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La ψ collettiva si occupa dei fenomeni psicologici relativi ai grandi gruppi. Folla è un insieme numericamente importante di individui presenti, in un determinato momento , nello stesso luogo; massa invece è la maggioranza della popolazione considerata come insieme omogeneo, prescindibile dalle sue differenze interne (pur presenti). Il fattore cruciale della ψ collettiva non è tanto la co-presenza, ma la sensazione di condividere una stessa appartenenza, momentanea o duratura. Vi sono connessioni profonde tra massa e folla, modalità in cui le masse si sono espresse (la folla sembra essere la concretizzazione della presenza delle masse sulla scena della storia, Gemerek).
Lo studio dei comportamenti collettivi nasce alla fine del XIX° secolo con la pubblicazione dei volumi di Scipio Sighèle (La folla delinquente, 1891) e di Gustave Le Bon (1895), tra i quali vi fu una questione di supposta pirateria culturale. L’interesse per la ψ collettiva delle folle nasce dai fermenti socioculturali dell’epoca quali l’industrializzazione, l’inurbamento, le condizioni di miseria di gran parte della popolazione, il verificarsi di rivolte popolari; insieme lavorarono le ricerche della psichiatria su ipnosi, suggestione e dissociazione della personalità (Charcot e poi Freud). Le Bon formula la legge dell’unità mentale delle folle, per cui un individuo nella folla subisce una radicale trasformazione, perde l’autocontrollo e lascia affiorare aspetti primitivi e irrazionali per cui compie atti che altrimenti con compirebbe. Nell’aggregato di una folla non vi è affatto somma o media degli elementi, ma una combinazione e creazione di elementi nuovi che non hanno nulla a che fare con le qualità preesistenti degli individui. Per Le Bon la folla ha un’anima collettiva che gli individui acquisiscono per il solo fatto di appartenervi; nella folla le persone diventano tutte uguali attraverso un contagio reciproco per cui vi è annullamento della personalità cosciente ed emergere dell’inconscio. Accanto al contagio agisce la suggestione che fa accettare acriticamente agli individui degli imperativi a loro indirizzati, come in uno stato di ipnosi. Le folle sono intellettualmente inferiori rispetto agli individui che le compongono, ma possono essere sentimentalmente migliori (ma anche peggiori); garantiscono l’impunità e comportano la perdita di inibizione e lo sviluppo di comportamenti distruttivi, inoltre la folla non è influenzabile da ragionamenti: l’apparenza ha sempre avuto un ruolo più importante della realtà. La visione di Le Bon è conservatrice, antimodernista ed ha riscosso successo tenendo conto di una distorsione di tipo politico (pregiudizio verso le folle) e una di tipo interpretativo (atti delle folle visti dall’esterno, senza analizzarne le ragioni).
Gabriel Tarde, magistrato, respinge la definizione di folla di Le Bon (che arrivava a definire tali anche le giurie popolari), è convinto che nella folla si conservano le differenze individuali, la comunione di idee e passioni lascia libero gioco alle differenze personali. Non esiste il contagio, la solo l’imitazione, un’influenza che si realizza in uno scambio reciproco e continuo.
Freud rispolvera negli anni ’20 le idee di Le Bon utilizzandone la nozione di ψ collettiva: sostiene che nella folla diminuiscono la razionalità e il senso di responsabilità e compaiono un sentimento di potenza e una omogeneizzazione di comportamenti. In disaccordo con Le Bon dice che nella situazione collettiva non vi sono pulsioni diverse da quelle preesistenti nell’individuo, inoltre l’aggregazione si fonda su legami affettivi tra gli individui e sul rapporto tra questi e il capo (come modello dell’Io).
Deindividuazione. Zimbardo (69) parla di anonimato, responsabilità diffusa e ampiezza del gruppo come costrutti teorici che producono deindividuazione, sfociante poi in comportamento regressivo, irrazionale, impulsivo; secondo Diener pone però un accento eccessivo sulle conseguenze negative dell’appartenenza di gruppo. Le circostanze che producono deindividuazione possono portare anche a comportamenti prosociali (esperimenti di Johnson e Downing secondo la metodica di Zimbardo di scosse elettriche in finti compiti di apprendimento con soggetti resi anonimi, ma connotati normativamente come aderenti al KKK o infermieri). Per Diener nella folla non c’è perdita di autoconsapevolezza, il comportamento è meno regolato internamente da valori e abitudini, è più contestualizzato (le persone sono meno attente alle norme personali e più ai segnali contestuali. Essere nella folla produce perdita di identità e di conseguenza perdita di autocontrollo, ma porta ad acquisire una nuova identità (sociale) in quanto membri di un gruppo.
La ψ sociale cerca di rinvenire nell’individuo studiato isolatamente le influenze delle sua appartenenze sociali e ricerca l’aspetto soggettivo di quanto accade nella realtà oggettiva (aggiunge un supplemento d’anima ai fenomeni sociali). L’approccio può essere individualistico, per cui la gente si comporta in gruppo come farebbe in diade o da sola, con processi non sostanzialmente diversi; oppure collettivistico, per cui il comportamento è influenzato da processi sociali peculiari e da rappresentazioni cognitive che emergono solo in gruppo.
Per Tajfel vi è un pregiudizio epistemologico per cui l’individuo è un essere razionale, con capacità di indagine, comprensione, ricerca di adattamento, mentre nella vita collettiva si adotta un modello prerazionale guidato da istinti radicati nel patrimonio filogenetico (uomo – massa, anonimo, suggestionabile, privo di volontà). In realtà l’intero agire umano è predisposto geneticamente al rapporto con gli altri, il processo sociale è il prodotto unico e originale dell’interdipendenza funzionale di individui e gruppi.
Lo studio dei gruppi si basa sia su ricerche sperimentali, di limitata validità ecologica, su gruppi di laboratorio senza passato né futuro, che su studi di campo, centrati su gruppi reali, con propri ruoli, status, regole, valori, scopi, storia, rappresentazioni condivise. Sono importanti le inchieste (preliminari alla sperimentazione vera e propria), gli studi osservazionali, i quasi – esperimenti (sperimentazioni in contesti reali).
Definizioni di gruppo. McGrath (84) prima di definire i gruppi definisce le aggregazioni sociali (non sempre coincidenti):
- A. artificiali: classificazione in base a caratteristiche comuni (sesso, età, reddito), senza bisogno di relazione come nei gruppi statistici.
- A. non organizzate (aggregati): insiemi di individui presenti nello stesso luogo nello stesso momento senza altri legami.
- Unità sociali con modelli di relazione: insiemi di individui che condividono un set di valori, costumi, abitudini come le culture o le subculture.
- Unità sociali strutturate: con un forte carattere di interdipendenza e di relazioni strutturate (società, famiglia, comunità).
- Unità sociali intenzionalmente progettate: come organizzazioni o gruppi di lavoro (scopi comuni, ruoli differenziati).
- Unità sociali meno intenzionalmente progettate: come associazioni volontarie o gruppi di amici.
Queste aggregazioni non sono mutuamente esclusive, ognuno partecipa a più di una di esse e differiscono su due ampie dimensioni: le relazioni tra i membri (grado e intenzionalità di sviluppo) e grandezza dell’aggregato per cui i gruppi sarebbero aggregazioni con reciproca consapevolezza e interazione di dimensioni relativamente piccole e organizzazione strutturata.
Gruppi estesi: grandi collettività organizzate, quali ordini religiosi o professionali, movimenti politici.
Gruppi ristretti: numero limitato di membri che si conoscono e si influenzano reciprocamente (di solito, ma non sempre in maniera continuativa) come classi scolastiche, famiglie, gruppi amicali.
Gruppi faccia a faccia: gruppi ristretti in cui tutti sono in interazione diretta e frequente, con diversi livelli di strutturazione e ufficialità (lavoro).
Gruppi primari: insiemi di persone che interagiscono direttamente, legate da vincoli affettivi, con forte senso di appartenenza e lealtà al gruppo.
Gruppi secondari: insiemi di persone che hanno scopi da raggiungere e ruoli differenziati in funzione di questi, relazioni formali impersonali basate su fini pratici (organizzazioni sociali o lavorative). Riguardo alla distinzione per contenuti è più corretto parlare di primarietà o secondarietà del modo di essere del gruppo, che possono alternarsi nella vita di un medesimo gruppo.
Gruppi formali: si formano sotto un’egida istituzionale che ne detta degli obiettivi ben definiti nel quadro di attività specifiche (associazioni sportive, culturali, politiche).
Gruppi informali: aggregazioni spontanee naturali senza scopi specifici, ma con intense relazioni tra i membri (gruppo di pari adolescenziale).
Gruppi naturali: contrapposti a gruppi sperimentali, esistono indipendentemente dai propositi e dall’attività della ricerca.
Gruppi inventati: sono gruppi creati esclusivamente per essere usati come mezzi in situazioni sperimentali.
Quasi-gruppi: sono creati per scopi di ricerca, ma non possono comunicare all’interno quindi non interagiscono direttamente.
Gruppi di riferimento: quelli in cui l’individuo si identifica (anche se non vi appartiene davvero) o cui aspira di appartenere, sono fonti di atteggiamenti e portatori di valori; seguono l’evoluzione del sistema del sé individuale nelle sua componente identificativa.
- Lewin (48) il gruppo è una totalità dinamica le cui proprietà strutturali sono diverse dalle proprietà delle sue sottoparti. E’ una concezione gestaltica diversa da quella sommativa e da quella ispirata alla mente di gruppo e si adatta a piccoli e grandi gruppi. La totalità dinamica è caratterizzata dalla stretta interdipendenza delle sue parti, le sue proprietà sono i rapporti tra le parti e non le parti o gli elementi stessi. L’interdipendenza può essere di destino (elemento macroscopico di unificazione che trasforma in gruppo qualsiasi aggregato casuale di individui accomunati da circostanze ambientali, Es. sindrome di Stoccolma) oppure di compito (il legame è determinato dallo scopo in modo tale che le azioni individuali siano interdipendenti sia positivamente nella collaborazione che negativamente nella competizione).
- Sherif (67) ha una concezione architetturale di gruppo considerandolo come una struttura i cui membri sono legati da rapporti di status e ruoli da cui nascono norme e valori comuni. Condizione essenziale per la formazione di un gruppo è l’interazione nel corso del tempo di individui con motivazioni, interessi, problemi comuni. Le attività dei vari membri si differenziano e si specializzano restando coordinate generando ruoli con status e potere diverso, nonché da diverso livello di efficacia delle proprie iniziative. Proprietà minime di gruppo sono quindi: la struttura e la organizzazione dei ruoli differenziata per funzioni e potere, la regolazione del comportamento in base a norme e valori condivisi. Il gruppo di Sherif non è un sistema chiuso, anche se è piccolo ed ha anche struttura longitudinale nel tempo che lo differenzia da semplici unioni.
- Tajfel (81) dà una definizione sociopsicologica del gruppo basandosi su un processo di autocategorizzazione invece che su elementi estrinseci: ciò che costituisce un gruppo (o una nazione) è che l’individuo si senta parte di esso su tre livelli – cognitivo (conoscenza di appartenere a un gruppo) – valutativo (connotazione + o – del gruppo) – emozionale (affettività del rapporto di appartenenza legata a sentimenti ed emozioni). Il paradigma dei gruppi minimali mostra che è sufficiente imporre una categorizzazione sociale qualsiasi, anche ininfluente, per portare a comportamenti discriminatori e a differenziazioni valutative nei confronti del supposto outgroup. La definizione di autocategorizzazione non è solo soggettiva, ma deve essere resa sociale con l’osservabilità esterna del consenso a proposito dell’appartenenza di gruppo.
Entitatività (Campbell) è un concetto che si riferisce al grado con cui un aggregato sociale è percepito dagli osservatori come avente la natura di un’entità dotata di esistenza reale: i principi gestaltici di somiglianza, prossimità, destino comune e organizzazione fanno percepire un aggregato come un’entità.
La vita sociale è caratterizzata dalla realtà del cambiamento con gli elementi di discontinuità e di imprevedibilità che porta con sé ogni situazione nuova; per sopravvivere la società deve mantenere coesione interna e continuità temporale dei gruppi a fronte del mutamento degli individui e dell’ambiente esterno. L’entrata in un gruppo è un’esperienza che costella l’intera esistenza umana, di solito avviene tramite dei riti di passaggio, meccanismi cerimoniali che guidano, controllano e regolamentano i cambiamenti di ogni tipo degli individui senza scosse violente per la società né bruschi arresti nella vita individuale. Entrare in un gruppo può essere un’esperienza facile o meno, secondo il tipo di gruppo cui si accede, le caratteristiche dell’individuo e quelle del contesto sociale che determinano quanto questo passaggio sia obbligatorio o volontario, evitabile o no.
Mircea Eliade conferisce all’iniziazione valori di entrata nella comunità umana e in quella dei valori spirituali. Nelle società tradizionali vedeva una simbologia ricorrente di morte e di nuova vita tripartita in:
Le società moderne hanno dimenticato l’importanza collettiva dei riti di iniziazione, ne conservano la memoria le religioni con l’iniziazione polifasica del cristianesimo (battesimo, confermazione, eucaristia) e l’Islam con la circoncisione come rito misto sociale.
Molti rituali riaffermano relazioni sociali tipiche del gruppo di provenienza, radicano l’individuo nel suo ambiente fisico e sociale dandogli identità personale e senso di appartenenza collettiva. Sono vere e proprie transizioni sociali come pubertà, matrimonio, riproduzione, entrata e uscita dal lavoro, lutto. I rituali hanno una funzione simbolica: per l’individuo in termini di identità (cambiamento di identità sociale, nuova appartenenza), di lealtà e di apprendistato (l’individuo deve essere socializzato per quel gruppo e dimostrarvisi fedele); per il gruppo col rafforzamento dei confini seguente all’accettazione da parte del nuovo membro del sistema di valori condivisi.
Nel rito collettivo è simbolicamente agito il costo delle entrate nei gruppi, per l’individuo e per il gruppo che deve essere garantito della lealtà del nuovo membro, potenziale elemento d’instabilità.
Persistono iniziazioni negative, con fenomeni d’esitamento e fuga anche nelle moderne società pluraliste. Si è cercato di indagarne meccanismi e finalità con l’esperimento di Aronson e Mills (59) sull’effetto dell’iniziazione severa sulla preferenza per un gruppo. Ipotesi di partenza (fondata sulla teoria della dissonanza cognitiva di Festinger) era che persone iniziate negativamente a un gruppo poi esperito come poco attraente potevano ridurre la dissonanza con due meccanismi: autoconvincimento che l’iniziazione non è stata troppo spiacevole o percezione di maggior attrattiva verso il gruppo. Campione 63 universitarie invitate a un gruppo già formato di discussione sulla psicologia del sesso in sostituzione di una persona ritiratasi. Il gruppo richiede di parlare di sesso in piena libertà, ma non in contatto visivo, però viene richiesta un’iniziazione così differenziata: severa (lettura ad alta voce di parole oscene e descrizioni di attività sessuali), moderata (lettura di parole non oscene collegate al sesso), nulla (nessun argomento). Dopo il test d’imbarazzo viene messa in contatto fittizio la candidata con il gruppo che parla di sessualità animale in maniera banale e soporifera e le viene chiesto di valutare su scale bipolari sia la discussione che i partecipanti: le iniziate severe li valutavano in modo molto più favorevole. Iniziazioni severe hanno la funzione di suscitare nel neofita un impegno maggiore verso il gruppo, rendendolo disponibile ad accettare le pratiche di socializzazione e ad accettarne regole e dinamiche, e di scoraggiare i meno motivati.
Il caso più frequente e precoce di entrata in nuovi gruppi è quella del passaggio ad ordini di scolarità diversi: il bambino deve cambiare gruppo, regole, relazioni sociali, viene a trovarsi privo dei benefici della situazione precedente e anzi costretto a ricominciare in inferiorità. La primissima esperienza di socializzazione secondaria che avviene nella scuola materna prevede un periodo di osservazione a distanza dei bambini tra di loro, di durata variabile individualmente, uno di gioco in parallelo, senza interazione, ed uno finale di gioco interattivo e di instaurazione di rapporti interpersonali. Il gruppo richiede una immissione cauta del nuovo venuto, un periodo probatorio in cui vi sia apprendimento sociale di regole e gerarchie che permetta un ingresso privo di attriti. Anche per la conquista della leadership (esperimento di Merei con bambino più grande immesso in un gruppo già formato) sono più efficaci tattiche attendiste rispetto a strategie di attacco diretto.
Teoria della socializzazione di Moreland e Levine (82) descrive il passaggio degli individui attraverso i gruppi con lo scopo di chiarire i cambiamenti di natura affettiva, cognitiva e comportamentale che gruppi e individui producono uno verso l’altro dal costituirsi al dissolversi del gruppo. Il modello è adatto a piccoli gruppi autonomi, volontari, con membri interdipendenti affettivamente e nel comportamento. L’appartenenza al gruppo (membership) è una serie di fasi separate tra loro da transizioni di ruolo: inizia con l’esplorazione (investigation) in cui l’individuo cerca gruppi adatti al soddisfacimento dei suoi bisogni personali (ricognizione individuale) e il gruppo cerca persone adatte al raggiungimento dei suoi scopi (reclutamento di gruppo). Se i rispettivi livelli di impegno sono coerenti ai criteri decisionali avviene l’entrata nel gruppo. La ricognizione (reconaissance) necessita di tre condizioni: la persona deve identificare i gruppi desiderabili e decidere a quali accedere in base anche alla loro reperibilità; la persona deve valutare il grado in cui l’appartenenza al gruppo potrà soddisfare i suoi bisogni (informazione sulle ricompense); la persona dovrà valutare il prezzo del biglietto d’ingresso se sia confacente alle proprie disponibilità. Il processo di ricognizione individuale è poi influenzato da altri fattori quali: la conoscenza dei componenti del gruppo, l’attrazione per le sue attività, le precedenti esperienze in altri gruppi (massimamente predittivo). Gli autori hanno rilevato tre possibili fonti di ottimismo rispetto alle future esperienze di gruppo: conseguenza degli sforzi del gruppo (che cerca di proporsi evidenziando i suoi aspetti positivi) per reclutare nuovi membri; conseguenza degli sforzi per fronteggiare la dissonanza rispetto al gruppo desiderato ricordando solo aspetti positivi; conseguenza del bisogno di sottolineare i propri aspetti positivi.
Il processo di reclutamento del gruppo è un elemento determinante lo staffing level, ovvero la differenza tra quanti membri appartengono attualmente al gruppo e quanti ne sarebbero necessari per una prestazione ottimale: membri di gruppi sottostimati lavorano di più e sono più coinvolti e manifestano maggiore apertura ai nuovi membri; nei gruppi sovradimensionati prevalgono sentimenti di disorganizzazione e apatia con formazione di combriccole e chiusura relativa all’esterno.
Importante è lo status sociale del newcomer per facilitare la sua socializzazione ed anche il suo modo di comportarsi nel periodo probatorio, tendenzialmente con tattiche attendiste, di osservazione. Quattro tattiche di facilitazione alla socializzazione: l’accurata ricognizione, permette di individuare il gruppo perfetto per le proprie esigenze; il giocare a fare il pivellino, con conformismo e attendismo di fronte agli old-timers in modo da ottenere fiducia e informazioni; cercare referenti di fiducia nel gruppo (trainers, sponsors, tutors, modelli, mentori); collaborare con gli altri newcomers lavorando insieme per ottenere accomodamenti da parte del gruppo.
Anche nei gruppi di nuova formazione è prevista una fase iniziale di circospezione e incertezza detta di forming centrata sulla definizione dei ruoli e dei compiti.
Processi di socializzazione di gruppo. La socializzazione (Brim) è il processo per cui gli individui acquisiscono le conoscenze, le abilità e le disposizioni che li rendono in grado di partecipare come membri più o meno effettivi della società e dei gruppi (processo di apprendimento che fa di un individuo il membro di una comunità). E’ un processo interattivo in cui individuo, gruppo e ambiente si influenzano vicendevolmente tramite negoziazioni; l’individuo deve immergersi nella cultura del gruppo, condividerne la visione della realtà e i costumi comuni (espressioni comportamentali della cultura comprendenti routines, look, gergo, rituali e simboli); questo vale anche per sottomondi e per gruppi informali, viene comunque chiesta una ridefinizione della propria identità (fino a cambiare il proprio nome in ordini religiosi).
La teoria della socializzazione di Moreland e Levine (82) parte dalla considerazione che sia l’individuo che il gruppo siano agenti attivi di influenza reciproca e la loro relazione cambi nel corso del tempo in modo sistematico. Si basa su tre processi psicologici:
- La valutazione, ovvero la stima e la massimizzazione della remuneratività di individuo e gruppo, basata su quanto ognuna delle parti va incontro all’altra nel soddisfare i propri bisogni o nel perseguire i propri scopi (riferibile anche a possibili relazioni alternative con altri gruppi).
- L’impegno, dipendente dal processo stesso di valutazione: se aumenta la percezione di remuneratività gruppo e individuo sono più impegnati reciprocamente e attiva sentimenti positivi stimolando a lavorare di più e a rinsaldare i legami di gruppo.
- La transizione di ruolo, conseguente un cambio di livello del gruppo e dell’individuo vede modificare l’impegno reciproco e le aspettative di ruolo. Dopo la transizione continua la valutazione che va a produrre ulteriori cambiamenti.
L’individuo può passare attraverso cinque fasi della socializzazione di gruppo separate tra di loro da quattro transizioni di ruolo. Nell’ordine:
ESPLORAZIONE, che implica per l’individuo un processo di ricognizione sul gruppo cui vorrebbe integrarsi e per il gruppo un processo di reclutamento dei nuovi membri. Se i livelli d’impegno di entrambe le parti sono coerenti coi rispettivi criteri d’entrata si compie la transizione di ruolo dell’ENTRATA e l’individuo diventa un nuovo membro. Comincia la seconda fase di SOCIALIZZAZIONE in cui il gruppo cerca di cambiare l’individuo in modo che si adatti al meglio agli scopi di gruppo, se ciò avviene si ha l’assimilazione dell’individuo; l’individuo cerca comunque di ottenere un accomodamento del gruppo alle proprie esigenze: se entrambi i processi raggiungono livelli coerenti coi rispettivi criteri di accettazione si ha la transizione di ruolo dell’ACCETTAZIONE. Inizia la terza fase di MANTENIMENTO in cui viene negoziato il ruolo dell’individuo in modo da massimizzare i suoi contributi per raggiungere gli scopi comuni e da permettergli la soddisfazione dei propri bisogni in modo ottimale; se ciò avviene si mantiene ad alti livelli l’impegno reciproco, sennò si transita al ruolo della DIVERGENZA e il soggetto diventa un membro marginale del gruppo. Segue la fase della RISOCIALIZZAZIONE in cui sia il gruppo che l’individuo cercano di ripristinare i contributi e l’impegno precedenti ritornando ad uno stato di convergenza tramite i processi di assimilazione e accomodamento, sennò si passa alla transizione di USCITA in cui l’individuo diventa un ex membro del gruppo. Ultima è la fase del RICORDO in cui il gruppo rammenta quanto l’individuo ha fatto per il raggiungimento degli scopi (tradizione di gruppo) e l’individuo elabora ricordi su quanto il gruppo ha o meno offerto per soddisfare i suoi bisogni e per riconoscere il suo contributo.
Le fasi non sempre si susseguono nella sequenza prevista dal modello, la realtà può essere più complessa e meno delimitata in tempi e modi; bisogna poi considerare altri fattori che possono influenzare l’assimilazione dei newcomers (apertura o chiusura dei gruppi, numero dei soggetti ammessi insieme, loro somiglianza con gli old-timers, loro esperienza precedente) e l’accomodamento del gruppo (numero e coesione dei newcomers, diversità, livello d’impegno).
Lo sviluppo di gruppo. Ogni gruppo ha un suo decorso temporale, dalle trasformazioni che segnano i passaggi dalla nascita alla sua morte.
Modello di McMurrain e Gadza (74) si basa su un gruppo di otto psichiatri con incontri settimanali (audioregistrati e analizzati esternamente) per un semestre allo scopo di conseguire esperienza di counseling. Sono stati individuati quattro distinti stadi nello sviluppo del gruppo:
esplorativo, in cui i membri facevano la prima conoscenza reciproca e attuavano interazioni esitanti; di transizione, con scambi su come dovessero svolgersi gli incontri e accordo sul comportamento empatico; dell’azione, centrato sull’effettivo lavoro e sui compiti da svolgere; di conclusione, con sentimenti conflittuali di gioia per aver creato un gruppo gratificante e di tristezza per doverlo sciogliere.
Modello di Tuckman (65) prevede che ogni stadio presenti un aspetto funzionale al compito e un aspetto legato agli scambi socioemozionali. Primo stadio è il forming (formazione) che comprende dipendenza e orientamento, i membri sono ansiosi e incerti rispetto all’appartenenza, sono orientati al compito e manifestano comportamenti circospetti. Secondo stadio è lo storming (conflitto), i membri diventano assertivi, cercano di modificare il gruppo scatenando ostilità e risentimenti con difficoltà a lavorare insieme. Il terzo stadio è il norming (normativo) si risolvono i conflitti con negoziazione di linee direttive e regole sfocianti in coesione e scambio. Quarto stadio è il performing (prestazione) implica role taking e problem solving, ognuno lavora per raggiungere gli scopi cooperativamente. Il quinto stadio è l’adjourning (sospensione) in cui ognuno comincia gradualmente a ritirarsi da attività socioemozionali e lavorative cercando di fronteggiare l’approssimarsi della fine del gruppo; ce n’è una tipologia ottimistica, in cui i membri si impegnano per ritardare lo scioglimento e si attivano comportamenti di socializzazione; e una tipologia pessimistica in cui c’è declino delle attività, incapacità di svolgere i compiti assegnati, rigetto per il gruppo, ricerca di gruppi alternativi, sentimenti di apatia e noia.
Modello di Worchel (91) nasce da un lavoro d’archivio su gruppi di natura diversa (movimenti sociali, partiti, ordini religiosi) con l’intenzione di studiare l’evoluzione di gruppi reali (e non gruppi stabili di terapia, formazione, autoanalisi) partendo dal distacco da precedenti gruppi.
- Periodo di malcontento è la condizione preliminare per lo sviluppo di un gruppo sulla base di uno già esistente in cui alcuni membri si sentono apatici e scontenti essendosi esaurita la propositività o essendo stati raggiunti gli obiettivi prefissati.
- Evento scatenante, chiaro e identificabile, in cui gli elementi scontenti si staccano dal gruppo originario e lavorano per il cambiamento.
- Identificazione di gruppo, il gruppo neoformato cerca la sua identità, forma la sua struttura interna, definisce i ruoli, le norme e i valori con alto coinvolgimento e forte spirito di gruppo; in questa fase è un gruppo tendenzialmente chiuso, poco sensibile a dissenso e nuovi arrivi.
- Produttività di gruppo, saldata l’identità il gruppo si volge all’identificazione dei propri obiettivi, viene assegnata la leadership in base all’abilità e si evitano conflitti accettando anche nuovi membri e nuovi contributi esterni di idee e abilità.
- Individuazione, l’interesse si sposta sugli individui e sui loro bisogni con diminuzione dell’interesse sul gruppo, si percepisce l’eterogeneità del gruppo e si esplorano le possibilità di ritirarsi e di accedere ad altri gruppi.
- Declino, fase in cui il valore del gruppo è messo in discussione, si accendono discussioni fra membri e sottogruppi, si diffonde l’inerzia e la tonalità affettiva è quella della collera, creando le condizioni per una nuova fase di malcontento sfociante nell’allontanamento.
Il gruppo è un organismo vivo che funziona in modo non sommativo rispetto alle diverse individualità dei suoi membri, ma non indipendentemente da loro; la vita di gruppo è scandita da fenomeni ricorrenti strutturali che permettono l’esistenza e il funzionamento del gruppo stesso differenziandolo da un agglomerato casuale di individui. Fenomeni dinamici si rilevano sia in gruppi formali che informali, naturali e di laboratorio, storici o a tempo determinato.
Status. E’ la posizione che un individuo occupa in un gruppo e la valutazione di tale posizione in una scala di prestigio; le sue differenziazioni si compongono in una gerarchia attinente al prestigio relativo alle varie posizioni, è presente in gruppi formali ed informali. Indicatori di status:
tendenza a promuovere iniziative (attività e idee) recepite e continuate dal resto del gruppo: chi più ha potere di avviare azioni e di prendere iniziative più ha status elevato; chi ne ha meno deve - per essere propositivo – seguire un iter obbligato e presentare una proposta a membri di status più elevato fino a farla giungere al leader che deciderà il da farsi.
Valutazione consensuale del prestigio connesso a un certo status, tutti condividono l’ordine anche senza formalizzazioni; è maggiore per elementi agli estremi della scala e può vedere variazioni di posizione che seguono una logica verticale.
Lo status si produce nel tempo attraverso comportamenti riconosciuti come attivi nel raggiungere gli obiettivi, rispettare le norme, sacrificarsi per il gruppo.
I teorici della corrente etologica (Mazur, 85) sostengono che fin dalle prime interazioni i membri dei gruppi si misurano fra loro a partire da dati percettivi come apparenza e contegno, che includono segni meno evidenti quali espressione facciale, muscolatura, statura, voce, capacità di fissare. I teorici degli stati d’aspettativa sostengono invece che si stabilisca dai primi incontri un sistema di aspettative relative ai contributi che ciascuno potrà offrire per il raggiungimento degli obiettivi; le caratteristiche personali pertinenti esibite o immediatamente percepibili susciteranno maggiori aspettative e varranno a chi le possiede uno status elevato (provvisorio, da confermare attivamente). Le due teorie non sono tali da escludersi: è possibile che i primi indicatori siano prevalentemente percettivi, basati su caratteristiche immediatamente disponibili (età, sesso, forza, espressione) e che in seguito intervenga la condizione di congruità con gli scopi di gruppo. Lo status è un aspetto tendenzialmente strutturale, stabile, ma può mostrare elementi di cambiamento per ragioni interne al gruppo o per confronto/conflitto con altri gruppi (alterazione delle gerarchie), poiché nessun gruppo vive isolatamente, nemmeno i gruppi sperimentali. Funzioni delle differenziazioni di status: creare ordine e prevedibilità nel gruppo, coordinare le forze in vista del raggiungimento dell’obiettivo, promuovere l’autovalutazione di ogni membro nei confronti della propria posizione rispetto agli altri rispetto alle proprie aspettative e capacità (aumento dell’autostima).
Ruolo. Lo status definisce l’architettura essenziale, a livelli, del gruppo, invece il ruolo riguarda i comportamenti attesi ed esibiti dei vari componenti; è un insieme di aspettative condivise circa il modo in cui dovrebbe comportarsi una persona che occupa una certa posizione all’interno di un gruppo. Per Brofenbrenner è l’insieme di attività e relazioni che ci si aspetta da parte di una persona che occupa una particolare posizione all’interno della società, e da parte di altri nei confronti della persona in questione (reciprocità). Esempio classico è quello di Zimbardo (72) sulla Stanford Prison: 24 soggetti studenti maschi volontari selezionati per equilibrio psicologico e suddivisi a caso in guardie e ladri per un esperimento di due settimane in una prigione simulata. Le guardie furono informate sui limiti etici e pratici della simulazione, i ladri furono “arrestati” e dopo due giorni si ribellarono per le angherie subite, sortendo come risposta un inasprirsi di violenze e soprusi; dopo quattro giorni e la liberazione di quattro prigionieri per gravi disturbi emozionali e psicosomatici la situazione si assestò con aumento di intimidazione delle guardie e atteggiamento rinunciatario dei ladri, segno di destrutturazione e perdita di identità individuale e di gruppo. Le reazioni osservate non sono manifestazioni di tratti stabili di personalità, ma di modelli di risposta specifici di ruoli e istituzioni particolari della società: l’ambiente prigione produce gli effetti osservati, diventa una prigione vera e legittima i comportamenti.
Ruoli formali sono quelli presenti nelle organizzazioni sociali ed hanno un insieme di aspettative comportamentali condivise da attori e spettatori, in modo da dare ordine e prevedibilità alla vita di un gruppo cristallizzando aspetti definiti e ineludibili. Gli stessi ruoli però non sono svolti da tutti con le stesse modalità, esistono degli stili di ruolo che rientrano negli aspetti soggettivi di interpretazione del ruolo stesso in base alle proprie caratteristiche personali, a valori e modelli di chi li svolge.
Ruoli informali si verificano anche in piccoli gruppi informali, non soggetti a copioni stabiliti istituzionalmente; i più comuni sono il leader, il neofita, il capro espiatorio (che permette agli altri membri di risolvere i propri conflitti interiori riguardo all’integrazione di parti negative dell’immagine di sé proiettandole su di lui), il clown (ruolo socioemozionale che mitiga le tensioni avanzando critiche e commenti con l’arma sottile dell’ironia). Esistono poi partecipanti meno caratterizzabili (invisibili) che assumono un ruolo solo quando sono cooptati da altri che li valorizzano o li devalorizzano per formare alleanze in eventi conflittuali ed esistono leader oppositivi (bastian contrario) che esprimono opinioni divergenti, si oppongono dissentendo, ma non sanno portare alternative operative, al massimo riescono ad aggregare il dissenso.
I ruoli in un gruppo hanno in sintesi tre funzioni (Brown): facilitare il raggiungimento degli scopi di gruppo dividendo la mole di lavoro tra i vari membri; portare ordine e prevedibilità generando aspettative condivise fondamentali in momenti cruciali; contribuire all’autodefinizione dei soggetti entro il gruppo fornendoci consapevolezza su ciò che siamo.
Comunicare in gruppo: la comunicazione, come scambio di significati, è uno degli elementi costitutivi di un gruppo, creano la finalità comune, rinforzano la coesione, determinano le relazioni interpersonali. Nessun processo di gruppo (polarizzazione, produttività, influenza sociale, coesione, collaborazione) sarebbe possibile senza il veicolo della comunicazione verbale e non. Occorre una prima distinzione tra i concetti di rete di comunicazione e di struttura di comunicazione. La rete di comunicazione è l’insieme di canali di comunicazione presenti in un gruppo, essendo i canali l’insieme delle condizioni materiali che rendono possibile un passaggio di informazioni. La struttura di comunicazione è invece l’insieme di comunicazioni effettivamente scambiate all’interno di un gruppo, è la realtà di comunicazione; per osservarla è necessario registrare la frequenza di scambi fra le varie coppie emittente – ricevente, il contenuto, il luogo e il momento di tali scambi. La discussione (rito di comunicazione frequente e periodico sottomesso a regole prescritte) può essere spontanea, centrata sui contenuti scambiati o centrata sulle procedure decisionali. Leavitt (51) studia le reti con metodi sperimentali e matematici giungendo alla conclusione che i gruppi non agiscono allo stesso modo nelle diverse reti di comunicazione a loro disposizione. Utilizza una situazione sperimentale con un gruppo di cinque persone sedute a un tavolo comunicanti per iscritto attraverso fessure in pannelli mobili a formare quattro possibili configurazioni: la ruota (centralizzata), il cerchio, la catena e la Y. Il compito è scoprire quale segno riportato su dei cartoncini è comune a tutti e i legami di comunicazione sono indicizzati tramite l’indice di distanza (numero minimo di legami di comunicazione che un individuo deve attraversare per comunicare con un altro) e l’indice di centralità (grado di centralizzazione di una rete, ovvero misura in cui un flusso comunicativo è centralizzato su una persona o è distribuito tra i membri): la ruota ha l’indice più centralizzato, il cerchio il meno. Le misure raccolte sono: la concisione (numero di comunicazioni scambiate), la rapidità temporale di soluzione (numero di passaggi per arrivare alla soluzione), la precisione (numero di errori di trasmissione o di soluzione), il morale di gruppo (livello di soddisfazione sul lavoro svolto) e la popolarità di ogni membro. Le reti centralizzate risolvono i problemi con più rapidità, concisione, precisione, il membro centrale è più popolare, ma il morale del gruppo è basso (tranne che per il leader centrale); le reti circolari hanno tempi più lunghi, il doppio di passaggi, più errori, ma il morale è più elevato ed equamente distribuito. Reti centralizzate sono più funzionali per compiti semplici, reti decentralizzate lo sono per compiti più difficili perché il leader deve gestire un numero eccessivo di informazioni che non può distribuire alla periferia, peraltro meno motivata e coinvolta. Esistono poi modi di comunicare caldi o freddi, gerarchizzati o meno, simmetrici o polarizzati. Moscovici e Doise centrano il problema dei modi comunicazionale sulla partecipazione degli individui, distinguendo una partecipazione consensuale, in cui ognuno può esprimere la sua opinione senza preoccupazioni di ordine procedurale, senza il peso di limiti esterni; e una partecipazione normalizzata, in cui l’accesso alla discussione è regolamentato dalla gerarchia del gruppo con diversità di status e di competenze, produce scambi ordinati e produttivi, ma non permette l’emergere di conflitti, come nella precedente.
Riguardo alle strutture di comunicazione Bales (50) suddivide l’interazione dei gruppi in atti microscopici significativi e percepibili codificandoli in dodici categorie mutuamente esclusive classificate in tre grandi aree: l’area socioemozionale positiva (dimostrare solidarietà, allentare le tensioni, mostrarsi d’accordo), negativa (disapprovare, mostrare tensione, mostrare antagonismo), l’area del compito neutra (fornire/chiedere orientamenti, esprimere/chiedere opinioni, dare/chiedere suggerimenti). La codifica ci dirà se la comunicazione è stata prevalentemente incentrata sul compito o sulle relazioni sociocomunicative: chi emette di più è il leader e via a scendere nell’ordine gerarchico del gruppo fino ai ruoli delle comparse.
LE NORME DI GRUPPO. In ogni gruppo esistono comportamenti consentiti e non consentiti, norme sociali che hanno lo scopo di definire i comportamenti appropriati in determinate situazioni. Sono scale di valori che definiscono ciò che è accettabile o no per i membri di un gruppo, sono la gamma di differenze individuali che i membri del gruppo ritengono accettabili, nonché il limite al di là del quale un certo comportamento può essere biasimato tramite disapprovazione o altre sanzioni congruenti alla gravità della violazione. Sono aspettative condivise su come dovrebbero comportarsi i membri di un gruppo, mentre il ruolo riguarda aspettative condivise sul modo individuale di comportarsi (Moreland e Levine). Sono quindi un prodotto collettivo e non includono solo norme di comportamento, ma anche modalità espressive (gergo, abbigliamento, camouflages), gusti artistici, pratiche alimentari. Secondo Sherif (67) l’essenza di un gruppo intesa come struttura sociale più o meno duratura, sta negli elementi centrali della struttura e delle norme e valori (mancando si avranno aggregati e non gruppi) comuni a gruppi informali (carattere motivazionale emozionale) e formali. Si distinguono quattro caratteristiche:
- Esplicite, tipiche di gruppi formali e organizzazioni, possono essere addirittura scritte ed assumere dignità di deontologia di riferimento.
- Implicite, non scritte né espresse direttamente, ma di identica forza d’impatto e raggio d’influenza, sufficienti a sancire esclusioni per violatori.
- Centrali, riferite a questioni cruciali per l’esistenza o il funzionamento del gruppo, grande o piccolo che sia, che può essere disgregato in caso di comportamenti devianti (delazione, diserzione) e che prevede sanzioni particolarmente severe per i violatori (discipline di partito).
- Periferiche, riguardanti questioni ritenute dal gruppo marginali al proprio schema di comportamento (hobbies) per cui non c’è accettazione né rifiuto e per cui vi sono ampi gradi di tolleranza anche in base allo status dei violatori, tanto che i leader possono addirittura cambiarle.
Come nascono le norme? Attraverso la socializzazione, processo col quale l’individuo impara a riconoscere e distinguere i comportamenti socialmente adeguati agli specifici contesti sociali. I gruppi generano i propri sistemi normativi, conformi o devianti rispetto al quadro normativo convenzionale. Secondo Opp (82) vi sono tre tipi di norme scaturenti da tre diversi processi: norme istituzionali, imposte dal leader o da autorità esterne; norme volontarie, nate da negoziazioni tra membri allo scopo di ridurre o risolvere situazioni conflittuali; norme evolutive, prodotte quando i comportamenti in grado di soddisfare un membro vengono appresi anche dagli altri, che li diffondono a tutto il gruppo rendendo più prevedibili i comportamenti dei membri e solo poi prescrittive su come essi si dovrebbero comportare.
Effetto autocinetico di Sherif (35): illusione ottica per cui in un ambiente buio un’unica piccola luce sembra muoversi in modo erratico in ogni direzione. Scelta da Sherif perché obiettivamente instabile e strutturabile in maniera diversa a seconda dei diversi punti di riferimento scelti. Lo scopo dell’esperimento era di studiare la formazione di norme in condizioni individuali e di gruppo; le situazioni erano due, una individuale (quindi senza intervento di fattori sociali) e una di gruppo (con due modalità: prima solo poi in gruppo e viceversa). Venti soggetti furono divisi nelle tre condizioni e dovevano indicare di quanto si muovesse la luce (100 giudizi in più giornate). In condizioni individuali, senza riferimenti oggettivi, elaboravano una norma individuale che serviva come riferimento per giudicare i movimenti percepiti e che veniva conservata nelle ripetizioni. In gruppo (quattro gruppi di due e quattro di tre persone per ogni condizione) si vedeva che la condizione di gruppo faceva convergere i giudizi in entrambe le sottocondizioni (un po’ meno per chi inizia da solo) verso una norma di gruppo poi mantenuta. I gruppi non avevano scopo comune né interessi individuali, anche l’eventuale presenza di un leader non spostava il risultato, l’influenza non era percepita.
Funzioni delle norme. La costruzione delle norme di gruppo è stata teorizzata da Cartwright e Zender (68) come assolvente a quattro funzioni:
- Avanzamento del gruppo, le norme sono funzionali e necessarie al raggiungimento di obiettivi; in situazioni di emergenza o conflitto tendono a diventare più restrittive e rigide, al fine di serrare le fila e incrementare la coesione interna, poiché salvare il gruppo diventa lo scopo centrale.
- Mantenimento del gruppo, le norme permettono al gruppo di preservarsi quanto tale, a esistere in quanto entità e a preservare dalla sua estinzione; anche la condivisione di costumi, gusti, pratiche religiose, abbigliamento assumono carattere normativo utile al mantenimento.
- Costruzione della realtà sociale, le norme assicurano al gruppo una concezione comune della realtà; non sempre esistono evidenze percettive, logiche ed obiettive che consentano di giungere ad opinioni e giudizi inequivocabilmente corretti, quindi la validità soggettiva di un’opinione nasce dal fatto che sia condivisa. La base intersoggettiva fonda una realtà sociale costruita tramite il consenso e mantenuta attraverso pressioni normative uniformanti, fondamentali per l’autovalutazione dei membri e per fronteggiare situazioni ambigue o non familiari.
- Definizione delle relazioni con l’ambiente sociale, le norme permettono di specificare le relazioni con l’ambiente sociale circostante composto da altri gruppi, organizzazioni, istituzioni. La realtà sociale costruita dal gruppo permette di giungere a un consenso riguardo le relazioni con gli altri gruppi, decidendo quali considerare amici, con quali confrontarsi e quale sia il risultato del confronto.
Le norme hanno un carattere specifico del gruppo, sono costruite e ricostruite socialmente nel corso di negoziazioni dirette e indirette con attiva partecipazione dei membri; nei gruppi storici formali preesistono all’individuo e costituiscono un parametro di riferimento con cui i nuovi membri devono confrontarsi e tentare di cambiarle o rifiutarle (ma per sopravvivere dovrà adeguarvisi).
Cambiamento delle norme. Una norma stabilita tende a mostrare enormi resistenze al cambiamento, che avviene sotto la spinta di eventi particolari o in funzione delle caratteristiche del gruppo (difficile nei gruppi chiusi). Per Lewin il mutamento di comportamenti normativi vede:
disgelamento del campo di forze esistente, movimento verso un nuovo equilibrio, congelamento degli standard di gruppo su un nuovo livello. Secondo Moscovici e Doise l’innovazione sociale e la resistenza alle innovazioni sono prodotti sociali che gli individui non possono cambiare da soli, ma con un impegno collettivo e concertato di tutto il gruppo, in quanto anche le resistenze sono collettive.
Norma della reciprocità: impone di restituire agli altri i beni e i servizi che ci vengono offerti e le concessioni che ci vengono fatte o potrebbero esserlo in futuro. Norma della responsabilità sociale: impone di agire in favore di chi dipende da noi e si trova in stato di bisogno, opera all’interno delle relazioni intime e nella società nel suo complesso; il suo effetto è modulato dal giudizio sulla meritevolezza e dalla percezione di disponibilità delle risorse. Le norme influenzano il comportamento perché: sono rinforzate attraverso ricompense e punizioni, sono considerate giuste e appropriate, sono attivate di frequente, offrono soluzioni adeguate ai problemi.
Il leader è la persona che esercita più influenza degli altri membri in un gruppo, è la persona che può influenzare più di quanto sia essa stessa influenzata; è formale, quando ha un incarico ufficiale o informale, quando emerge nel corso delle interazioni una leadership non definita, ma ugualmente con forte influenza sugli altri. Può essere imposto o emergere spontaneamente, essere legittimo o no, ma gioca il ruolo più importante nel dirigere le attività di gruppo, nel mantenere le sue tradizioni e costumi, nell’assicurare il raggiungimento degli obiettivi.
La leadership è un processo tra il leader e i membri (che sono coinvolti e hanno un ruolo attivo) per raggiungere gli scopi del gruppo tramite la persuasione; il potere invece è la capacità di influenzare gli altri e vincerne le resistenze assicurandosi comportamenti di adesione o di compiacenza (compliance). L’autorità è il potere legittimato che si fonda su regole stabilite rispetto a un certo campo di attività. Il controllo è la modalità con cui viene valutato il conseguimento degli obiettivi predefiniti e si assicura il rispetto di un patto sociale che lega tra di loro gli attori sociali. La leadership si delinea come forma di influenza caratterizzata dalla capacità di determinare un consenso volontario, un’accettazione soggettiva e motivata degli individui rispetto agli obiettivi del gruppo o dell’organizzazione.
Teoria del grande uomo o dei tratti. Il primo approccio teorico alla figura del leader prevedeva un set di tratti di personalità predittori o esplicativi che dessero conto del fenomeno dell’emergere del leader sottolineandone le qualità personali. Tratti che differenzierebbero un leader sono: intelligenza, vigilanza, intuizione, responsabilità, iniziativa, pertinacia, fiducia in sé, socievolezza, responsabilità, estroversione, onestà, adattabilità, controllo emotivo, resistenza allo stress, perseveranza. La lista di tratti ha il limite di non considerare gli altri elementi del processo di leadership, ovvero i seguaci e la situazione: persone dotate dei tratti possono diventare leader in alcune situazioni e in altre no, possono non conservare la leadership. Le liste sono quindi troppo eterogenee, troppo ampie, non permettono di definire un set di tratti adatto ad ogni situazione e non permettono di spiegare come influenzino i membri del gruppo, né di come vengano appresi dal leader stesso. Hollander (85) critica anche la staticità dei tratti che non esprime il dinamismo del contesto interpersonale: la leadership è un processo interattivo e i comportamenti delle persone variano a seconda delle situazioni, inoltre le aspettative dei seguaci sono sul “qui e ora”, non su aspettative astratte disgiunte dalle situazioni stesse.
Stili di Leadership. Ricerca di Lewin, Lippitt e White (39) evidenzia tre stili di leadership (situazione sperimentale del doposcuola variante):
- Autocratica, il leader organizza e dirige ogni attività, resta distaccato, non rende partecipi, inibisce le comunicazioni; risultati sono buona produttività, forte dipendenza dal leader (sospensione di attività in sua assenza), clima interno sfavorevole con sintomi di aggressività tra pari.
- Democratica, il leader discute le decisioni e le attività, si mostra amichevole e disponibile, incoraggia le comunicazioni tra pari, rende partecipativi i membri; risultati buoni (ma inferiori all’autocratico), buona motivazione, capacità di indipendenza e autogestione (anche quando il leader era assente le attività continuavano essendo state definite insieme), clima sereno e comunicativo.
- Permissiva, il leader interviene poco o punto, lascia liberi di agire, non effettua controlli; risultati caos e aggressività con produttività bassa.
Approccio situazionista: cerca di definire cosa sia richiesto a un leader nella situazione in cui si trova senza cercare tratti specifici, ma solo caratteristiche coerenti alla situazione; punto centrale è che il leader deve ricoprire funzioni diverse in situazioni che contemplano compiti diversi, il focus si sposta sulle situazioni, sulle circostanze ambientali dando loro un carattere di priorità assoluta.
Modello della contingenza, tentativo di superare la teoria dei tratti, che non spiega perché uno stesso stile non sempre funzioni, e l’approccio situazionista, che non spiega perché alcuni diventino leader e altri no, prendendo in considerazione l’interazione tra stili di leadership e situazione: non esiste uno stile adatto a ogni situazione, l’efficacia è legata alle contingenze peculiari da analizzare e diagnosticare. Fiedler (65) propone un modello della contingenza che prende in considerazione stile e situazione del gruppo come variabili in relazione reciproca. Parte dalla distinzione di Bales su leader centrati sul compito e leader centrati sulle relazioni, misurando le differenze tra le tipologie con uno strumento, la scala di valutazione del collaboratore meno preferito, il Least Preferred Coworker LPC. Questi è la persona con cui egli ha lavorato meno facilmente giudicato su una scala a otto punti in base a coppie opposte di aggettivi: LPC alto vede un leader centrato sulle relazioni (giudizio favorevole anche sul collaboratore meno preferito), LPC basso leder centrato sul compito. L’orientamento del leader può essere più o meno efficace in base a tre fattori che determinano il grado di favorevolezza della situazione per il leader stesso: - la qualità delle relazioni leader – membri, buone (se esistono elementi come fiducia, lealtà, positività affettiva) o povere, altrimenti. – il grado di strutturazione del compito, positivo (se le istruzioni sono precise e il risultato finale previsto) o negativo (scopo confuso, istruzioni poco chiare, risultato incerto e numeroso). – il potere legato alla posizione del leader, forte o debole secondo i mezzi a disposizione per influenzare i membri (ricompense/punizioni) o la competenza necessaria ad affrontare quel compito. Struttura e potere dipendono dal tipo di organizzazione, relazioni interpersonali dalle capacità del leader. Combinando questi tre fattori dicotomicamente (relazioni buone/povere, compito strutturato/non, potere forte/debole) si ottengono otto combinazioni con estremi da un massimo (+++) a un minimo (---) in cui saranno più efficaci leader con basso LPC (in una situazione estremamente positiva o negativa un leader centrato sul compito si concentra su questo senza disperdere energie in aspetti relazionali); nelle situazioni intermedie funziona meglio il leader ad alto LPC (l’attenzione alle relazioni aiuta e motiva il gruppo). Critiche al modello sono: la relazione leader-seguaci non è sempre ben categorizzabile (buona/povera) essendo un fattore instabile, legato a caratteristiche della di manica interna di gruppo; il punteggio LPC rinvia a una dicotomia troppo netta che fa pensare a tratti stabili del leader; i fattori situazionali sono troppo semplificati, la complessità dei compiti è una variabile che influenza le richieste verso la leadership.
Teoria transazionale di Hollander (85) parte dall’assunto che la leadership sia un processo di influenza reciproco, oltre a leader e situazione anche i followers ne sono parte vitale, hanno percezione e valutazione del leader, avanzano richieste, oppongono resistenze, concedono o ritirano la stima, vedono nel leader una risorsa che risponde alle aspettative, raggiunge gli obiettivi, distribuisce ricompense.
Questo modello consente di comprendere come si origina, si mantiene e finisce un processo di leadership: il modello idiosincratico appunta l’attenzione sulle fonti di status, sulla credibilità personale del leader guadagnata tra i seguaci fin dai primi contatti attraverso: conformismo iniziale alle norme (un leader deve inizialmente essere conforme al sistema normativo per poterlo poi modificare dopo aver acquisito l’influenza necessaria), un approccio interventista blocca il processo, anche se vi sono motivazioni e capacità; competenza elevata, esperita progressivamente o data da subito a fronte di documentate esperienze precedenti; legittimità, derivata da designazione esterna o da elezione da parte del gruppo (elemento di maggiore potenza perché guadagna legittimità in un processo informale di accettazione); identificazione col gruppo, ai suoi scopi e alle sue norme, a fronte di particolari attese nei confronti della figura del leader (che deve lavorare al meglio a favore del gruppo e non può permettersi azioni pro domo sua o atti iniqui.
Leadership trasformazionale (Burns, 78) considera i leader come individui che stimolano le motivazioni dei followers allo scopo di raggiungere gli obiettivi dell’uno e degli altri centrandosi su un processo per cui il leader si impegna attivamente coi seguaci, creando un’interazione che eleva sia la propria motivazione che quella dei sottoposti (differenza con modello transazionale è che questo è centrato sugli scambi e sul sistema di ricompense). La leadership trasformazionale è un processo che trasforma gli individui coinvolti (sia leader che seguaci) con valori, prospettive etiche e scopi a lungo termine. Il leader stimola i seguaci, ne valuta le motivazioni, li aiuta a raggiungere le potenzialità, è coinvolto totalmente nel processo d’interazione coi sottoposti e col loro codice valoriale.
Leadership carismatica (House, 76) usa il termine di carisma (potere fornito da entità superiori) riferendolo a individui dotati di caratteristiche personali eccezionali; essi forniscono forti modelli di ruolo ai seguaci per permettere loro di adottare credenze e valori particolari (Es. San Francesco o Ghandi); mostrano livelli di competenza elevati (Napoleone); esprimono scopi ideologici ed etici con implicazioni morali (ML King); sanno comunicare ai seguaci un elevato grado di aspettative nei loro confronti incrementandone competenza ed efficacia; attivano motivazioni rilevanti per l’esecuzione del compito. Gli aspetti della leadership carismatica sono molto potenti, vi è fiducia o fede nell’ideologia del leader seguita da obbedienza e identificazione fino alla devozione.
Bass (85), partendo dai lavori di Burns e House ha formalizzato la teoria trasformazionale della leadership come integrazione della leadership transazionale e trasformazionale viste come elementi su un unico continuum. Bass e Avolio affermano che la LT si manifesta quando i leader:
Nel continuum della leadership individuano sette fattori relativi alle tre posizioni di L trasformazionale, transazionale e non-L:
Fattori di L trasformazionale: sono quattro fattori noti come le 4I = Idealized influence (influenza idealizzata) i leader mettono in atto comportamenti tali da renderli modelli di ruolo per i loro collaboratori, sono molto rispettati, hanno elevati standard di condotta morale, antepongono i bisogni degli altri ai propri, forniscono una visione delle mete e dell’identità dell’organizzazione. Inspirational motivation (motivazione ispirazionale) i leader motivano i collaboratori, li coinvolgono, danno significato al loro lavoro, esplicitano le loro aspettative. Intellectual stimulation (stimolazione intellettuale) i leader stimolano i seguaci ad essere creativi e innovativi incoraggiano a guardare al di là dei propri interessi. Individualized consideration, i leader sono attenti ai bisogni di crescita e di successo di ognuno e promuovono opportunità.
Fattori di L transazionale:sono due e si realizzano quando il leader premia e punisce i collaboratori secondo l’adeguatezza della loro prestazione = ricompensa contingente, processo di scambio per cui il leader premia gli sforzi cercando di ottenere l’accordo su ciò che si deve fare; direzione per eccezione (management by exeption) attiva o passiva comprende la critica tendente a correggere, il feedback attivo e il rinforzo negativo (la forma attiva rileva errori per apportare correzioni, la passiva prevede un intervento non immediato); è un modello di rinforzo negativo, mentre la ricompensa contingente è positivo.
Fattore di non leadership è l’assenza o l’evitamento di leadership che porta al permissivismo (laissez faire) in cui il leader abdica alle proprie responsabilità, non comunica, con dà feedback, non va incontro ai bisogni dei sottoposti e non si occupa della loro crescita.
CAPITOLO 5° FORZE CETRIPETE E CENTRIFUGHE NEL GRUPPO
I gruppi sono una realtà complessa, con fenomeni dinamici specifici che li caratterizzano e li rendono intelligibili e prevedibili, coi loro rituali di partecipazione e le loro regole gerarchiche e normative delineanti la loro identità.
In ogni gruppo, qualunque dimensione abbia, esistono elementi che fungono da collante, da richiamo centripeto, che rendono il gruppo unito, nonostante cambino gli individui, con i fenomeni della coesione e della conformità ed elementi centrifughi che portano alla devianza interna, ai conflitti e alla soluzione estrema dello scisma.
Coesione. Risultante di quel processo per cui un insieme di individui diventa gruppo e si mantiene tale, resistendo alle forze che si oppongono e tendono alla separazione. Una definizione univoca di coesione è comunque difficile da stilare, in quanto persistono molte differenze teoriche. E spesso molte delle tematiche che la riguardano sono difficilmente collocabili. Hogg (92) distingue tre fasi storiche del concetto di decisione:
- Prima fase (della concettualizzazione unidimensionale); concepisce la coesione unicamente in termini di attrazione interpersonale fra i membri. Prototipo di questa prospettiva è lo studio di campo di Festinger, Schacter e Back (50) su due quartieri per famiglie di studenti del MIT: Westgate (casette disposte a U, maggiore prossimità e migliore comunicazione tra abitanti) e Westgate West (edifici a due piani con minore prossimità, comunicazione e conoscenza reciproca). Gli studiosi considerano la coesione come il campo totale di forze che agiscono sui membri per rimanere nel gruppo, costituita da due elementi: l’attrattività del gruppo in quanto tale (presenza di relazioni ed amicizie soddisfacenti) e il grado con cui il gruppo assicura il raggiungimento degli scopi irrealizzabili senza il gruppo. Nonostante gli abitanti dei due quartieri fossero arrivati contemporaneamente, non si conoscessero tra loro e fossero stati assegnati casualmente, a Westgate relazioni e amicizie si sviluppano meglio, si forma un nucleo gruppale più unito e con minori fenomeni di devianza, mentre a Westgate West le opinioni e i comportamenti si sviluppano come reazioni individuali. La coesione è considerata un fattore di attrazione interpersonale e viene assunta come indice di coesione la proporzione fra numero di scelte amicali ingroup e numero totale di scelte amicali, più è alta e più il gruppo è coeso.
- Seconda fase (critica del riduzionismo unidimensionale): la concezione di coesione basata sulla sola attrazione interpersonale viene considerata limitata e poco chiara, inadatta a rendere conto di un fenomeno sociale complesso come la coesione, soprattutto in grandi gruppi in cui manchi l’interazione diretta, ma esistano comunque fenomeni di coesione evidenti.
- Terza fase (riconcettualizzazione multidimensionale), ancora in corso, nasce dai contributi della teoria dell’identificazione sociale di Tajfel e della categorizzazione del Sé di Turner. La prima parte dall’assunto che i comportamenti sociali si situino su un continuum che ha ai suoi estremi il comportamento interpersonale (incontro sociale determinato dalle relazioni personali e dalle caratteristiche individuali di ciascun partecipante) e il comportamento intergruppi (interazione in cui sono salienti le categorie o gruppi di appartenenza dei soggetti piuttosto che le loro caratteristiche personali), il nostro comportamento si sposta sul continuum per cambiamenti che vanno dall’identità personale (concezione del Sé come essere unico e distinto) a quella sociale (concezione del Sé come appartenente a un gruppo sociale). La teoria della categorizzazione del Sé di Turner dice che noi tendiamo a categorizzare gli altri e noi stessi in gruppi e categorie prototipiche fino alla depersonalizzazione, all’adeguamento di valori, idee, credenze con quelle del gruppo. Si distinguono così due tipi di attrazione, cioè sentimenti positivi che si provano verso gli altri: l’attrazione personale (situata verso il polo interpersonale del continuum, associata all’identità personale) idiosincratica, altamente personalizzata; e l’attrazione sociale (situata verso il polo intergruppi, legata all’identità sociale) legame depersonalizzato, con bersagli intercambiabili delineati da attrattive di gruppo. Questo modello, basato su identità sociale e autocategorizzazione, è applicabile a tutti i gruppi (anche grandi e senza conoscenza dei partecipanti), si connette a diversi argomenti sull’uniformità di gruppo (conformità, stereotipi, etnocentrismo), allarga il contesto dei comportamenti di gruppo alle relazioni intergruppo, considera che i fenomeni di gruppo siano concettualmente differenti da quelli di natura interpersonale.
Conformità sociale è (Turner) il movimento di una o più persone discrepanti verso le posizioni normative di gruppo come funzione di una pressione implicita o esplicita da parte dei membri del gruppo.
Devianza. Deviante è qualcuno che nel gruppo avanza posizioni diverse da quelle della maggioranza e che per questo può essere percepito come perturbatore della coesione e dell’uniformità del gruppo. Può essere percepito come una minaccia (sia come singolo che come sottogruppo) e per ricondurlo nell’alveo il gruppo attua una quantità di atti persuasivi e comunicativi, falliti i quali sarà emarginato, esautorato o cacciato.
Esperimento di Schacter (51) con lo scopo di studiare il trattamento del deviante nel gruppo, la coesione del gruppo, la rilevanza delle attività gruppali e la devianza dalle posizioni normative. Ha creato gruppi di 5-7 ingenui più tre complici, ognuno con ruolo differenziato, che dovevano discutere il caso di Johnny Rocco (giovane delinquente presentato in modo empatico); i complici erano un deviante, sempre molto divergente rispetto agli altri, teso a posizioni estreme disciplinari; uno slider, inizialmente molto deviante, poi allineato al gruppo; e un modale sempre al centro degli orientamenti gruppali. Le variabili considerate erano quelle della coesione (campo di forze agenti sugli individui per restare in gruppo) e della rilevanza (salienza delle attività per il gruppo). I risultati mostrarono che: il deviante è il membro che ottiene il numero più elevato di rifiuti, specie nei gruppi più coesi, è il destinatario del maggior numero di comunicazioni, tendenti a convertirlo per salvare la coesione gruppale (lo slider viene considerato fino a quando non si riallinea, il mode è invisibile). Il tipo di risposte negative del gruppo al deviante si differenziano in: rifiuto esplicito e totale, il deviante è considerato un impostore o un inaffidabile e viene espulso materialmente o simbolicamente; rifiuto parziale, il deviante viene zittito o reso inoffensivo, anche se ciò che dice può essere vero; disconferma, ovvero il silenzio, la negazione dell’esistenza del deviante che, ignorato o inascoltato, non sarà espulso, ma se ne andrà sua sponte; ridicolizzazione, mostrare il deviante come patetico, neutralizzarlo col ridicolo; naturalizzazione, resistenza sottile con cui il gruppo si immunizza contro il deviante rovinando la sua credibilità attribuendo le sue opinioni a caratteristiche personali naturali. Tre sono le forme di naturalizzazione: la biologizzazione (attribuzione di comportamenti devianti a caratteristiche biologiche), la psicologizzazione (attribuzione alle caratteristiche di personalità) e la socializzazione (focus sulle funzioni e l’impegno socio-politico).
Un altro fattore di gruppo consiste nella fase di sviluppo in cui si trova il gruppo nel momento in cui si evidenziano posizioni divergenti: se il gruppo è in fase iniziale vi è una certa resistenza alla devianza interna, perché il gruppo ha ancora bisogno di rafforzare la sua coesione e identità e non c’è spazio per posizioni dissidenti; se è in fase produttiva (gruppo avanzato) si accetteranno posizioni devianti se centrate sul compito; in fase di individuazione ci sarà recettività e valorizzazione di proposte alternative e minoritarie. Worchel (91) ha creato un esperimento in cui vi erano tre condizioni di gruppi di 5 persone: un gruppo iniziale, con soggetti messi insieme per formare una specie di tribunale giudicante Johnny Rocco (senza altri compiti precedenti); un gruppo avanzato, già assemblato con altri compiti precedenti, un aggregato di soggetti giudicati sulle risposte individuali. Dai risultati emerge che il gruppo iniziale mostra un più alto rifiuto del deviante.
Conflitto. E’ una realtà sempre possibile in ogni gruppo, le opinioni possono non essere sempre conformi, le risorse possono non essere distribuite equamente, competizioni possono instaurarsi in ogni fase e a ogni livello. Un conflitto intragruppo può sortire effetti diversi, avere conseguenze negative sia per i singoli che per il gruppo, ma anche esiti positivi quali incremento di creatività e soluzioni innovative unificanti.
Una delle caratteristiche dei gruppi rispetto agli aggregati è che manifestano interdipendenza tra i membri, cosa che permette di distinguere fra interdipendenza di informazioni e di risultati, ovvero rispettivamente di opinioni e di risorse. Conflitti da interdipendenza di informazioni si hanno per la comparsa di opinioni divergenti su questioni rilevanti per il gruppo e si esprimono con discussioni accese sottese da motivazioni competitive o cooperative. Il conflitto viene considerato da un lato come minaccia per il raggiungimento degli obiettivi e dall’altra come minaccia alla coesione, alla motivazione di appartenenza. I meccanismi che i gruppi usano per affrontare i conflitti sono essenzialmente tre:
- Evitamento, intervento preventivo teso a impedire la comparsa del conflitto o a bloccarlo prima che diventi saliente.
- Riduzione, rimaneggiamento o eliminazione di un conflitto già acceso e divenuto rilevante per il gruppo.
- Creazione, produzione intenzionale di un conflitto in situazione di assenza del medesimo o esacerbazione di conflitti già esistenti.
Conflitti che si basano sulla differenza di opinioni possono essere evitati con modalità di controllo del pensiero: proprio (l’individuo non esplicita le proprie opinioni divergenti o cerca di riallinearsi alla maggioranza) o altrui (tentativo di manipolare i pensieri altrui ponendo limiti e divieti, interpretazione falsata del disaccordo per sminuirne la portata e il potenziale).
Per ridurre il conflitto a situazione già avviata si possono attuare tattiche oppressive o di isolamento, oppure attivare processi di negoziazione con impegno per il raggiungimento di un accordo.
Distinzione di Deutsch tra conflitto distruttivo, con allargamento ed escalation della conflittualità, che diventa indipendente dalle ragioni che l’hanno causata, e conflitto costruttivo che si accompagna a un processo di ristrutturazione cognitiva e a un impegno di cooperazione e ricostruzione. Gruppi longitudinali, durevoli nel tempo, devono essere in grado di incontrarsi col cambiamento, con l’evolvere di situazioni, richieste, entità dei partecipanti e di saper fronteggiare i conflitti inevitabili.
Scisma. Fenomeno ampiamente ignorato all’interno della ψ collettiva significante un processo di divisione di un gruppo in sottogruppi fino alla secessione finale di almeno uno dal gruppo originario. Le condizioni necessarie per l’avvento di uno scisma sono: la percezione di una minaccia all’identità del gruppo (aspetti centrali non più condivisi da due fazioni, ognuna depositaria della verità su cultura e valori gruppali); la percezione di mancanza di entitatività del gruppo (mancanza di compattezza e coerenza interna, sensazione che il gruppo non sia più un’entità compatta); l’effetto di accentuazione delle differenze interne; l’impermeabilità all’influenza reciproca dei sottogruppi (l’altro sottogruppo viene considerato come illegittimo); le percezioni reciproche e simmetriche dei sottogruppi (ognuno vede l’altro come sovversivo, e non solo uno dei due rispetto all’altro); presenza di fattori contestuali come le relazioni di status tra i sottogruppi. Fattore fondamentale è comunque la presenza di un evento scatenante molto ben percepito che determini il distacco definitivo di un sottogruppo. Esempi studiati da Sani e Reicher: lo scisma del PCI del 91 che generò PDS e RC a seguito del cambiamento di nome, simbolo e programma da parte di Occhetto; lo scisma della Chiesa di GB a seguito del problema dell’ordinazione delle donne prete.
CAPITOLO 6° RELAZIONI TRA GRUPPI
La ψ sociale ha studiato le relazioni tra gruppi soprattutto nella loro caratterizzazione conflittuale. Esempio dello studio di Elias e Scotson (65) che dimostra quali processi di discriminazione si possono attivare nei rapporti intergruppi. Esaminata la realtà sociale di Winston Parva, piccola comunità suburbana di 5000 abitanti presso Leicester con una ricerca longitudinale di campo: si vedono tre diversi insediamenti: la zona 1 abitata da classi medie, la zona 2 abitata dagli estabilished, classe operaia con buona integrazione sociale e ricca rete di interazioni, la zona 3 abitata da outsiders, sempre operai, ma di nuovo insediamento, con alcune famiglie problematiche e una gang adolescenziale con condotte devianti. La ricerca mostra il processo di esclusione degli outsiders da parte degli estabilished con la costruzione e la legittimazione di stereotipi negativi veicolati da una rete di pettegolezzi e con l’attuazione di processi di esclusione e di discriminazione sistematica. Gli outsiders sono percepiti come minoranza anomica, sregolata, inaffidabile, che permane tale anche dopo che la devianza in zona 3 assume valori sovrapponibili a quella esistente in zona 2. Winston Parva è una miniatura del sistema universale umano in cui i fenomeni di discriminazione in – out group si strutturano a prescindere dall’entità delle differenze effettive tra i gruppi coinvolti. La ricerca sperimentale ha mostrato che è molto facile creare le condizioni per cui si generi animosità tra gruppi. Ricerca prototipica è il lavoro di Sherif nei campi estivi adolescenziali sulla genesi di ostilità tra gruppi di ragazzi. Soggetti ragazzi americani inconsapevoli di essere osservati al campo estivo di due settimane: I° fase, i soggetti arrivano al campo, prendono contatto e socializzano come gruppo unico; fase II° dopo una settimana sono divisi in Rossi e Blu (badando di separare tutte le amicizie più strette) impegnati in attività completamente diversificate, compaiono le gerarchie nei gruppi; fase III° i due gruppi sono messi in competizione su attività sportive e di mantenimento del campo con premiazione dei vincitori, cosa che provoca deterioramento delle relazioni intergruppo con formazione di stereotipi negativi e ostilità esplicite a fronte di aumento della coesione dell’ingroup. Nell’ultimo esperimento Sherif introduce una IV° fase di ricompattamento dei gruppi per uno scopo sovraordinato per non congedare i ragazzi con ostilità in corso.
Sherif giunge alla conclusione che se due gruppi in rapporto sono posti in situazioni competitive (giochi a somma zero) giungeranno rapidamente a un conflitto intergruppi (conflitto raramente interindividuale). La competizione fa sì che ogni gruppo delimiti i confini del proprio gruppo in modo rigido nei confronti dell’altro, in una situazione di chiusura come questa aumenta il bisogno di sentire il proprio gruppo come migliore dell’altro e l’unico modo per rendere nuovamente permeabili i confini di gruppo è l’essere chiamati a collaborare per la soluzione di un problema sovraordinato.
Rabbie e Horwitz (69) si chiesero quali fossero le condizioni minime sufficienti per generare una discriminazione intergruppi e partirono dalla concezione lewiniana di destino comune per rispondere a questi interrogativi: basta classificare le persone in due gruppi per creare valutazioni discriminatorie? Bisogna aggiungere l’esperienza di veder premiato un gruppo e l’altro no in base a criteri casuali? Bisogna aggiungere ancora un intervento autoritativo di un agente esterno? Disegno sperimentale con soggetti adolescenti in blocchi di 8 estranei e non interagenti tra loro divisi casualmente in due gruppi (Blu e Verdi); compito è la valutazione individuale sui membri del loro e dell’altro gruppo mediante un test e un questionario; ricompensa è una radio concessa ai membri di un solo gruppo in base al lancio di una moneta o alla decisione arbitraria dello sperimentatore. Alla fine sia i premiati che i non riferiranno descrizioni personali e di atmosfera più favorevoli per il proprio gruppo (cosa che non accade in un gruppo di controllo in cui non sono promesse ricompense). L’esperienza di condivisione di un destino comune positivo o negativo è condizione necessaria e sufficiente per osservare favoritismo verso il proprio gruppo di appartenenza. Una spiegazione centrata sulle relazioni intragruppo vede l’esperienza di condividere la stessa sorte (di vincente o perdente in modo uguale) come generatrice della preferenza per il proprio gruppo.
Tajfel affrontò lo stesso interrogativo in tempi molto prossimi in seguito a lunghi studi sui processi di categorizzazione sociale e sulla loro funzione cognitiva. Per Tajfel una rete di categorizzazioni intergruppi è onnipresente nell’ambiente sociale e fornisce linee guida per l’azione: per dar conto delle discriminazioni intergruppi non è necessario chiamare in causa né conflitti oggettivi di interessi né l’interdipendenza del destino, basta una categorizzazione in gruppi degli attori del mondo sociale. Cercò quindi di creare esperimenti in cui l’assegnazione fosse totalmente casuale, l’interazione del tutto evitata, l’anonimato massimo, gli interessi strumentali personali assenti, le risposte riguardassero argomenti realmente interessanti per i soggetti (validità ecologica). I soggetti erano studenti di scuola professionale cui fu proposto un compito di percezione visiva (numero di puntini proiettati su uno schermo) o di valutazione estetica (preferenza per Klee o Kandinskij). Si crearono così i gruppi di sovra o sotto estimatori per il primo compito e i gruppi Klee o Kandinskij per il secondo, ognuno conosceva solo il proprio gruppo. Il compito era attribuire piccole somme a uno sconosciuto ingroup o outgroup in base ad apposite matrici che obbligavano a scelte per cui: erogando denaro a un ingroup si sarebbero concesse somme simili, maggiori o minori all’altro gruppo. Risultato fu che i soggetti tendevano ad attribuire più denaro al proprio gruppo con le seguenti strategie: MPC (massimo profitto comune) scegliere la casella col massimo profitto possibile per entrambi; MPGA (massimo profitto gruppo appartenenza) anche se portava a bassi profitti per l’out; MD (massima differenza) a favore dell’in, anche se implica un minor guadagno in termini assoluti; imparzialità, attribuire a tutti i punteggi più uguali possibili. Le scelte più rappresentate furono quelle di MPGA e MD (soprattutto), l’MPC era quasi ininfluente e l’imparzialità era invece rappresentata per mitigare il favoritismo ingroup.
La conclusione di Tajfel è che la categorizzazione sociale è sufficiente a produrre discriminazioni, il fatto stesso di mettere a confronto due gruppi attiva nei membri di ognuno il bisogno di affermare la specificità positiva del proprio gruppo a scapito dell’altro.
Nasce col contributo di Turner la teoria dell’identità sociale (SIT) per cui il confronto sociale attiva nei membri il bisogno di specificità positiva dell’ingroup verso l’outgroup; da tale specificità deriva un’identità sociale positiva intesa come insieme degli aspetti del concetto del Sé derivanti dall’appartenenza di gruppo. Verso la fine degli anni ’70 vi fu uno spostamento dell’interesse teorico verso i processi intragruppo a creare la teoria della categorizzazione del Sé (SCT) elaborata da John Turner e distinta dalla SIT in quanto pone l’identità sociale come base sociocognitiva del comportamento di gruppo e meccanismo che lo rende possibile, quindi non più solo un aspetto del Sé derivante dall’appartenenza di gruppo. Per la SIT il continuum interpersonale intergruppi è pensato come agente dai termini del Sé a quelli del gruppo, per la SCT sia l’agire individuale che quello di gruppo sono espressioni di un agire nei termini del Sé a diversi livelli di astrazione. Il processo cognitivo impiegato è quello della categorizzazione, che implica accentuazione di somiglianze intra e delle differenze inter categoriali e i livelli di astrazione impiegati sono: un livello sovraordinato del Sé come essere umano (human identity); un livello intermedio di Sé come membro di un gruppo in confronto con altri gruppi (social identity) e un livello subordinato di Sé come individuo unico rispetto agli altri elementi dell’ingroup (personal identity). La categorizzazione del Sé e degli altri a livello intermedio accentua il carattere prototipico e stereotipico del gruppo con omogeneità intragruppo e depersonalizzazione della percezione di sé dell’individuo. Questi tenderà a percepirsi come un elemento intercambiabile del gruppo più che come persona unica definita da differenze individuali, cosa che potrà creare fenomeni di gruppo come la stereotipizzazione, l’etnocentrismo, il comportamento collettivo.
Critiche alla SIT giungono da Hinkle e Brown che elaborano un modello per cui intervengono due dimensioni indipendenti che individuano le diverse tipologie dei gruppi e specificano quando i processi sociopsicologici della SIT entrano in gioco: la dimensione di individualismo – collettivismo (quanto una cultura enfatizza la competizione o la cooperazione) e la dimensione ortogonale di orientamento autonomo- relazionale (confronti con standard astratti o con altri gruppi presenti nel contesto).
BROWN PRODUTTIVITA’ DI GRUPPO
Spesso il gruppo non riesce a funzionare in modo efficiente come si sarebbe potuto prevedere dalla conoscenza degli attributi dei singoli membri, è improbabile che riesca a sfruttare a pieno tutte le sue potenzialità o perché non è in grado di utilizzare e coordinare le sue risorse in modo ottimale o perché esistono fattori che diminuiscono la motivazione degli individui a fornire una buona prestazione. Già Triplett a fine ‘800 notava (tramite resoconti delle società ciclistiche in diverse situazioni di cronometraggio) che in situazioni competitive le prestazioni individuali sono superiori. Allport diceva che la presenza altrui facilita la prestazione nei compiti cognitivi semplici, ma la ostacola in quelli difficili, cosa spiegata da Zajonc che evidenziava come la presenza di membri della propria specie faccia aumentare il livello di attivazione, che facilita la prestazione nei compiti facili e ben appresi producendo risposte dominanti abituali, ma la inibisce in compiti complessi e nuovi generando risposte non dominanti. Facilitazione sociale è dunque l’effetto per cui la presenza di altre persone rende molto più probabili le risposte molto accessibili e meno probabili le risposte meno accessibili. Questo per due ragioni: perché ci sentiamo giudicati (effetto di confronto) e perché costituiscono una possibile fonte di distrazione.
Max Ringelman (13) svolse studi sull’efficacia comparativa di tecniche di tiro in agricoltura e vide che la forza media individuale era di 85 kg, mentre in gruppo l’efficienza era solo del 75% rispetto alla forza totale attesa. Le ricerche sulla prestazione dei gruppi in compiti convergenti e in compiti in cui non c’è una risposta cognitivamente corretta evidenziano che la prestazione del gruppo è comunque superiore a quella dell’individuo medio, ma la prestazione effettiva dei gruppi reali è inferiore a quella attesa nei gruppo statistici, minore della somma degli individui.
Teoria dei processi e della produttività di gruppo (Steiner, 72). La prestazione di un gruppo in un compito sarà determinata da tre fattori: le richieste del compito, le risorse del gruppo e il processo per mezzo del quale il gruppo interagisce per eseguire il compito. I compiti possono essere classificati secondo numerosi criteri: al livello più di base possono essere divisibili o unitari, ovvero suddivisi in sottocompiti ciascuno svolto da individui diversi (preparare una cena) o olistici con soluzione di tipo tutto-o-nulla (risolvere un indovinello); segue il livello di massimizzazione o di ottimizzazione, se viene considerato lo scopo di raggiungere una quantità o una velocità massime di soluzione o richiede standard predeterminati. Ultimo modo è quello in cui si possono combinare gli sforzi dei membri del gruppo; possono essere: additivi (i compiti sono sommati), disgiuntivi (si richiede una soluzione o-o tra diversi contributi), congiuntivi (tutti devono completare il compito, es scalare una montagna), discrezionali (i gruppi possono decidere come eseguire il compito), compensatori (prestazioni di persone diverse portano alla soluzione).
Le risorse cambiano da compito a compito, se le risorse di gruppo corrispondessero esattamente alle richieste del compito, in modo che questo potesse essere eseguito con successo, allora avremmo una produttività potenziale di gruppo massima. La produttività potenziale si determina con l’analisi della natura del compito: nei compiti additivi i contributi dei membri sono semplicemente aggregati; nei disgiuntivi la soluzione è del tipo tutto-o-niente e sarà raggiunta quando uno dei membri arriverà alla risposta. La bontà di tale risposta non è però sempre subito evidente e la presenza di un individuo in grado di risolvere il problema non sarà sufficiente (se non ci sarà la possibilità di effettuare una verifica immediata) in quanto interverranno fattori interni di influenza sociale. La produttività effettiva di un gruppo (come esegue il compito nella realtà) di solito non raggiunge la produttività potenziale, ma deve essere depurata di perdite dovute a processi imperfetti. Questi portano allo scadimento nella qualità del processo per problemi che i membri del gruppo possono incontrare nel coordinare le loro attività (mancanza di coordinazione, gli individui interferiscono o comunicano in maniera inefficace), per problemi legati a dinamiche di gruppo (processi di influenza sociale e scelta di individui non competenti) o per problemi legati alla perdita di motivazione (gli individui riducono i loro sforzi personali ed entra in gioco l’inerzia sociale). Spesso questi tre fattori arrivano ad interagire sommando i loro effetti.
Teoria dell’inerzia sociale (Latanè, 79) o social loafing dice che l’influenza diminuisce con l’aumentare dell’ampiezza del gruppo; è la tendenza ad impegnarsi di meno quando il contributo individuale viene inglobato nella prestazione complessiva del gruppo. L’impegno personale diminuisce se si sa che il proprio contributo non è più distinguibile. La rilevanza del compito e dell’appartenenza al gruppo producono un effetto opposto all’inerzia sociale (laboriosità sociale, Karau e Williams, 93).
Decisioni di gruppo. La maggior parte dei processi decisionali collettivi non prevede risposte oggettivamente verificabili o prestazioni inequivocabilmente migliori, i gruppi scelgono tra varie opzioni, ognuna con vantaggi e svantaggi variamente percepiti a livello soggettivo. Nei processi di scelta di gruppo l’opinione corrisponde di solito alla media delle opinioni dei membri, il gruppo è un luogo di compromesso e non di decisione, quando i componenti di un gruppo sono divisi su una questione, la discussione di solito li porta a convergere su una posizione comune, frutto di un processo di normalizzazione. Per l’effetto di normalizzazione di Sherif in una situazione percettiva ambigua, le valutazioni dei singoli tendono a convergere verso la media delle valutazioni individuali precedenti all’interazione di gruppo. Stoner (61) confutò questa opinione dimostrando che le decisioni di gruppo erano sempre più orientate al rischio di quelle individuali. Il suo metodo sperimentale era di porre dilemmi individualmente e poi richiedere una decisione collettiva su ciascun dilemma già proposto. Lo spostamento verso il rischio si spiega in base a tre fattori: la diffusione di responsabilità (discutendo con altri l’individuo si sente meno responsabile in prima persona); la familiarità (la discussione di gruppo aumenta la familiarità dei problemi affrontati), il rischio come valore (per la cultura americana).
Moscovici e Zavalloni si chiedono se gli effetti della discussione siano limitati alle situazioni con assunzione di rischio o possano essere usati in altri dilemmi usando scale di atteggiamenti. La risposta è che esiste una polarizzazione di gruppo, ovvero un incremento dato dal gruppo a un orientamento già presente nei singoli dovuto all’interazione di gruppo (comune a tutti i casi in cui le persone devono manifestare collettivamente un atteggiamento, operare una scelta, risolvere un problema). La polarizzazione di gruppo si spiega con il confronto sociale (che favorisce l’assunzione di posizioni più estreme verso i valori sociali dominanti ritenuti socialmente più desiderabili), la presenza di argomenti persuasivi (lo scambio di informazioni favorisce l’acquisizione di argomenti e prove a favore di un’opzione), la differenziazione intergruppi (i membri si uniformano alle norme dell’ingroup e si differenziano rispetto ad altri gruppi). L’intensità della polarizzazione è definita dal livello di conflittualità, dal livello di formalizzazione del gruppo e dal livello di implicazione dei membri del gruppo stesso.
Janis (72) pone l’accento sulla qualità del processo decisionale ed elabora la teoria del pensiero di gruppo (group think), ovvero la propensione a mettersi d’accordo su una decisione che sembri accettabile e che permetta di evitare discussioni e di salvaguardare la coesione. Fattori di rischio per il pensiero di gruppo sono: l’alta coesione del gruppo, l’assenza di norme, l’omogeneità dei membri, la presenza di un leader direttivo (che censuri i devianti e non dia spazio a dissenso), uno stress da minacce esterne (emergenze), la fiducia nella moralità del gruppo, l’isolamento informativo (impossibilità di accedere a informazioni importanti). Migliori sono lo spirito di corpo tra i membri di gruppi, maggiore è il pericolo che il pensiero critico sia sostituito dal pensiero di gruppo, possibile latore di azioni irrazionali e disumane verso l’outgroup.
Decisioni delle giurie. Negli anni ’70 le giurie popolari USA passarono da 12 a 8 o meno membri e non fu più necessaria l’unanimità; in questo modo veniva limitato o impossibilitato l’accesso a minoranze, le prove erano analizzate con meno accuratezza, c’era minore conflittualità (ma anche minor confronto), le decisioni richiedevano meno tempo e portavano sempre a un verdetto. I punti di vista minoritari erano dunque eliminati dal non bisogno di unanimità, per cui venivano meno possibilità di emersione di conflitti, rifiuto di accordi affrettati, valutazioni accurate del caso, soluzioni originali.
INFLUENZA SOCIALE
Modello funzionalista. Lo studio dell’influenza sociale è lo studio delle pressioni esercitate sulle persone per farle agire in modo contrario alle proprie convinzioni e ai propri valori e insieme delle forze che gli individui possono mettere in azione per resistere alla coercizione e alle minacce. Risale ai contributi di Sherif e di Asch sulla genesi delle norme in situazioni di gruppo. Sherif afferma che il giudizio degli individui e la norma che ne deriva sono diversi dalla norma di gruppo e i soggetti tendono a strutturare il campo convergendo verso una norma comune, in quanto chi diverge si sente incerto e insicuro dei propri giudizi. L’effetto convergenza non è un fenomeno conseguente alla suggestione, ma è una risposta logica alle condizioni date.
Solomon Asch, di scuola gestaltistica, per cui l’esperienza sociale non è arbitraria, ma organizzata in modo da essere coerente e dotata di senso, dimostra che i fenomeni di conformismo e di consenso sociale sono razionali e dipendono dal giudizio. Il set sperimentale di Asch prevede la somministrazione di stimoli percettivi non ambigui (linee di lunghezza diversa) da indicare pubblicamente in gruppi di 8 persone, di cui un solo soggetto critico che viene a trovarsi isolato. Un terzo dei soggetti sperimentali sposta il suo giudizio nella direzione della maggioranza, dopo aver fronteggiato un conflitto molto acuto tra le informazioni percettive e quelle sociali, grazie a un processo di ragionamento consapevole e cosciente (non frutto di suggestione). Questo non avveniva nei gruppi di controllo e poteva essere ricostruito nel briefing post esperimento.
Variante al test di Asch è quella di Deutsch e Gerard in cui il giudizio percettivo viene dato in condizione non di gruppo, in tal caso un’influenza sociale di tipo normativo (forza che spinge un soggetto, in quanto membro di un gruppo, a rispondere in modo conforme alle attese) era più rilevante di un’influenza sociale di tipo informativo (forza che spinge un individuo isolato ad accettare le informazioni ottenute da altri come prove circa la realtà). I lavori di Asch rafforzano una concezione funzionalista dell’influenza sociale, forza volta a garantire il conformismo e ad esercitare il controllo sociale (altra forma di potere). Moscovici (76) preliminarmente alla sua interpretazione genetica dell’influenza sociale va a considerare criticamente il modello funzionalista non omogeneo evidenziando che esso si fondava su alcune proposizioni fondamentali:
- L’influenza sociale è distribuita in modo diseguale ed è esercitata unilateralmente, non tutti possono esercitarla, solo chi ha potere, mentre chi non ne ha non può che adeguarvisi o porsi in una condizione di marginalità.
- La funzione dell’influenza sociale è mantenere e rinforzare il controllo sociale (i gruppi si formano solo grazie a qualche controllo sociale).
- Le relazioni di dipendenza determinano la direzione e la rilevanza dell’influenza sociale esercitata in un gruppo.
- Il consenso che l’influenza è tesa a raggiungere è basato sulla norma dell’obiettività (quando non vi è certezza su di sé cresce il bisogno di confrontarsi e di appoggiarsi agli altri.
- Tutti i processi d’influenza sono visti nella prospettiva del conformismo, solo fenomeno d’interazione associato all’influenza.
- L’incertezza e il bisogno di ridurla determinano le forme prese dai processi di influenza.
Modello genetico. Il modello funzionalista spiega bene come si realizzi l’influenza sociale basandosi sul principio che chi ha più potere (o per maggioranza o per competenza) può spingere chi ha meno potere a seguire le sue indicazioni e ad adeguarvisi conformandosi tramite processi razionali di giudizio. In tale quadro si nega però ogni possibilità teorica a dei processi di innovazione; un tentativo di spiegarla all’interno del paradigma funzionalista-conformista è stato tentato dalla teoria dell’innovazione di Homans e Hollander. Costoro dicono che gli individui, dopo aver acquisito autorità o competenza (credito idiosincratico) hanno modo di render accettabile ed imporre qualche novità. Questo non permette di uscire dalle relazioni di dipendenza, preliminari a qualsiasi cambiamento di norme e valori, rendendo il potere insieme causa ed effetto dell’influenza. L’innovazione è resa possibile solo per azione di elites illuminate appartenenti alla maggioranza che godono di tale credito e che riducono l’influenza a frutto dell’esercizio del potere.
Il nuovo approccio proposto da Moscovici è un modello genetico di influenza sociale che superi il modello funzionalista troppo riduttivo e meccanicistico; il modello genetico prevede che tutti i membri di un gruppo sociale debbano essere considerati sia portatori sia bersagli di influenza. Questa non procede necessariamente in modo asimmetrico, dalla maggioranza alla minoranza, ma è possibile una influenza attivata dalla minoranza che scateni processi di cambiamento innovativo. Nell’influenza maggioritaria il bersaglio accetta, almeno formalmente, quanto la maggioranza afferma, invece nella influenza minoritaria questa deve definire la propria posizione antagonista e alternativa alla maggioranza provocando una situazione conflittuale che deve essere regolata tramite un negoziato (se la maggioranza non risponde con rappresaglie violente). La nozione di negoziato implica che ognuna delle parti possa esprimere il proprio punto di vista e il proprio sistema di riferimento (la spiegazione del processo di influenza si sposta da fattori predeterminati al negoziato) e si attivi uno scambio in cui sarà fondamentale lo stile di comportamento del gruppo minoritario attraverso le sue caratteristiche di consistenza (tenacia + coerenza) distinta in sincronica (il gruppo minoritario esprime una posizione uniforme con un consenso stabile) e in diacronica (ripetizione ferma, sistematica e senza contraddizioni di una stessa modalità di risposta in condizioni successive). Attraverso una tale consistenza il gruppo minoritario esprime non solo ciò che vuole, ma anche ciò che è e questo vale sia per gli interlocutori che per i comportamenti della minoranza stessa.
Evidenze empiriche del modello genetico sono gli esperimenti di Moscovici, Lage e Naffrechoux e di Nemeth, anch’essi su dati percettivi, il primo a voler indagare il campo in ambiti sociopsicologici è Gabriel Mugny (82) che va a testare opinioni e atteggiamenti in cui non si possono definire minoranze e maggioranze, ma solo diversi punti di vista. I protagonisti del negoziato qui saranno una maggioranza che detiene il potere, un numero elevato di soggetti che accettano il potere senza opporvisi e una minoranza che si oppone. Per esercitare l’influenza la minoranza dovrà negoziare in modo flessibile con la maggioranza senza potere e in modo rigido con la maggioranza di potere, sennò si attiveranno processi di resistenza profondi che porteranno a fenomeni di naturalizzazione per cui la minoranza deviante sarà screditata considerando come causa dei comportamenti o dei discorsi delle proprietà idiosincratiche stabili biologiche (donna, giovane), sociologiche (comunista, emigrato) o psicologiche (caratteriale, non intelligente).
L’effetto prodotto dall’influenza maggioritaria è la compliance o condiscendenza; quello prodotto dall’influenza minoritaria è la conversione, frequentemente in modo indiretto o latente, ma profondo e capace di modificare gli schemi percettivi del soggetto.
GIUSTIZIA SOCIALE E COOPERAZIONE TRA GRUPPI
Giustizia è l’ordine dei rapporti umani e la condotta di chi si adegua a quest’ordine; i due concetti principali di giustizi sono la legalità, ovvero il rispetto delle norme, e l’efficienza di una norma, ovvero la sua capacità di rendere possibili i rapporti umani. E un concetto normativo e non descrittivo, una nozione etica fondamentale, ma non definita, che garantisce il rispetto dei diritti umani. Le differenti teorie sulla giustizia corrispondono alle diverse concezioni sui fini rispetto ai quali si misura l’efficacia di una norma come regola di condotta nei rapporti umani. La ψ si occupa non del rispetto dei diritti umani, ma del sentimento di giustizia, ovvero della percezione di essere trattati, o che gli altri siano trattati, in maniera giusta, vale a dire rispettosa dei propri diritti. Questo sentimento si fonda sulla valutazione delle condizioni oggettive nelle quali l’individuo si trova e sui criteri oggettivi che utilizza per fare questa valutazione. Nell’ambito della ψ sociale la giustizia è alla base della rappresentazione sociale dei diritti e dei doveri, del sentimento soggettivo di giustizia e dell’interazione sociale.
La ψ sociale ha indagato due forme di giustizia, la distributiva e, in tempi più recenti, la procedurale.
Giustizia distributiva nasce dalla distinzione aristotelica tra giustizia retributiva (o riparativa, in cui chi subisce offese da parte di un’altra persona chiede una riparazione) e distributiva vera e propria, che è invece la distribuzione o allocazione di benefìci, materiali o simbolici, ed oneri generata dalle procedure; la giustizia procedurale è invece il sistema delle procedure che regola la distribuzione di benefici e oneri. La ψ sociale studia quindi, nella giustizia distributiva le decisioni valutate sulla base dei risultati ottenuti, mentre in quella procedurale studia le decisioni valutate sulla base delle procedure usate per decidere (non i risultati, ma le procedure adottate per raggiungerli). Nella giustizia distributiva la società è vista come un grande centro di distribuzione che assegna ruoli, compiti, diritti e doveri e la giustizia è la virtù che sovrintende a tale distribuzione e che deve evitare ripartizioni diseguali, e pertanto penalizzanti. La ψ della giustizia distributiva si fonda sul giudizio della distribuzione di benefici e oneri e vede come centrali i risultati nel giudizio sulle esperienze sociali per la percezione di giustizia. Il primo contributo alla comprensione delle origini del sentimento di giustizia viene dalla teoria della deprivazione relativa di Merton e Rossi (57) per cui la soddisfazione personale non dipende da ciò che oggettivamente si possiede, ma dal senso di ingiustizia che si osserva quando esiste una discrepanza tra ciò che si ha e ciò che si crede di dover avere, tra risultati e aspettative, cosa che crea un sentimento di deprivazione relativa (ciò che conta è come le persone interpretano la loro esperienza e il significato che le attribuiscono). Le persone si possono sentire personalmente deprivate (d. egoistica) o sperimentare un vissuto di deprivazione legato alle persone del proprio gruppo (d. fraternalistica), fatto all’origine (secondo Runciman) dei conflitti sociali. La teoria dello scambio (Homans, Thibaut e Kelley) sostiene che un individuo sta in una relazione finchè i benefici non superano i costi e quando non è più soddisfatto esce dalla relazione. Dalla teoria dello scambio nasce la teoria dell’equità (Adams, 65) che introduce un criterio di giustizia distributiva nella valutazione della relazione, pertanto un individuo è soddisfatto di una relazione quando il suo bilancio costi/benefici è simile a quello del partner. Soddisfazione e condotta non dipendono da quanto si riceve in assoluto, ma dal bilancio tra quanto si è ricevuto e quanto si sarebbe dovuto ottenere secondo un principio di equità. La soddisfazione è influenzata da tre fattori: i profitti, le alternative e l’investimento (es. la durata di una relazione). Le critiche alle teorie dello scambio e dell’equità sono comuni: si riferiscono all’immagine troppo razionale dell’Homo oeconomicus, che opera solo scelte razionali, sono adeguate solo a relazioni di scambio e non a relazioni di condivisione (rapporti di coppia).
Principi possibili della giustizia distributiva sono: l’equità ovvero la distribuzione di benefici e oneri distribuita in proporzione al merito e al contributo offerto da ciascuno (centralità della valutazione di merito e della norma di reciprocità per cui la pena è proporzionale al danno); uguaglianza ovvero la distribuzione di benefici e oneri deve avvenire in maniera ugualitaria (tutti hanno accesso alle risorse, indipendentemente dal merito); bisogno ovvero la distribuzione di benefici e oneri è proporzionale alle necessità di ognuno.
Giustizia procedurale. La ψ della giustizia procedurale centra il giudizio sulle procedure invece che sui risultati, il giudizio quindi si fonda sui modi attraverso i quali sono raggiunti i risultati e vengono prese le decisioni. Le procedure sono importanti per ciò che permettono di ottenere (un procedimento giusto consente di ottenere un risultato giusto, Thibaut e Walker), ma possono essere importanti in sé, al di là dei risultati (Tyler e Lind, 92). Lind e Tyler propongono due modelli opposti e alternativi di giustizia procedurale: il modello dell’interesse personale (self interest model) e il modello del valore del gruppo (group value model). Il primo è un modello strumentale, imperniato sulla concezione di uomo economico centrato sugli interessi personali; le procedure sono valutate per gli effetti che producono e che ci consentono di ottenere i risultati che ci interessano. La correttezza procedurale è uno strumento che ci assicura vantaggi personali a lungo termine e che implementa il mantenimento delle relazioni nell’ambito del gruppo, nel contesto dei rapporti sociali. Il group value model si fonda sull’assunto del valore che riveste l’appartenenza a un gruppo nella vita sociale; le procedure di gruppo sono l’espressione dell’identità e dei valori del gruppo, le regole che definiscono il funzionamento di un gruppo ne definiscono l’identità e sono utilizzate per assegnare risorse e per comminare punizioni. Inoltre le procedure danno informazioni sulla posizione occupata (status) da ciascun individuo all’interno di un gruppo e la loro importanza è direttamente proporzionale alla rilevanza dell’appartenenza di gruppo. Queste procedure che soddisfano i bisogni di appartenenza e di riconoscimento dello status sono rilevanti per l’identità personale e influenzano l’impegno e l’orientamento personali verso il gruppo stesso. La qualità relazionale della rappresentazione del sé è composta dall’intersezione di vari fattori: la reputazione, l’opinione del club, l’orgoglio (per l’appartenenza al gruppo) e il rispetto (percezione del rispetto di cui sono destinatario espresso dalle procedure).
Tyler e Lind sviluppano più tardi (99) un modello detto four component di giustizia procedurale ponendo da una parte le fonti del giudizio sulla giustizia procedurale, distinte in norme esplicite e in azioni individuali e dall’altra gli elementi procedurali, distinti in qualità del processo decisionale e qualità del trattamento personale. Confrontando norme esplicite e processo decisionale avremo regole formali sul processo decisionale; nel confronto tra norme esplicite e trattamento personale avremo invece norme sui diritti personali. Confrontando invece azioni individuali e processo decisionale avremo decisioni prese da un’autorità; nel confronto tra azioni individuali e trattamento personale avremo trattamento ricevuto da un’autorità. Se si vanno a incrociare azioni (tutto ciò che è funzionale al raggiungimento degli obiettivi di gruppo) e divieti (tutto ciò che non deve essere fatto per non danneggiare il gruppo) avremo comportamenti cooperativi: obbligatori, rispettivamente previsti dal ruolo e rispetto delle norme, e facoltativi, rispettivamente non previsti dal ruolo e accettazione volontaria delle norme.
Fonte: http://azpsicologia.altervista.org/Appunti/Gruppi%20e%20influenze%20sociali/Riassunti%20di%20Gruppi%20e%20influenze%20sociali.doc
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