obblighi di protezione e gli obblighi di controllo.
Si parla di obblighi di protezione quando l'obbligo giuridico riguarda la tutela di uno o più beni che fanno capo a singoli soggetti (ad esempio un bambino, un anziano) o a una determinata classe di soggetti (ad esempio coloro che fanno il bagno in uno stabilimento balneare) nei confronti di una gamma più o meno ampia di pericoli. Questi obblighi possono derivare da varie fonti, ad esempio nell'ambito dei rapporti di famiglia è la legge, l'art.147 c.c, che impegna i genitori a garantire la vita e l'integrità fisica dei figli minori (ad esempio il padre o la madre che non alimentano il figlio neonato risponderanno di omicidio doloso o colposo, a seconda dei casi, quando la mancata alimentazione ha provocato un processo di denutrizione che ha portato il neonato alla morte); gli obblighi di protezione possono derivare anche dal contratto (ad esempio il dovere di proteggere la vita dei bagnanti che viene assunto dal bagnino attraverso un contratto stipulato con il concessionario di uno stabilimento balneare o con il proprietario di una piscina: se il bagnino, conversando con un ospite dello stabilimento, non si accorge che un bagnante sta per affogare e quindi non interviene per metterlo in salvo, integrerà un fatto di omicidio colposo mediante omissione), l'obbligo di protezione che deriva dal contratto può riguardare anche persone diverse dai contraenti (ad esempio il titolare della piscina o dello stabilimento balneare e i parenti del malato); l'obbligo di impedire l'evento che deriv dal contratto sorge dal momento in cui l'obbligato assume effettivamente e materialmente l'incarico, cioè è necessario che l'obbligato venga a contatto con la specifica situazione pericolosa che deve neutralizzare (ad esempio il bagnino ha l'obbligo di protezione solo dopo che si è recato sul posto di lavoro e ha assunto le funzioni previste dal contratto).
Gli obblighi di controllo sono quelli che hanno per oggetto la neutralizzazione dei pericoli derivanti da una determinata fonte, in funzione di tutela di chiunque possa essere messo a repentaglio da quella fonte di pericolo; può trattarsi sia di pericoli creati da forze della natura (ad esempio l'obbligo di neutralizzare l pericoli per l'incolumità pubblica che derivano dalle inondazioni e che incombe sugli organi in cui si articola il servizio dela protezione civile; quindi se ad esempio il prefetto non adotta le misure necessarie per mettere in salvo le persone minacciate dall'inondazione, come l'evacuazione delle zone esposte al pericolo o il divieto di mettersi in viaggio verso quelle zone, risponderà del delitto di inondazione colposa e di omicidio colposo plurimo, per non aver compiuto i comportamenti doverosi che avrebbero evitato il pericolo per la pubblica incolumità) e sia di pericoli connessi allo svolgimento di attività umane (ad esempio i pericoli per l'incolumità pubblica che sono connessi al trasporto su strade ferrate e che incombe sul ministro dei trasporti, sul direttore generale delle ferrovie dello Stato, su dirigenti dei vari servizi in cui si articola l'organizzazione delle ferrovie, sul personale esecutivo e, infine, sull'addetto ai passaggi a livello. Gli organi di vertice hanno l'obbligo di emanare le norme sull'organizzazione del servizio, come quelle sulla segnalazione lungo le linee e nelle stazioni della velocità massima dei treni, mentre al personale si richiede di azionare i dispositivi necessari per impedire eventuali collisioni, come i segnali luminosi o acustici lungo le linee o le barriere ai passaggi a livello; di conseguenza se un treno deraglia mentre procede a velocità eccessiva, mettendo in pericolo la vita dei passeggeri, del personale e degli automobilisti che percorrevano una strada che fiancheggia la ferrovia, perché non erano state emanate norme per imporre una velocità più contenuta in quel tratto e non erano stati predisposti meccanismi automatici di rallentamento di treni, oppure risulta che il personale non ha azionato i segnali di rallentamento, risponderanno del disastro ferroviario colposo nel primo caso gli organi di vertice delle ferrovie e nel secondo caso il personale).
L'individuazione dei garanti nelle società commerciali.
L'individuazione dei garanti delle imprese strutturate in forma societaria è problematica; è possibile distinguere due doveri di garanzia:
-i doveri relativi all'amministrazione dell'impresa finalizzati alla protezione del patrimonio sociale, cioè gli obblighi di protezione, da cui deriva l'obbligo di impedire la commissione di reati fallimentari da parte dei direttori generali, dei dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, dell'institore. Titolari di questi obblighi sono i membri del consiglio di amministrazione della società, i membri del comitato esecutivo o l'amministratore o gli amministratori delegati, ai quali il consiglio di amministrazione può delegare parte delle proprie attribuzioni: l'eventuale responsabilità di questi soggetti sarà una responsabilità per dolo, cioè permane il dovere di impedire i reati fallimentari o societari quando i membri del consiglio di amministrazione siano venuti a conoscenza del pericolo della loro realizzazione;
-i doveri relativi alla gestione tecnica, operativa e commerciale dell'impresa sociale finalizzati al controllo delle fonti di pericolo immanenti all'esercizio dell'attività di impresa, cioè gli obblighi di controllo, che incombono sulle persone fisiche che occupano il vertice dell'organizzazione, cioè il titolare dell'impresa individuale e i consiglieri d'amministrazione delle società di capitali, a cui la legge affida il compito di organizzare la struttura e l'attività dell'impresa per salvaguardare gli interessi dei singoli e della collettività che possono essere messi in pericolo dall'attività di impresa; destinatari degli obblighi di garanzia sono anche altri soggetti che operano all'interno dell'impresa, si tratta di stabilire: 1) se una delega di funzioni possa comportare un totale trasferimento degli obblighi di garanzia dai vertici dell'impresa ai soggetti indagati; 2) quali siano la fonte e le condizioni di validità degli obblighi di garanzia in capo ai soggetti delegati.
In primo luogo possono essere trasferiti per delega obblighi di controllo su una più o meno ampia gamma di fonti di pericolo, però rimane in capo ai vertici dell'impresa un dovere di vigilanza sul rispetto da parte dei delegati dei compiti ad essi attribuiti, perciò bisogna creare adeguati sistemi di informazione e di monitoraggio sull'attività dell'impresa; in concorso con gli autori, gli amministratori potranno rispondere per omesso impedimento dei diversi reati, dolosi o colposi, commessi da terzi nell'ambito o nell'esercizio dell'attività di impresa (ad esempio omicidi colposi, lesioni colpose, reati ambientali, ecc.). In secondo luogo la fonte di un obbligo di garanzia in capo al soggetto delegato è un atto dell'autonomia privata che delinea l'organizzazione interna dell'impresa.
Per la validità della delega è necessario che la delega sia precisa, che il delegato abbia accettato l'incarico, che gli siano stati trasferiti poteri relativi all'assolvimento dei compiti delegati, compresi i mezzi economici che sono necessari, che il delegante non si ingerisca nello svolgimento dei compiti che vengono attribuite al delegato; se queste condizioni sono rispettate sorge in capo al delegato una posizione di garanzia concorrente con quella dei vertici dell'impresa i quali, risponderanno per non aver adempiuto agli obblighi di organizzazione e di sorveglianza necessari a impedire eventi penalmente rilevanti, invece i soggetti delegati risponderanno per l'omesso impedimento degli eventi che derivano dal mancato adempimento dei compiti a loro attribuiti.
Il nesso fra omissione ed evento.
Dato che l'evento nei reati omissivi impropri è un elemento costitutivo del fatto, il nesso tra omissione ed evento consiste nel suo mancato impedimento. Mentre nei reati commissivi il rapporto di causalità è una relazione reale tra gli accadimenti, cioè si configura quando l'azione è un'antecedente storico che non può essere eliminato mentalmente senza che l'evento venga meno, nei reati omissivi il rapporto di causalità fra omissione ed evento è "ipotetico", cioè si configura quando l'azione doverosa che è stata omessa, se fosse stata compiuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento, cioè aggiungendola mentalmente l'evento non si sarebbe verificato. È necessaria una duplice indagine per accertare il rapporto di causalità tra omissione ed evento: in primo luogo è necessario accertare l'effettivo rapporto di causalità tra un dato antecedente (un'azione umana o un fatto naturale) e un dato evento concreto (ad esempio la morte di un bambino per soffocamento che è stata causata dall'ingestione di un piccolo giocattolo); in secondo luogo bisogna chiedersi se aggiungendo mentalmente l'azione doverosa che è stata omessa sarebbero seguite delle modificazioni della realtà che avrebbero bloccato il processo causale sfociato nell'evento (cioè si tratta di accertare se ad esempio il tempestivo intervento del medico, chiamato dalla madre, avrebbe salvato la vita del bambino o se invece egli sarebbe morto comunque perché la morte è intervenuta pochi minuti dopo che la madre si è accorta dell'ingestione del giocattolo).
Quando l'evento è il risultato di un processo causale innescato da fattori meccanici naturali (ad esempio l'ingestione del giocattolo da parte del bambino) per stabilire se l'azione doverosa che è è stata omessa avrebbe o meno impedito l'evento, si dovrà ricorrere a leggi scientifiche da cui risulti che una data azione (ad esempio chiamare il medico), nel contesto delle circostanze del caso concreto, avrebbe certamente (si tratta in questo caso di una legge universale) o con un alto grado di probabilità ai limiti della certezza (si tratta in questo caso di una legge statistica) interrotto il processo causale e quindi impedito il verificarsi dell'evento.
Se invece l'impedimento dell'evento dipende dalla condotta di terze persone l'accertamento del nesso tra omissione e evento non potrà basarsi su inesistenti leggi scientifiche, ma sarà necessario accertare la probabilità che si verifichino quella serie di condotte, l'una dopo l'altra, dal cui susseguirsi dipende che non si verifichi l'evento da impedire (ad esempio il salvataggio del bambino dipende da un susseguirsi di determinati comportamenti umani: l'arrivo dell'ambulanza in breve tempo, la presenza e l'intervento al pronto soccorso di un abile medico).
C) ULTERIORI CLASSIFICAZIONI DEI REATI SECONDO LA STRUTTURA DEL FATTO
11. Classi di reati già esaminate e classi ancora da esaminare.
Secondo la struttura del fatto i reati possono raggrupparsi in varie categoria, oltre alla distinzione tra reati commissivi e reati omissivi, tra reati a forma libera e reati a forma vincolata, tra reati di danno ai reati di pericolo, tra reati comuni e reati propri, c'è la distinzione tra: reati di mera condotta e reati di evento, reati istantanei e reati permanenti, reati abituali, reati necessariamente plurisoggettivi.
12. Reati di mera condotta e reati di evento.
I reati di mera condotta sono dei reati in cui il fatto si esaurisce nel compimento di una o più azioni (si tratta dei reati di mera azione) o nel mancato compimento di un'azione doverosa (si tratta dei reati di mera omissione o reati omissivi propri), in questicasi è irrilevante che all'azione o all'omissione descritta dalla norma incriminatrice consegua il verificarsi di uno o più eventi, cioè le eventuali conseguenza dell'azione o dell'omissione non sono elementi costitutivi del fatto (ad esempio nel delitto di omissione di soccorso di un minore di anni 10 che è un reato di mera omissione, il fatto consiste nell'omesso avviso all'autorità da parte di chi ha trovato un fanciullo minore di anni 10 abbandonato o smarrito, senza che sia necessario il verificarsi di una lesione personale o della morte del fanciullo).
I reati di evento sono invece quei reati in cui il fatto consta non solo di un'azione o di un'omissione, ma anche di uno o più eventi, conseguenza dell'azione (si tratta dei reati commissivi di evento) o dell'omissione (si tratta dei reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione), ad esempio la morte dell'uomo causata o non impedita da chi aveva l'obbligo giuridico di impedirla, è un elemento costitutivo dei delitti di omicidio.
Ai fini dell'applicabilità della legge penale italiana, nei reati di mera azione o di mera omissione la legge italiana è applicabile se la condotta è stata realizzata almeno in parte nel territorio dello Stato, mentre ne reati di evento la legge italiana è applicabile anche se la condotta è stata realizzata in territorio straniero ma l'evento si è realizzato nel territorio dello Stato.
13. Reati istantanei e reati permanenti.
Un reato si dice consumato quando nel caso concreto si sono verificati tutti gli estremi del fatto descritto nella norma incriminatrice; finché il reato non è giunto a consumazione, potranno eventualmente ricorrere gli estremi di un tentativo.
I reati istantanei sono i reati nei quali,una volta che si è verificata la consumazione del reato, è irrilevante che la situazione antigiuridica creata dall'agente si protrarrà nel tempo (ad esempio il fatto costitutivo del delitto di furto si esaurisce nel momento in cui ci si impossessa della cosa mobile altrui, sottratta al detentore, ed è irrilevante che l'agente conservi e custodisca la cosa per un tempo più o meno lungo, o magari la restituisca al detentore).
I reati permanenti sono i reati nei quali il protrarsi nel tempo della situazione antigiuridica creata dalla condotta è rilevante, nel senso che il reato è perfetto nel momento in cui si realizza la condotta ed eventualmente si verifica l'evento, ma il reato non si esaurisce finché perdura la situazione antigiuridica. Quindi mentre nei reati istantanei tutto ciò che segue al momento consumativo del reato è irrilevante per la sua esistenza, nei reati permanenti la consumazione può perdurare nel tempo e gli atti compiuti dal soggetto per conservare la situazione antigiuridica appartengono ancora alla fase continuativa del reato (un'esempio di reato permanente è il sequestro di persona, previsto dall'art.605 c.p., in cui il reato è consumato e quindi già punibile, quando una persona viene privata della libertà di movimento anche per un breve periodo di tempo, ma la fase consumativa del reato perdura per tutto il tempo in cui l'agente volontariamente mantiene la vittima in uno stato di privazione di libertà).
Per quanto riguarda il reato permanente la legge del tempo del commesso reato è sia quella vigente all'inizio e sia quella entrata in vigore nel corso della fase consumativa (se ad esempio durante un sequestro di persona il legislatore inasprisce il trattamento sanzionatorio di questo reato, all'agente sarà applicabile la nuova legge più severa); ai fini dell'applicabilità della legge penale italiana, il reato permanente si considera commesso nel territorio dello Stato anche quando la fase consumativa è iniziata all'estero ed è proseguita nel territorio dello Stato (ad esempio una persona viene sequestrata in Francia e poi dopo viene trasferita e mantenuta in prigionia in Italia).
14. Reati abituali.
Il reato abituale è un reato il cui fatto esige la ripetizione, anche ad apprezzabile distanza di tempo, di una serie di azione od omissioni, con la conseguenza che un singolo atto del tipo descritto nella norma incriminatrice non integra la figura legale del reato in questione (ad esempio il delitto di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli previsto dall'art.572 c.p., si perfeziona solo con il compimento di una pluralità di atti che devono avere carattere usuale e ripetitivo, perché solo così prende forma l'offesa al bene della dignità della vittima). La legge del tempo del commesso reato è la legge in vigore nel momento in cui è stato commesso anche l'ultimo degli atti che integrano il fatto costitutivo del reato abituale (ad esempio se i maltrattamenti sono proseguiti dopo l'entrata in vigore della legge più severa, l'autore verrà punito in base alla nuova legge). Ai fini dell'applicabilità della legge penale italiana, il reato abituale si considera commesso nel territorio dello Stato anche quando uno solo degli atti la cui reiterazione integra il reato è stato compiuto nel territorio dello Stato (ad esempio una percossa commessa in Italia è sufficiente per consentire l'applicazione della legge italiana a un delitto di maltrattamenti che, per il resto, viene eseguito all'estero).
15. Reati necessariamente plurisoggettivi.
I reati necessariamente plurisoggettivi sono quel reati in cui il fatto richiede come elemento costitutivo il compimento di una pluralità di condotte da parte di una pluralità di persone. Questa norma incriminatrice assoggetta a pena tutti i soggetti che intervengono nel reato, si parla in questo caso di reati necessariamente plurisoggettivi in senso stretto, o di reati necessariamente plurisoggettivi propri (ad esempio la bigamia); se invece la norma richiede una pluralità di condotte da parte di una pluralità di persone ma, per le ragioni più disparate, assoggetta a pena soltanto alcune delle condotte che costituiscono il fatto di reato, si parla di reati necessariamente plurisoggettivi in senso ampio, o di reati necessariamente plurisoggettivi propri (ad esempio la ragione della non punibilità di qualcuno dei concorrenti necessari risiede nel fatto che egli è il soggetto passivo del reato, come nell'estorsione in cui si richiede che un soggetto usi violenza o minaccia e che un'altra persona faccia o ometta qualcosa procurando così un ingiusto profitto all'autore della violenza o della minaccia o a un terzo, cagionando un danno a se stesso o ad altri; l'art.129 c.p. assoggetta a pena solo l'autore della violenza o della minaccia, mentre lascia impunita la vittima. L'impunità può derivare anche dalla scarsa rilevanza di una delle condotte richieste dalla norma incriminatrice, come nel boicottaggio, previsto dall'art.507 c.p., in cui è punito chi induce una o più persone mediante propaganda a non acquistare i prodotti di una determinata azienda per costringere la pubblica autorità ad adottare un determinato provvedimento, quindi la legge punisce chi opera la pressione sul potenziale acquirente mentre lascia impunito il mancato acquisto dei prodotti oggetto di boicottaggio. L'impunità può derivare anche da scelte politico-criminali del legislatore, come nel delitto di bancarotta preferenziale in cui la legge punisce l'imprenditore che, prima o durante la procedura fallimentare, per favorire uno dei creditori, esegue pagamenti a suo favore, mentre lascia impunito chi riceve il pagamento).
Fonte: http://www.neverstop.tv/appunti/DIRITTO_PENALE_MARINUCCI.doc
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