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M Giorgio Blandino “LE CAPACITA’ RELAZIONALI”
Il lavoro psicologico viene definito come “tutto ciò che concerne la presa in carico e l’elaborazione della dimensione relazionale e interpersonale presente in qualsivoglia lavoro”. La ricerca psicoanalitica ha mostrato quali sono le problematiche profonde presenti nei rapporti interpersonali ed è giunta a proporre un punto di vista specifico che trascende l’aspetto meramente clinico.
Il libro si prefigge di esplorare: in cosa consista questo specifico angolo visuale, e quale contributo la conoscenza psicoanalitica possa fornire alla formazione e allo sviluppo di capacità relazionali nello psicologo e in altre funzioni analoghe.
Il testo si dipana su due piani, uno di tipo saggistico-propositivo, l’altro didattico-espositivo.
La prima caratteristica, che è la peculiarità, del testo è di essere un tentativo di formulare uno specifico punto di vista di tipo psicodinamico che possa servire alla relazione d’aiuto o educativo-formativa, e a descrivere vari fenomeni sociali.
La seconda caratteristica del libro è quella di tratteggiare alcuni grandi concetti del pensiero psicoanalitico, definendo e circoscrivendo una serie di concetti e di punti di vista indispensabili per la comprensione del discorso.
Parte prima - IL LAVORO PSICOLOGICO
Cap. 1 – Le capacità relazionali
Chi svolge un lavoro psicologico dovrebbe possedere delle capacità e competenze specifiche e peculiari: le capacità relazionali. Ma occorre chiarire perché si preferisce usare il termine “capacità” anziché il termine “abilità” che traduce l’inglese “skill”, usato in psicologia per definire le competenze professionali.
Il termine capacità deriva dal latino capacitas, che a sua volta deriva da capax, ovvero capace, atto a contenere. Invece abilità deriva dal latino habilis, maneggevole, trattabile. L’abilità è qualcosa che riguarda la manipolazione. E’ illuminante osservare come il concetto di capacità comporti una funzione di contenimento, mentre quello di abilità comporti una funzione di manipolazione.
Il lavoro psicologico si fonda sulla relazione tra due interlocutori: l’uno supposto “sano”, l’altro in crisi o “malato”. L’inconscio dell’operatore assurge al ruolo di strumento di lavoro fondamentale. Questo spiega perché ci sia un legame così stretto tra etica e operatività psicologica e perché il lavoro psicologico non può non essere intrinsecamente etico.
L’uso della mente è ciò che distingue e caratterizza il lavoro psicologico e di relazione. Ed è proprio la capacità di usare adeguatamente lo strumento mente che conferisce agli psicologi il vero “potere” professionale; è necessario pertanto che lo strumento sia quanto più possibile sviluppato ed equilibrato, essere ben consapevoli dei propri problemi (possibilmente averli risolti) ed avere acquisito una capacità di introspezione e di interrogazione continua di sé. Inoltre chi svolge questo lavoro deve aver sviluppato la capacità di ascoltare ed essere mosso da un autentico desiderio di ricerca della verità, sia per proteggere il “cliente” che per la salute mentale dell’operatore stesso. Quindi l’abitudine a interrogarsi continuamente è indispensabile, come obbligo professionale: questo significa avviarsi ad allargare la consapevolezza del proprio modo di mettersi in rapporto con i propri interlocutori ed al proprio oggetto di indagine, entrare in una logica di rispetto degli altri e proteggerli da manipolazioni e strumentalizzazioni.
La ricerca psicoanalitica ha mostrato che il processo di sviluppo mentale e la capacità di apprendere si fonda sul modello primario di tipo digestivo, per cui metabolizziamo le esperienze della nostra mente equiparata all’apparato gastrico. Pertanto quando si abbiano difficoltà emotive e mentali è necessario che ci sia qualcuno che contenga e riceva l’angoscia che viene espulsa. Un buon atteggiamento di aiuto consiste, per cominciare, nel sapere ascoltare l’altro: è una funzione della mente che permette di entrare in empatia con l’altro. Ma questa funzione non è data, bensì è da sviluppare.
La psicoanalisi è una potenzialità della mente da sviluppare, e questo coincide con lo sviluppo delle capacità relazionali: il compito del lavoro psicologico si configura come quello di andare a vedere dove come e perché agiscono e operano le difese mentali. Si tratta di rimuovere gli ostacoli alla conoscenza in generale a cominciare da sé stessi.
Lewin ha evidenziato che un approccio ai problemi, definito “aristotelico” è quello in base al quale l’eccezione conferma la regola, mentre un approccio “galileiano”, che è dinamico, è quello in base al quale l’eccezione disconferma la regola, significativa di per sé: questo è il metodo che ha usato Freud prendendo in considerazione le eccezioni, cioè ad es. i lapsus, gli atti mancati, i sogni, le dimenticanze, cioè le smagliature del discorso, riuscendo a scoprire un’altra dimensione della realtà molto più significativa e determinante di quella apparente.
Si potrebbe arrivare a dire che in una relazione, la patologia dell’altro è anche la mia patologia nel senso che, quando ci sono delle difficoltà all’interno della relazione significa che c’è qualcosa che non va nella relazione stessa: l’approccio dinamico ci porta sempre a ragionare in termini di poli in rapporto tra loro.
Quindi se la mente è lo strumento principale di lavoro psicologico, tale strumento deve essere il più possibile funzionante e adeguato. Non è sufficiente conoscere le teorie e le tecniche psicologiche, ma l’operatore deve essere il più possibile evoluto e maturo dal punto di vista emotivo-affettivo. Una capacità relazionale, avendo a che fare con lo sviluppo della persona, comporta l’attivazione da parte di ciascuno di un serio e approfondito processo di interrogazione e di riflessione su di sé. La prima cosa da fare da parte di chi si accinge a svolgere lavori di relazione è iniziare ad interrogarsi su che cosa ci si aspetta dal ruolo psicologico e sul significato che ha questa scelta, perché la capacità relazionale è qualcosa che prescinde dalla conoscenza teorica e dalla mera competenza tecnico-strumentale.
La complessità e la difficoltà dell’incontro con l’altro può essere affrontata e gestita dunque solo attraverso lo sviluppo delle capacità relazionali: il loro possesso è indispensabile allo svolgimento di un lavoro psicologico che sia realmente trasformativo.
Nella letteratura e nelle arti è già stato illustrato ciò che la psicoanalisi ha successivamente detto (v. Pirandello nell’Enrico IV “Trovarsi davanti ad un pazzo sapete che significa?). Si può sostituire il termine “pazzo” con “persona che soffre”, anche in base alla scoperta della psicoanalisi che tra salute e malattia la differenza non è qualitativa ma quantitativa. Etchegoyen ricorda che “quello dell’analista è un lavoro altamente insalubre”.
L’umanità dell’analista non è un fattore curativo, ma un requisito, così come il lavoro di relazione. La conoscenza, la preparazione e la competenza tecnica sono necessarie, ma vengono dopo, non prima.
Potremmo definirle come le capacità di “gestire” l’incontro con l’altro in tutto il suo divenire e di gestire la fatica (o sofferenza) emotiva che lo accompagna. Quindi la capacità di sentire, di essere presenti nella relazione, di saper entrare in contatto con l’utente, comprendere le richieste, i bisogni e il punto di vista. La capacità relazionale è dunque la capacità di gestire la complessità interpersonale. Poiché la capacità ha una connotazione di ricettività, si configura pertanto come capacità ricettiva, di accoglimento e di contenimento.
Le competenze professionali tradizionalmente intese non esauriscono tutta l’area delle competenze necessarie allo svolgimento della parte psicologica del lavoro, sono cioè una sorta di zoccolo duro che deve essere integrato con lo sviluppo di una professionalità relazionale.
Sarebbe importante, per cominciare, che applicassimo la prima regola ippocratica: “non nuocere”. Cercare cioè, quando svolgiamo un lavoro psicologico, di non danneggiare gli altri (ma neppure noi stessi). Se ci si mette a fare lo psicologo senza un adeguato equipaggiamento emotivo si rischia non solo di danneggiare l’altro o di attribuirgli proiettivamente i propri problemi, ma di danneggiare se stessi proprio per la contagiosità delle problematiche affettive e per la insalubrità insite in questo lavoro.
Nietzsche in Così parlò Zarathustra: “Medico, cura te stesso, gioverai in tal modo al tuo ammalato”. Freud ha sempre messo in guardia e diffidato di quello che chiamava il “furor curandi”. Ancora Nietzsche: “Non dare nulla agli uomini. Togli piuttosto loro qualcosa, o aiutali a portarla…”
La capacità relazionale non è quindi la capacità di trasmettere o di dare, quanto la capacità di togliere o in altri termini di aiutare a togliere e quindi allargare la disponibilità a ricevere. Possiamo quindi dire che il compito di chi svolge un lavoro di relazione non dovrebbe essere quello di eliminare i conflitti, ma di aiutare le persone ad affrontarli. Fantasticare di utilizzare la psicologia per risolvere problemi esistenziali è ingenuo; presuppone di poter eludere la sofferenza mentale che è implicita nell’esistenza stessa anziché imparare ad affrontarla e ad apprendere dalle varie situazioni della vita, anche le più dolorose. Progettare di eliminare la sofferenza è illusorio e profondamente anticonoscitivo, frutto dell’azione delle parti più “malate” di noi.
Una capacità relazionale è dunque in primo luogo proprio il non voler “curare”, ma piuttosto il prendersi cura, il non voler cambiare o far cambiare a tutti i costi, ma piuttosto il sapere contenere; è riuscire a pensare e aiutare a pensare, non agire.
Perciò, se si ragiona da un punto di vista psicodinamico, il compito dello psicologo è di pensare e di far pensare, da intendersi non in accezione razionalistica, ma in un’accezione più vasta, che comprende anche il sentire: questo è il senso dell’espressione “essere in contatto”, con l’interlocutore e con se stessi.
Un’operazione psicologica improntata psicoanaliticamente quindi non è impositiva ma implica tollerare di non sapere e di non capire. E di avere pazienza.
Capacità relazionale vuol dire quindi saper aspettare, e quindi non prendere scorciatoie. C’è da diffidare di tutte le tecniche psicoterapeutiche che promettono di risolvere in fretta problemi che magari hanno una radice lontana. Nietzsche: “Le pretese “vie più brevi” hanno sempre messo in grande pericolo l’umanità”
Infine altra qualità importante è la capacità di tener viva la curiosità di fronte all’oggetto con cui entriamo in relazione. Platone attribuiva questa qualità all’atteggiamento del filosofo, cioè di colui che ama la sapienza.
Per riassumere in una parola, la funzione di chi ricopre ruoli ad alto tasso di relazionalità è quella di dare spazio all’interlocutore affinché possa entrare in contatto anche solo con la sua sofferenza, e permettere di sperimentare il vuoto. Questa capacità, unita al dare cittadinanza alla tristezza, alla perdita e al lutto è veramente una delle competenze più autentiche e necessarie per lo svolgimento del lavoro psicologico in modo evolutivo, non manipolatorio.
Ma significa anche avere la capacità di dare la speranza e la ricerca della forza vitale anche là dove sembra spenta o oscurata.
L’acquisizione e lo sviluppo delle capacità relazionali non dipende dall’apprendimento di teorie, ma dallo sviluppo interiore che sarà prima di tutto emozionale: la capacità di relazione necessaria a svolgere un qualunque lavoro psicologico si acquisisce e si sviluppa con lo sviluppo e l’acquisizione della maturità emotiva e della maggiore consapevolezza possibile di sé. Quindi questo diventa il problema di come far crescere la mente, di come svilupparne le parti adulte e di come sviluppare la conoscenza di sé.
Tutto ciò in pratica implica l’analisi personale; in secondo luogo un continuo processo di interrogazione di sé, sul proprio lavoro, sulle problematiche che insorgono con l’utenza, e implica confrontarsi continuamente con i colleghi. Ritengo che la soluzione ideale sarebbe avere degli operatori formati e preparati psicoanaliticamente. L’analisi, a mio parere, dovrebbe diventare un percorso inevitabile per svolgere adeguatamente il lavoro psicologico avendo sviluppato adeguate capacità relazionali; ecco dunque perché possiamo dire che chi svolge il lavoro psicologico ha bisogno dell’analisi. Non professionalmente ma personalmente.
Ma quale può essere il ruolo e la funzione di un insegnamento teorico come quello trasmesso in sede universitaria? Cosa si può fare in un contesto così limitato per contribuire allo sviluppo di capacità relazionali?
In sede teorica, il contributo che si può portare allo sviluppo delle capacità relazionali può essere di quattro tipi:
Tutto questo comporta che, a fronte dell’assunzione di un modello di riferimento come quello psicoanalitico, si vada poi ad analizzare nello specifico le scoperte fatte e le suggestioni che ne possono derivare. Queste operazioni costituiscono la struttura logica del discorso svolto nel testo; le prime quattro sono tratteggiate nel secondo e terzo capitolo, l’ultima è svolta durante tutta la seconda parte del libro. Nella terza parte si individueranno possibili linee di sviluppo del modello psicoanalitico.
Ma per sviluppare capacità relazionali occorre anche esercitare l’immaginazione. Questo ci porta a fare un’ultima considerazione che concerne la filosofia ed in particolare quella branca della filosofia che è l’etica. Infatti la conoscenza della filosofia è indispensabile per avere chiari i modelli di riferimento di cui si avvale la psicologia e perché molte delle problematiche trattate dalla psicologia sono già state trattate dalla filosofia.
L’etica invece è stata, nella tradizione filosofica, la parte più direttamente connessa al comportamento e pertanto non può essere ignorata dalle riflessioni riguardanti le applicazioni operative della conoscenza psicologica. In generale si può definire come “scienza della condotta”. E la psicologia, prima della psicologia, la si trova principalmente nell’etica.
Per converso, in ambito psicologico, tutta l’opera psicoanalitica di Freud si può leggere come un grande trattato di filosofia. Così, una buona conoscenza dei capisaldi della tradizione filosofica costituisce, nell’ambito della formazione psicologica, un passaggio indispensabile per comprendere e fare evolvere la ricerca e la conoscenza della mente e per sviluppare competenze psicologiche.
Non bisogna comunque ritenere che un buon operatore, un operatore ben formato, sia un operatore ideale. Una buona formazione non costruisce l’operatore perfetto, ma quello che sa apprendere dai propri errori.
Un buon operatore si può definire tale non se è senza limiti, difetti o carenze ma se è “sufficientemente” buono: ha sviluppato e possiede capacità relazionali adeguate, è “sufficientemente” preparato in modo da non essere confusionario, mistificatore o manipolatore.
2.1 Motivazioni e fantasie
L’odierna situazione del settore psicologico si caratterizza per la presenza di un gran numero di psicologi.
In una ricerca condotta presso gli studenti del Corso di Laurea in Psicologia, le motivazioni (relative alla scelta degli studi) che emergono sono “legate ad un interesse per la persona e per le sue vicissitudini”. Tale attenzione interviene sia con riferimento a se stessi che agli altri.
La passione per la conoscenza psicologica sembra dunque fondarsi principalmente su motivazioni di natura introspettiva e di curiosità nell’ambito delle relazioni interpersonali. Tale posizione non è condivisa da tutti; ad es. a Padova sembra la clinica il settore che interessa maggiormente gli iscritti.
Ma in certi casi l’idea di studiare psicologia per farsi una sorta di autoanalisi è tutta da stigmatizzare perché è sollecitata da un ideale infantile di onnipotenza: controllare il proprio mondo interiore – conoscere il proprio inconscio – come compenso per non essere riusciti a controllare il mondo esterno e a superarne le frustrazioni.
Ma occorre chiedersi perché c’è prevalenza di un’idea di psicologia come psicologia clinica, che a sua volta è identificata con la psicoterapia.
L’ipotesi che si avanza è che la psicologia venga identificata con la clinica, con la “cura” appunto, perché viene intesa sostanzialmente come uno strumento di liberazione dalla sofferenza mentale. Ma vi è un altro aspetto, tutt’altro che realistico e decisamente pericoloso. Nella domanda di psicologia c’è spesso l’aspettativa magica di trovare uno strumento onnipotente che risolva tutti i problemi, tolga i conflitti ed elimini quelli che sono invece i tratti caratteristici della condizione umana.
Emerge quindi un’idea consolatoria della psicologia. A fronte di una società e di una cultura che non hanno più i tradizionali supporti ideologico-religiosi, si sperimentano situazioni di crisi esistenziale e psicologica in altre epoche appannaggio delle classi più abbienti. La psicologia è vista come la disciplina che cura e che fa star meglio, indipendentemente dal fatto che sia vero o che sia una fantasia irrealistica. Ma non è tollerabile, quando la si studia, mantenere una posizione di questo genere, per motivi funzionali. Si può rinunciare alle suddette fantasie, cogliendone l’aspetto autentico, cioè il bisogno legittimo di comprendere la sofferenza umana e personale e la speranza di poterla in qualche modo risolvere, e mostrandone gli aspetti illusori o non scientifici, mostrando invece l’aspetto realistico dello studio e della professione: non la soluzione dei problemi, ma la riflessione sui medesimi, per trasformarli da fonte di limitazione in possibilità di crescita.
Per prima cosa occorre tener presente che la psicologia (ed in particolare la psicoanalisi) è una forma di conoscenza che ci mette a confronto con il mistero, lo sconosciuto, la nostra impotenza e debolezza. Lo scopo non è eliminare la sofferenza, ma aiutare le persone a fronteggiare le limitazioni della vita. Altrettanto vale per le aspettative riposte sull’esecuzione di qualunque lavoro psicologico.
Questo è il senso profondo di un approccio psicoanalitico e il senso dell’acquisizione di una capacità relazionale, cioè la capacità di porre domande, non dare risposte consolatorie o razionalizzanti, finte soluzioni per cui l’utente segue solo direttive imposte dall’esterno senza un processo di maturazione interiore. Le accuse rivolte alla psicoanalisi di voler spiegare tutto e di non lasciare spazio a ciò che è misterioso sono insostenibili e del tutto errate.
2.2 Difficoltà emotive (nello studio della psicologia)
Alla domanda di psicologia diffusa non sempre le risposte che vengono date sono soddisfacenti, ma superficiali, frustranti o confusive. Esiste un’angoscia profonda propria di tutti coloro che studiano psicologia: l’angoscia confusionale, centrata sulla paura di un attacco alle proprie possibilità di pensare (es. domanda studente Psicologia: come facciamo a farci un’idea della Psicologia senza diventare pazzi ?)
Pertanto si può affermare che il compito di un percorso formativo psicologico, sia per quanto riguarda chi presiede il processo formativo, sia per gli studenti, consista nell’elaborare la confusione e integrare, facendo vedere che la psicologia è un insieme di conoscenze, discipline, tecniche e non una cosa sola, monolitica. Altrettanto per la psicanalisi.
La seconda operazione da fare è creare le condizioni perché chi apprende, impari ad apprendere dall’incertezza, senza dimenticare i meccanismi di difesa che nascono nel processo di conoscenza, a fronte dell’angoscia che nasce quando si è in contatto con aspetti emozionali. La ricerca psicoanalitica aiuta chi studia la mente a comprendere più a fondo le proprie motivazioni.
Si fa un passo significativo verso la formazione di una competenza relazionale, quando si fa chiarezza nella propria mente su questi aspetti, quando ci si rende conto di come si impara, delle proprie reazioni nel processo di apprendimento
La trasmissione della conoscenza psicoanalitica ha senso nella misura in cui chi la comunica e chi la riceve cercano di andare al di là delle teorie per coglierne le indicazioni in termini metodologici, cioè lo specifico modo di osservare il comportamento umano, senza dimenticare che un’autentica conoscenza di sé si realizza soltanto in una sede clinica specifica e rigorosa.
2.3 Distinzioni e definizioni
Quando si affronta il tema del lavoro psicologico, bisognerebbe definire prima di quale psicologo si parla. A fronte di opzioni teoriche diverse ci sono diverse modalità operative e diversi iter formativi. Delineare lo specifico professionale dello psicologo appare quanto mai complesso.
Ciò che definisce il lavoro psicologico dipende dal quadro di riferimento teorico accettato.
Pertanto nell’interazione professionale e scientifica tra psicologi e utenza va dichiarata l’opzione metodologica di partenza. Non è dunque corretto parlare di “psicologia” (non è una disciplina unitaria) o dello “psicologo” (il ruolo non è unitario), ma di molte psicologie e diversi tipi di psicologi. Si può parlare di psicologia solo se si riconosce, si dichiara e si è consapevoli della pluralità delle differenze e dei paradigmi.
Questa differenziazione spiega perché l’operatività dello psicologo è spesso confusa, criticata e criticabile, perché è lo statuto stesso della disciplina che non è omogeneo. Le diversificazioni concettuali sono le prime responsabili delle differenze operative perché l’assunzione di un modello teorico piuttosto di un altro comporta diversità professionali sostanziali, anche nelle finalità di intervento.
E’ molto probabile che il c.d. burn-out degli psicologi che operano nelle strutture pubbliche (o degli operatori sociali in genere) sia anche imputabile a questa confusività che spesso coloro che sono preposti alla loro formazione contribuiscono a fomentare per la confusività presente nelle loro stesse menti.
Questa prospettiva comporta il passare da una concezione della psicologia come somma di acquisizioni raggiunte in un determinato settore di ricerca ad una che sottolinea il molteplice punto di vista teorico da cui possiamo studiare un determinato oggetto. Dunque quando parliamo di psicologia ci interessa il punto di osservazione da cui partiamo, cioè la teoria di riferimento. In parte questo discorso vale anche per la Psicologia dinamica.
In entrambe le accezioni la psicologia dinamica patisce tutte le difficoltà suddette, perché vi convergono molteplici orientamenti. Anzi, tutta la psicologia, in quanto scienza che studia la condotta umana, si potrebbe definire motivazionale (e, in questo senso, “dinamica”), sociale, e evolutiva. Dinamica, evolutiva e sociale sono vere e proprie prospettive di lavoro che nell’orientamento psicoanalitico vengono unificate.
A causa di questi intrecci, uno dei problemi sta nel fatto che spesso si realizza uno sconfinamento eciproco tra discipline contigue; tale sconfinamento è legittimo, ma è molto disorientante per gli studenti e antieconomico per l’organizzazione degli studi.
Anche per la psicoanalisi vale la necessità di operare distinzioni; se è vero che non esiste la psicologia, ma le psicologie, altrettanto possiamo dire che non esiste una psicoanalisi ma che ce ne sono tante; è tipica di questo settore la tendenza a moltiplicare gli indirizzi.
Nel libro vengono discusse le concezioni che hanno a che fare con Freud e con il filone che scendendo da Abraham arriva a Klein e Bion e i postkleniani, quella che è stata chiamata la scuola inglese di psicoanalisi.
(Nan-in: come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?).
E’ difficile accedere a qualunque comprensione se non si svuota la propria mente delle conoscenze pregresse che possono farci da velo alla comprensione. A maggior ragione questo vale per le conoscenze teoriche, anche per la psicologia.
La conoscenza teorico-tecnica, nella formazione delle capacità relazionali finalizzate allo svolgimento del lavoro psicologico, è indispensabile, ma non sufficiente: la tendenza è di stilare diagnosi piuttosto che sforzarsi di comprendere la dinamica dei problemi.
Claude Bernarde: il rischio delle teorizzazioni è che ci impediscono di conoscere ciò che ancora non sappiamo.
Occorre dunque mettere in guardia sul rischio di usare le teorizzazioni per difendersi dall’angoscia che l’altro “ci mette addosso” finendo con lo stilare diagnosi superficiali. La capacità di comprendere diagnosticamente è necessaria, ma può diventare pericolosa se viene usata per catalogare, incasellare riducendo la complessità e la ricchezza dell’esperienza umana a qualcosa di già noto, chiudendo ogni possibilità di cogliere nuovi aspetti della medesima.
Le teorie psicologiche sono uno strumento per aiutare a pensare, che non sostituisce il sentire; la teoria dovrebbe essere filtrata attraverso il proprio pensiero e non sovrapporvisi. Diversamente le teorie diventano uno schermo che fa velo alla comprensione. Questa ovviamente è una critica all’uso delle teorie. Quando utilizziamo i modelli teorici o diagnostici dobbiamo domandarci se ce ne serviamo come di uno strumento parziale e provvisorio, o se li utilizziamo in chiave difensiva per dare risposte. Le teorie non servono a comprendere o a “curare”. I pilastri della razionalità scientifica sono la fantasia e la critica.
Borges critica la parola scritta (rimane, incasella, sterilizza) mentre le parole orali (proprio perché “volano”) rendono possibili gli scambi, non sono ferme e statiche: la parola orale è relazionale, quella scritta per certi versi è solipsistica. Il dialogo, la riflessione, la filosofia, la psicoanalisi sono incontri di parole vive. Borges propone per il libro questo uso: strumento per fecondare e essere sviluppato.
Quindi possiamo dire che una teoria della conoscenza psicologica ha senso se viene sviluppata e serve per far pensare, ma non ha senso se è assunta per dare risposte piuttosto che domande. Altrimenti si rischia di porsi verso l’interlocutore con l’atteggiamento onnipotente di chi pensa di sapere tutto a priori: es. eclatante di atteggiamento antipsicologico per eccellenza.
Paula Heimann (allieva della Klein): quando un paziente dice qualcosa dobbiamo chiederci cosa abbiamo fatto per fargli venire in mente quel pensiero. Analogamente Lewin sostiene che quando c’è un’idea, c’è sempre un contesto.
Lewin operava una distinzione epistemologica tra approccio galileiano e aristotelico, prendendo spunto dal filosofo Cassirer che distingueva nel processo di conoscenza un approccio di ordine teorico, classificatorio (funziona attraverso la ricerca di concetti sostanziali) e un approccio di ordine costruttivo (che si avvale di concetti funzionali, che studiano il rapporto tra fenomeno e contesto in cui si svolge. Anche Freud sembra privilegiare il secondo tipo di approccio (alla fine della sua vita scriveva che il lavoro analitico è un lavoro costruttivo).
Se assumiamo una prospettiva galileiana qualunque elemento può essere oggetto di conoscenza scientifica (il modello galileiano valorizza il singolo, il caso specifico: dobbiamo definire con cura tutte le situazioni concrete che appartengono ad un determinato evento e assumere un approccio anche genetico/evolutivo.
Secondo il modello aristotelico vengono escluse molte delle condizioni concrete che sono presenti nelle varie situazioni specifiche.
La differenzatra i due modelli consiste nell’abbandonare una logica di tipo diagnostico per capire la dinamica attuale: non significa che non si possano fare diagnosi, ma che bisogna intendere la diagnosi come uno strumento momentaneo che serve a cercare di capire qualcosa, ma che può essere modificato dai dati della realtà (similitudine col falsificazionismo di Popper: si può dire che una diagnosi è tanto più vera quanto più può essere dichiarata falsa.
Assumere una prospettiva dinamica vuol dire essere disponibili a mutare continuamente il proprio punto di vista nella relazione continua con l’altro e non assumere una posizione definitoria che impedisce di comprendere l’origine, la storia e la dinamica delle medesime: è una prospettiva orientata al comprendere, al ragionare in termini relazionali.
Questa prospettiva epistemologica fonda un modo di intendere la psicologia come uno strumento per comprendere le dinamiche delle relazioni.
L’assunzione di un punto di vista fondato sul metodo psicoanalitico comporta un’opzione specifica rispetto a:
Il modo di osservare riguarda: la capacità di cogliere, nel discorso concreto, il significato emotivo che la realtà esterna riveste per il parlante: quindi un’attenzione minore alle dimensioni manifeste per rintracciare la realtà interiore del soggetto che parla, per avvicinarsi a ciò che non viene detto e a ciò che il soggetto non sa di dire e pensare.
Riguarda sia il che cosa osservare, sia il come e sia il fatto che l’osservazione è intesa come una operazione che implica direttamente l’osservatore, che nel momento in cui osserva interferisce sul modo di comportarsi dell’oggetto osservato. Implica la capacità di osservare e ascoltare se stessi, è un modo di fare e produrre conoscenza in cui il ricercatore è coinvolto in prima persona come strumento di conoscenza: questo implica che sia conferita una priorità al mondo interno, mettere in risalto il ruolo cruciale che giocano le emozioni e i sentimenti nella determinazione del comportamento umano.
Una sensibilità psicoanalitica coinvolge non le nostre idee, ma il nostro modo di essere, la nostra capacità di sentire: occorre essere in se stessi tecnica e metodo. Susan Isaac precisa che nell’osservazione delle motivazioni e dei processi mentali occorre tener presenti alcuni principi:
Occorre invece domandarci non tanto perché il soggetto fuma, ma che cosa significa per lui il fumo, e perché ci chiede aiuto, cosa si aspetta da noi e perché ne sta parlando qui, e proprio a noi. Il problema del fumo è l’argomento mediatore con cui si dipana e articola la relazioni con noi che ascoltiamo. Quindi il modo di “spiegare” psicoanaliticamente orientato è una spiegazione che si cerca insieme: il ruolo del “tecnico” è un ruolo di aiuto e supporto a ricercare e pensare.
Il modo di spiegare di tipo psicodinamico fa sempre riferimento alla relazione e qualunque spiegazione chiama in causa i due poli delle relazione e le dinamiche profonde che li legano; si riferisce all’incontro di due inconsci.
A questi due modi di osservare e spiegare corrisponde uno specifico:
Ivari modi di operare dello psicologo si distinguono non solo per le finalità, ma anche per la metodologia usata. Non sono così importanti i risultati che si raggiungono, ma il modo. Posso indicare all’altro il modo per raggiungere la consapevolezza (confermando un modello epistemologico) ma posso non indicare alcun modo, accompagnando il soggetto in un percorso di crescita affrontando con lui insidie e pericoli, e imparando con lui. Si apprende in tal modo un modello di relazione non autoritario, fondato sulla ricerca in comune e non sulla verità o conoscenza tecnica posseduta da qualcuno. In questa concezione il professionista è in gioco anche emozionalmente all’interno di una relazione e questa dimensione diventa essa stessa oggetto di conoscenza.
Il modello di lavoro è di collaborazione e ricerca. Un modo di svolgere il lavoro psicologico orientato da una visione psicoanalitica non avrà l’obiettivo di dare consigli, né di modificare l’interlocutore insegnandogli tecniche di controllo, ma di dare spazio ed accompagnare l’altro, per permettergli di conoscere e apprendere.
3.3 Concezione adattativa e concezione trasformista del lavoro psicologico.
Ci sono due modalità di intendere il lavoro psicologico: uno trasformativo (utilizza il lavoro psicologico come uno strumento di trasformazione, mira allo sviluppo e alla crescita mentale, alla trasformazione di strutture interne) l’altro adattativo (come uno strumento di adattamento, mira solo alla modificazione di aspetti esterni). Quando c’è una modificazione del nostro modo interno, cambia il modo di vedere e sentire gli oggetti; senza questo viaggio interiore non c’è cambiamento ma una soluzione dei “sintomi”.
La modalità trasformativa mira a un fare che segue il pensare, mentre quella adattativa mira primariamente a un fare che non è altro che agire, per scaricare tensioni e angosce. Vuole eliminare i sintomi, eliminare i disagi, senza occuparsi delle cause, mentre quella trasformativa è interessata a quello che i sintomi ci dicono del mondo interno dell’interlocutore, al funzionamento mentale
La concezione trasformativa privilegia il capire, il pensare ed il sentire sul fare: è una concezione antipedagogica perché non si propone nessuna finalità di insegnamento.
Il modello trasformativo è galileiano (concezione causale), mentre quello adattativo è aristotelico. La psicologia usata in maniera adattativa manipola l’oggetto in funzione di un obiettivo prestabilito. Il modello adattativo è gratificante per l’operatore che si sente “buono”
Nella concezione trasformativa la psicologia viene usata come strumento critico, e non confermante (come nell’adattativo). Pensare alla psicoterapia come strumento di guarigione è una concezione adattativa, come strumento di crescita è trasformativi.
Lo stesso discorso vale per il problema della motivazione allo studio della psicologia: la posizione trasformativa implica che ci si interroghi sui motivi che spingono a questa scelta professionale, quella adattativa identifica la ps. come una scienza in cui la competenza è data dalle conoscenze teoriche o abilità (skills).
La concezione trasformativa implica un preciso senso di responsabilità verso l’utente: la responsabilità dell’operatore è un fattore terapeutico e di successo e ha valore trasformativo La capacità relazionale non è qualcosa di strano o oscuro, ma è la capacità di assumersi le proprie responsabilità con il rispetto dell’altro e delle regole “pattuite”, in modo che l’utente si “senta” preso in considerazione come persona e non come “caso” Il senso di responsabilità prima di essere un fatto organizzativo e sociale è un fatto terapeutico e di profilassi. Un operatore responsabile è efficace, e lavorando in questo modo fa riferimento a un paradigma psicologico trasformativo dove vediamo (Winnicott) che la “trasformazione” avviene con lo svolgere responsabilmente il proprio lavoro e col rispettare l’altro. Es. favola di Esopo “il vento e il sole”. Il sole non si preoccupa di far togliere il mantello al viandante, che deciderà se vuole toglierselo. Per raggiungere questa posizione il sole ha dovuto mettersi dal punto di vista del viandante. Ragionando in una prospettiva kleiniana il vento agisce in una logica schizoparanoide mentre il sole è in una posizione depressiva. Poiché ha studiato Bion dimostra di essere capace di sostare in una situazione di incertezza in attesa che il viandante si tolga il mantello. Il vento è aristotelico, il sole è galileiano.
Se una persona è molto difesa non serve a niente spingere, insistere, minacciare, ma sarà più utile cercare di comprendere il senso di questo comportamento, sapendo aspettare, tollerando che possa rifiutarsi di collaborare, e soprattutto cercando di sentire.
Una psicologia trasformativa è dunque nella sua essenza, proprio come la psicoanalisi, una psicologia dell’interrogazione (v. storiella ebreo pag. 52).
Parte seconda – CONTRIBUTI PSICOANALITICI
CAP. 4 – Concetti freudiani di riferimento
Molti concetti che costituiscono la struttura della teoria freudiana sono stati modificati nel corso dello sviluppo della psicoanalisi. Sono illustrati per fornire una base storico-terminologica.
Psicoanalisi (Freud, 1922) è il nome 1) di un procedimento per l’indagine di processi psichici su cui sarebbe impossibile accedere, 2) di un metodo terapeutico per il trattamento di disturbi nevrotici 3) di una serie di conoscenze psicologiche acquisite per questa via che si assommano e convergono in una nuova disciplina scientifica.
Comprende quindi tre cose diverse: un metodo di osservazione, una terapia ed un corpo di teorie sul comportamento umano e sulla struttura della personalità (valide in ordine decrescente). Il modello di riferimento della metapsicologia freudiana era ancora di tipo neurofisiologico e non ha retto al passare del tempo.
Due date determinanti per lo sviluppo della psicoanalisi: 1895 (fa un sogno da cui getta le basi per teoria della mente: il sogno come via per raggiungere l’inconscio) e il 1897 (fonda psicoanalisi come scienza che studia delle fantasie, partendo dalle dichiarazioni delle sue pazienti che affermavano di aver avuto traumi sessuali: in realtà erano solo fantasie).
4.1.1 Influenze culturali
1. Influenza di Helmholtz, che appare nel postulato del determinismo psichico e nell’importanza del principio piacere-dispiacere e del principio di realtà.
2. Esperienza delle ricerche neurologiche da cui prendono origine la concezione delle strutture psichiche gerarchicamente contrapposte e il concetto di inibizione e facilitazione.
3. Teoria dell’evoluzione di Darwin che si manifesta nella visuale genetica di Freud
4. Esperienza sui nevrotici che lo porta a riconoscere il valore delle forze psichiche, a formulare il concetto di inconscio per spiegare l’esistenza di forze psichiche non coscienti.
5. Influenza di Brentano, forte nelle prime fasi del suo pensiero.
6. Influenza della letteratura e di Goethe (sensibilità alle sottigliezze della comunicazione verbale e prontezza a cercare un altro significato al di là di quello ovvio)
7. Lo spirito del tempo: il clima culturale della seconda metà dell’800 ed in particolare l’ambiente mitteleuropeo.
4.1.2 Prospettive metapsicologiche
Secondo la metapsicologia “la psicoanalisi considera la vita psichica da tre punti di vista: dinamico, economico e topico”.
Secondo il punto di vista dinamico i fenomeni psichici sono il risultato del conflitto di forze che esercitano una determinata spinta. I determinanti ultimi di ogni comportamento sono le pulsioni dell’inconscio. Ne consegue:
Secondo il punto di vista economico i processi psichici si avvalgono di un’energia quantificabile (energia pulsionale), circolante e distribuita e suscettibile di mutamenti di intensità. Ogni comportamento dispone di energia psichica (è l’energia che muove le pulsioni) ed è da essa regolato.
Secondo il punto di vista topico l’apparato psichico viene concepito come diversificato in istanze o sistemi diversi. I determinanti cruciali del comportamento sono inconsci. Le leggi che governano i determinanti inconsci del comportamento sono i processi primari.
Nel 1939 Hartmann e nel 1946 Kriss e Loewenstein hanno proposto di aggiungere un punto di vista genetico il cui nucleo è lo sviluppo psico-sessuale dell’individuo.
4.1.3 Ipotesi fondamentali
1. la più generale è quella del determinismo psichico; è l’ipotesi di base di tutto il sistema psicoanalitico: ogni evento psichico è determinato dagli eventi che lo hanno preceduto (il determinismo in psicoanalisi, a posteriori perché desunto dall’indagine clinica, è diverso da quello filosofico, a priori).
2. l’apparato psichico è diviso in tre sistemi, conscio, preconscio e inconscio, da cui consegue l’ipotesi dei processi psichici come processi prevalentemente inconsci. Significa intendere la coscienza come un attributo eccezionale, non regolare dei processi psichici.
Le altre ipotesi, che derivano da questa, affermano che: le forze psichiche inconsce sono in conflitto inconscio tra loro (prospettiva dinamica); e che ci sono energie psichiche che hanno origine nelle pulsioni (prospettiva economica).
4.1.4 Principi regolatori del funzionamento psichico
E’ regolato da due principi fondamentali. Il loro esame conduce alla considerazione dei due processi che governano il pensiero.
E’ opportuno distinguere due periodi del pensiero freudiano nel primo dei quali (fino al 1920) domina la concezione del “principio di piacere-dispiacere”, contrapposto al “principio di realtà”. Con Al di là del principio del piacere Freud parla di “coazione a ripetere”.
Prima fase del pensiero freudiano.
Il principio di realtà regola i processi secondari che sono modificazioni dei processi primari. Con l’intervento di questo principio si sviluppa la coscienza. E’ per l’intervento del principio di realtà che si hanno alcune manifestazioni culturali: la religione, che impone, senza riuscirvi, la rinuncia al piacere, nella vita, in vista di una compensazione maggiore dopo; l’educazione, che tende alla formazione di un Io; l’arte, ma solo la scienza riesce più delle altre a conseguire una vittoria nel contrasto tra i due principi.
Nel 1920 Freud porta a dignità di principio regolatore psichico la coazione a ripetere, che agisce al di là del principio del piacere”: è la tendenza a ripetere esperienze particolarmente intense, anche a contenuto sgradevole, ed è da attribuirsi al carattere conservatorio delle pulsioni. Trascende il principio di piacere; con questa nozione Freud apre la strada alla pulsione di morte; occorre tener presente però che la coazione a ripetere non esclude la precedente formulazione dei due principi.
4.1.5 Modi di funzionamento
In corrispondenza ai due principi suddetti, abbiamo due processi, primario e secondario, che sono i modi di funzionamento dell’apparato psichico.
Il passaggio dal processo primario a quello secondario è graduale e la differenza è quantitativa. I processi secondari, che ubbidiscono al principio di realtà, sono una modificazione dei processi primari avvenuta in seguito ad adattamenti successivi dell’apparato psichico che deve far fronte alle necessità del mondo esterno. Si riferiscono in genere al pensiero dell’Io maturo ed è il pensiero comunemente inteso, cosciente e verbale.
4.1.6 Pulsioni
Si intende “un processo dinamico consistente in una “spinta” (carica energetica, fattore di motricità) che fa tendere l’organismo verso una meta”. Nello sviluppo del processo pulsionale distinguiamo tre momenti: la fonte di una pulsione che è uno stato di eccitazione nella parte somatica; la meta che è la cessazione dell’eccitamento (si può dire anche gratificazione); l’oggetto della pulsione. Il concetto di pulsione e le tre distinzioni furono introdotte nel 1905 nei Tre saggi sulla teoria sessuale.
La pulsione è un concetto di frontiera tra il biologico e lo psichico, ed è una sorta di entità mitica. Si suppone che le pulsioni esistano alla base dell’organismo e dei suoi autentici bisogni. Quando una pulsione entra in azione produce uno stato di eccitazione che spinge all’attività tesa alla cessazione dell’eccitazione.
Correlato con le pulsioni è il concetto di carica psichica: è quel “quantum” di energia psichica che è diretta o legata a una rappresentazione. Dal punto di vista della metapsicologia è un concetto economico. La carica psichica presuppone una energia psichica: un’entità ipotetica, non verificabile, ma postulabile nell’ambito della concezione delle pulsioni come processi dinamici che esercitano una sorta di spinta sull’individuo.
4.1.7 Teorie delle pulsioni
Nella prima teoria (fino al 1920) Freud distingue tra pulsioni sessuali e pulsioni dell’Io o d’autoconservazione. Dal punto di vista economico l’energia delle pulsioni sessuali si chiama libido, termine che designa le cariche di energia devolute dall’Io agli oggetti delle sue tendenze sessuali. Le pulsioni dell’Io hanno come scopo l’autoconservazione dell’individuo: la loro energia è al servizio dell’Io. Il conflitto tra pulsioni sessuali e pulsioni dell’Io è il conflitto nevrotico: con la vittoria delle pulsioni dell’Io abbiamo la rimozione che viene attuata a spese delle pulsioni sessuali.
Tra il 1911 e il 1914 Freud abbandonò l’idea delle pulsioni dell’Io e d’autoconservazione, riducendole alle sole pulsioni sessuali. Ciò accadde in seguito alla scoperta del narcisismo che è l’amore di se stesso e della propria immagine. Le tendenze attribuite alle pulsioni dell’Io sono attribuite alle pulsioni sessuali perché l’amore di sé deriva dall’investimento libidico del bambino su se stesso; così si ha un narcisismo secondario in cui la libido invece di scaricarsi sugli oggetti ripiega sull’Io (libido dell’Io o narcisistica).
Con il 1920 Freud giunge alla definitiva formulazione della teoria delle pulsioni nell’affermare un nuovo dualismo tra pulsioni dette di vita (Eros) e pulsioni dette di morte (Thanatos). Questa concezione comprende in parte elementi delle due precedenti teorie.
Le due pulsioni non agiscono mai separatamente, ma sono fuse insieme, compongono un miscuglio in cui entrambe intervengono in misura variabile (fusione delle pulsioni).
4.1.8 Sviluppo genetico delle pulsioni
Poiché le pulsioni hanno la loro fonte nell’organismo, la maturazione e lo sviluppo del corpo comportano un corrispondente sviluppo delle pulsioni, che passa attraverso fasi o stadi che segnano l’evoluzione della libido. Per parlare di questa evoluzione occorre precisare il concetto di zona esogena (parti del corpo atte a essere eccitate sessualmente: la loro stimolazione permette la gratificazione libidica.
Queste due fasi sono anche dette “prefalliche”
Questi tre periodi sono contrassegnati da due caratteri: l’autoerotismo e la disposizione perversa-polimorfa che è bloccata dalla costituzione delle dighe psichiche.
La fase fallica è importante per le relazioni oggettuali che vanno sotto il nome di complesso edipico, che conosce in questa fase il suo culmine e il suo tramonto che segna l’ingresso nel periodo di latenza: consiste nel fatto che il bambino desidera possedere la madre fisicamente e sostituirsi presso di lei al padre che è il suo modello invidiato. Nella bambina l’oggetto amato continua ad essere la madre, ma quando si accorge di non avere il pene imputa alla madre la responsabilità di tale mancanza e si rivolge al padre come colui che può risarcirla.
Concetto di sublimazione: tendenza della pulsione verso mete non sessuali che possiedono valori morali e sociali.
Il passato ci condiziona: i primi cinque anni di vita sono cruciali. La concezione freudiana ipotizza la formazione della personalità come risultante dell’interazione di fattori biologici e psico-sociologici (ambiente familiare).
Esiste una conflittualità tra uomo e realtà esterna, tra uomo e società. C’è un’antitesi tra esigenze individuali e sociali: l’individuo è egoista, egocentrico.
4.1.9 Apparato psichico
Inizialmente Freud vede l’apparato psichico come uno strumento ottico composto di elementi disposti in sequenza, concezione chiaramente dinamica e funzionale. Successivamente giunge alla formulazione di due teorie classiche, in qualche modo integrate.
TEORIA TOPICA. Il primo modello: Conscio, Inconscio, Preconscio.
a. Conscio: coscienza comunemente intesa.
b. Preconscio: insieme dei processi e dei contenuti psichici che non sono attualmente presenti alla coscienza, ma che possono divenirlo, anche senza l’intervento del soggetto.
Entrambi i sistemi sono governati dal processo secondario e dal principio di realtà.
TEORIA STRUTTURALE. Seconda teoria. Freud divide l’apparato psichico in tre istanze: Es, Io, Super-Io.
Altri meccanismi di difesa: la regressione, la formazione reattiva, l’isolamento, l’annullamento retroattivo, la proiezione, la introiezione, la conversione nell’opposto, la sublimazione, l’identificazione con l’aggressore.
L’Io è quindi un’istanza che organizza il comportamento, poiché la sua funzione è quella di far fronte alle tre richieste dell’Es, del Super-Io e della realtà.
L’inconscio è sicuramente la grande scoperta freudiana. Pertanto non si può non essere freudiani, qualunque orientamento psicoanalitico si segua, perché Freud ha gettato le basi di una nuova conoscenza.
L’inconscio in Freud ha una valenza dinamica, è un aspetto della mente perennemente presente e interferente sul funzionamento mentale dell’individuo e sul suo comportamento: la psicoanalisi mette in evidenza che siamo noi che dipendiamo dalla nostra mente. Tutte le concezioni precedenti che tendevano a valorizzare la volontà e la capacità di autodeterminazione vengono drasticamente ridimensionate; le pretese di onnipotenza e onniscienza dell’uomo appaiono fantasie infantili.
L’idea di una parte inconscia della mente non è del tutto nuova: prima di Freud ne avevano parlato filosofi come Schopenhauer, Nietzsche, Platone e Dostoevskij. Rispetto ai pensatori precedenti la prima novità del pensiero freudiano è aver mostrato che questa parte è quella più importante, mentre la coscienza, grande mito della filosofia idealista ottocentesca, non è altro che un epifenomeno (es. freudiano iceberg: la parte emersa, che è minima, è la coscienza).
La seconda novità è che tutti questi aspetti della mente umana possono essere compresi scientificamente. Ciò che era stato intuito nei secoli precedenti da filosofi, letterati, con la psicoanalisi assurge a un ruolo di primo piano e tenta di essere compreso e spiegato scientificamente. Il secondo contributo freudiano consiste dunque nell’aver messo a punto uno strumento per conoscere scientificamente questa parte oscura della nostra mente. Non è un modo per conoscersi, è il modo per conoscersi.
Questa scoperta ha suscitato grandi resistenze, che si identificano nelle distorsioni che la conoscenza psicoanalitica subisce, originata dall’angoscia che induce. Alcuni hanno affermato che la psicoanalisi può essere considerata l’applicazione della teoria della relatività alla psicologia, nel senso che anche la psicoanalisi relativizza tutto.
Imbasciati ricorda che l’Inconscio ha tre caratteristiche fondamentali: estensione, legame con il corpo, governo della mente:
Nasce il problema di chi debba fare l’analisi: in linea di principio tutti, nella misura in cui è uno strumento di conoscenza di sé; di fatto la fa chi vuole farla o ne sente il bisogno (Winnicott).
Occorre tenere presente la relazione di transfert e controtransfert, che in un primo tempo appariva come un disturbo ed invece si è scoperto essere uno strumento di lavoro, nel senso che per l’analista l’essere in contatto con i propri sentimenti indotti dalla relazione con l’analizzando è un potentissimo strumento di conoscenza del mondo interno dell’altro.
Esiste una conflittualità Eros-Thanatos, per cui dobbiamo tener presenti gli aspetti distruttivi della mente, sia dell’altro che della nostra: quando c’è amore c’è anche sempre odio, perché le due cose sono fuse insieme.
Un ultimo punto da tener presente è che l’uomo ha un mondo interno di origine infantile: in psicoanalisi c’è un netto primato del mondo interno che fa premio sul mondo esterno: Bion dice che la percezione del mondo esterno dipende dall’organizzazione del mondo interno.
CAP. 5 – Prospettive kleiniane
5.1. Introduzione
E’ stata riscontrata una progressiva femminilizzazione del ruolo psicologico: si direbbe che le donne abbiano non solo una maggior propensione naturale per le dimensioni emozionali ed espressivo-affettive, ma che anche i modelli culturali in uso enfatizzino questo aspetto. Si può anche dire che l’ascolto e l’osservazione – funzioni orali – sono funzioni ricettive, mentre funzioni quali il produrre, il fare, l’organizzare – funzioni anali – nella nostra società occidentale sono tendenzialmente più delegate agli uomini che debbono fare i conti con condizionamenti del tutto particolari, in parte interiori, in parte codificati culturalmente.
Se è vero dunque che la psicologia rappresenta l’emergenza del femminile, Melanie Klein ci fornisce una convincente risposta sul perché di questa caratterizzazione: riandando alle prime fasi dello sviluppo inevitabilmente si giunge al rapporto madre-bambino e alla funzione materna che è una funzione femminile; la capacità di comprendere empaticamente la mente del bambino è qualcosa che è facilitato di più alle donne che non agli uomini, che non hanno l’esperienza della maternità. La femminilizzazione della psicologia ha molto a che fare con lo statuto stesso della disciplina, che può avanzare proprio grazie al contributo delle donne per la maggior capacità di entrare in contatto con gli aspetti precoci della mente. Le donne hanno una ricettività costitutiva che è strettamente funzionale, anche da un punto di vista biologico, allo svolgimento del ruolo materno.
Non è un caso che le scoperte sulle fasi precoci della mente siano state fatte da Melania Klein, madre prima ancora di essere psicoanalista; la grande capacità clinica della Klein si manifesta come capacità di cogliere le fantasie che stanno dietro il gioco del bambino.
Se Freud aveva scandalizzato facendo vedere come nella mente umana ci siano zone di follia e di perversione e come già nel bambino piccolo vivano impulsi di tipo sessuale, lo scandalo diventa maggiore con la Klein che mostra come nel bambino piccolo (già nel lattante) non ci siano solo queste dimensioni, ma qualcosa di ancor più primario e problematico, cioè rabbia, invidia, distruttività e violenza. La Klein lavorando alla costruzione del suo modello finisce per stravolgere il pensiero freudiano elaborando qualcosa di completamente diverso.
Era una donna dura ed esigente. Nacque a Vienna nel 1882 e morì a Londra nel 1860. Il suo nome originario era Reizes. Sposò Stephen Klein e fu un matrimonio non molto felice che si ruppe con un divorzio nel 1922. Ebbe 3 figli.
L’arrivo a Budapest intorno al 1910 fece fiorire in lei nuovi interessi ed energie, infatti ebbe il suo primo incontro con la psicoanalisi nel 1914 quando entrò in analisi con Ferenczi (si sostiene che soffrisse di depressione per la morte della madre e per la terza gravidanza). L’incontro con Ferenczi, pioniere della psicoanalisi in Ungheria, fu fondamentale, anche se più tardi la Klein ripudiò in parte l’analisi fatta con lui. Nell’associazione psicoanalitica non c’erano stati molti tentativi di applicarne i metodi all’infanzia; invece Ferenczi era interessato a queste prospettive.
Nel 1918 Melania Klein fece la conoscenza diretta di Freud e cominciò ad occuparsi di psicoanalisi: nel 1919 entrò nella Società Psicoanalitica. Intorno al 1920 iniziò a sperimentare la psicoanalisi sui figli e i primi casi trattati furono proprio i suoi bambini. Nel 1921 si spostò a Berlino dove conobbe Abraham, che era molto interessato alla psicoanalisi infantile; si mise in analisi con lui. La sua analisi durò dal 1924 al 1925 e Abraham la incoraggiò sulla strada della psicoanalisi infantile e soprattutto sulla “tecnica del gioco”. Dopo un anno Abraham morì e la Klein si ritrovò con un’analisi interrotta, ma più soddisfatta del lavoro in profondità fatto con Abraham che non di quello fatto con Ferenczi, del quale non approvava la tecnica, chiamata “attiva”, che avrebbe portato Ferenczi a distaccarsi dal legame originario con Freud.
In quel periodo entrò in contatto con alcuni analisti inglesi, in particolare con Strachey e con Glover, anch’essi interessati alla tecnica infantile, che la invitarono a Londra a tenere delle conferenze. Ebbe un grande successo, tanto che vi andò ad abitare nel 1926. Nel frattempo cominciava a delinearsi il conflitto con Anna Freud.
Nel 1933 a Londra arrivarono anche i prime psicoanalisti tedeschi che scappavano dalla Germania per le persecuzioni naziste. A Londra Klein creò intorno a sé un gruppo di seguaci, suscitando controversie ed una vera e propria spaccatura all’interno della società psicoanalitica. Nel 1934 morì il figlio Eric: tale esperienza lasciò un grande segno e il saggio del 1935 “Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi”, la cui stesura è stato un modo per elaborare il lutto della perdita del figlio.
Il 1935 costituisce una sorta di spartiacque nel pensiero kleiniano: comincia a occuparsi dei meccanismi psicotici. Freud pensava che si potesse lavorare solo sulle nevrosi, mentre con la Klein si comincia a intravedere che si può lavorare anche sulle psicosi.
Nel pensiero kleiniano si possono distinguere quattro fasi:
Il pensiero della Klein segna un radicale cambiamento nella teorizzazione e nella prassi psicoanalitica. Freud aveva fondato una teoria energetica, mentre la Klein fonda una teoria semantica, una teoria del significato: a tutti i concetti di Freud che usa dà significati diversi, e questo è uno dei motivi per cui la sua opera è stata accettata con fatica.
Mentre Freud descrive tutta l’economia dell’inconscio come frutto della dinamica pulsionale, la Klein organizza tutta la vita psichica intorno al rapporto con l’oggetto. Per Freud l’oggetto è un oggetto della realtà esterna investito da pulsioni, la Klein invece quando parla di oggetti si riferisce allo sviluppo dei bambini: quello della Klein non è un oggetto sessuale in senso stretto, ma è un oggetto d’amore, un oggetto di affetti; il primo di questi oggetti è il corpo della madre, il seno materno. La madre non viene vista, come in Freud, in chiave edipica, ma come la madre del bambino, per cui si accentua l’aspetto duale, primario della relazione. Per Klein non c’è paziente i cui problemi non possano essere ricondotti al suo rapporto con la madre.
Si tratta però di una madre interna, di un oggetto in fantasia, non tanto della madre reale che al limite potrebbe anche non essere una figura femminile ma un sostituto. E’ la mamma così come il bambino l’ha percepita, l’ha vissuta e l’ha costruita dentro di sé: una relazione tutta fondata su un continuo gioco di introiezioni e di proiezioni. E’ un oggetto interno che parte da una situazione reale ma è filtrato dal mondo interno del bambino e dalla presenza di questi meccanismi introiettivi e proiettivi, che sono i meccanismi primari insieme alla scissione.
Se il concetto cardine nella psicoanalisi freudiana è il concetto della rimozione, i concetti cardine nella psicoanalisi kleiniana sono quelli di scissione e di proiezione e introiezione, o meglio di identificazione proiettiva e identificazione introiettiva. La concezione della pulsione di morte in Klein ha un clamoroso rilancio, per motivi di ordine storico e biografico. Diversamente che in Freud più che di aggressività e libido Klein parla soprattutto di odio e amore: la sua è una teoria eminentemente affettiva.
Il ruolo degli impulsi distruttivi nelle esperienze precoci viene molto esaltato dalla Klein e la vita psichica ruota in gran parte intorno al problema della distruttività, che è il dramma dell’individuo perché rispetto alla distruttività l’individuo deve proteggere se stesso e poi i suoi oggetti d’amore.
La Klein parla anche di “sadismo”, riferendosi a Freud, ma se in Freud l’infanzia non è innocente e il mondo infantile è interamente permeato dalla sessualità, in Klein l’infanzia non solo non è innocente ma è anche carica di ostilità e violenza. Queste concezioni smontano qualunque visione ottimistica della mente umana.
D’altra parte quando abbiamo a che fare con la violenza della vita quotidiana dobbiamo renderci conto che è qualcosa di insito in tutti e che trova le sue origini nelle primissime fasi di vita. La salute mentale è la capacità di integrare all’interno della mente gli impulsi e le dimensioni distruttive.
A livello di fantasia noi proiettiamo nell’altro tutte le nostre parti cattive, così che l’altro se ne faccia inconsciamente carico e le agisca per conto nostro.
E’ compito di chi gestisce un gruppo di lavoro, di chi svolge funzioni di leadership, così come è compito della madre, far sì che ci si muova verso l’integrazione e non verso la scissione e la proiezione.
Rispetto a Freud la Klein privilegia la dimensione relazionale, le interessa soprattutto il tipo di relazione che si stabilisce tra soggetto e oggetto, quindi mentre in Freud c’è una sessualità sulla quale poi si costituiscono gli affetti, nella Klein ci sono prima gli affetti e poi la sessualità, cioè sono gli affetti che costituiscono la sessualità.
Secondo la Klein la fantasia nel bambino è molto più sviluppata di quanto ammettesse Freud. Questo si collega alla scoperta fondamentale della Klein, quella del gioco: mentre per Freud la via regia all’inconscio è il sogno, per Klein, nell’ambito della psicoterapia infantile, è il gioco. Nel gioco intervengono gli stessi meccanismi che intervengono nel sogno: tutta la psicoterapia infantile moderna parte da qui.
Si tratta di uno dei punti sui quali si fondava il disaccordo tra la Klein e Anna Freud, che pensava all’intervento terapeutico con i bambini come a una attività principalmente educativa.
Un comportamento, qualunque sia, in qualunque contesto si situi, non può mai essere considerato come una comunicazione singola, ma va iscritto in una serie di messaggi. C’è uno stretto collegamento con il pensiero lewiniano e con la teoria del campo, in cui si parla di un tutto e della parte che prende significato all’interno del tutto.
Quando svolgiamo un lavoro psicologico dobbiamo fare attenzione a non “spiegare” singoli comportamenti estrapolandoli dal contesto relazionale in cui si manifestano.
Un altro punto importante della diatriba tra la Freud e la Klein riguarda il transfert. La Klein interpretava il transfert anche nei bambini e Anna Freud diceva che ciò era assurdo perché il transfert si interpreta negli adulti, che rivivono in esso le esperienze sessuali con i genitori, mentre i bambini hanno ancora i genitori come oggetti reali.
La differenza sostanziale è che in Freud un bambino di quattro anni sviluppa la relazione edipica, in Klein un bambino di quattro anni ha sviluppato una relazione edipica filtrata dalle fantasie del primo periodo di vita. Da questo punto di vista la Klein è molto più psicoanalitica di Anna Freud.
Ci sono due elementi che sono fondamentali nell’analisi dei bambini e nella teoria kleiniana:
Se è vero che il senso di un messaggio viene dato dal contesto relazionale in cui si manifesta si capisce anche perché diventa importante avere un setting, e non solo in sede clinico-terapeutica, ma tutte le volte che si compie un lavoro psicologico: il setting diventa l’elemento che può dare un significato alla comunicazione, perché mantiene costanti le condizioni in cui avviene la comunicazione che prenderebbe un significato emotivamente del tutto diverso. Ecco perché è importante lavorare all’interno di regole codificate ben precise.
Le regole servono dunque per lavorare. Le regole del setting sono anche quelle che permettono l’osservazione del comportamento infantile. Per formarsi è utile guardare i bambini mentre giocano. Il gioco è il lavoro del bambino.
Se nell’analisi uno dei principali strumenti di lavoro sono le libere associazioni, cioè il dire tutto quello che viene in mente senza fare censure, nell’analisi infantile l’equivalente è il gioco.
Da queste scoperte derivano innovazioni clamorose: non solo il transfert appare più complesso di quanto non fosse in Freud, ma anche il controtransfert diventa uno strumento di lavoro.
Con la Klein emergono quindi: l’importanza della relazione, l’importanza del mondo interno primitivo e della vita psichica primaria.
La concezione kleiniana della mente, a differenza di quella freudiana, è fondata sulle teorie che i suoi pazienti formulavano riguardo alla propria mente. Anche Freud parlava delle teorie e delle fantasie dei bambini; ma la Klein accentua ulteriormente l’attenzione a quello che le persone pensano di se stesse.
Dovendo definire i concetti chiave del pensiero kleiniano, il primo da considerare è quello di fantasia.
La definizione di fantasia insieme alla definizione di oggetto è necessaria per poter comprendere quelle che la Klein chiama le posizioni che il bambino attraversa nel suo sviluppo; la posizione schizoparanoide e la posizione depressiva.
Il concetto di fantasia comincia a delinearsi intorno al 1923. Saggio “Il nostro mondo adulto”: “Niente che sia esistito nell’inconscio arriva mai a perdere completamente la sua influenza sulla personalità.. e se osserviamo il nostro mondo adulto….vedremo come la nostra mente, le nostre abitudini, le nostre opinioni si sono andate formando a partire dalle primissime fantasie..”
Una prima definizione di fantasia è stata data da Susan Isaacs nel 1948 “la fantasia è il contenuto primario dei processi mentali inconsci”
Hinshelwood precisa: “Le fantasie inconsce sottostanno ad ogni processo mentale. Sono le rappresentazioni mentali di quegli eventi somatici del corpo che comprendono gli istinti, e derivano da sensazioni fisiche interpretate come relazioni con gli oggetti che causano tali sensazioni”.
Abbiamo quindi sensazioni corporee che vengono mediate a livello culturale.
Hinselwood parla esplicitamente di fantasie masturbatorie e presenta la masturbazione come un elemento finalizzato ad alleviare la tensione. La Klein mise in evidenza come il tic nel bambino (ma anche nell’adulto) sottintenda una fantasia masturbatoria che ha la finalità di togliere un’angoscia.
Si tratta di un modello mentale completamente diverso da quello di Freud, secondo cui le primissime fantasie stanno alla base del modo in cui si manifesta il comportamento umano in tutte le sue forme. Freud parlava esplicitamente di un’attività allucinatoria, nell’adulto e nel bambino, ma pensava che fosse sostitutiva di una frustrazione (il bambino che si succhia il dito fa finta di avere il seno che non ha).
Quello che sostiene la Klein è molto diverso: l’appagamento allucinatorio non è un qualcosa di conseguente alla frustrazione, ma accompagna incessantemente il bambino fin dalla nascita: il discorso viene quindi completamente capovolto.
Per oggetto dobbiamo intendere ciò (cosa o persona o parte di una persona) verso cui è diretta l’azione o verso cui è diretto il desiderio: l’oggetto è ciò che il soggetto richiede. E’ quindi quel qualcosa di animato o inanimato che aiuta o serve a gratificare/soddisfare un desiderio, un bisogno.
Nella fantasia inconscia c’è una rappresentazione della relazione tra il Sé e l’oggetto: tale relazione è all’interno della nostra mente.
L’oggetto nella fantasia del bambino è fantasticato come avente una vita propria e mette in luce come la fantasia del bambino sia una fantasia onnipotente; il problema del bambino è la sua onnipotenza, quello dell’adulto è di riuscire ad abbandonare l’onnipotenza infantile.
Il concetto di oggetto si articola attraverso una serie di polarità: oggetto parziale, oggetto intero; oggetto buono, oggetto cattivo ecc. Ad es. il lattante che patisce i morsi della fame; prova sensazioni dolorosissime a livello corporeo e sente questo dolore come se fosse qualcosa indotto da un oggetto cattivo: quindi abbiamo un oggetto interno vissuto come cattivo, che in realtà non esiste, ma è una fantasia che si sviluppa a partire da una sensazione corporea dolorosa, persecutoria.
Quando c’è una sensazione corporea sgradevole, frustrante, questa viene dunque interpretata come la conseguenza del fatto che ci sono delle intenzioni cattive o persecutorie da parte dell’oggetto nei confronti del soggetto: si noti una differenziazione tra me e l’altro, per cui quello che si prova viene attribuito all’altro e per conseguenza ritorna indietro.
Altro es. quando qualcuno perde il lume della ragione perché si sente minacciato da un oggetto esterno che non è altro che una esternalizzazione dell’oggetto cattivo interno: l’oggetto cattivo quando viene esternalizzato diventa l’altro, il nemico. La persecuzione nasce da una sofferenza non elaborata, non contenuta, che non trova la possibilità di essere pensata o accolta (che è poi sostanzialmente la funzione della madre) e ritorna indietro come una minaccia intenzionale.
L’oggetto cattivo entra in conflitto con l’oggetto buono, che è l’opposto dell’oggetto cattivo e si costituisce quando delle sensazioni corporee piacevoli fanno pensare che ci sia qualcosa che ha delle benevoli intenzioni nei propri riguardi (ad es. il lattante che mette in bocca il capezzolo o il biberon, non ha solo un oggetto morbido che dà appagamento di tipo alimentare, ma ha la sensazione di un oggetto buono, molto bendisposto verso di lui, qualcosa che è l’opposto della persecuzione.
L’oggetto buono è il nucleo centrale dell’Io ed è fondato sulla soddisfazione e sull’appagamento. Le tre virtù teologali (fiducia, speranza e carità) sono il modo che la religione cristiana usa per raccontare della installazione di un oggetto buono nella mente dell’individuo.
Es. film Forrest Gump: il protagonista passa attraverso varie esperienze di vita senza esserne rovinato, conservando un nucleo autentico ottenuto grazie a una madre interiorizzata, che gli ha dato fiducia, speranza e forza.
Il punto fondamentale è che per costituire una mente, un Io, un nucleo di stabilità occorre un oggetto buono, occorre cioè aver potuto introiettare e conservare dentro di sé un oggetto buono. Quando lo si perde, anche per il conflitto con l’oggetto cattivo, si entra in uno stato di insicurezza, di angoscia e persecuzione che caratterizza la situazione schizoparanoide.
La scissione tra oggetto buono e cattivo è la scissione tra il “buono” e il “cattivo” che permane anche nella vita adulta. Cerchiamo di collegare insieme il concetto di fantasia con il concetto di oggetto. La fantasia ci dice cosa “pensa” il bambino: dunque parlare di pensiero significa parlare delle fantasie. Ad es. il bambino “pensa” di aggredire l’oggetto cattivo che è la mamma: il senso di persecuzione è un boomerang, la mia rabbia mi si rivolge contro. I sentimenti e gli affetti colorano la relazione con l’oggetto: la fantasia rappresenta questa relazione. L’aggressività si tramuta per sua natura in persecutorietà perché c’è una confusione di base, una non differenziazione tra me e l’altro, una non separazione tra me e l’oggetto: il meccanismo di proiezione è il più primitivo della mente.
La “posizione” (termine usato dalla Klein nel 1935) oltre ad essere una modalità di relazione è una costellazione di angosce, di difese e di impulsi che il bambino sviluppa. La Klein sostituisce questo concetto a quello di “fasi” impiegato da Freud, perché i fatti che osserva sono sovrapposti e fluttuanti, ipotizzando un movimento ondulatorio, un continuo andare e venire. “Posizione” è un concetto molto forte che descrive le modalità di relazione delle persone operanti anche nell’età adulta; ha una particolare rilevanza anche da un punto di vista psicosociale.
La Klein individuò la modalità di relazione e di funzionamento schizoparanoide retrocedendo nella sua indagine, cominciando a descriverla nel 1946. Ciò la portò a modificare, riformulare e riorganizzare un po’ tutte le sue teorie precedenti. La descrizione di questa posizione è conseguente anche all’incontro della Klein con le teorie di Ronald Fairbairn, docente di lettere classiche che poi si laureò in Medicina e si mise a fare l’analista. L’indagine di Fairbairn era su aspetti di tipo schizoide e la Klein parlava di posizione paranoide o di meccanismi paranoici all’interno del funzionamento mentale dei bambini molto piccoli; dall’incontro dei due pensieri scaturì l’interesse della Klein per la presenza di aspetti schizoidi nei bambini molto piccoli, ed arrivò a formulare il concetto di posizione schizoparanoide. il timore dei rivali e le angosce che ne conseguono sono comuni nei bambini molto piccoli; i desideri genitali edipici hanno il proprio precursore nel desiderio da parte del neonato di possedere la madre che lo nutre: se il bambino non viene nutrito (l’assenza dell’oggetto che fornisce nutrimento e calore) egli fantastica che la madre stia offrendo il seno ad altri. Tali sentimenti infantili sussistono per tutta la vita; sono particolarmente attivi in qualsiasi relazione di dipendenza emotiva, particolarmente violenti nei momenti di turbamento e di crisi. Questo è un modo per tenere a bada angosce terribili come “se non ci sei, morirò”.
Questo messaggio è così forte da spingere l’adulto a correre in suo aiuto. Anche gli adolescenti e gli adulti possono mandare un messaggio di questo genere, in modo diverso, ad es. con un comportamento delinquenziale così appariscente da rivelare il desiderio di essere scoperti e puniti.
La Klein definisce così la posizione schizoparanoide: “gli impulsi distruttivi onnipotenti, l’angoscia persecutoria predominano durante i primi tre, quattro mesi di vita: ho descritto questa combinazione di meccanismi e di angosce come la posizione schizoparanoide, che in casi estremi, costituisce la base della paranoia e della schizofrenia”.
La frustrazione dei bisogni fisici apre la strada alla ostilità verso l’oggetto; l’odio primario non è meno strettamente legato alle sensazioni corporee dell’amore primario. Ora, poiché la prima fonte di frustrazione è la realtà stessa, la madre, come prima rappresentante della realtà, è quindi anche la prima fonte di frustrazione ed è frustrante quando è assente e in quanto non può esaurire sempre e comunque il bisogno e il desiderio onnipotente del bambino. In sede analitica, l’analista in quanto rappresentante della madre, e l’analisi, in quanto riproduzione del percorso di nascita e crescita, sono necessariamente frustranti; l’analista frustra continuamente le fantasie onnipotenti del bambino che è nel paziente, cioè la fantasia onnipotente di guarire immediatamente e di non soffrire; altrettanto, l’allievo ha l’aspettativa magica che l’insegnante sia talmente onnipotente da instillare tutto il sapere nella sua mente senza bisogno di sforzo, per cui quando scopre che non è così prova frustrazione, dolore mentale e rabbia.
L’apprendimento, in sede analitica, non può prescindere dalla frustrazione e dal dolore, proprio come la crescita e l’apprendimento del neonato, che può crescere solo nella misura in cui riesce a riconoscere il proprio bisogno e la propria rabbia come qualcosa che è dentro di sé, invece di proiettarla fuori su un oggetto continuando così a funzionare in modo schizoparanoide.
La conseguenza grave della scissione e della proiezione sta nel fatto che si scinde e si separa anche la propria mente; così non si avrà più la consapevolezza del bisogno, né si proverà più il desiderio rispetto a un oggetto esterno separato da sé. Non si sarà più capaci né di ricordare, né di pensare, né di progettare, perdendo così il passato (la memoria) il presente (il pensiero, il contatto con la realtà) e il futuro (la capacità di immaginazione e progettazione). Essendo queste le tre condizioni per poter accedere a un’azione davvero efficace e incisiva è evidente che l’uso di meccanismi difensivi come la scissione comporta progetti e azioni sbagliati, sterili o distruttivi.
Nella posizione schizoparanoide non c’è solo proiezione ma anche scissione. La Klein parte da Fairbairn che osservava che è propria della schizofrenia la presenza di una mente scissa, frammentata (schizofrenia vuol dire etimologicamente una mente scissa, a pezzi). La Klein si chiedeva come sia possibile che la mente si sperimenti come frammentata e decise di dedicare più attenzione alle primissime fasi di vita arrivando così a scoprire la posizione depressiva.
Caratteristiche della scissione, della frammentazione: Klein osserva che la frammentazione è qualcosa che ha a che fare con la pulsione di morte, che è operante nell’Io e nel mondo interno dell’individuo. Parla di Io ma non inteso come Freud: parla di un Io primitivo che oscilla tra stati di integrazione e disintegrazione: ad es. potremmo dire che la funzione analitica è una funzione di integrazione e che qualunque funzione di integrazione è una funzione di salute mentale. Questa alternanza di stati integrati e di stati disintegrati è connessa alla presenza e/o assenza dell’oggetto. Per poter tollerare un’assenza, una lontananza, bisognerebbe avere dentro di sé la rappresentazione di una cosa buona che, anche se lontana, poi ritorna.
La presenza della scissione fa sì che non si avvertano più i sentimenti: i soggetti schizofrenici o i soggetti che hanno meccanismi difensivi di tipo schizoide sembrano avvertire poco o niente l’emozione concomitante al fatto concreto. L’emozione e l’angoscia in realtà viene espulsa fuori di sé; l’angoscia è così forte e le possibilità della mente sono così fragili che l’angoscia viene evacuata in modo da non provarla più.
Alla base di queste problematiche c’è un elemento ancora più primitivo che è l’introiezione, cioè la primitiva operazione che il bambino fa rispetto al seno che lo nutre per sforzarsi di creare questo oggetto buono dentro di sé, che può costituire il centro dell’Io, il nucleo intorno al quale si può costruire e raggiungere un’integrazione. Tutta la posizione schizoparanoide è una lotta per il raggiungimento e il mantenimento di una deflessione adeguata dell’istinto di morte, cioè è una lotta per gestire l’istinto di morte. Es. il suicidio, in cui l’Io attacca se stesso. In realtà la pulsione di morte non è rivolta tanto verso se stessi, ma soprattutto come estrema difesa contro l’oggetto cattivo interno introiettato che diventa un persecutore interno e costituisce un Sé cattivo. Naturalmente il suicidio ha anche una componente di colpevolizzazione verso l’esterno, cioè aggressività verso gli altri che sopravvivono cui si vuole fare sentire che non hanno fatto abbastanza, ma alla base c’è questo attacco della pulsione di morte all’oggetto persecutore interno.
Si potrebbe dire infine che la posizione schizoparanoide è un meccanismo di sopravvivenza, una posizione difensiva che la mente del bambino ancora debole utilizza per far fronte alle angosce primitive molto forti. Vediamo dunque quali sono questi meccanismi difensivi:
Nella mente del lattante si svolge una lotta terribile; è il senso dello sviluppo, e l’amore della madre è lo strumento di sopravvivenza del bambino: quello che conta è la capacità della madre di identificarsi con il bambino, di regredire con lui, mentre una mamma che non fa questo è una mamma molto frustrante.
Esiste una costellazione di sentimenti e fantasie, proprie della posizione schizoparanoide, che vanno sotto il nome di invidia, avidità, ingratitudine. Secondo la Klein l’invidia è una fantasia innata che ha bisogno per esistere del meccanismo della scissione. Il bambino attribuisce tutta la bontà a un oggetto buono ideale, e tutta la sofferenza a un oggetto cattivo. L’invidia si dirige verso l’oggetto buono. Costituendo un’esperienza mentale molto primitiva la Klein assegna l’invidia al funzionamento mentale schizoparanoide.
Freud aveva parlato di invidia, con specifico riferimento all’invidia del pene. La Klein mostra come, essendo un sentimento primario, che si connette ai primi momenti della vita, sia un sentimento che ha a che fare con l’oralità.
Sequenza dell’invidia primaria (diversa dalla frustrazione o dalla rivalità): c’è una fantasia innata che comporta un attacco diretto contro l’oggetto buono, che viene attaccato proprio per la sua bontà; l’invidia ha la caratteristica di essere un sentimento che distrugge le cose buone e la creatività; per cui diventa intollerabile il sentirsi separati da questo oggetto buono invidiato
L’invidia è imparentata con l’avidità: questa è connessa all’invidia perché l’oggetto invidiato viene attaccato e distrutto; sostanzialmente il bambino non può più introiettare niente di buono e si trova affamato come prima. L’avidità è il desiderio di introiettare con rabbia un qualcosa che è già stato distrutto. Il meccanismo invidioso alla fine si ritorce contro il soggetto che invidia.
Es. favola La volpe e l’uva: l’uva rappresenta il seno materno, e la volpe il bambino; sotto la spinta dell’impulso invidioso lo attacca degradandolo e trasformandolo in un oggetto inadeguato a soddisfare il bisogno. La conseguenza dell’invidia è che quando la volpe attacca l’uva, attacca anche il proprio desiderio, ma in realtà è affamata come prima. A questo punto si innesca il meccanismo dell’avidità, perché tutto ciò che il soggetto invidioso introietta viene rovinato.
Altri es. : i due film Lanterne rosse e Amadeus.
Va fatta una distinzione tra invidia, gelosia ed avidità. L’invidia è un sentimento di rabbia perché un’altra persona possiede qualcosa che desideriamo e ne gode: comporta il rapporto con una sola persona, ed è riconducibile al primo rapporto esclusivo con la madre.
La gelosia deriva dall’invidia e coinvolge per lo meno altre due persone: si riferisce ad un amore che il soggetto sente come suo e che gli è stato portato via (o sta per essere portato via) da un rivale.
L’avidità è un sentimento imperioso e insaziabile che va al di là dei bisogni del soggetto: a livello inconscio, ha lo scopo di svuotare completamente il seno, è l’introiezione distruttiva, vuole sfruttare tutte le fonti di soddisfazione senza considerazione per nessuno. Quando a livello sociale lo sfruttamento si struttura in figure di leadership nei gruppi o nelle organizzazioni, si ha quella confusione tra forza e violenza per cui vengono scambiati per capacità e forza decisionale atteggiamenti in realtà violenti e fondati sullo sfruttamento degli altri.
La concezione kleiniana dell’invidia non è condivisa da Winnicott, che considera invece molto rilevante il ruolo dell’ambiente e del contesto che circondano il bambino
L’invidia è comunque una malattia molto diffusa. Proverbio “Chi disprezza compra”, opere “Tom Jones”, La gaia scienza di Nietzsche, Re Lear di Shakespeare. Klein non a caso cita proprio Shakespeare, riferendosi ad un verso dell’Otello, in cui parla Desdemona “mordere la mano che vi nutre”. Il più famoso es. del rapporto di ingratitudine genitori-figli è quello di Bruto verso Cesare.
Collegata all’invidia è l’ingratitudine e, per converso, come superamento dell’invidia, la gratitudine. Aristotele, interrogato su cosa invecchia presto: “La gratitudine” disse.
E’ il superamento dell’invidia e non è propriamente la “gratificazione”. Va oltre: quando il bambino può godere della relazione con la madre e di ciò che di buono gli dà la madre ecco che si sviluppa gratitudine, che è il segno di un superamento o di un’attenuazione dell’invidia. La possibilità di nutrire gratitudine implica il superamento dell’invidia e anche l’accesso a una situazione di tipo depressivo, al riconoscimento dell’altro e della propria negatività e quindi allo sviluppo dei sentimenti buoni.
Il superamento dell’invidia implica l’accettazione della dipendenza e dei propri limiti e del lutto. La vita stessa è una continua elaborazione del lutto. E’ proprio quando il lutto è elaborato che si arriva ad una posizione depressiva, è solo quando il lutto è elaborato che si riesce ad introiettare un oggetto buono e a tollerarne la perdita esterna perché l’oggetto buono è dentro e quindi si sviluppa fiducia e speranza. Così si accede alla gratitudine e a quel sentimento di sentirsi pieni di cose buone che produce appagamento e ha qualcosa a che fare con il sentimento della felicità.
Le angosce depressive sono centrate sulla preoccupazione per l’oggetto, sulla paura di averlo danneggiato. La posizione depressiva è dunque un momento cruciale dello sviluppo perché mette in gioco il problema della colpa, del lutto e della riparazione.
Già in Freud si possono trovare spunti che ne fanno quasi un precursore della teorizzazione kleiniana della posizione depressiva e del senso di colpa nei confronti dell’oggetto che la caratterizza.
Secondo la Klein, nel quinto-sesto mese di vita il bambino incomincia a temere il danno che i suoi impulsi distruttivi e la sua avidità possono causare agli oggetti amati. Si sente colpevole e desidera riparare il danno causato. L’angoscia assume adesso un carattere prevalentemente depressivo e le emozioni che la accompagnano e le difese fanno parte dello sviluppo normale, denominato “posizione depressiva”. I sentimenti di colpa che occasionalmente insorgono in noi hanno radici profonde nell’infanzia, e la tendenza a riparare svolge un importante ruolo nelle nostre relazioni oggettuali.
Quindi per poter accedere alla posizione depressiva, occorre integrare/superare le varie problematiche schizoparanoidi e l’invidia. E’ sostanzialmente l’acquisizione di uno stato mentale adulto e, in una prospettiva kleiniana, è anche la finalità dell’analisi.
Il processo psicoanalitico riproduce il percorso e i primi momenti dello sviluppo e se è vero che lo svezzamento è una delle prime esperienze di perdita che riattiva i meccanismi propri del lutto, allo stesso modo il processo psicoanalitico è una continua elaborazione del lutto. Ogni lutto è un lutto per tutti i lutti: ogni volta che c’è un’esperienza di lutto, tutti i lutti non elaborati precedentemente ritornano. La salute mentale, la maturità emotiva, la capacità relazionale è proprio la capacità di tollerare queste mancanze e di saperle elaborare.
Nella posizione depressiva il bambino si accorge che questo oggetto che veniva prima considerato buono nella presenza e cattivo nell’assenza, in realtà è sempre lo stesso oggetto, ma è il bambino che prova sentimenti diversificati di piacere o di frustrazione a seconda della presenza o dell’assenza dell’oggetto: questo comporta il rendersi conto di una propria ambivalenza; la paura di aver danneggiato l’oggetto sviluppa sensi di colpa, che quindi ha la funzione di proteggere l’oggetto. In Freud il senso di colpa era connesso al tramonto del complesso edipico, alla paura di castrazione e alla rivalità con il padre; nella Klein è correlato invece all’intensità degli impulsi aggressivi, ed è ciò che permette di proteggere l’oggetto.
L’acquisizione di una posizione depressiva è possibile soltanto se ci si riappropria della propria distruttività e l’oggetto non viene più sentito in maniera persecutoria, come nel caso della “favola del lupo e dell’agnello” in cui il lupo dice all’agnello che gli sporca l’acqua e l’agnello gli risponde che non è possibile perché sta più a valle rispetto al lupo (il che fa vedere che quando uno è in una logica schizoparanoide falsifica anche la realtà). Per poter riparare bisognerebbe che il lupo cominciasse a pensare che non sia l’agnello ad attaccare, ma che riconoscesse e si riappropriasse dei propri impulsi e delle proprie fantasie aggressive.
L’accesso alla posizione depressiva è l’accesso alla realtà, cioè il riconoscimento dei propri limiti, della propria finitezza: questo è il senso più profondo del lutto che, in compenso della sofferenza che ci procura, ci aiuta a vivere nella realtà e ad apprendere da essa.
La posizione depressiva infantile si organizza intorno alla perdita del seno. L’esperienza del lutto non è però soltanto del bambino ma è anche della madre: anche la madre che allatta al seno quando deve smettere di farlo, è triste e dispiaciuta; il lutto è reciproco e se la madre non è in grado di tollerare il lutto non sarà neanche in grado di permettere al bambino di separarsi e quindi incrementerà questo legame.
Le esperienze del lutto non sono solo lo svezzamento ma anche l’educazione sfinteriale. Ogni lutto quindi, di cui il prototipo è la situazione primaria, è un’esperienza molto difficile, perché ci fa fare un esame di quelle che sono le nostre capacità di provare amore e gratitudine; se questo lutto non viene elaborato sopravviene rancore, rabbia.
Il lutto però è qualcosa che può accompagnare anche esperienze positive come un successo scolastico o professionale; ad es. la cd. Depressione post esame, post lauream, o quella post partum non sono vere e proprie depressioni ma vissuti di lutto dovute al fatto che comunque si tratta della fine di una parte della propria esperienza di vita.
Il lutto socialmente viene spesso ritualizzato e non solo nel caso più tipico dei funerali, ma per es. a scuola con le note cene di fine anno. Storicamente l’es. classico è l’Ultima Cena in cui si ritualizza il lutto nella frase in cui Gesù dice “mangiate, questa è una parte di me” cioè introiettate una parte di me, conservandola dentro di voi.
Le esperienze di lutto, come la conclusione dell’analisi, sono simili alla paura di crescere: crescere è difficile perché comporta delle separazioni, quella paura di diventare adulto che si vede bene nei sogni dell’esame di maturità. In un’impostazione psicoanalitica la salute mentale coincide con la caduta dell’onnipotenza, il riconoscimento dei propri limiti, l’accettazione della problematica della morte.
L’elaborazione del lutto e del raggiungimento di una posizione depressiva si collega al raggiungimento di una creatività matura e al superamento della cosiddetta crisi di mezza età. Come nel caso di Dante, la cui “selva oscura”” rappresenta la confusione e l’angoscia che lo prende verso i trentacinque anni e che supera scrivendo La Commedia, narrazione di un travaglio tutto interiore ed emotivo, nel passaggio dall’Inferno dell’angoscia al Paradiso del raggiungimento di una posizione quieta conseguente all’elaborazione del lutto.
CAP. 6 – Prospettive bioniane
Sebbene si inscriva nel filone kleiniano, Bion non è un semplice continuatore del pensiero della Klein, perché ne cambia addirittura il paradigma e fa fare un salto qualitativo alla psicoanalisi. Si può dire che Freud aveva costituito un sistema quasi neurofisiologico, Klein aveva costituito un sistema quasi teologico, in cui gli oggetti interni hanno il significato di divinità, e Bion ha costituito un sistema quasi filosofico. Bion si allontana dunque dalla teorizzazione kleiniana.
Proviamo a fare un confronto tra Freud, Klein e Bion anche da altri due punti di vista.
La biografia di Bion è particolare e per certi aspetti si riflette anche nelle sue opere.
Nato in India nel 1897 da genitori britannici, viene educato da istitutrici indiane. Si arruolò volontario nella prima guerra mondiale, divenendo ufficiale; questa esperienza fu significativa: Bion più volte collega il ruolo dello psicoanalista a quello del generale.
Tornato dalla guerra si laurea in Storia, e successivamente in Medicina nel 1930 e fece la sua prima analisi con Rickman nel periodo 1930-40, divenendo psicoanalista a quarant’anni. Successivamente Bion fece una seconda analisi con la Klein dal 1954 al 1960.
Durante la seconda guerra mondiale fu nuovamente arruolato come ufficiale medico ed ebbe modo così di occuparsi della riabilitazione di soldati colpiti da traumi e nevrosi belliche, per cui si avvalse di tecniche di gruppo. Grazie a questa esperienza di conduttore di gruppi psicoterapeutici arrivò a scrivere il suo libro sui gruppi e sul loro funzionamento mentale.
Il pensiero di Bion ha dato origine, specialmente in Inghilterra, a tutta una serie di applicazioni. Innanzitutto al pensiero di Bion si ispira un certo modo di lavorare e condurre l’insegnamento e la formazione nei gruppi e anche di considerare i contesti sociali. Non mancano poi applicazioni più specifiche come il metodo che si usa nelle forze armate inglesi per selezionare gli ufficiali. Al modello bioniano si è fatto riferimento anche per la riflessione sulle comunità terapeutiche.
Si possono distinguere quattro fasi nel suo pensiero.
I temi principali del suo pensiero riguardano: i gruppi, la psicosi e il funzionamento psicotico, la tecnica psicoanalitica, il processo di conoscenza, il processo del pensiero. Molto importante è il concetto di identificazione proiettiva di cui già parlava la Klein, mettendone in luce gli aspetti normali
Elabora una teoria della conoscenza, una teoria del pensiero e una teoria del contenimento, ovvero una teoria dei rapporti contenitore-contenuto. La concezione del pensiero, ricondotto alle configurazioni emotive più arcaiche in cui si trova il significato del pensare e il significato delle cose, e la teoria del contenimento emozionale sono i suoi contributi più rilevanti.
Quando Bion parla di un apparato per pensare parla di una struttura che è conseguenza delle relazioni tra gli uomini. Nasce una nuova concezione del pensiero e dei processi cognitivi come frutto di un’elaborazione inconscia: gli individui si differenziano in base alla loro storia personale, risultato di esperienze diverse o di modi diversi di apprendere dall’esperienza (che è al tempo stesso causa ed effetto della salute mentale; la malattia è un rifiuto di apprendere, un movimento anticonoscitivo).
C’è anche un movimento contrario, che è un vero e proprio processo di opposizione alla conoscenza e all’apprendimento. In esso si colloca la patologia, la malattia mentale: ecco perché ha più senso parlare di un processo psicoterapeutico come di un processo di conoscenza, stabilendo un’equazione tra conoscenza, apprendimento, salute mentale e guarigione.
Le implicazioni filosofiche, metodologiche ed epistemologiche sono molto vaste: tutta la psicoanalisi sposta l’attenzione sul modo che l’uomo ha di conoscere.
Bion mette inoltre in luce che nel processo analitico non c’è solo il paziente ma anche l’analista e tutti i problemi del paziente sono anche problemi dell’analista. Il rapporto analitico è un rapporto tra due menti, e il processo di conoscenza e di sviluppo del paziente avviene con quello dell’analista.
Ancor più di quella kleiniana, questa è una prospettiva eminentemente relazionale.
Dal punto di vista clinico la tecnica di Bion costituisce un’evoluzione di quella di Klein, in cui si lavora sul qui e ora, il transfert è al primo posto, il setting, cioè il contesto in cui si opera, è un elemento cruciale e tutti gli elementi del contesto hanno a che fare con la relazione analitica. Nella tecnica kleiniana si interpretano, oltre alle difese (v.Freud) anche l’angoscia. Nella tecnica bioniana il problema è di interpretare la relazione: anche l’analista è chiamato a render conto di quello che fa.
In una prospettiva bioniana l’analista è chiamato in causa con tutta la sua mente e i suoi aspetti primari, psicotici: non si può svolgere un ruolo analitico se non si è diventati consapevoli delle proprie parti primarie psicotiche. L’analista entra in gioco con tutta la sua mente e con la consapevolezza che anche il suo apparato per pensare è molto primitivo.
Bionianamente, il bravo ufficiale non è quello più intelligente o il più preparato nell’arte bellica, ma quello che quando prova sentimenti di paura, pericolo, perché le bombe arrivano da tutte le parti, ha la capacità di fermarsi, di avere pazienza e di individuare da dove arrivano i colpi. Questo significa sostare nella posizione schizoparanoide.
E’ importante per le implicazioni sul piano sociale. Quando Bion parla di rapporto contenitore-contenuto parla di un modello generale che a suo parere sta alla base di tutte le relazioni umane. Implicitamente la teoria del contenimento è anche una teoria dello sviluppo.
La teoria del contenimento si basa sul contatto emotivo, innanzitutto quello della madre con il lattante e del lattante con la madre. Per estensione, la teoria del contatto emozionale lattante-madre è una teoria del contatto psicoanalitico paziente-analista e si configura come un modello di riferimento per comprendere le dinamiche emozionali che sottostanno a qualunque tipo di rapporto. La teoria mette in evidenza come tutti questi ruoli implichino l’attivazione di una funzione primaria, psicoanalitica della mente. I gruppi sociali, le istituzioni e la società svolgono spesso questa funzione di contenimento.
Il modello contenitore-contenuto in Bion è esemplificato dai due simboli che rappresentano il sesso femminile e il sesso maschile ♀ ♂: il discorso bioniano va ben oltre allo schema di riferimento sessuale. Innanzitutto Bion si riferisce al rapporto madre-bambino: bisogna risalire al bambino nel ventre materno, che mentre si sviluppa, è già contenuto nell’utero (una cavità) e più specificamente la placenta, il sacco e il liquido amniotico. Alla sua origine l’essere umano si può descrivere come un contenuto all’interno di un contenitore. La nascita è una separazione, ed è anche immediatamente la perdita del primo contenitore. La nascita costituisce un cambiamento radicale, brusco, il primo “cambiamento catastrofico” in quanto perdita del primo contenitore.
Il bambino ha allora bisogno, in sostituzione del contenitore biologico, di un altro contenitore, che è vicariante e che non potendo più essere la madre in senso corporeo diventerà la madre intesa in senso psicologico e relazionale: il rapporto con la madre appunto.
Ci sono due bisogni primari nel bambino piccolo, quello biologico e quello di relazione. Da questo punto di vista la funzione materna è quella di sostituire un contenitore a un altro.
Il contenimento materno consiste nella presenza e nella capacità di “rệverie”, come la chiama Bion, ovvero nella capacità empatica della madre di entrare in sintonia con gli aspetti emozionali, profondi del bambino: si passa ad una situazione interattiva. Il rapporto madre-bambino diventa sempre più psichico, configurandosi come un rapporto in cui l’interazione maggiore è concomitante con lo sviluppo e la crescita del bambino.
La funzione di contenimento è la funzione del comprendere e che nel momento in cui il bambino si sente compreso introietta una mente che pensa: la possibilità per il bambino di strutturare una mente è data quindi dalla possibilità di incontrare la mente della madre.
La mente dell’adulto è il contenitore dei pensieri, come la parola è un contenitore di significati e la frase è un contenitore di parole. Per pensare, occorre che la mente come contenitore si sviluppi, è questo è possibile solo se ha un interlocutore che a sua volta svolge questa funzione. In senso lato l’esperienza di essere compresi da parte di qualcuno è un’esperienza bonificante e sanificante: la salute mentale nasce quando ci sentiamo compresi. In questo consiste la relazione d’aiuto e l’essenza del lavoro psicologico: non tanto “fare qualcosa”, ma saper ascoltare e comprendere.
Quando si realizza una relazione positiva tra un contenitore e un contenuto si ha la possibile produzione di un terzo, cioè si ha una relazione di tipo creativo. Il modello primario è quello della relazione sessuale,ma per estensione l’istituzione matrimonio a sua volta contiene l’attività sessuale. La possibilità dello sviluppo di un terzo si ha però soltanto quando la relazione contenitore-contenuto è sana. Quando invece, per dirla con Bion, il contenitore è troppo rigido e danneggia il contenuto o viceversa si crea una situazione di danneggiamento reciproco.
Ad es. la famiglia, che è uno dei contenitori dei suoi membri, se è troppo rigida distrugge le persone che ne fanno parte. In termini bioniani diremo che è un contenitore che non contiene perché non dà spazio, posizione propria di un “sistema aperto” in cui c’è spazio per un pensiero diverso, non allineato che anzi, avendo la possibilità di essere espresso, cioè in termini bioniani contenuto, è foriero di creatività, in termini sistemici, di capacità di interazione con l’esterno.
All’inverso, possono esservi contenuti dirompenti e catastrofici che mandano alla rovina il gruppo. Nell’ambito della teoria dei gruppi, Bion parla del rapporto mistico-gruppo, mistico-istituzione: per “mistico” Bion intende il genio, cioè colui che produce idee o situazioni potenzialmente devastanti e catastrofiche per il gruppo e che l’istituzione deve riuscire a contenere. Un esempio storico è Gesù Cristo, portatore di idee che rompono il contenitore Israele, per cui è necessaria un’istituzione Chiesa che ne contenga gli effetti dirompenti.
Ma quando chi deve essere contenuto viene fatto funzionare come contenitore proprio da chi dovrebbe contenerlo, ad es. quando la mamma, che dovrebbe fungere da contenitore nei confronti del bambino, utilizza il bambino come contenitore delle proprie angosce, la situazione così capovolta impedisce qualsiasi sviluppo mentale e qualsiasi crescita.
Bion parla di uno stretto legame tra intelligenza e sviluppo affettivo. L’attività del pensare e gli stessi pensieri non sono che una minima parte del processo di pensiero che è in gran parte inconscio; l’inconscio in Bion si configura come qualcosa che ha a che fare direttamente con la funzione del pensare. Alberghiamo in noi pensieri che non sappiamo assolutamente di avere.
Nella teoria del contenimento è molto importante il concetto di “identificazione proiettiva”, che in Bion ha un’accezione più ampia di quella kleiniana, in quanto ne sono evidenziati anche gli aspetti comunicativi. Una madre comprensiva è in grado di sperimentare l’angoscia che il figlio tenta di introdurre in lei attraverso l’identificazione proiettiva (che consiste nel far provare all’altro la propria angoscia) e di mantenere, ciò nonostante, un sufficiente equilibrio.
La mamma in grado di contenere le angosce del bambino ha quella che Bion chiama la capacità di “rệverie”, un termine francese che significa sognare, fantasticare o meglio lasciarsi trasportare dalla fantasia e che Bion usa nel senso di lasciarsi trasportare come in un sogno nel rapporto e nelle vicissitudini emotive primarie del bambino. Potremmo definire la rệverie come quel meccanismo arcaico che la madre usa per rispondere all’identificazione proiettiva del bambino, cercando di accoglierne le proiezioni cattive per restituirgliele bonificate, e dotate di significato. Analogamente possiamo dire che la capacità di rệverie che deve avere un analista o chi svolge un lavoro psicologico è la capacità di entrare in risonanza con ciò che l’altro proietta: è indubbiamente un aspetto, molto profondo, delle capacità relazionali.
Il bambino viene rassicurato perché se l’oggetto può contenere e accettare le sue fantasie di onnipotenza distruttiva vuol dire che lui non è così onnipotente e distruttivo. Questo è ad es. uno dei motivi per cui sia nel processo educativo che in quello scolastico è necessaria la disciplina, intesa come capacità di stabilire e di fare rispettare delle norme. Senza le quali i bambini pensano che la loro distruttività sia incontenibile e ciò non fa altro che aumentarne l’angoscia che a sua volta aumenta la distruttività. Sotto questo profilo, potremmo dire che la salute mentale è avere un oggetto buono dentro di sé in grado di contenere le proprie angosce. In questo consiste la maturità emotiva, che naturalmente implica un’esperienza buona.
Nella teoria del contenimento Bion distingue tre modalità di relazione: conviviale, simbiotica e parassitaria, e usa questi termini in modo diverso da un’altra tradizione psicologica. Per relazione conviviale, Bion intende una situazione in cui contenitore e contenuto convivono senza però influenzarsi. Per relazione simbiotica, intende una situazione in cui contenitore e contenuto interagiscono e danno origine a qualcos’altro; così si allontana dal concetto di simbiosi intesa in senso patologico, infatti questa relazione non è priva di aggressività e di distruttività ma è reciprocamente feconda. Per relazione parassitaria, Bion intende una situazione in cui uno dei due termini, il contenitore o il contenuto, danneggia o distrugge l’altro. Si può osservare ancora che il modello bioniano del contenimento è vicino al concetto di “holding” di Winnicott.
6.3 Teoria del pensiero
Se partiamo dalla teoria contenitore-contenuto, riusciamo a comprendere un po’ meglio la teoria del pensiero.
La teoria contenitore-contenuto riguarda la relazione con il seno. Nella concezione bioniana il seno è il prototipo del contenitore che allevia il malessere che il bambino prova nel momento in cui ha fame, che costituisce il prototipo del bisogno.
Secondo Bion, il bambino riceve dal seno tre cose: latte (gratificazione biologica); amore (gratificazione affettiva); significato (gratificazione conoscitiva essendo il seno un oggetto che dà significato alle cose). Vengono così poste le base per fare un discorso sul pensiero, che è collegato direttamente alle prime esperienze corporee.
Bion non a caso alla fine della sua vita fa riferimento a Kant e in quella fase il suo pensiero psicoanalitico si configura sempre più non come una teoria filosofica, ma come una esplorazione psicoanalitica sul modo di pensare e quindi sulla filosofia: infatti parlando del seno come di un qualcosa che serve a dare un significato e del rapporto seno-contenitore/bambino-contenuto, Bion entra nel campo della riflessione filosofica e fonda la sua teoria del pensiero e delle relazioni oggettuali.
Una mamma contenitiva che restituisce un’angoscia bonificata e un oggetto che funga da contenitore interno, mette il bambino in condizioni di pensare. La formazione dei pensieri è qualcosa che nasce e si sviluppa attraverso il funzionamento della mente dell’altro: quindi la possibilità di pensare è una funzione della relazione. Il problema della relazione assume così in Bion un rilievo e una complessità ancora più grandi che nella Klein.
Nel 1961 al congresso di Edinburgo Bion presenta un saggio intitolato La teoria del pensiero, che è una formalizzazione del lavoro clinico fatto nei dieci anni precedenti studiando la psicosi e il pensiero schizofrenico.
Per comprendere questa teoria bisogna partire dal concetto di preconcezione. Secondo Bion nasciamo con una preconcezione del seno, cioè probabilmente il bambino ha un’idea innata di un qualcosa che non sa bene cosa sia ma stabilisce un collegamento tra un bisogno, che è la fame, e un qualcos’altro che è finalizzato a togliere questo bisogno: il seno sarebbe dunque non solo un oggetto ma anche un concetto. Quando la mamma risponde al bisogno del bambino e gli dà da mangiare allora c’è la possibilità per il bambino di accedere a una concezione del seno, che si raggiunge dunque quando l’esperienza reale, cioè la realizzazione, si coniuga alla preconcezione.
Ma Bion a questo punto si chiede: cosa succede nella mente del bambino quando il seno non c’è ancora e il bisogno insoddisfatto genera frustrazione e dolore mentale? E’ una questione cruciale perché la capacità di tollerare questo dolore mentale è il fondamento dell’equilibrio emotivo e della salute mentale, mentre la sua intolleranza determina la messa in moto di meccanismi di tipo evacuatorio. Se esistono dei pensieri deve esistere un apparato per pensare che è il contenitore dei pensieri stessi, ma la capacità di pensare è legata alla capacità di tollerare la frustrazione.
Bion inoltre dice che la madre deve poco per volta disilludere il bambino, deve cioè togliergli poco per volta l’idea che sia lui il creatore del seno, che comandi sul seno, altrimenti rimane in una fantasia onnipotente di colui che domina, ed è un modo per negare la dipendenza dall’oggetto.
La funzione materna è essenzialmente una funzione di crescita; in termini freudiani è aiutare il bambino a fare un esame della realtà e entrare in contatto con la frustrazione e tollerarla; certamente una frustrazione troppo violenta sarebbe intollerabile e negativa: in questo sta la funzione materna, ovvero in una sorta di funzione di mediazione, ma appartiene anche a qualsiasi altro ruolo che non sia quello materno, ma in cui la modalità di relazione sia similare.
Si può dire che, sotto questo profilo, la funzione di mediazione è una capacità relazionale.
Come si vede all’inizio il bambino non si accorge di questa mancanza del seno, ma fantastica che ci sia un seno cattivo, cioè che ci sia qualcosa di persecutorio che va evacuato: quando il bambino ha fame ma non arriva l’oggetto che gli toglie la fame questa assenza fa venire al bambino una grande rabbia, che è una sensazione molto sgradevole; ma un pensiero di questo genere implicherebbe un riconoscimento della rabbia, e un riconoscimento dell’altro (cioè del bisogno e della dipendenza).
Basta pensare ai comportamenti collettivi quotidiani in cui si osserva la presenza di questo pensiero quando qualcuno sostiene che eliminando qualche determinato oggetto si eliminano e si risolvono tutti i problemi, esempio di una proiezione della propria aggressività verso l’esterno, tipico di tutti i meccanismi di tipo psicotico, fondati sulla scissione.
Quando il bambino sente che esiste qualcosa di cattivo e non si accorge neanche della presenza di un bisogno, cerca di espellere questo qualcosa ma, nel momento in cui lo fa, espelle anche una parte della sua mente, la possibilità di pensare. Quando, al contrario, arriva il seno reale, cioè quando il bisogno viene soddisfatto, allora il bambino sente che da fuori è stato aiutato ad espellere le cose cattive, la persecutorietà; la possibilità di eliminarla comporta la possibilità di sentirsi contenuti e di sentirsi rimandare una possibilità di pensiero, cioè la pensabilità. Oggi, in sede di clinica psicoanalitica si parla di pensabilità come meta del lavoro analitico, cioè l’obiettivo del lavoro analitico, seguendo la lezione bioniana, è quello di arrivare alla pensabilità, mettere il paziente in condizione di poter pensare.
A fronte di questa situazione l’alternativa è tra ignorare la frustrazione, eluderla o negarla (l’esito è quello di un funzionamento psicotico o, in termini bioniani, di una trasformazione in una allucinosi) oppure riconoscerla e affrontarla: in tal caso c’è la possibilità di modificarla, e c’è la possibilità di pensare: la modifica della frustrazione costituisce il pensiero, la sua tolleranza è ciò che permette la pensabilità della frustrazione: quindi la pensabilità della frustrazione è l’origine del pensiero, e della salute mentale.
E’ chiaro che la problematica del pensiero converge, se non coincide, con quella del contenimento; il pensiero è contenimento e la madre contenitiva è la madre che pensa.
In questo discorso sul pensiero praticamente Bion mette in luce un’interazione tra preconcezione e concezione, un’interazione tra fantasia e realtà, tra la frustrazione e la soddisfazione: quindi alla base di tutta la teoria del pensiero c’è un discorso che inerisce alla relazione.
Se osserviamo l’attività del succhiare del bambino piccolo vediamo che fa due cose: in primo luogo compie un’operazione fisica perché incorpora il latte; in secondo luogo ha un’esperienza emotiva perché introietta il seno, importante perché è attraverso la possibilità di avere un’esperienza emotiva che si ha la crescita mentale.
Cerchiamo di esemplificare servendoci del problema dell’invidia come descritta dalla Klein: poniamo che il bambino sia troppo invidioso del seno, avrà difficoltà a succhiare, ma se non succhia muore; può fantasticare di nutrirsi da solo, ad es. succhiandosi il dito. A questo punto, sostiene Bion, interviene la “scissione forzata”: il bambino si mette a succhiare il latte ma rifiuta l’esperienza emotiva per motivi di tipo invidioso: a causa dell’invidia si compie una scissione per cui si espelle dalla propria mente la parte emotiva e si conserva la parte fisica.
In una situazione di questo genere è evidente che ci saranno disturbi del pensiero, cioè nel bambino ci sarà l’impossibilità di godere del valore delle cose che comporta un’insoddisfazione continua e la presenza di disturbi del pensiero. Es. di questi disturbi li vediamo nei funzionamenti di tipo psicotico, quella che Bion chiama “la parte psicotica della personalità”, che consiste sostanzialmente nella presenza di forze distruttive, di attacchi distruttivi, chiamati da Bion “attacchi al legame”, cioè a tutto ciò che ha una funzione di collegamento, a ciò che cerca di contenere un oggetto con un altro, come possono essere le emozioni.
Nella psicoanalisi kleiniana e bioniana il prototipo di ogni tipo di legame è il seno e, in secondo luogo, il pene.
Bion parla di parte psicotica della personalità per contrapporla alla parte nevrotica della personalità; in altri termini, quando vediamo un certo comportamento, dovremmo domandarci quale tipo di parte predomina perché il funzionamento mentale di una persona è conseguenza dell’interazione tra la parte nevrotica, la parte psicotica e la parte sana.
La parte psicotica della personalità ha alcune caratteristiche: innanzitutto l’odio per la realtà interna e per quella esterna; l’odio per gli strumenti che aiutano l’individuo a mettere in contatto la realtà interna con quella esterna, ad es. la psicoanalisi. L’odio e l’attacco verso la psicoanalisi sono segnali di un odio e di un attacco verso uno strumento di conoscenza del proprio mondo interno.
Vi è però un ulteriore strumento che aiuta a mettere in contatto la realtà interna con la realtà esterna ed è l’apparato mentale. La parte psicotica della personalità si caratterizza allora anche per l’odio verso l’apparato mentale, verso la funzione di pensiero: la parte psicotica della personalità odia la realtà esterna e in quanto tale odierà anche la frustrazione che la realtà esterna comporta.
Se si afferma che l’odio verso la conoscenza è frutto di un funzionamento mentale di tipo psicotico ne conseguono una serie di implicazioni interessanti: ogni processo conoscitivo non è un fatto puramente tecnico, ma addirittura Bion sostiene che anche il pensiero matematico è collegato con una specie di ordine emozionale. Qualunque tipo di conoscenza non potrà prescindere dal tipo di funzionamento mentale e dagli aspetti emozionali profondi: ecco perché quando facciamo della scienza dobbiamo interrogarci, come scienziati, su qual è il nostro funzionamento mentale.
La parte psicotica della personalità misura la realtà non per quello che ci dà ma per quello che non ci dà, per i suoi limiti: es. bottiglia mezza piena o mezza vuota (non tolleriamo la frustrazione).
Il funzionamento psicotico toglie significato alle cose, si caratterizza per una deprivazione di senso; deprivare di senso l’esperienza, ovvero perdere il contatto emozionale, comporta la perdita della possibilità di produrre un pensiero autentico, di comprendere, di sentire; in una parola, di essere.
Sulla scorta dell’insegnamento bioniano possiamo dire che l’operazione analitica è finalizzata a cercare di dare significato e di far cogliere il significato, per cui l’analisi è anche un’operazione nella quale possiamo parlare di situazioni/problemi di cui siamo perfettamente a conoscenza, ma che il lavoro analitico ci farà vedere e conoscere sotto una prospettiva nuova: in questo consiste l’arricchire di significato.
L’analista può comunicare al paziente che si fa carico della sua angoscia, e si fa carico del fatto che gli viene chiesto di farsi carico: questa è la funzione di contenimento, la rêverie materna.
Il problema della conoscenza si presenta alla psicoanalisi fin dagli inizi della sua storia. Già Freud parla dell’epistemofilia (cioè dell’interesse a conoscere), come di una componente istintuale-libidica, e la correla alla scopofilia ovvero al voyeurismo (curiosità sessuale e sua sublimazione).
Klein riprende, sviluppandola, l’ipotesi freudiana. Ritiene che il bambino possa fare esperienza della sessualità, anche se non è ancora in grado di ottenere il soddisfacimento sessuale. Per questo i bambini sono, fin da piccolissimi, molto curiosi sulle faccende sessuali. Quando l’indagine del bambino sulla sessualità viene frustrata da genitori o da altre autorità sessuofobiche, si sviluppano in lui prima delle fantasie sadiche, cioè crudeli, e subito dopo l’angoscia e la paura del proprio sadismo che inibiscono la curiosità iniziale e le spinte esplorative, espressione, secondo la Klein, della spinta epistemofilica.
Il discorso di Bion sulla conoscenza è ancora più complesso e articolato e la sua distanza da Freud è ancora più marcata. Il concetto di conoscenza di Bion è molto lontano dalla tradizione filosofica e dal pensiero occidentale, perché è qualcosa che inerisce allo sviluppo complessivo del soggetto e alla possibilità stessa di avere una mente.
Freud aveva lavorato sulle isteriche e poi sui nevrotici, la Klein sui bambini e sui disturbi del’apprendimento; Bion lavora sugli psicotici, in particolare sugli schizofrenici, e indagando sul loro deficit intellettivo giunge a elaborare una teoria del pensiero.
Bion si domanda cosa capita nel lasso di tempo in cui il bambino ha un bisogno ma non arriva l’oggetto a soddisfarlo e allora può pensare che c’è qualcosa di cattivo al di fuori di lui che lo perseguita: il pensiero nasce in questo momento di vuoto.
Le implicazioni di questa tesi sono enormi, anche in ambito filosofico, perché se è vero che il pensiero nasce da un bisogno, all’interno di una relazione, allora tutto ciò che concerne la conoscenza è di natura eminentemente relazionale ed è possibile conoscere solo se si riconoscono il bisogno e la mancanza originari.
Bion pone così il desiderio di conoscenza sullo stesso piano dell’amore e dell’odio e osserva che tra la mente che dà un contenimento e i contenuti della mente c’è un legame. Questo del legame è un concetto cruciale in Bion, che descrive l’esperienza emotiva in cui due persone (o due parti di una persona) sono in relazione reciproca.
Per Bion la conoscenza è una funzione mentale, della quale è motore il bisogno mentre l’amore e l’odio sono dei fattori della conoscenza.
Sostiene che ci sono tre diverse forme, o meglio tre diverse emozioni, con cui il legame si può manifestare: conoscenza, amore e odio che sono dunque correlati e che Bion designa con i segni qui richiamati: K per conoscenza; -K per anticonoscenza; H per odio; L per amore. La mamma può sviluppare legami di conoscenza, amore e odio verso il figlio, così come l’analista verso il paziente, e l’apparato mentale di ciascuno di noi verso i propri contenuti.
Questi legami di conoscenza, amore e odio sono di tipo emozionale e tra i tre il più importante è K, cioè il legame di conoscenza: lo sviluppo della mente è possibile solo quando c’è K.
Il legame K è per Bion il legame tra un soggetto che cerca di conoscere e un oggetto che è disponibile a essere conosciuto: ad es. l’attività introspettiva di un individuo può essere descritta come un legame K tra un soggetto che cerca di conoscere qualcosa di se stesso, e una parte di sé che si presta ad essere conosciuta. Esso è anche molto frustrante e doloroso, implica una forte capacità di sopportazione.
A fronte del problema dell’assenza e della mancanza, secondo Bion ci sono due possibilità: tollerare la frustrazione e quindi pensare, evitare la frustrazione e quindi non pensare, al prezzo di tagliare via la mente. La mancanza di conoscenza non è un fatto esterno alla propria mente, ma deriva dalla perdita della propria mente.
Amore e odio, L e H sono fattori della funzione K, della conoscenza, e infatti possiamo avere disturbi nella funzione conoscitiva quando ci sono problemi di natura emotiva.
Così il pensiero sorge quando si accetta il dolore dell’assenza, quando si riconosce che non c’è il seno: questo vuol dire confrontarsi con il dolore mentale, espressione introdotta da Bion. Quando non si accetta il dolore mentale, può accadere che venga messa in atto quella che Bion chiama “scissione statica”.
Nella psichiatria classica uno dei sintomi della psicosi è la rigidità del pensiero. Per Bion, che è andato più in profondità, la scissione statica è una sorta di allucinazione permanente che serve a negare il dolore psichico, attuando quello che chiama il “rovesciamento della prospettiva”, con una modificazione della struttura mentale. Quindi per difendersi dal dolore mentale, l’individuo si colloca mentalmente in un punto “d’arrivo” e non si muove più da lì. Il funzionamento mentale di tipo psicotico fa sì che la realtà non sia più considerata per quella che è, ma venga stravolta per confermare un giudizio già dato, ovvero un pregiudizio. Un caso limite è il delirio, in cui si ha un’idea fissa dalla quale non ci si muove.
Bion va oltre la psichiatria classica e mostra come questa rigidità di pensiero abbia una base emotiva e sia un sistema primario per difendersi dal dolore mentale, e si può spiegare solo risalendo all’indietro nella storia dell’individuo fino alla fase in cui gli è mancato un contenimento adeguato e sufficiente.
Bisogna dire che Bion ha sempre parlato della presenza di una oscillazione tra quella che chiama PS (che può essere intesa come posizione schizoparanoide o come personalità, modalità psicotica) e D, che è la posizione depressiva nel senso kleiniano: questa oscillazione è espressa nella formula PS↔D.
La presenza di questa oscillazione sta a significare che l’accesso a una posizione depressiva o a una posizione conoscitiva non è un qualcosa che si raggiunge una volta per sempre, ma è continuamente sottoposto a delle oscillazioni, e quindi la crescita mentale è sempre un movimento continuo in avanti e indietro.
Riprendiamo il discorso sulla funzione di conoscenza K, facendo riferimento alla teoria del contenimento.
Un buon contenitore e una buona facoltà di pensiero sono date dalla capacità di ripensare continuamente la propria esistenza. Il problema è la disponibilità a ricevere dei contenuti e ad apprendere, vedendo le cose in modo sempre nuovo.
I due modelli di base del contenimento sono la bocca (che contiene il capezzolo) e la vagina (che contiene il pene): rappresentano il prototipo di qualsiasi tipo di congiungimento tra oggetti mentali come pensieri ed esperienze o parole e pensieri.
La mamma nel rapporto con il bambino può amare il bambino, oppure odiarlo o ancora desiderare di scoprire cosa prova, sente o pensa in un determinato momento.
Il desiderio di sapere e conoscere caratterizza l’atteggiamento dell’operatore maturo cosicché possiamo dire che ricercare il possesso di capacità relazionali equivale a essere mossi dal desiderio di conoscenza.
La conoscenza, e la conoscenza di noi stessi, costituiscono una funzione della personalità, che possiamo definire funzione psicoanalitica della personalità o funzione psicoanalitica della mente. Viene così riformulato in termini psicoanalitici il concetto socratico di “conosci te stesso”.
Una terza definizione ancora più astratta di tale funzione è funzione alfa. Bion usa il termine alfa, e successivamente anche beta, perché, trattandosi di aspetti della mente sconosciuti, non sa quali altri termini usare e quindi sceglie di servirsi di un linguaggio neutro.
La funzione alfa è un processo mediante il quale da dati sensoriali grezzi si generano poco per volta dei contenuti mentali che sono dotati di significato e diventano utilizzabili per l’attività di pensiero. Nella psicoanalisi bioniana si insiste sul problema del significato: acquisire significato sembra voglia dire acquisire salute mentale, perdere significato sembra voglia dire invece entrare nella malattia mentale. La capacità di cogliere significati riguarda il senso dell’esperienza emotiva.
Bion chiama elementi alfa i prodotti dell’attività della funzione alfa. Quando la funzione alfa non è operante, i dati dell’esperienza restano nella mente senza essere assimilati e metabolizzati, come elementi beta. Il loro accumulo dà origine a un apparato che espelle dalla mente i contenuti indesiderabili, cioè a una funzione di tipo psicotico che impedisce il contatto con le emozioni.
La funzione alfa invece è sostanzialmente la capacità di comprensione.
Per Bion non c’è però prima un apparato per pensare che successivamente contiene i pensieri. Al contrario: il modello di riferimento dell’apprendimento e della conoscenza è un modello digestivo: mettere dentro e poi metabolizzare o espellere.
Se non si riesce a tollerare lo star male dell’altro o neppure lo si sente, invece che un legame K di conoscenza si ha un legame H di odio, o addirittura quello che Bion chiama – K.
Bion dice che la madre, mentre accudisce il bambino, con la sua capacità di contenimento gli fa anche “dono” di questa funzione alfa. La dipendenza del bambino dalla madre è innanzitutto una dipendenza per la sopravvivenza e per la crescita mentale. La rêverie non è altro che un fattore della funzione alfa, che esiste fin dall’inizio. Scopo della psicoanalisi è permetterne lo sviluppo.
La funzione alfa bonifica le angosce di morte del bambino, dando un significato e un nome a esperienze che sono terrificanti e dolorose per il lattante, che non è in grado di gestirle per conto proprio. La madre, contenendo le sue angosce, gli fa dono di questo significato. Il primo significato delle cose è dato dunque dalla mente della madre, che fonda la possibilità di conoscenza del bambino e di quella in generale, che viene dalla presenza della mente di un altro o di una funzione mentale al proprio interno. Si può conoscere solo quando si è capaci di contenere sia parti di sé sia le angosce legate al processo conoscitivo.
Vediamo ora la dimensione anticonoscitiva, con la quale dobbiamo sempre fare i conti. L’anticonoscenza è definita dal legame “-K” ed è l’insieme dei meccanismi anticonoscitivi. Bion dice che se nel legame di conoscenza, cioè nel legame K, c’è troppa invidia e avidità, la comprensione e l’apprendimento ne vengono distrutti.
Quando è impossibile contenerla, l’emozione viene attaccata, e attaccata l’emozione non c’è più possibilità di conoscere.
Sono le persone che non riescono a vivere le cose con emozione né ad attribuire un significato alle esperienze e alla vita che hanno rapporti con gli oggetti soltanto in quanto oggetti morti e entrano nella logica del consumo, dello sfruttamento, dell’avidità.
-K non è assenza di conoscenza: il concetto di attacco al legame implica un’azione, che è quella di togliere significato alle cose e alle relazioni. I sentimenti di inutilità della vita, di depersonalizzazione, vuoto, falsità, sono frutto di una sottrazione di senso.
In – K ci sono avidità e invidia. Il legame –K è un’indicatore del dominio della parte psicotica della personalità, può essere definito come la rottura del contenitore, dell’apparato per pensare.
In questa prospettiva si approfondisce anche il concetto di invidia, che la Klein aveva descritto come invidia verso il seno. Secondo Bion l’invidia attacca anche il senso di relazione, distrugge la funzione alfa e quindi la possibilità di pensare. Dell’analista quello che è veramente importante è la capacità di comprendere, di mantenere sempre vivi la curiosità e l’interesse.
Una posizione di Bion che ha suscitato molto stupore nel mondo psicoanalitico affermava che l’analista deve essere senza memoria né desiderio. La frase è da intendersi nel senso di avere la capacità di stare come se si fosse sempre di fronte al nuovo. Quindi nella prospettiva bioniana significa intraprendere le sedute analitiche senza sforzarsi di ricordare cosa è successo nelle sedute precedenti, e senza nutrire l’aspettativa che il paziente guarisca, per riuscire a vedere qualcosa di nuovo.
Il fine del lavoro analitico non è quello di modificare o di raggiungere una meta, ma di sviluppare la capacità di osservare e ascoltare in modo nuovo: Questo comporta che il lavoro analitico sia molto frustrante ma, per dirla con un’espressione bioniana, il problema non è quello di dare calore bensì di dare luce: si tratta di aiutare a pensare e a conoscere.
Il compito dell’operatore sarà quello di tollerare le proiezioni dell’interlocutore e aiutare a comprenderle.
Occorre ricordare che nel processo conoscitivo si devono sempre fare i conti con le attività anticonoscitive del paziente ma anche dell’analista, che è altrettanto implicato nella situazione.
Quando Socrate afferma che tutto quello che sa è di non sapere esprime la consapevolezza della sofferenza implicita nel processo conoscitivo. La stupidità non dipende da carenze intellettuali o da deficit cognitivi, ma da un deficit affettivo, che risulta dalla distruzione della capacità di pensare per difendersi dall’angoscia e dalla sofferenza connessa alla conoscenza.
Bion, parlando dei gruppi, dice che il gruppo che funziona bene è quello in cui un gruppo di persone si incontra, dialoga e si scambia dei pensieri per cercare la verità. E’ kantiano quando dice che la verità e la realtà ultima del soggetto sono in conoscibili.
Bion dice che sono i piccoli gruppi sani che salvano il mondo. Si rivela importante quella che Bion chiama “capacità negativa”, la capacità di tollerare di non sapere, di tollerare di sostare in una posizione di incertezza per ricercare la verità.
All’interno della tradizione psicoanalitica Bion ritiene che i miti siano stati una gran fonte di conoscenza e prende in considerazione tre miti classici: quello dell’Eden, quello della torre di Babele e quello edipico. In questi 3 miti c’è uno schema fisso che comprende un Dio onnipotente e onnisciente, un modello per la crescita della mente, un’attitudine alla sfida e poi un castigo conseguente alla curiosità e alla ricerca del sapere.
Nel mito dell’Eden, la sfida consiste nel mangiare la mela della conoscenza. Ma se la si mangia ci si accorge che non si conosce niente e si è cacciati fuori da una situazione ideale, dove non c’è il problema di conoscere, per entrare nella consapevolezza dei limiti. Il castigo consiste nella cacciata che comporta la fatica della conoscenza.
Nel mito di Edipo, la sfida nasce dalla curiosità dell’uomo su se stesso e il castigo consiste nel diventare ciechi: in Bion la cecità corrisponde all’impossibilità di conoscere. Dà una spiegazione diversa da Freud, affermando che ciò che spinge Edipo non è la curiosità sessuale ma il desiderio di conoscenza.
Nel mito di Babele infine la sfida nasce nuovamente dalla curiosità per la conoscenza, per cui la torre è l’esemplificazione dello sforzo che cerca di raggiungere Dio, cioè la conoscenza totale, mentre il castigo è la distruzione della capacità e della possibilità di comunicare..
In tutti e tre questi miti, la curiosità conoscitiva è un peccato e i modelli della crescita mentale sono l’albero della conoscenza nell’Eden, l’enigma della Sfinge in Edipo, la torre nel mito di Babele.
Comunemente si cita il mito della torre di Babele come esempio di una dannazione, ma in realtà è stata un regalo divino perché il fatto che ci siano molte lingue è una possibilità di vita e di crescita, altrimenti sarebbe appiattimento totale, e si arriverebbe alla mancanza di creatività e alla morte mentale. La possibilità di capirsi è data dalla disponibilità mentale ed emotiva a prendere in considerazione il pensiero dell’altro, dal mettersi in una prospettiva di approssimazione e di avvicinamento progressivi.
Cap. 7 – Identificazione proiettiva
E’ un concetto lanciato da Melanie Klein. E’ necessario fare un brevissimo richiamo al concetto di identificazione in Freud..
Nel pensiero di Freud l’identificazione è un processo che assume un’importanza sempre maggiore nella costituzione del soggetto umano. E’ il processo attraverso il quale si diviene simili a qualcosa o a qualcuno, con l’assumerne le caratteristiche: “cioè l’assimilazione di un Io ad un Io estraneo, in conseguenza del quale il primo Io si comporta come l’altro, lo accoglie in sé”.
Freud distingue tre tipi di identificazione:
Il concetto di identificazione è in relazione con altri concetti quali l’introiezione e l’incorporazione.
Il termine identificazione proiettiva invece è un’altra cosa. L’espressione era già stata adottata da Edoardo Weiss, uno psicoanalista triestino, allievo di Freud. La Klein la usa con un significato completamente diverso, fino al 1955 quando la assume ufficialmente.
L’espressione mette insieme due concetti, identificazione e proiezione, e ne forma un terzo che, pur essendo molto complicato, ha avuto una fortuna enorme in psicoanalisi dal 1960 in avanti.
Per comprendere il concetto di identificazione proiettiva ritorniamo al concetto di identificazione inteso come meccanismo di difesa che nasce quando il lattante incomincia a riconoscere la madre e la identifica come parte di sé. Crescendo, i bambini si identificano con i genitori e i loro modi di fare, acquisendo spesso anche il modo di parlare dei genitori, nonché credenze, valori, opinioni, gusti. Nel processo di identificazione una parte dell’oggetto penetra dentro il soggetto e lo modifica.
Il termine proiezione indica l’attribuzione a un altro di sentimenti, qualità, stati d’animo, pensieri che sono propri e vengono intesi come se appartenessero ad un altro. Klein concepisce la proiezione come un meccanismo mentale e l’identificazione proiettiva come il modo di esprimere tale meccanismo.
Determinanti per comprendere è la frase “liberiamo le nostre menti”: l’identificazione proiettiva serve a togliersi di dosso qualcosa. E’ un concetto strettamente connesso a quello di fantasia inconscia, ritenuta così vera dal soggetto da arrivare fino ad influenzare la realtà. Quando la fantasia è di questo tipo la possiamo definire “onnipotente”. Secondo la Klein, l’identificazione proiettiva rappresenta il prototipo di relazione oggettuale istintiva (il bambino ha la fantasia di entrare nel corpo della madre).
Nell’identificazione proiettiva i meccanismi che intervengono sono sostanzialmente due: scissione e proiezione; il sé viene diviso in una parte buona e una cattiva, e la parte cattiva viene espulsa e proiettata. L’operazione di scissione ha dunque due funzioni; una aggressiva, che è quella di ledere, danneggiare l’oggetto, l’altra di controllo della madre dal di dentro per impossessarsene.
Klein per prima però mette in luce che nell’identificazione proiettiva non vengono espulse e proiettate solo le parti cattive, ma anche quelle buone. Se c’è una proiezione di cose cattive, la conseguenza è un legame persecutorio che non si riesce a sciogliere, se c’è una proiezione di parti buone, si entra nell’idealizzazione. Un es. di idealizzazione fondato sulla scissione di parti buone è l’innamoramento, nel quale l’altro è idealizzato.
L’identificazione proiettiva è dunque un meccanismo che esclude dalla consapevolezza di sentimenti e emozioni molto dolorose che riguardano la separazione, (per difendersi dalla quale ci si difende dalla concomitante angoscia di perdita); la dipendenza, che provoca sofferenza e rabbia (per non sentire le quali l’oggetto viene controllato e attaccato); l’ammirazione, per es. verso il seno materno, evitando la quale si evitano tutti i sentimenti di invidia che ne derivano.
L’identificazione proiettiva è la prima relazione oggettuale che il bambino sperimenta con la mamma, ma che, in quanto tale, implica sempre due persone.
Se la Klein mette in evidenza gli aspetti patologici e anormali dell’identificazione proiettiva, Bion approfondisce l’indagine e scopre che l’identificazione proiettiva ha anche una funzione di comunicazione: l’oggetto mamma riesce a comprendere qualcosa di quello che il bambino le comunica provando in se stessa le emozioni che prova il bambino e di cui non ha consapevolezza. In questo senso la mamma aiuta il bambino a dare un nome alle proprie angosce e si costituisce, per così dire, come una semiologia.
In Bion il concetto di identificazione proiettiva diventa fondamentale per definire la relazione paziente-analista, in quanto ne illustra la forma più importante.
Bion mette in evidenza che chi utilizza l’identificazione proiettiva mette in moto, in chi riceve la proiezione, dei sentimenti organici, coerenti con la fantasia di chi proietta, per cui la risposta della madre o dell’analista fatto oggetto dell’identificazione proiettiva diventa coerente con l’identificazione proiettiva messa in atto, e in certi casi addirittura la madre (o l’analista) agisce i sentimenti che prova in conseguenza dell’identificazione proiettiva del bambino. Ad es. bambino che piange: una madre che si agita si mostra incapace di contenere e viene portata ad agire l’angoscia del bambino. Così viene meno alla funzione di aiuto e di comprensione: se si agisce invece di pensare, si collude con il meccanismo dell’identificazione proiettiva.
Peraltro quella tra agire e pensare è la scelta di fondo che compete allo psicologo e al lavoro psicologico: l’agire significa scaricare ansie ed emozioni ed entrare in collusione con le identificazioni proiettive; il fare è frutto di un pensiero, è conseguente all’avere contenuto, elaborato e accostato le emozioni profonde, apprendendo dall’esperienza.
Per Bion l’identificazione proiettiva è un mezzo per evacuare violentemente uno stato mentale doloroso dentro un altro oggetto, al fine di controllarlo e possederlo, ma anche per introdurre nell’oggetto uno stato mentale al fine altrettanto inconscio di comunicarglielo.
Es. bambina di quattro anni in analisi; alla fine della seduta dice che voleva costruire una candela (secondo l’analista, per portarsi a casa il suo calore). La paziente comincia a gridare dicendo di volere candele di riserva e poi guarda fuori della finestra con espressione vuota e persa (secondo l’analista la bambina voleva farle capire quanto fosse terribile per lei concludere la seduta). A questa interpretazione la bambina grida: “Bastarda! Togliti i vestiti e fila via!” (interpretazione: reazione all’essere abbandonata e mandata fuori al freddo). Bambina: “Togliti i vestiti, tu hai freddo, io non ho freddo”.
Si può sintetizzare in questo modo la posizione bioniana che amplia la concezione kleiniana dell’identificazione proiettiva: il bambino proietta con la fantasia nel seno della madre le esperienze dolorose che non riesce a integrare e comprendere: sofferenza, timore della morte, odio; queste esperienze spesso vengono identificate nelle mente del bambino con sostanze concrete, quali urina, feci, gas intestinali; non si tratta solo di fantasie, perché anche la madre viene toccata da ciò che passa nella mente del bambino.
Occorre fare attenzione perché tutte queste operazioni, che normalmente sono considerate operazioni fisiologiche, in realtà hanno un’enorme valenza emozionale, sono operazioni mentali.
Il bambino urlando espelle il suo stato di sofferenza: la madre che sa contenere questa sofferenza e non la respinge è quella che gli dà la risposta emotivamente giusta per il suo benessere. Quello che ritorna al bambino non è dunque la cosa cattiva che aveva espulso ma un qualcosa di buono che dà significato alla sua esperienza. Il bambino non reintroietta solo la sua esperienza “disintossicata” ma anche il seno in quanto contenitore, e quindi una capacità/funzione di contenimento.
La funzione del contenimento, così come la funzione alfa, consistono nella capacità di ricevere l’identificazione proiettiva come ha fatto l’analista del caso illustrato.
Quando la madre non è in grado di recepire l’identificazione proiettiva, l’angoscia di morire si trasforma, dice Bion, in una “angoscia senza nome” terrificante.
Il concetto di identificazione proiettiva aiuta a comprendere molto più a fondo anche la dinamica del transfert e del controtransfert ed entra nel cuore stesso della relazione transferale.
Ogden individua nell’identificazione proiettiva tre aspetti che riassumono quanto visto finora:
Nell’ambito della teoria bioniana del contenitore-contenuto l’identificazione proiettiva è il meccanismo predominante.
Se non c’è disponibilità ad accogliere l’identificazione proiettiva del bambino non c’è contenimento e il bambino si ritrova in preda ad angosce terribili; a quel punto l’unico modo che il bambino ha per compensare la situazione è di realizzare un’adesione all’oggetto di tipo superficiale, appiccicandosi ad esso, ma così il bambino non riesce più a sviluppare uno spazio interiore nel quale può apprendere dall’esperienza, sperimentare le emozioni e trasformarle in pensieri.
Il bambino deve costruirsi una specie di seconda pelle che funga da vicario del contenitore materno che è carente, creando una sorta di autocontenimento muscolare. La pelle è l’autocontenimento che il bambino utilizza quando c’è stata una carenza della madre nella capacità di mentalizzazione. E’ un’identificazione superficiale e, da un punto di vista mentale, comporta una durezza esteriore che nasconde il senso di vuoto, di inconsistenza o di impotenza e si manifesta con comportamenti tirannici, aggressivi o feroci. Dietro la corazza di durezza, scambiata per forza, in realtà c’è la disperazione derivante da una carenza di contenimento.
Cap. 8 – Un punto di vista originale: Winnicott
8.1- Introduzione
Winnicott è un autore solo apparentemente facile da comprendere perché non è sistematico: i suoi concetti non si situano all’interno di una teoria organica. Avendo avuto una formazione medica, come psicoanalista ha continuato a lavorare secondo il modello medico.
Winnicott è decisamente un personaggio singolare. Quando fece le sue prime apparizioni nella Società Psicoanalitica britannica sconvolse un po’ tutti con quello che diceva e con i modi con cui lo diceva: ad es. non concepiva il bambino al di fuori del rapporto con la mamma.
Ha lavorato sul rapporto madre-bambino e, in senso più ampio, sul problema dello sviluppo.
Winnicott nacque nel 1886 da una famiglia benestante e morì nel 1971. Era pediatra e psicoanalista e ha continuato a svolgere sempre entrambe le attività, sostenendo che la pediatria è di per sé psicoanalisi.
Si può far rientrare nel cosiddetto “Middle Group”, o gruppo degli Indipendenti. Nella Società Psicoanalitica Britannica c’era una grande conflittualità tra i seguaci della Klein e i seguaci di Anna Freud, e il Middle Group si poneva in un atteggiamento mediano.
Winnicott era comunque un solitario anche intellettualmente e uno dei suoi articoli più famosi è sulla capacità di star solo, un tema classico di Winnicott e della psicoanalisi.
E’ stato un pensatore originale, creativo, eterodosso, convinto che in determinate condizioni siano possibili la crescita e lo sviluppo, a differenza della Klein, secondo cui ogni movimento in quella direzione deve comunque fare i conti con le parti distruttive. Forse più freudiano che kleiniano, e in ogni caso buon conoscitore di entrambi, parte da loro ma per arrivare a dire cose completamente diverse.
Più ottimista della Klein ma anche di Freud, Winnicott riesce a individuare anche nei momenti più critici e negli aspetti più vulnerabili dell’animo umano delle potenzialità di sviluppo. La meraviglia come fondamento della conoscenza è certamente presente nel pensiero e nella clinica winnicottiana, per i quali vale anche quello che Bion dice a proposito della spinta conoscitiva che deve essere intesa come spinta verso lo sconosciuto.
Per Freud gli altri sono degli oggetti che ci servono per la nostra gratificazione personale, per cui, per arrivare a stabilire rapporti non meramente strumentali, bisogna fare un grande lavoro interiore di maturazione, quel lavoro che poi la Klein ha descritto parlando dell’accesso alla posizione depressiva. Per Winnicott invece il rapporto con gli altri è qualcosa di costitutivo e di fondamentale, nasce da un bisogno ed è una potenzialità intrinseca alla mente umana. La possibilità di diventare creativi e vitali non dipendono solo dal lavoro interiore ma da un ambiente culturale adeguato.
Il distacco di Winnicott da Klein e da Freud può essere collocato intorno al 1945. I temi principali sui quali ha lavorato sono: il concetto di vero sé e di falso sé, che ha qualcosa a che fare con il concetto di “come se” della Elen Deutsch e con il concetto di narcisismo. La definizione che Winnicott dà del Sé è la seguente: “Il Sé è la persona che è in me”.
Winnicott si è occupato inoltre del gioco e dello sviluppo emotivo, in particolare di quello che chiama “sviluppo emotivo primario”. Egli dà molta importanza alla “persona”, in questo ponendosi un po’ fuori dell’ortodossia, e al concetto di madre come “madre-ambiente” e quindi al concetto di “gestione dell’ambiente”.
Winnicott insiste molto sul setting, cioè sull’insieme di regole che permettono di svolgere la seduta. Attualmente il setting è universalmente inteso come l’assetto mentale dell’analista rispetto al paziente dal quale deve mantenere una distanza adeguata.
Altri suoi concetti originali sono quello di “oggetto transizionale”, o “area transazionale”, ricco di implicazioni anche per quanto riguarda le tematiche del comportamento sociale; e il concetto di “holding”, che richiama il concetto di contenimento di Bion ma ha un significato diverso.
Importante è anche la tipologizzazione che Winnicott fa dei pazienti e il suo tornare spesso su tematiche di ordine sociopolitico; altri temi sono la depressione e la delinquenza.
Quando Winnicott parla dell’esperienza del bambino con la madre dice che l’essenza dell’esperienza di un bambino sta nella dipendenza dalla cura che la mamma gli eroga. La madre è per il bambino l’ambiente e contribuisce al suo sviluppo con l’holding cioè con il contenimento, quindi la funzione materna si basa sull’empatia, intesa come comprensione emozionale, che a sua volta ha a che fare con la capacità della mamma di preoccuparsi, cioè con quella che Winnicott chiama “preoccupazione materna primaria”.
Capacità di preoccuparsi e di essere solo sono due temi cruciali e peculiari del pensiero winnicottiano.
Per Winnicott la capacità di preoccuparsi è importante perché comporta da parte della mamma e degli altri un’apprensione e quindi ha a che fare con il senso di responsabilità. Anche i concetti di apprensione e responsabilità sono eminentemente relazionali.
La capacità di preoccuparsi è il modo con cui Winnicott parla della posizione depressiva kleiniana; in entrambi gli autori la cura è un prendersi cura come dovrebbe fare la mamma. Le capacità relazionali possono definirsi winnicottianamente come la capacità di preoccuparsi.
Winnicott ha sempre portato la sua attenzione sul legame con l’oggetto,cioè sulla relazione con la madre e sulla separazione dalla madre. Anche la capacità di stare soli, la sopportazione della solitudine ha a che fare con il processo di separazione.
Winnicott dice però che in genere nella tradizione psicoanalitica la solitudine viene interpretata come desiderio o paura, e non ne viene evidenziata la potenzialità creativa. Parla del bambino che è capace di stare solo in presenza della mamma, perché ha potuto introiettare una figura materna presente ma non intrusiva.
Il paradosso è dunque che la capacità di stare e di operare efficacemente e adeguatamente con gli altri nasce dalla capacità di essere soli, che è un fenomeno altamente raffinato alla cui formazione concorrono molti fattori; è strettamente legato alla maturità affettiva (cioè alla capacità di tollerare il lutto e la separazione). La base della capacità di essere solo è l’esperienza di essere solo in presenza di una persona (es. bambino gioca ai giardini mentre la mamma sta sulla panchina).
8.2 Concetti
8.2.1 Vero e falso sé
Per comprendere questo concetto occorre fare riferimento a quello che Winnicott chiama sviluppo mentale primario, che si riferisce allo sviluppo nei primi mesi di vita del bambino (prima metà del primo anno). Winnicott non condivide però la posizione della Klein sulla durata di questa fase (Klein parla dei primi 4,6 mesi) perché la considera troppo rigida.
Lo sviluppo mentale primario equivale al “narcisismo primario”, quasi all’opposto della Klein, che parla di un Io precoce e di precoci relazioni oggettuali, mentre Winnicott pensa che nei primi mesi di vita non ci siano relazione oggettuali e quindi neppure una struttura psichica. Quindi mentre in Klein l’evoluzione dipende dal gioco di proiezioni e introiezioni, secondo Winnicott il seno materno, fantasticato come un qualcosa che può soddisfare il bisogno, nel momento in cui arriva, è vissuto dal bambino come un aspetto di sé. Viene così a crearsi quell’area dell’illusione che è uno dei temi specifici di cui si è occupato Winnicott.
Ambiente e madre-ambiente sono cruciali, perché la madre per il bambino è uno strumento di sopravvivenza.
La patologia mentale dipendono strettamente da disturbi della relazione madre-bambino. In due casi la madre fallisce nella sua funzione materna, di contenimento:
Dunque quando ci sono carenze di cure materne si apre la strada allo sviluppo del falso Sé, secondo Winnicott stato patologico già descritto con altre parole dalla psichiatria classica e anche da certi filosofi.
Il falso Sé si costituisce su una base di compiacenza; può avere una funzione difensiva, che è quella di nascondere e proteggere il vero Sé, qualunque esso sia. Il vero Sé, per converso, è il gesto spontaneo, l’idea personale; solo il vero Sé può essere creativo e sentirsi reale.
La funzione del falso Sé è di accadimento di se stessi e del vero Sé, che il bambino utilizza quando è carente un accadimento autentico da parte della mamma. Quindi il falso Sé è un aspetto, una parte del vero Sé. Ma quando il falso Sé protegge il vero Sé, lo nasconde, e impedisce la creatività e lo sviluppo.
Il soggetto mette allora in atto un comportamento falso e compiacente di fronte alle istanze e alle richieste del mondo esterno, e per proteggersi si costruisce una falsa personalità, che comporta una sensazione di vuoto e assenza di significato.
Quando un falso Sé si organizza in un individuo che ha un alto potenziale intellettuale, c’è il rischio che l’intelletto diventi la sede del falso Sé. In questo caso, dice Winnicott, si forma una dissociazione tra attività intellettuale ed esistenza psicosomatica; è quel tipo di personalità che fa uso degli aspetti intellettuali senza nessuna capacità di entrare in contatto emotivo con le persone.
Sono una serie di spunti diversi che pongono al centro l’importanza cruciale della funzione materna.
Klein vede la figura materna dal punto di vista delle fantasie del lattante, parla cioè della mamma come di quella cosa rispetto alla quale il lattante sviluppa tutta una serie di fantasie, Winnicott invece sottolinea di più l’importanza della comprensione materna anche per trasmettere una mente: la mamma dà al bambino un nutrimento biologico che è anche di tipo psichico.
Si può descrivere la preoccupazione materna primaria anche partendo dalla necessità per il bambino di tenere insieme i processi mentali, le capacità che sviluppa.. Affinché il Sé del bambino si formi, la funzione materna deve giocare un ruolo di contenimento che è “l’holding”, che non è una tecnica da apprendere quanto una sorta di qualità personale.
Definire la capacità di holding, capacità eminentemente relazionale, come una qualità personale e non come una abilità tecnica, è un modo per connettere winnicottianamente le capacità relazionali al soggetto.
Winnicott parla di un ambiente facilitante, per “introdurre il mondo a piccole dosi”. La funzione di holding è la chiave per permettere al bambino di diventare adulto e autonomo e di acquisire la capacità di essere solo in presenza della madre, fino al momento della crescita in cui riuscirà a farne a meno. Per poter essere soli da adulti è necessario avere avuto una madre non troppo intrusiva né troppo assente e avere sviluppato dentro di sé una presenza confortante, grosso modo equivalente all’”oggetto buono” della Klein.
Nel 1945, Winnicott mette in evidenza che il bambino, non essendo separato dalla mamma, non può essere considerato come un individuo. E’ su posizoni decisamente diverse da quelle kleiniane, respinge il concetto di pulsione di morte e di invidia primaria. Connette l’atteggiamento crudele nel bambino piccolo a bisogni evolutivi.
Nel processo di crescita dall’”onnipotenza allucinatoria originaria”, presente in ogni sviluppo sano, si passa all’illusione, che è l’area intermedia tra onnipotenza e realtà. L’allucinazione è una percezione che non ha un oggetto, mentre nell’illusione c’è un oggetto, ma percepito in modo distorto.
Il bambino piccolo allucina il seno come un qualcosa che deve esistere a causa di un suo impulso: quando la madre dà il seno al bambino nasce nel bambino l’illusione di averlo creato lui. Il concetto di illusione presenta delle analogie con la “preconcezione” di Bion.
Compito della madre è togliere al bambino questa illusione. Winnicott colloca questo processo di passaggio dall’illusione alla realtà in un arco di tempo piuttosto lungo (più della Klein): dal terzo, quarto mese di vita ai due anni. In questo periodo è necessario che ci sia qualcuno che disilluda il bambino e al tempo stesso coltivi il suo mondo di illusioni, regredendo con lui.
La funzione materna si configura dunque come un’alternanza di frustrazione e gratificazione. Un bambino troppo protetto resta in una situazione di narcisismo primario, un bambino costretto a prendere atto della realtà sviluppa un falso Sé. La madre deve gestire questo andirivieni, senza il quale non si può avere un sano sviluppo mentale.
L’area dell’illusione coincide con l’area del gioco.
In questo ambito di riflessione Winnicott situa il suo concetto di “oggetto transizionale” e di “area transizionale”, per designare l’area intermedia di esperienza tra il dito e l’orsacchiotto, tra l’erotismo orale e il vero rapporto oggettuale.
Una raffigurazione divertente dell’oggetto transazionale è la coperta di Linus, ma l’es. classico è l’orsacchiotto o la bambolina con cui vanno a letto i bambini. Un oggetto transazionale è dunque innanzitutto qualcosa di ben preciso, ma anche qualcosa di interiore, di fantasmatico, che appartiene un po’ alla realtà interna e un po’ a quella esterna, intermedio, così come l’area transizionale è intermedia; questo fenomeno si riscontra nei bambini dai sei mesi ai due anni.
Una caratteristica dell’oggetto transazionale è che non conta la qualità estetica del suo aspetto e conta invece la sua capacità di durare nel tempo.
Possiamo individuare una funzione e un valore dell’illusione anche nella vita adulta: es. una persona gravemente malata o in fase terminale, in cui l’illusione è qualcosa di estremamente positivo.
Winnicott si è occupato anche di problemi tecnici e di problemi connessi al ruolo della psicoanalisi
Problemi clinici: “quando svolgo un’analisi miro a: Stare vivo, Stare bene, Stare sveglio”.
Anche quando si svolgono attività educativo-formative, è importante partire mirando a ottenere il minimo; Winnicott dà un’interpretazione sola per seduta.
Ci si allontana dunque dalla concezione diagnostica tradizionale per parlare di una diagnosi dinamica, che perde le caratteristiche della diagnosi tradizionale: il ruolo dell’analista è quello di tirare fuori il vero Sé e di permettere alla persona di esprimere la sua creatività
Winnicott formula comunque una sorta di nuova tipologia dei pazienti: nevrotici, depresso-ipocondriaci e psicotici.
I nevrotici sono capaci di rapportarsi con gli altri come oggetti totali e non come oggetti parziali; dai pazienti nevrotici l’analista è fantasticato come una persona che lavora per amor loro.
I pazienti depresso-ipocondriaci sono interessati al loro mondo interno e alla loro organizzazione interiore. L’analista è fantasticato come un depresso che lavora per depressione.
I pazienti psicotici hanno relazioni oggettuali preedipiche. Manca lo sviluppo emotivo primario, quindi la tecnica classica non è adatta. Diventano importanti il contesto, il contenitore, il setting e l’analista deve cogliere le dimensioni d’amore e d’odio.
La descrizione delle capacità relazionali che si può ricavare dai contributi del pensiero winnicottiano assume le seguenti caratteristiche:
Valutazione positiva della depressione come momento di rinascita creativa, valorizzazione della capacità di gioco; attenzione al falso Sé dell’operatore che mette in atto comportamenti imitativi.
Infine la capacità relazionale è la capacità di stare soli.
Fonte: http://azpsicologia.altervista.org/Appunti/Psicologia%20dinamica/Capacita%20relazionali%20di%20Psicologia%20dinamica.doc
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