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Il cinema del terzo millennio
F. Marineo
Einaudi, 2014
CAPITOLO PRIMO – IMMAGINARI GLOBALI ALL’ALBA DEL MILLENNIO
1. DOVE ERAVAMO RIMASTI
1999: anno del millennium bug, di Napster e Messenger, escono Matrix dei Wachowski, Fight Club di David Fincher e Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick. Questi tre film costituiscono un nucleo di riflessioni per il cinema a seguire.
La morte di Kubrick segna anche la fine di un’era, il suo film d’addio rappresenta una sublimazione del modo di intendere il cinema ben dentro il secolo che finisce e che getta un ponte futuro. Futuro già abitato dalla visionarità di Matrix, potente soprattutto per gli effetti visivi che sospendono il tempo (come il Bullet Time).
Fight Club tratta la crisi del capitalismo occidentale e del passaggio millenario, mescolando tratti stilistici nervosi di grande densità. Nel finale vediamo, da una parte lo svelamento del film che riconosce il suo alter ego come una proiezione mentale, dall’altro l’esplosione dei grattacieli del potere. Fight Club ci lascia le tracce di un tempo devastato.
Il cinema dei ’90 è una prosecuzione di un discorso avviato nel decennio precedente (a parte opere originali come quelle di David Lynch, Tarantino, la novità dei fratelli Coen o The Blair Witch Project, 1999). Insiste negli anni ’90 una generazione di nuovi registi come Abbas Kiarostami, Takeshi Kitano, Zhang Yimou, Peter Kacson, Wong Kar-wai, Lars von Trier. Ma tutto ciò si azzera col disastro dell’11 settembre 2001, con la conseguente diretta televisiva che ha incollato le coscienze di tutto il mondo ridefinendo il mondo di definire i racconti, il reale, le immagini.
Nel nuovo cinema, la paranoia americana è legata alla minaccia dell’attacco a casa propria e si specchia nelle limitazioni alle libertà individuali sancite dal Patriot Act. Un film come The Terminal (2004), storia di uno straniero che rimane bloccato nell’aereoporto di New York per problemi burocratici sembra perfetto esempio di questa presenza all’interno dell’immaginario americano.
2. TRA GLOBALE E LOCALE: HOLLYWOOD, L’EUROPA E BOLLYWOOD
L’orizzonte che abbiamo come riferimento è segnato dalla globalizzazione, termine legato ad una spinta che porta a imporre modelli culturali e politici secondo direzioni facilmente prevedibili. In realtà esiste un dialogo dinamico che consente alle culture locali di appropriarsi degli elementi della glocalizzazione per metabolizzarli in chiave regionale, ed è il termine glocal che designa tutto ciò. Queste spinte determinano un panorama culturale «post-nazionale», dove circolano in modo libero le forme dell’immaginazione. Germogliano queli che Arjum Appadurai chiama «mediorami», che «si riferiscono sia alla distribuzione delle capacità elettronice di produrre e diffondere informazione, sia alle immagini del mondo create da questi media, e forniscono agli spettatori di tutto il mondo repertori di immagini in cui si mescolano il mondo delle merci, delle notizie e della politica».
Questa accelerazione non coincide con la fine delle cinematografie nazionali, ma non si può non considerare la presenza di investitori cinesi o giapponesi ad Hollywood. In realtà le spinte e le controspinte formano trame più complicate, e al di là dei necrologi sulla supposta morte del cinema americano, resta il problema di costruire un nuovo orizzonte di senso per le nuove realtà produttive.
Uno degli equilibri più alterati è quello tra Hollywood e il cinema europeo. L’Europa si trova a dover negoziare la propria posizione nello scenario globale, a fare i conti con un’identificazione del cinema europeo col cinema d’autore, più artistico. Eppure, se alcuni autori hanno contribuito a imprimere un’accelerazione al cinema del dopoguerra, il successo ha anche implicato una identificazione tra il loro cinema e il paese d’appartenenza. In realtà il cinema d’autore è poco collegabile ad una cinematografia nazionale.
Thomas Elsaesser inquadra le rinnovate coordinate che potrebbero identificare la nuova posizione del cinema europeo, ovvero «un dispositivo che costruisce uno speciale richiamo che offre un senso di appartenenza. Gli spettatori europei hanno avvertito il privilegio di sentirsi ‘differenti’». La tradizionale contrapposizione tra cinema hollywoodiano commerciale ed europeo d’arte appare oggi scolorita, anche per le trasformazioni geopolitiche del vecchio continente. Già dagli anni ’90, tra l’altro, si avvertono segnali di come le singole realtà locali stiano ricostruendo le proprie fondamenta alla luce di una contaminazione. Il cinema europeo oggi sta comunque perdendo gli ultimi residui di fascino sul mercato mondiale.
Altro elemento interessante riguarda la sparizione della contrapposizione tra Hollywood e Bollywood, le due realtà produttive economicamente più rilevanti. Hollywood è cambiata in virtù degli accadimenti degli anni ’80, e gli studios si sono ridotti a sei - Columbia (della giapponese Sony), Disney, Warner Bros., 20th Century Fox, Universal e Paramount - sono ormai apparentati dentro i media conglomerates, ed è cambiata la loro natura operativa: quote ingenti di denaro di cui dispongono non appartengono più agli studios, ma sono versati da coproduttori.
L’India è uno dei paesi che crescono di più, mentre gli USA vivono una recessione. La penetrazione di capitai stranieri ad Hollywood è continuata fino all’acquisizione della DreamWorks da Reliance Group, che in India controlla multisale, canali TV, ecc. I capitali che muovono il cinema ora provengono da paesi diversi, l’american way of life non attrae più come un tempo, e i film hollywoodiani devono piegare alcune caratteristiche per rendersi appetibili sul mercato indiano.
La localization è quindi una necessità. La complicazione del cultural discount (ogni prodotto mediale che nasce all’interno di una cultura sviluppa un fascino nei confronti di un pubblico connotato geograficamente) non pesa ugualmente per tutti. Il blockbuster americano è una eccezione: gli USA sono una realtà geografica satura di differenze, il film nasce proprio per aggregare il gusto di un pubblico strutturato internazionalmente anche entro la frontiera americana, proponendosi come «testo trasparente». Come spiega Scott Robert Olson «la trasparenza si riferisce a ogni apparato testuale che consente al pubblico di proiettare valori, credenze, rituali indiceni dentro prodotti mediali importanti». Si punta quindi alla costruzione di un blockbuster che non voglia raccontare storie legate alla realtà di un paese specifico, lontano dal film che prova a raccontare il reale.
Il cinema indiano oggi è quello che oggi produce il numero maggiore di film e che vende più biglietti, pur seguendo una strategia opposta a quella hollywoodiana: un film indiana riesce a essere popolare non inseguendo minimi denominatori comuni, ma con la fusione di generi e tensioni narrative diverse, puntando a una mescolanza che funziona da aggregante.
Il mercato indiano è sterminato e polverizzato. Oggi la nuova frontiera sembra la conquista del mercato indiano, coi produttori che si rivolgono agli spettatori indiani sparsi sul territorio USA.
Il cinema di Bollywood svolge dunque una funzione aggregante nei confronti di una comunità composita e dispersa. È interessante trovare punti d’incontro tra queste due culture: un’opera di grande successo come The Millionaire sintetizza molte caratteristiche necessarie a un prodotto per il grande pubblico. Il film di Danny Boyle si sostanzia di una ossessione formale in cui le inquadrature curatissime provano ad abbellire gli scenari offesi dell’India urbana. La struttura narrativa è ben costruita sulla partecipazione di un ragazzo ad un quiz televisivo e nel contempo è coinvolto in una love story.
Il film parla all’uomo occidentale che ama l’India e a quello in colpa per le sperequazioni del mondo, eppure The Millionaire è un film turistico.
3. FUORI DAL SISTEMA: NOLLYWOOD
Gi adolesenti rappresentano il pubblico che continua ad andare in sala, che possono essere attratti a opere dalla confezione accattivante e dalla struttura che asseconda i gusti. Un simile atteggiamento vale negli USA, a Mumbai, ma anche in Nigeria: Nollywood, l’industria cine-televisiva nigeriana è la seconda al mondo, per numero di film prodotti (circa 2500 all’anno). In una nazione dove non esistono diritti d’autore né norme anti-pirateria, i film sono venduti a prezzi bassissimi.
Eppure Lagos, la capitale nigeriana, conta allena un paio di cinema aperti: i film hanno cominciato ad essere fruiti in maniera esclusiva nelle case ed in alcuni bar. I video-film sono realizzati in pochissimi giorni e montati con software basilari, le sceneggiature sono banali, tutto è giurato senza studi o location complessi.
È un cinema semplice che prova a parlare alle tante etnie nigeriane. Le storie si concentra su personaggi che diventano ricchi, i generi popolari sono commedia, action, storie d’amore e di sofferenza, horror. Dal cinema nollywoodiano erompe un senso di appartenenza, ua rivendicazione di orgoglio etnico, è un richiamo alla natura mercantile del cinema.
Lo sviluppo di Nollywood ci offre un paio di spunti: nonostante la democratizzazine dell’accesso alle tecnologie per girare un film, gli esiti capaci di entrare dentro le logiche industrali sono poche: The Blair Witch Project, alcuni film del gruppo Dogma, e poco altro. Inoltre, il posizonamento del movimento Nollywood all’interno del panorama africano comporta il pericolo di un arretramento continentale che le precedenti generazioni di autori avevano indirizzato verso stili e narrazionei più interessanti, a raccongare il periodo postocloniale, le rivoluzioni sociali, eccetera.
Eppure, «al contrario delle opere più sofisticate realizzate dagli autori africani più noti, Nollywood ha creato un linguaggio pan-africano che rende possibile, per la prima volta, parlare di cinema e cultura pan-africana» (cit. John C. McCall).
CAPITOLO SECONDO – IL CINEMA OGGI: IBRIDAZIONI E NUOVE GERARCHIE MEDIALI
1. CHE COSA È DIVENTATO IL CINEMA
Il cinema non è lo stesso di 20 anni fa, sta imparando a riconfigurare quei processi che lo legano al pubblico. La convergenza verso il digitale, la riduzione di immagini, suoni, luci, movimenti a codici numerici, coinvolge anche il cinema. Non è più l’apparato tecnologico a determinare l’essenza del medium.
La grande rivoluzione introdotta nel cinema smonta uno dei cardini dello spettacolo cinematografico, disancorandolo dalla sala, dal movie theatre, dalla liturgia collettiva della proiezione in uno spazio pubblico, per collocarlo in una dimensione privata e individuale.
Si pongono ai nostri occhi due fenomeni legati: da una parte l’emergere del digitale, dallaltro l’esplodere su larga scala di quella che Henry Jenkins ha definito «cultura convergente».
2. IL DIGITALE
Il cinema contemporaneo è pieno di immagini sintetiche, che determinano la formazione di un mutato spazio iconico, dove la figura dello spettatore cambia la sua posizione e l’assetto del proprio esercizio. L’equiparazione del cinema ad una grande vasca in cui lo spettatore è sommerso da immagini e suoni entro cui galleggia, era una metafora che funzionava nell’ultimo scorcio del XX secolo: oggi il cinema è costretto a ripensarsi.
Le tecnologie digitali raggiungono il punto di separazione tra realtà filmabile e virtualità filmata, il cinema deve fare i conti con questra trasformazione che assume le forme di uno smottamento culturale.
Questo passaggio dall’ontologia delle immagini fotosensibili a quelle frutto di una sintesi virtuale segni l’idea di «fare cinema». A metà anni ’90, il cinema è stato attraversato da tre titoli che hanno stravolto i paradigmi spettatoriali di relazione e fiducia con le immagini: Steven Spielberg ha resuscitato i dinosauri per il suo Jurassic Park (1993), decisivo per l’altro grado di realismo che queste creature possiedono. La produzione de Il corvo (1994) viene interrotta a causa della morte, sul set, di Brandon Lee, ma i tecnici immaginano di forzare le applicazioni del digitale per realizzare le scene mancanti con una versione ibrida del protagonista. Nel 1995 la Pixar produce Toy Story, il primo film completametne realizzato in computer grafica. Gli effetti speciali operano con qualcosa che non esiste nel nostro mondo, ma che esiste in un altro.
Lo pseudopode acquatico di Abyss (1989) è il primo personaggio cinematografico interamente binario, e funziona come uno specchio, riflette le immagini che ha davanti. Il T-100 di Terminator 2 (1991), creatura di idrogeno liquido, funziona in modo simile, trasformandosi in ciò che desidera. Le due creazioni di Cameron e dei tecnici ILM posseggono un valore metaforico: l’alba dell’era del morphing segna l’avvio di un modo nuovo di guardare le immagini, perché se tutto è possibile allora tutto può essere considerato un falso. Gli effetti visivi amplificano le capacità dello spazio narrativo e allo stesso tempo modifivano profondamente «il profilmico», ridotto fino quasi all’invisibilità. Sin City o le animazioni motion capture stanno a dimostrare la ridefinizione del frame concettuale e della fisicità del set. Polar Express (2004) o King Kong (2005) sono un perfezionamento dell’illusione: la registrazione digitale dei movimenti umani o animali è diventata una fonte decisiva per l’animazione e la mimesis non è mai stata così precisa.
Titanic (1997) e Matrix rappresentano due tentativi di usare le potenzialità delle nuove tecnologie per ricreare qualcosa che era reale o che avrebbe pottuto esserlo. Titanic ha uno stile molto classico, con una cura tesa alla cancellazione del tempo, Matrix ha invece assoluta necessità di usare il set come punto di partenza da abbandondare, perché l’obiettivo è la cancellazione dello spazio.
Guardare in 3D i Na’vi di Avatar significa essere consci del fatto che sono generate da un codice numerico. Eppure questa consapevolezza procede col nostro abitare un ambiente percettivo in cui stabilire differenze tra analogico e digitale finisce per essere esercizio sterile.
Mentre nel periodo pre-digitale occhi e cinepresa condividevano ciò che questa aveva ripreso, oggi i nostri occhi vedono immagini create da una macchina. Il cinema produce immagini come fosse un cervello.
È una decostruzione di ogni «principio di realtà», ottenuta attraverso narrazioni e soluzioni visive che mettono in questione l’univocità della realtà, trasformando l’immagine e lo spazio filmico. Il cinema contemporaneo non smette di costruire uno «spazio connettivo» che rende attraversabili i margini dello schermo.
3. CONVERGENZA E TRANSMEDIALE
«Convergenza» è uno dei termini cardini di questo tempo, introdotto dal saggio di Henry Jenkins Cultura convergente, identificava il «flusso dei contenuti su più piattaforme, la cooperazione tra più settori dell’industria dei media e il migrare del pubblico alla ricerca di nuove esperienze di intrattenimento». Da una parte è un segnale di come il digitale abbia arricchito la dimensione esperenziale del consumatore, dall’altra è una strategia commerciale che sia apre al franchise nelle meccaniche economiche dei media.
«La storia delle arti americane del XXI secolo può essere raccontata nei termini di una riemersione pubblica della creatività grassroots, poiché la gente comune prende possesso delle nuove tecnologie grazie alle quali conserva i contenuti dei media, se ne appropria e li rimette in circolazione. Questa rivoluzione creativa è culminata nel web. Ogni media contribuisce in modo unico allo sviluppo della storia. Nel franchise The Matrix pezzi di informazioni passano da tre film, una serie di corti d’animazione, raccolte di storie a fumetti e videogame. Non esiste un’unica fonte dove rintracciare tutte le informazioni sull’universo di Matrix».
L’idea di transmedialità riguarda la possibilità dei contenuti, delle forme del narrare, delle esperienze a queste legate, di muoversi attraverso differenti piattaforme mediali. La narrazione cessa di darsi come dato concluso e assume i contorni di un processo che ha un suo svolgimento nel tempo e nello spazio, di cui risulta impossibile definire la conslusione.
Se una volta il passaggio da un medium a un altro comportava un’attenzione spettatoriale nei confronti dell’aderenza tra i medesimi contenuti declinati attraverso varie piattaforme, oggi questi stessi media si incarnano di un compito complesso, il cui obiettivo non è più la mera riproduzione ma la «dispersione». Jenkins ha saputo vedere in anticipo questa tendenza, e la illustra in due esempi - Matrix e Lost – sui quali si basano cartoni animati, videogame, siti internet ad hoc, ecc, per coinvolgere maggiormente l’utente.
Lost è la serie che più di altre ha saputo sviluppar eun dedalo di percorsi narrativi, suturando il testo di un’infinità di segni e costruendo un racconto tentacolare, così colmo di vuoti da avere quasi la necessità dell’intervento degli spettatori. Su videogiochi e piattaforme web si sono diffusi approfondimenti su elementi centrali dell’enigma Lost: provocazioni e depistaggi orditi con precisione, capaci di confondere le acque interpretative in modo contorto, fino al finale che ha scontentato tutto. Al termine dei 121 episodi non era possibile chiudere un racconto creato con un così alto numero di aperture.
4. IL CINEMA E IL SUO OLTRE
Il cinema è costretto a misurarsi con l’emergenza continua di altri media che riadattano le strategie retoriche del film entro altri recinti comunicativi, «è stato inglobato dalle nuove tencologie che lo circondano, forse perdendosi in esse. Le differenze tra i film, la televisione e i computer stanno rapidamente diminuendo» (cit. Friedberg).
Parliamo di altri due linguaggi nella loro anfibia relazione col cinema:
a) Videogame, ipertesto: lo spettro dell’interattività
«I videogiochi tratti dai film sono analizzati attraverso retoriche durevoli, spesso centrate sulle nozioni di fedeltà e di qualità. I videogiochi, per la loro storia ancora giovane, sono da alcuni considerati come linguaggi minori» (Brown e Kryzwinska).
La basilarità del concetto di inquadratura e seguenza che determina la natura filmica delle narrazioni dei videogiochi, la presenza delle cut-scenes, l apossibilità di operare un montaggio selezionando le prospettive, sono elementi che apparentano il cinema ed i videogiochi. Ci riferiamo al concetto di interattività.
Si dice che il cinema non possa assumere l’essenza dell’ipertesto e consentire allo spettatore di muoversi in maniera interattiva al racconto, anche se un film può usare flessibilità nel gestire il dove ed il quando, contraendo o sviluppando le unità temporali del racconto, moltiplicando i luoghi dell’azione, complicando gli incastri cronologici.
Dagli anni ’90 il cinema ha sperimentato forme narrative che in letteratura Borges aveva già percorso. Forme del racconto più adattabili alla grammatica videoludica. Il cinema riflette una patina ipertestuale enfatizzando l’aspetto non lineare del suo racconto: Lola corre (1998) è costruito attorno alla possibilità dei personaggi di riavvolgere il tempo e modificare i comportamenti per raggiunger il successo. Funziona insomma come un videocame.
Jesper Juul, studioso di videogame studies, indica che la complessità nella traduzione tra videogiochi e altre narrazioni sia strutturale, imparagonabile alle dinamiche tra un romanzo e un film.
«Rimediazione» è un concetto che riguarda ogni medium, soprattutto i nuovi media digitali, di utilizzare elementi e caratteristiche altri media. Sulla scia di quanto scritto da Marshall McLuhan (1967) a proposito di un medium che contiene sempre un altro medium, Bolter e Grusin insistono sulla necessità di ogni medium di relazionarsi ripetutamente con gli altri media.
Per raggiungere l’obiettivo dell’immediatezza, cioò della scomparsa della mediazione, la progettazione mediale deve affidarsi ad un alto livello di mediazione: l’apparente svanire dell’interfaccia può essere possibile solo a patto che la mediazione sia spunta ad un livello estremo.
Si rammentano esperienze visuali in cui il cinema ammette la propria finzione, la rappresentazione si svela, in cui il linguaggio del cinema si contamina con gli altri elementi neo-mediali per denunciare la propria falsità: si citano due film come Redacted e Holy Motors che insistono sulla natura falsificata del cinema.
b) Retoriche cinematografiche della videosorveglianza
Il controllo delle videocamere sparse nei luoghi pubblici e privati obbedisce a una matrice poliziesca della nostra società. Non più sguardi neutri che osservano immagini di altri, ma soggetti e oggetti allo stesso tempo di sequene rubate, di sguardi disseminati in ogni piega dello spazio pubblico.
Siamo al cospetto di una forma di transmedialità sempre più liquida, soprattutto se cominciamo ad allargare lo spettro della nostra analisi: il cinema contemporaneo sembra voler replicare la cifra visiva e gli aspetti formali della retorica della sorveglianza anche dentro immagini e seguenze che sono messe in scena, costruite salvaguardando quegli elementi stilistici come certificazione di autenticità.
Il reality show è la narrativizzazione più semplice di un fenomeno che riguarda la metabolizzazione mediale degli apparati di sorveglianza: il successo mondiale di The Big Brother indica come il concetto stesso di realtà sia sottoposto a un processo di trasformazione. Il medium televisivo è ostaggio di generi come reality o real TV.
La presenza di webcam sparse nella rete, la tracciabilità continua degli smartphone, rende lampante la presenza di questa trasmissione live senza soluzione di continuità che è parte integrante della società. È stata un’accelerazione talmetne vertiginosa da rendere obsoleto Tre Truman Show (1998) col suo connettere solo alla TV un’idea di sorveglianza diffusa che oggi ha assunto altre declinazioni mediali.
È un Panopticon che si fonda sullo squlibrio tra chi vede e chi è osservato, ma che regala l’illusione di poter a sua volta esercitare un controllo analogo.
Il secolo scorso si era concluso con Nemico pubblico (1998), con elementi di messa in scena che restituiscono l’idea di controllo globale degli organismi istituzionali. Un convenzionale film d’azione che sistema i suoi personaggi e le dinamiche dento binari leggibili.
Il nuovo secolo si è aperto con Timecode (2000), esperimento attorno all’idea di dividere lo schermo in quattro parti in cui scorrono immagini di eventi simultanei. Il film è narrato in tempo reale, senza tagli, e con la posta audio di ciascuno dei quattro quadranti di volta in volta enfatizzata per indirizzare l’attenzione degli spettatori. Non è un film sulla sorveglianza e sul videocontrollo ma una riflessione sugli effetti culturali e antropologici di un meccnaismo diffuso di cattura e fruizione delle immagini.
The Final Cut (2004) riflette sulla capillarità del controllo delle videocamere. In un futuro distopico, una società impianta nei bambini software che trasforma i loro occhi in videocamere che registrano, ed alla morte vengono selezionati dei momenti di vita per realizzare un film da proiettare alla cerimonia funebre. È una rete invisibile di occhi che catturano un’infinità di immagini, una metafora sul modo in cui le tecnologie di videosorveglianza stanno invadendo la nostra sfera pubblica e privata.
In Freeze Frame (2004) un uomo è reso folle perché accusato ingiustamente di un triplice omicidio, e decide di rivivere la propria vita sotto gli occhi di numerose videocamere da lui posizionate. L’obiettivo è avere un alibi nel caso in cui il vero killer dovesse colpire ancora.
Reality (2012) è una satira visionaria al centro della quale vi è un modesto pescivendolo che, dopo un provino per il Grande Fratello, si autoconvince della presenza di telecamere nascoste che lo osservano per testare la sua partecipazione allo show. Così modifica il suo comportamento arrivano al delirio psichiatrico. Luciano testimonia la scomparsa dell’ultima patina che separa la rappresentazione del suo fuori.
c) Le serie televisive
Oggi si è arrivati a prodotti di una qualità elevatissima con corrispondente aumento del budget e regolarizzazione del rapporto tra registi, sceneggiatori e attori cinematografici con la logica seriale televisiva. I grandi canali della TV via cavo costruiscono i loro palinsesti intorno a serie che nobilitano un linguaggio rendendolo comparabile a quello del cinema contemporaneo.
La critica ha attraversato un momento di stasi davanti all’esplosione di tale fneomeno. Il primo salto si è fatto all’inizio degli anni ’90 con Law and Order (1990-2010), X-Files (1993-2002) e Friends (1994-2004), che chiudono I Soprano (1999-2007), Sex and the City (1998-2004), 24 e Alias (2001-2006).
Sono poi arrivati successi di pubblico (Dexter, 2006-13) e di critica (Mad Men 2007- e Breaking Bad, 2008-2013) che non hanno fatto altro che rafforzare la convinzione della centralità di un discorso narrativo che impregna di sé in modo importante anche l’universo cinematografico.
È forte la tentazione di etichettare come «cinematografica» una serie complessa come True detective (2014-): le soluzioni registiche, la densità dei personaggi, la complessità narrativa, sono elementi legati a un modo cinematografico di intendere il racconto per immagini.
Il meccanismo narrativo delle serie riuscite è legato a due elementi centrali: il cliff-hanger, una svolta improvvisa, l’interruzione su uno snodo del plot che serve a tendere desta l’attenzione dello spettatore durante i break pubblicitari, e la costruzione di un vuoto narrativo riempito da flashback (come in Lost).
Le serie più riuscite si impongono perché sviluppano la storia grazie ad una gestione del tempo del racconto che possono permettersi, vista la lunga o lunghissima durata a disposizione, grazie alla quale i personaggi evolvono molto: il Walter White di Breaking Bad o Carrie Mathison di Homeland paiono essere tra i personaggi più memorabili dello scenario visuale di questi anni.
J.J. Abrams è forse la figura più rilevante del panorama telecinematografico odierno; egli ha raccolto i frutti di questo successo sperimentando nel film i topoi delle sue serie. Sin da Mission: Impossible III (2006), Abrams immette nel cinema vuoti narrativi, flashback, accelerazioni; tutti gli ingranaggi che avevano funzionato in Alias. Abrams è autore classico, figlio di una classicità legata agli anni ’80, debitrice di un clima culturale omogeneo, sinstetizzato dall’ecumenismo di Steven Spielberg. È il tempo ad essere la materia prima essenziale delle narrazioni di Abrams.
5. LE NUOVE FORME DELLA SERIALITA’ CINEMATOGRAFICA: SEQUEL, REMAKE, REBOOT
Oggi il testo cinematografico sembra impossibilitato a bastare a se stesso, con il ricorso a remake, sequel o reboot. L’utilizzo della trans-testualità, relazione con altri testi, svela alcuni aspetti decisivi della produzione di un film.
Il cinema si nutre di una frammentazione narrativa, in un processo infinito di ritorno su passi già compiuti. È una estasi indotta dal passato che immobilizza molti sforzi tesi a reinventare i confini e le regole del fare cinema, che spinge registi e sceneggiatori a costruire film che contengono elementi da sviluppare in altri episodi, in un gioco di moltiplicazioni certo figlie di esigenze economiche e che spingono a riconsiderare anche la nostra posizione di spettatori. Se i sequel hanno funzionato fino agli anni ’90, nel nuovo millennio nasce la saga, il ciclo, una forma contemporanea di epica narrativa.
a) Remake
La logica del remake si fonda su una distanza, o cronologica o geografica. Tra i remake di slittamento esclusivamente storico abbiamo Dawn of the Dead (2004), Ocean’s Eleven (2001, che inaugura una serie), La fabbrica di cioccolato (2005). L’alba dei morti viventi di Zack Snyder aggiorna l’epopea dei non morti che Romero aveva raccontato nel suo Zombi (1978), riproponendo molti passaggi del propotipo romeriano – come l’ambientazione nel centro commerciale – e modificandone altri, come gli zombie che diventano velocissimi.
Tra i titoli che invece ripropongono opere arrivate da altre zone possiamo annoverare The Ring (2002) e Insomnia (2002). The Ring, tratto da un romanzo di Koji Suzuki, il giapponese Ringu (1998) proponeva una paura legata alle caratteristiche mediali del supporto su cui viaggiava l’orrore (una vhs), che appare fuori contesto negli USA del 2002.
Insomnia si origina da un film norvegese del 1997, di genere e ben costruito, con le sue giornate senza buio che intercettano la psiche fragile di un poliziotto fuori controllo. Reduce dal successo imprevisto di Memento,Nolan si ritrova il rpogetto di un remake che sembra un patto col diavolo del cinema commerciale. Realizza comunque un film freddo, calcolato e impeccabile.
Il dilagare del remake è arrivato fino alla televisione, con trasmissioni che sfruttano l’idea di un «format» di successo (da The Big Brother a Who wants to be a Millionaire?) per trapiantare ovunque lo stesso schema d’intrattenimento.
b) Sequel, prequel…
Diversi gli ambiti di sequel e prequel, che costruiscono appendici e continuazioni narrative a film che hanno ottenuto successo. L’idea è prolungare la vita a un personaggio, un racconto, un mondo, legate a esigenze economiche. In altri casi i sequel sono progettati come parte integrande di un racconto plurale, come adattamenti di opere letterarie multiple (gli Harry Potter o la trilogia de Il signore degli anelli) o dei fumetti (X-Men). Può accadere che all’interno di un film si costruisca una cellula dormiente pronta a sbocciare, come accade con l’horror (Saw e Hostel) o l’animazione (Shrek, L’era glaciale).
Tra i prequel più significativi vi sono i tre episodi di Star Wars e i due film dedicati a Hannibal Lecter, che proietta lo sguardo alla ricerca del passato dello psichiatra cannibale, uno dei personaggi chiave del cinema degli anni ’90.
c) Reboot
In mezzo sta il reboot, forse la vera novità del XXI secolo, che è vicino al remake da cui però differisce per l’intento di radere le radice di un racconto e costruirne altre in un processo di reinvenzione. L’esigenza è riaccendere una narrazione aggiornandone le premesse.
Esemplare è il percorso di Cristopher Nolan su Batman (Batman Begins, Il cavaliere oscuro ed Il cavaliere oscuro – il ritorno) e la rinascita di James Bond, ora Daniel Craig, inaugurata con Agente 007 – Casino Royale (2006).
Il reboot è un ricominciamento che ha più presa sul materiale narrativo quanto superiore si dimostra la capacità di separarsi da alcuni elementi riconoscibili che caratterzzavano la serie precedente, come la decisione di far rinascere il cattivo The Joker ne Il cavaliere oscuro affidandolo alla recitazione perversamente diabolica di Heath Ledger e sfrondandolo degli aspetti ironici del Jack Nicholson diretto da Tim Burton. Il Bond di Craig (la cui muscolatura non ha precedenti) beve birra e non fa più caso se il Martini è shakerato o agitato.
CAPITOLO TERZO – TEMI, PROTAGONISTI, GEOGRAFIE
1. LA CRISI DEL SOGGETTO
Dopo l’affermazione negli anni ’80 di un personaggio vincente e positivo, già negli anni ’90 alcune incertezze cominciano a fanare: si redifinisce il concetto di eroe. Pistoleri che non sanno più sparare, investigatori privati improvvisati, fino al semi idiota interpretato da Tom Hanks in Forrest Gump.
Il personaggio è semrpe meno monolotico e sempre più interrogativo. L’innominato protagonista di Fight Club con la sua insonnia, il suo sdoppiamento della personalità, è un antieroe che rappresenta l’apige di questa dissoluzione.
Già autori come Resnais, Bunuel, Antonioni avevano lasciato intravedere (dagli anni ’60) le possibilità offerte da personaggi dalle percezioni incerte per veicolare un ragionamento sul cinema. Oggi si dispiega agli occhi degli spettatori un incremento di titoli costruiti intorno a questa crisi della soggettività.
Secondo De Kerckhove (1993) le tecnologie che ci permettono elaborare le informazioni ed i nuovi mezzi di comunicazione intervendono sulle attività del nostro cervello, producendo trasformazioni dell’agire neuronale. Il mutato scenario mediale contemporaneo è uno stimolo a rivedere le griglie della nostra interazione con la realtà.
Cominciamo da un altrove mediale: la letteratura. Negli anni si impone il sottogenere definito da Marco Roth «neuro romanzo», con personaggi che soffrono di disturbi cerebrali. Le ragioni di questi interessi sono connesse all’emergere di discipline nuove, come la neurochimica e lo studio della coscienza.
Dopo Memento le declinazioni dell’amnesia sono diventate uno dei soggetti più esplorati del cinema. Nel 2002 esce The Bourne Identity, primo di quattro film su Jason Bourne, un uomo senza memoria ripescato in mare che poi scopre di essere un killer professionista, braccato da un’organizzazione internazionale.
Nel 2003 la Pixar produce Alla ricerca di Nemo, il rapporto tra un pesce pagliaccio e suo padre in una storia di ricerca, di «formazione». La sceneggiatura è arricchita dal personaggio della pesciolina Dory, che soffre di un disturbo della memoria a breve termine, pretesto per divertenti gag.
Assistiamo quindi alla perdita di ciò che chiamavamo «soggetto»: chi costruisce storie sembra assorbire le scoeprte scientifiche per poi usarle come schemi. La cancellazione selettiva della memoria ideata da Charlie Kaufman per il suo Se mi lasci ti cancello testimoniano la fortuna di tali tematiche. Le storie che si costruiscono intorno a disturbi della percezione e della mente permettono una prospettiva eccentrica e non lineare sul nostro mondo e sulle sue dinamiche sfuggenti. Come sottolinea Elsaesser «queste menti e questi corpi apparentemente danneggiati riscono a mostrare facoltà rimarchevoli, riuscendo a entrare in contatto con soggetti che appartengono a un altro mondo (Il sesto senso), a intuire un disastro imminente (Donnie Darko) o avviare movimenti di protesta popolare (Fight Club). Le loro disabilità funzionano come potenziamento di alcune funzioni, sono mostrate cioè come patologie produttive.
2. FUMETTI, EROI E SUPEREROI
L’invasione degli schermi da parte dei supereroi è contraltare rispeotto a questa cartografia di un corpo umano insufficiente. Molti arrivano dai fumetti per approdare negli studios. La loro presenza nei film è uno dei segni degli ultimi anni, il compimento di un percorso iniziato nel 1989 con Batman, col quale Tim Burton segna il passaggio ad una nuova fase della produzione cinematografica legata all’universo fumttistico per merito della reinvenzione del personaggio e del contesto.
È una presenza sempre più marcata soprattutto per ragioni economiche, con la sicurezza di un franchise sfruttabile serialmente e l’indotto generato dai gadget.
Come scrive David Bordwell, identificare il successo dei film di supereroi e la loro capacità di penetrare dentro le maglie dell’immaginario occidentale con la paura post 11 settembre è troppo semplicistico. È più corretto individuare altrove la ragione di questi successi: i film tratti dai fumetti hanno la capacità di trascendere dall’unicità del frammento narrativo e proiettarsi in un differente ambito di riferimento: un mondo fatto di storie e personaggio dentro il quale muoversi per riconfigurare la drammaturgia del supereroe o del cattivo.
3. LE NUOVE FORME DELLA VIOLENZA: FUORI E DENTRO L’HORROR
Il cinema contemporaneo è violento come non lo è mai stato prima. Non solo dentro i confini dell’horror: esemplari sono due regie di Mel Gibson, La passione di Cristo (2004) e Apocalypto (2007), dove calca la mano sulla potenza repellente di sangue e ferite per raccontare il supplizio di Gesù e la caduta dell’impero maya. Le ragioni di questa escalation sono da collegare a un innalzamento della soglia del visibile, anche in riferimento ad altri media.
Una delle interessanti etichette nel nuovo secolo è torture porn, con film tipo Saw l’enigmista (2004) e Hostel (2005). Si tratta di una forma succedanea dell’horror caratterizzata da un brutale accanimento verso il corpo umano.
Questi film ricorrono a uno schematismo espressivo che insiste su luoghi comunque, raggiungendo una ripetitività di situazioni che li accomunano al porno.
La nostra esperienza cinematografica di tali film è riprocessata da una forma più complessa di voyeurismo e da una iper-sollecitazione dell’esperienza del dolore attraverso anche un’articolazione di film, fumetti, videogiochi che insistono sull’autenticità della crudezza. Messe in scena realistiche che bilanciano la sottrazione sui binari dell’esperienza del reale e dare nuovi limiti a ciò che la cultura considera ammissibile. Il dolore è quindi bandito dalla vita quotidiana.
Le immagini della tortura e della guerra sono ormai parte integrande del visual scape contemporaneo. Siti internet e notiziari sul web si saturano di immagini di guerriglieri che decapitano progionieri. Questo spostamento dei confini del mostrabile si associa al successo del torture porn e dei suoi affini.
L’horror, più di altri generi, pare un elemento fondamentale per comprendere il destino del cinema. Per capire cosa è successo a questo genere dobbiamo analizzare le due tendenze nate alla fine del ‘900: il successo delle metanarrazioni legate all’horror e l’avvio di una forma più «realistica» del racconto, determinata dal ritrovamento di un video registrato dalle vittime di un evento misterioso. I titoli che avviano queste tendenze sono Scream (1996) e The Blair Witch Project (1999) che ha inaugurato la serie dei titoli incentrati sul falso found footage.
La saga di Scream interpella la memoria degli spettatori rispetto agli elementi del sottogenere slasher.
Oggi, i rimandi intertestuali si muovono lungo l’asse del remake, una sorta di terza grande tendenza dell’horror di questi anni. Tutto ripercorre i passi del già noto, mettendosi alla ricerca di terrori che sappiano cistruire la paura in un panorama in cui niente sembra riuscire a sconvolgere lo spettatore. Il ri-raccontare le stesse storie ha valore fortemente terapeutico per un pubblico che si compiace nella fruizione di un medesimo corpus narrativo.
D’altra parte la scelta dello stratagemma del «film ritrovato» ha avuto – dopo la strega di Blair – varie declinazioni. Il presupposto è lo stesso: fingere un prelievo diretto dalla realtà. Molti sono i film che continuano a usare questo esperienze. Mentre nei precedenti letterari (per esempio I promessi sposi di Manzoni o Il nome della rosa di Eco) il ritrovamento del libro è introdotto dall’avvertenza che compito della letteratura è aggiornare il linguaggio del testo, lo stesso trucco al cinema non funziona. I film sembrano voler dire che il cinema non ha svolto alcuna funzione: mentono, fingendo che il film sia solo un objet trouvé e che nessuna azione sia stata aggiunta.
Dopo aver esaurito il patrimonio del mostruoso, l’horror ha puntato verso questa forma iper-realista di messa in scena, per mutare forma al quotidiano sotto lo sguardo neutro di una videocamera, per aumentare il coefficiente perturbante di un cinema che chiede allo spettatore di reinquadrare dentro una cornice più realistica la propria adesione all’efferatezza che adesso «si può vedere».
4. INDIPENDENTI AMERICANI?
Il cinema «indipendente» si situa in una zona intermedia in cui si sovrappongono istanze commerciali, rivendicazioni estetiche e un modo di intendere il cinema come specchio di dinamiche più ampie. È possibile identificare l’indipendenza con questioni inerenti il budget (ridotto) o con l’irriducibilità di alcuni registi a determinate logiche che appartengono a una filiera mainstream. Ma indipendenza può anche coincidere con gli assetti formali, estetici, narrativi dei film che si analizzano.
Negli anni ’90 si sono imposti alcuni giovani registi (Tarantino, Soderbergh, Wes Anderson, Payne, Solondz), poi consacrati nel nuovo millennio; tra gli anni ’90 e il 2004 però è avvenuto il curioso aggiustamento dagli equilibri commerciali che hanno portato a una ridefinizione di ciò che è possibile etichettare come «indipendente».
Gli studios hanno inglobato alcune compagnie esistenti (Universal – Focus, Miramax e Pixar – Disney, ecc), che sono diventate le principali divisioni destinate a occuparti di titoli che occupano fette di mercato subalterne.
Un’etichetta come quella del Sundance Film Festival coincide con una sparizione del concetto di indipendenza economica. La patente di artisticità – che l’etichetta indie inspiegabilmente porta con sé – ha implicazioni che finiscono per riguardare i film: le immagini.
Joel e Ethan Coen sono un perfetto esempio di questa sovrapposizione tra circuito più indipendente e ambito produttivo degli studios: da campioni del cinema indipendenti a pupilli degli studios, che hanno loro garantito indipendenza, budget non risicati, grandi star e premi Oscar. I Coen individuano quello che è il nucleo del problema: «James Cameron realizza film gigantesca prodotti e distribuiti dagli studios. Così indie è un termine che alcuni giornalisti usano nei nostri confronti volendo elogiare il nostro lavoro, mentre criticano Cameron per il suo non essere indipendente nonostante forse lo sia».
È quindi impossibile fare chiarezza, restano solo i film dell’universo indipendente di inizio millennio: I Tenenbaum di Wes Anderson, Ghost Dog di Jim Jarmush e Lost in Translation di Sofia Coppola. È un contesto dinamico e mutevole quello dei giovani indipendenti, in cui il ricambio generazionale diventa un’attestazione della mutazione industriale delle categorie legate all’indie. Non tutti i giovani si sono poi omologati alle regole degli studios, come P.T. Anderson, Steven Soderbergh e Christopher Nolan.
Proprio il ruolo di Soderbegh è esemplare: esploso col fortunato Sesso, bugie e videotape (1989) ha assunto un ruolo ondivago tra esperimenti autoriali e concessioni al mainstream. Vedi l’esperimento di Bubble (2005) da una parte, piccolo film con attori sconosciuti, e la triologia composta da Ocean’s Eleven (2001), Ocean’s Twelve (2004) e Ocean’s Thirteen (2007), tipico oggetto cinematografico in cui il connubio tra un gruppo di star, una trama pirotecnica e impalpabile costruisce un perfetto divertissement, lontano dalla sensibilità dello stesso Bubble. Soderberh non è comunque certo un autore addomesticato.
Una strada eccentrica è quella di Wes Anderson imposostosi sulla scena con I Tenenbaum (2001), ha insistito, con stile personale, lungo una serie di titoli non sempre riuscitissimi. La cura per il particolare scenografico, il gusto vintage, la selezione maniacale dei brani per la colonna sonora, concorrono a una maniera particolarmente vincolante.
Dall’universo indie emergono ancora oggi alcuni nomi nuovi, registi che transitano dal Sundance Film Festival.
5. COMPLESSITA’, IMMEDESIMAZIONE, MODULARITA’: NUOVI ASSETTI DEL RACCONTO E MIND GAMES MOVIES
Di solito l’espressione losing the plot («perdere la trama») si riferisce a una condizione patologica di sofferenza legata alla memoria; ma è anche l’etichetta di una serie di film che eredita una strategia narrativa sperimentate dalle aganguardie europee, e che hanno tratto spinta propulsiva dal successo di Pulp Fiction (1994). Anche molte serie televisive (su tutte Lost) fanno massiccio uso dell’esplosione cronologica.
L’età dell’oro del cinema americano è stata caratterizzata da una strategia per il soddisfacimento delle attese del pubblico, all’esaudimento dei desideri degli spettatori. Il film come oggetto culturale passa attraverso una serie di metamorfosi determinate da vari strumenti e tecnologie.
Laurent Jullier, nel suo Il cinema postmoderno, identifica l’evoluzione del cinema con l’avvento di una relazione fisica e eccitata tra pubblico e schermo. Il passaggio da un cinema solidamente e classicamente frontale a uno spettacolo immersivo, capace di dare a chi guarda la sensazione di un abbandono sensoriale dentro un ambito magmatico di immagini e suoni che cessa di riferirsi esclusivamente alla vista e all’udito e che riesce a coinvolgere il pubblico con una stimolazione corporea più ampia. Secondo Julluer il cinema ha vissuto «un passaggio dalla comunicazione alla fusione». L’evento visivo di oggi è una sorta di crash cognitivo in cui gli strimoli esterni sopraffanno l’apparato percettivo.
L’esplosione del 3D porta con sé una serie di implicazioni estetiche ma è anche tentativo chiaro da parte dell’industria di riportare gli spettatori nelle sale, in un passaggio in cui i film sono guardati attraverso un numero elevatissimo di schermi.
Il cinema nell’era del digitale trova nelle immagini catturate dal verso una sorta di elemento grezzo che viene modificato grazie alla stratificazione di ritocchi, elementi interamente costruiti con animazioni digitali, interpolazioni, luci e ombre create digitalmente. Sono immagini infinitamente manipolabili: l’inquadratura è uno spazio vuoto in cui tutto è virtualmente collocabile.
La percezione del tempo e di ciò che proviamo a definire «reale» è strettamente connessa, perché il tempo ha la capacità, quando esce dai binari della linearità cronologica, di contagiare le prospettive che gli esseri umano adottano per leggere la realtà.
La trasformazione del narrare si connette alla presenza di altri oggetti mediali, strutturati diversamente: l’avvento del web, ad esempio, implica l’affermarsi di una precisa istanza anti-narrativa.
Quando il cinema perde la certezza della linearità cronologica, la conseguenza può essere la scomparsa di autenticità, nel senso di una definitiva emersione di quella potenza del falso intuita da Gilles Deleuze e oggi divenuta segno forte della nostra relazione con i media: «è una potenza del falso che sostituisce la forma del vero, perché pone la simultaneità di presenti impossibili o la coesistenza di passati non necessariamente veri» (Deleuze).
Uno spostamento dei canoni ruota attorno a differenti tematizzazioni e visualizzazioni del tempo e all’approccio che distingue le strategie di attendance da una versione più tradizionale e strutturata di spettatorialità. «Il principio strutturale dei mind game movies consiste nel trascinare gli spettatori nel mondo del protagonista, e ciò in un mondo che sarebbe impossibile se la narrazione guadagnasse la distanza, o contestualizzasse per esempio l’eroe attraverso le sue condizioni spirituali o corporee» (ELSAESSER e HAGENER).
Memento ha aiutato un pubblico sempre più ampio a confrontarsi con una narrazione capace di scardinare la linearità cronologica e proiettare i margini temporali verso luoghi e cornici psicologiche differenti allo scorrimento ordinario del tempo, una dimensione più cerebrale e una più complessa condizione psicologica dei personaggi. Elementi che convergono nell’opera di Charlie Kaufman, sceneggiatore con quattro film scritti in cinque anni e una cifra espressiva assai peculiare. La collaborazione col regista Spike Jonze per Essere John Malkovich (1999) e Il ladro di orchidee (2002) e soprattutto la sceneggiatura di Se mi lasci ti cancello premiata anche con un Oscar… è un percorso autoriale sui generis.
I conflitti attraversati dai personaggi di Kaufman sono legati alla ricerca di una posizione, una collocazione dentro una realtà, e alla sovrapposizione tra le proprie puslioni e le regole della società.
La difficoltà nell’assimilare le sceneggiature di Kaufman a quelle degli altri scrittori hollywoodiani è la sua incapacità di adeguarsi alle norme della scrittura regolamentata. Kaufman detesta le gabbie troppo restrittive che impongono strutture tripartite e personaggi monodimensionali. L’esposizione dell’artificio narrativo è per lui l’affermazione del falso, dell’illusione, dello spettacolo cinematografico che mostra la propria natura fittizia, che espone la centralità della macchinazione. Così la sua scrittura si proietta dentro dimensioni cronologiche indecifrabili, sospese in un tempo astratto.
Il nucleo pulsante delle sue storie sembra essere la ricerca di una via d’uscita, una impossibile redenzione da una condizione di frustrazione. Kaufman qui inserisce lo stacco, la stasi che immobilizza i suoi personaggi alla loro pochezza, alla loro irrisolta aderenza al mondo che li circonda. Tutti i suoi personaggi rimangono immobilizzati di fronte alla certezza di non essere pienamente, di non possedere una costruzione identitaria completa.
6. IL CINEMA EUROPEO
È quasi impossibile, oggi, parlare di cinema europeo come è stato fatto nel passato, ma questo non vuol dire che il cinema europeo non esiste. Ma invece che parlare dei vari paesi, ragioneremo delle principali vie di innovazione scaturite da «grandi autori europei» che, in realtà, non interessano tanto per il loro curriculum quando per la capacità di cogliere alcuni snodi che la cultura europea continua a nutrire.
Manca comunque un autentico ricambio generazionale. Il cinema europeo ha lasciato il secolo scorpo dopo una serie di battaglie contro l’invadenza di Hollywood nelle quali Wim Wenders è stato uno dei più attivi.
Lo strapotere del cinema americano sul mercato europeo, pur vissuto come un pericolo economico-culturale, può essere una possibilità di esistenza per cinematografie più deboli che, in virtù del margine di rischio ridotto degli in cassi di blockbuster, riescono a essere distribuite non esclusivamente nei festival.
Un primo tema è la dissoluzione della cinematografia nazionale. L’Unione Europea ha creato progetti di supporto economico e distribuitivo ai film europei, indirizzati a proteggere alcuni film assicurando loro un destino distribuitivo e fase di mercato più riparate dalla prepotenza del cinema identificato come «commerciale». Un’opposizione miope, come se negli USA non operassero Anderson, Van Sant o i Coen.
Il gruppo danese Dogma è il verso sasso nello stagno europeo lanciato a fine ‘900. Nessun manifesto rivoluzionario, nessuna richiarazione programmatica, solo molti buoni film: vanno segnalati Steve McQueen in Inghilterra, Garrone e Sorrentino in Italia, Susanne Bier e Nicolas Winding Refn in Danimarca, eccetera. L’emergere di un cinena popolare e di grande successo interessa soprattutto l’Italia e la Francia, grazie soprattutto ad alcune commedie.
Un caso rilevante è Il favoloso mondo di Amelie (2001), romantico e bizzarro, che ha ottenuto grande successo commerciale dentro e fuori dalla Francia. Il film di Jean-Pierre Jeunet si muove lungo un cinema surreale negli impossibili snodi del racconto, ingenuo nella concatenazione degli accadimenti.
Qualche parola va spesa per alcuni registi già attivi negli anni ’90. Il francese Bruno Dumont, che aveva esordito impressionando con un dittico (L’età inquieta, 1997, e L’umanità, 1999) prosegue il suo percorso con un cinema ostico, aspro, pieno di silenzi.
I fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, belgi, si sono imposti all’attenzione con Le promesse (1996) e Rosetta (1999), nel nuovo secolo proseguono un discorso lineare, legato a un pedinamento della realtà che è figlio dei loro esordi documentaristici e della loro strategia registica che si concentra su storie spoglie. Essi non sembrano mai mostrare profonde innovazioni rispetto ai film precedenti, impegnati nella ridefinizione di un’idea di cinema in cui «realismo non significa imitare la realtà, ma trasformarla». I Dardenne operano una continua trazione del reale che raccontano.
a) Il cinema rumeno
La morte del signor Lazarescu è il film che ha aperto la strada, ottenendo un premio alla sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2005. È l’odissea di un anziano che ha avuto un malore e che vaga in ospedale alla ricerca di un ricovero, che fotograva con esattezza la deriva di un paese incapace di dare un aiuto ad un malato. La disamina è attraversata da un certo black humour.
Altro discorso a parte merita A est di Bucarest (Corneliu Porumboiu), vincitore della Palm d’Or a Cannes nel 2006, con una struttura cronologica meno lineare. Una rabberciata trasmissione televisiva prova a commemorare la rivoluzione dell’89, gli ospiti però la trascinano nella dimensione della farsa. Il film ha il merito di non fissare in modo univoco l’orrore della dittatura.
b) Ancora un cinema frontale: l’Austria
La guida di Michael Haneke è fondamentale per questo paese, con una serie di film che si apre con La pianista (2001), prosege con Niente da nascondere (2005) e Funny Games (2007) e tocca il suo apice con Il nastro bianco (2009).
Haneke costruisce il cinema dell’impassibilità, della paralisi psico-fisica al cospetto del terrore: è un cinema che continua a essere violento perché, mostrando l’antispettacolarità della violenza, riflette su di essa senza psicologismi o la ricerca di cause. Haneke non manca mai di condannare quella forma di pornografia visiva che identifica con certo cinema americano o orientale, colpevole di trattare la violenza utilizzando il filtro dell’ironia (Tarantino o della coreografia (il torture porn).
In Funny Games, realizzato nel ’97 e rifatto 10 anni dopo, Haneke ha ricalcato il suo film dedicato alle torture inflitte da due ragazzi a una famiglia borghese in vacanza. A intercettare l’attenzione di un pubblico (americano) più avvezzo a premiare un cinema che esibisce con compiacimento la violenza come decorazione di un racconto.
Haneke non racconta solo la follia criminale, ma si concentra sulla responsabilità di chi guarda, a chi è «solo» spettatore, a riflettere su come la violenza nelle immagini non vada esclusivamente consumata come qualsiasi altra merce.
c) Un caso a parte: Herzog
Esponente del Nuovo cinema tedesco, sempre in bilico tra fiction e documentari. Attivo già negli anni ’60, negli ultimi tempi ha reinventato il suo stile rimanendo fedele alla sua idea di cinema estremo. La sua visione di cinema è totale, lo porta a cercare storie impossibili di eroi minori e improbabili. Ultimamente ha una straordinaria prolificità.
Nel dittico Grizzly Man e Ignoro spazio profondo (2005) erompe la natura falsificata dello sguardo documentaristico del regista, in biblico tra finzione e realtà, tra verità di prima mano e ricostruita, artefatta, messa in scena. La definizione che lo stesso regista dà del secondo titolo è «una fantasia fantascientifica». Il protagonista è un alieno con fattezze umane che racconta alla macchina l’avventura della sua gente, giunta sulla Terra alla ricerca di un posto dove vivere. L’arrivo è raccontato con l’ausilio di un vecchissimo filmato di repertorio, realizzato in bianco e nero. Lo stesso accadrà coi filmati d’archivio della Nasa, che la regia carica di un altro senso narrativo grazie ad una voce off che racconta di un misterioso contagio che anniente la popolazione della Terra. Herzog utilizza flmati realizzati sotto la calotta antartica. Immagini bellissime, figli di una sensibilità romantica, una esplorazione dei fondali, con un cielo di cristallo (ghiaccio) e l’atmosfera liquida.
Herzog quindi parte dal reale per restituirlo non più idendico a sé, ma per stravolgerlo, per certificare come non sia più opportuno parlare di immagine vera: tutte le immagini sono portatrici di un’impressione di verità oltre la canonica opposizione realtà-finzione.
Ribaltando il senso di alcune immagini «autentiche», Herzog sa che il suo cinema insiste dentro una cornice in cui l’unica possibilità per raggiungere la «verità» è tradirnel’essenza, cercarne il fantasma.
Herzog ha scritto (Dichiarazione del Minnesota) o detto che la verità che a lui interessa non è quella che si ottiene riprendendo i fatti reali: la contrapposizione tra fatto e verità non riguarda quelli che definiamo «eventi reali», ma tira in ballo la categoria di «verità estatica, misteriosa ed elusiva, che può essere colta solo per mezzo di invenzione e immaginazione».
7. PIANETA ASIA
Discorso analogo a quello sul cinema europeo andrebbe fatto per quello asiatico, che è ancora più articolata. Il cinema asiatico, soprattutto dell’Estremo Oriente, attraversa una fase di grande splendore, grazie anche alla grande contaminazione produttiva tansnazionale.
Un film capace di dire molto di questo fenomeno è La tigre e il dragone (2000); il regista Ang Lee è taiwanese ma da molto emigrato negli USA, lo sceneggiatore è di Detroit, la produzione è affidata a società cinesi, americane e taiwanese, e nel cast figura la star di Hong Kong, Chow Yun-Fat, la cinese Zhang Ziyi e la malese Michelle Yeoh.
È il prodotto di un laboratorio in cui vengono sperimentate alcune linee di tendenza che domineranno le logiche delle produzioni internazionali degli anni successivi: trattare una storia tradizionale orientale con alcuni stilemi occidentali. I puristi del wuxiapan (genere cinese legato alle gesta epiche di eroi) hanno accusato il film di voler sedurre gli occidentali con le coreografie dei combattimenti (curate da Yuen Woo Ping, lo stesso di Matrix). L’abbondante conquista di Oscar è stata interpretata come un esercizio di imperialismo culturale da parte della potenza hollywoodiana.
Il continente è attraversato da questa doppia tensione: l’attaccamento a generi che hanno concorso alla definizione di una forma di identità nazionale in molti paesi asiatici e l’attenzione alle nuove strategie legate alla transnazionalità.
a) L’officina della Corea del Sud
L’esempio della Corea del Sud è indicativo: pur ragionando in una dimensione nazionale, la sua industria cinematografica pare insistere su un prodotto che plasmi un pubblico in senso nazionalistico. Ha rappresentato negli ultimi anni una officiena in fibrillazione creativa, sfornando grandi registi e ottimi film: Park Chan-wook è esploso a livello mondiale con Old Boy, a lui si aggiungono Kim Ki-duk, Hong Sang-soo e Bong Joon-ho. Numerosi sono, già oggi, i remake americani realizzati da opere sudcoreane.
b) J-horror
L’horror giapponese si afferma su scala mondiale già a fine ‘900, diventando uno dei settori più remunerativi dell’industria cinematografica nipponica. I due film chiave sono Ringu e Juon.
In questo genere si condenza una delle più flagranti contraddizioni che nutrono il cinema asiatico nel passaggio verso una cultura globalizzata: da una parte, l’insieme di mostri, corpi mutanti e spettri, è basato sulle forme più tradizionali e locali del terrore. Dall’altra, è evidente la necessità di aprirsi all’occidente e liberarsi dal giogo storico che lo àncora a forme pre-moderne di gestione della paura.
8. BACK TO REAL? TRA FICTION E DOCUMENTARIO
Torna al centro del panorama cinematografico un’urgenza di reale che trova declinazioni più tradizionali o fughe dichiarate verso un’intensificazione della pratica documentaria, come per sanare quella patologia che aveva distratto un pubblico che, dagli anni ’80 e per tutta la «condizione postmoderna» aveva cullato un’altra consapevolezza del proprio essere al mondo, concentrandosi sulla brillantezza dell’entertainment.
Qui si inserisce la nuova vita del documentario. La Palma d’oro a Cannes 2004 per Fahrenheit 9/11 o il Leone d’oro a Venezia 2013 per Gianfranco Rosi col suo Sacro GRA sono casi evidenti. Grazie figure trainanti come Michael Moore, il documentario assume una forma distributiva più strutturata.
Discorso a parte meritano i documentari che hanno alzato la riflessione sullo stesso linguaggio documentario verso ambiti come lo sperimentalismo di Herzog, come l’israeliano Valzer con Bashir, Nostalgia de la luz di Patricio Guzmàn (2010) e The Act of Killing (2012 di Joshua Oppenheimer. Il film di Guzmàn è un esercizio filosofico: le donne che cercano i resti dei loro cari seppelliti da Pinochet, accanto agli astronomi che inseguono l’origine della vita. Il film si trasforma in un’articolata riflessione sul passato recente del Cile.
The Act of Killing (prodotto da Herzog), realizzato in indonesia con fondi danesi e norvegesi, è un agghiacciante viaggio nella storia del paese.
A Sumatra, Joshua Oppenheimer incontra gli squadroni della morte, protatonisti di migliaia di omicidi politici in nome della dittatura di Suharto. Il regista chiede ai killer di mettere in scena le stragi e le torture, e costoro sembrano quasi soddisfatti delle atrocità commesse. Con questi assassini che seguono gli stilemi dei loro generi cinematografici preferiti, si raggiunge una condizione in cui il cinema viene utilizzato come strumento per un’allucinazione collettiva.
Concetti come interattività, non linearità, struttura mai conclusa (open-ended) modificano la forma dell’oggetto mediale in questione e ripensano alla funzione dello spettatore, che si trova ad essere utente, recuperando un ruolo non passivo.
È come se il documentario, in questa veste, divenisse una sorta di elemento centripeto capace di attrarre all’interno una rete di tensioni, partecipazioni che lo rendono interessante proprio per questa definizione formale.
9. APOCALISSE, FINE DEL MONDO
Se il secolo si apre solo con l’evento traumatico dell’11 settembre, allora chiudere il cerchio significa anche provare a vedere come il cinema abbia utilizzato l’onda lunga del disastro e delle sue conseguenze per raccontare un mondo e immaginarlo sull’orlo dell’abisso o già consegnato all’autodistruzione. A rinforzare l’immaginario apocalittico vi sono stati altri eventi, come lo tsunami nel Sud-est asiatico del 2004 o la tragedia nucleare in Giappone nel 2011, oltre alla fine del mondo attesa per il 2012.
L’espressione più evidente di questa tendenza è in due film di Roland Emmerich, tedesco specialista del genere: The Day after Tomorrow (2004), basato sulle preoccupazioni sul riscaldamento globale e gli stravolgimenti climatici, e 2012 (2009) con effetti speciali di altissimo livello ma una sceneggiatura sommaria. Hollywood ha evidentemente chiesto al regista di esorcizzare spettacolarmente le paure degli spettatori con sequenze catastrofiche mai viste al cinema.
Esiste però una maniera differente. Lars von Trier e Abel Ferrara gettano il loro sguardo dentro gli attimi che precedono la fine di tutto. Von Trier connette in Melancholia (2011) la fine del mondo alla depressione che attanaglia la protagonista. In Last Day on Earth (2011) Ferrara ambienta l’attesa in un appartamento di New York in cui un uomo e una donna decidono di attendere insieme la fine. Nessuna enfasi, qualche saluto su Skype, un’attesa dell’ineluttabile che ha poco delle apocalissi usualmente al cinema.
Da Codice Genesi (Hugher Brothers, 2010) a Io sono leggenda (Francis Lawrence, 2007, da Wall-E a The Road (John Hillcoat, 2009) è tutto un restituire immagini in cui l’ipoteca sul possibile avvenire non riesce a offrire un’immagine capace di dare una speranza.
Il tema della fine dell’umanità, dell’esistenza di un mondo post-umano, è uno specchio su cui leggere le diverse sensibilità di un’epoca ma anche le differenti declinazioni di un cinema che sfugge a qualsiasi forma di monolitismo e si sfaccetta in varie articolazioni che dicono di una varietà di approcci a un unico tema dal chiaro valore simbolico.
Fonte: http://mirkomanetti.it/wp-content/uploads/2015/09/Riassunto-Il-cinema-del-terzo-millennio.docx
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