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Terza edizione, gennaio 2006
Il lavoro è ogni attività o funzione diretta ala progresso materiale e spirituale della società (art. 4, comma 2). Il diritto al lavoro è riconosciuto a tutti i cittadini (art. 4, comma 1) ed allo scopo di renderlo effettivo ed operante la Repubblica promuove tutte le condizioni opportune, eliminando anche gli ostacoli che impediscano l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comma 2).
Il diritto del lavoro, inteso in senso lato, può essere definito come l'insieme delle norme che disciplinano il rapporto di lavoro – ossia la relazione giuridica intercorrente tra il prestatore ed il datore di lavoro – e che tutelano oltre che l’interesse economico, anche la libertà, la dignità e la personalità del lavoratore. Tale relazione rappresenta un rapporto giuridico complesso, avente ad oggetto tanto l'obbligo del lavoratore di prestare la propria attività e l'obbligo del datore di corrispondere la retribuzione, quanto una molteplicità di situazioni giuridiche soggettive attive e passive, facenti capo alle due parti del rapporto.
Il diritto del lavoro è una disciplina giuridica relativamente nuova, sviluppatasi essenzialmente a partire dai primi anni dell'Ottocento, quando emerse con tutta evidenza la necessità di mediare le esigenze della tutela dei lavoratori con quelle della produzione. Disciplina che ha subito un'evoluzione fortemente condizionata dalle varie fasi attraversate nella storia sociale, economica e politica del nostro Paese.
Il diritto del lavoro presenta connotazioni peculiari rispetto alle altre branche del diritto, in quanto si sottrae alla partizione tradizionale - ma sempre più, oggi, contestata - del diritto nei due rami del diritto pubblico e del diritto privato. In esso, infatti, confluiscono:
La dottrina tradizionale distingue nell'ambito del diritto del lavoro inteso in senso ampio:
Il sistema delle fonti di produzione del diritto del lavoro in senso stretto presenta aspetti di particolare complessità e problematicità, in ragione del concorso di una molteplicità di atti che, se pur dotati di un diverso grado di efficacia, hanno tutti la forza giuridica di incidere sulla regolamentazione concreta del rapporto di lavoro e di determinarla.
In via di prima approssimazione, le fonti che concorrono alla produzione del diritto del lavoro possono essere suddivise nel modo che segue:
Ricordato che a termini dell'art. 35, co. III, Cost., la Repubblica "promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro", occorre precisare che nel novero delle fonti sovranazionali od internazionali si distinguono due livelli di produzione normativa:
Con riferimento al primo livello, oltre ai vari trattati internazionali stipulati anche dall'Italia, rivestono fondamentale importanza alcuni atti ad efficacia esterna emanati dall'O.I.L. (Organizzazione internazionale del lavoro, istituzionalmente deputata a favorire il progresso delle classi lavoratrici nel mondo), e cioè:
Con riferimento al secondo livello, va ricordato che, a differenza delle norme del diritto internazionale, quelle del diritto comunitario - che hanno assunto, specie nell'ultimo decennio, una sempre crescente importanza - possono esplicare efficacia immediata e diretta all'interno degli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Tali norme sono quelle contenute:
Tra i più importanti trattati internazionali, sottoscritti anche dall’Italia, ricordiamo la Carta Internazionale del Lavoro (Versailles, 1919), aggiornata dalla Dichiarazione di Filadelfia (1944), la Carta sociale europea (Torino, 1961) sottoscritta dai membri del Consiglio d’Europa i quali ne hanno ribadito i criteri minimi applicativi nel Codice europeo di sicurezza sociale (1964). Non va dimenticato il Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali, approvato il 16 novembre 1966 dall’Assemblea generale dell’ONU e ratificato in Italia con la legge 25 ottobre 1977 n. 881. Esso si occupa, tra l’altro, di diritto del lavoro, equa retribuzione, assicurazione e altre forme di assistenza sociale, sindacati e diritto di sciopero.
In materia di diritto del lavoro, le fonti legislative sono le seguenti:
La nostra Carta costituzionale (entrata in vigore il 1° gennaio 1948), definita da taluno "lavoristica" (MAZZIOTTI), considera il rapporto di lavoro come il più importante rapporto interprivato. Prova ne è che nella grande area delle garanzie costituzionali attinenti ai rapporti tra privati, le garanzie relative al rapporto di lavoro sono di gran lunga prevalenti (GHERA).
Il rilievo dato dalla Costituzione al lavoro si evince, innanzitutto, dall'art. 1, co. I, ai sensi del quale "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro".
Nonostante qualche autorevole opinione contraria, sembra doversi ritenere che, nel contesto di tale disposizione, il termine lavoro assuma un significato ampio, tale da comprendere cioè non solo il lavoro salariato, ma ogni altra attività, anche imprenditoriale.
Vengono, quindi, dettati in altre norme costituzionali, altri principi fondamentali volti a rendere più concreta la disposizione di cui all'art. 1, co. I.
In realtà, è necessario distinguere in proposito le norme della Costituzione sociale dalle norme della Costituzione economica. Infatti, come osserva Ghera, "la tutela del soggetto contraente debole rappresenta indubbiamente la finalità delle norme dettate dalla Costituzione in materia di lavoro, ma non si tratta più di una finalità esclusiva: si aggiunge, infatti, ad essa la finalità ulteriore e più ampia della garanzia dei diritti sociali. Al tradizionale obiettivo della tutela della posizione contrattuale debole si affianca perciò l'obiettivo della tutela della libertà e dignità sociale del lavoratore".
Gli articoli della Costituzione sociale che vengono in rilievo sono:
Le norme costituzionali dedicate propriamente al lavoro sono contenute negli artt. 35 – 47 della Costituzione ove sono definiti principi generali che regolano l’assetto economico della società, con particolare riguardo all’iniziativa economica privata, al lavoro salariato, alla proprietà terriera, all’artigianato, alle libere professioni, alla cooperazione. La finalità è quella di tutelare il soggetto più debole, il lavoratore, e di conferire concretezza all’affermato impegno dello Stato alla promozione di tutti gli strumenti di emancipazione delle classi storicamente subalterne. Gli articoli della Costituzione economica relativi alla materia del lavoro sono, quindi:
Con l’avvento del fascismo, si attua in Italia una sistematica demolizione delle libertà sindacali e si realizza il sistema corporativo con l’obiettivo di superare l’antagonismo fra gli interessi di classe, subordinandoli all’interesse, comune a tutte le classi sociali, dello Stato. In tale periodo, l’intervento del legislatore si sviluppa attraversi la c.d. incorporazione (Ghera) dei principi che disciplinano il lavoro nel sistema del diritto privato. Il codice civile del 1942 ha, infatti, unificato, nel proprio ambito sistematico, il diritto civile ed il diritto commerciale inglobandovi anche il diritto del lavoro.
Nell'ambito delle leggi ordinarie, una posizione preminente, quale fonte del diritto del lavoro, spetta al Codice Civile ed in particolare al suo libro V che reca l'intestazione "Del lavoro". Va, però, precisato, al riguardo, che non tutte le norme in esso contenute afferiscono alla materia del lavoro, così come, per converso, molte norme appartenenti al diritto del lavoro sono contenute in altri libri del codice.
Di più, alcune speciali figure di contratti di lavoro ed alcune categorie di prestatori di lavoro rinvengono la loro disciplina nel codice della navigazione.
Sempre con riguardo ai codici, va rammentato che il codice di procedura civile conteneva le norme relative alle controversie in materia di lavoro; ma tali norme sono state integralmente riformate con la L. 11 agosto 1973, n. 533.
Per legge deve intendersi anche ogni altro atto avente forza di legge, e quindi:
Numerosissime sono le c.d. leggi speciali volte a tutelare il lavoratore, non solo in quanto contraente debole, ma anche nella sua qualità di soggetto che impegna la propria persona nel rapporto di lavoro, ricavandone un reddito che costituisce, nella maggior parte dei casi, la sua unica fonte di sostentamento. Nella più recente legislazione si registra la tendenza a tutelare, oltre all'integrità fisica del lavoratore, anche l'integrità morale dello stesso.
Nella numerosa serie di leggi speciali, si è soliti distinguere tra:
Si citano qui soltanto alcune delle più importanti leggi speciali, e cioè:
La competenza legislativa delle Regioni ad autonomia ordinaria è stata fino a poco tempo fa ristretta all’istruzione professionale e all’assistenza sanitaria e ospedaliera, anche se la legge n. 883 del 1978istitutiva del servizio sanitario nazionale, ne aveva già ampliato l’importanza proprio relativamente a tale ultima materia. Solo però con la legge n. 469 del 1997, frutto del processo di decentramento amministrativo avviato dalle leggi Bassanini, le competenze regionali hanno abbracciato anche la materia del collocamento e delle politiche del lavoro.
Successivamente con la legge Cost. n. 3 del 2001, attuativa del disegno di riforma in senso federalista dello Stato, è stato modificato integralmente il Titolo V della parte seconda della Costituzione, dedicato appunto alle Regioni, Province e Comuni. La nuova suddivisione della potestà legislativa tra lo Stato e le Regioni si basa sull’individuazione di materie in cui lo Stato legifera in modo esclusivo, materie in cui vi è una potestà legislativa concorrente (le Regioni sono tenute a legiferare nel rispetto dei principi fondamentali definiti dalla legislazione statale) e materie che appartengono alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni, senza interferenze da parte delle autorità statali. Restringendo l’analisi della riforma al riparto delle competenze relative al lavoro e alla previdenza ed assistenza, risulta che:
Non tutta la disciplina relativa alla materia del lavoro è contenuta nel codice o nelle leggi integratrici - pure numerose - o, ancora, nei decreti-legge e nei decreti legislativi emanati dal Governo.
Altra regolamentazione, che si aggiunge a quella generale, può essere rinvenuta:
Il contratto collettivo viene stipulato a più livelli. Esso può essere:
Nelle ipotesi in cui i contratti di diverso livello predispongano discipline in contrasto fra loro, il criterio risolutore del conflitto deve essere individuato, per la dottrina e la giurisprudenza dominanti, nel criterio della specialità, ossia nella preferenza accordata alla disciplina speciale rispetto a quella generale.
Per quanto concerne i rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale va detto che essi sono strettamente regolati, nel nostro ordinamento, dal meccanismo dell'inderogabilità in peius di natura reale; è invece possibile che il contratto individuale si discosti dal contratto collettivo derogandolo in melius.
Tuttavia, in tema di fonti del diritto del lavoro, l'argomento di maggior interesse è quello del rapporto tra la legge e contrattazione collettiva. Tra tali fonti possono stabilirsi tre forme di relazione funzionale:
L'uso (o consuetudine) è costituito da un comportamento costante ed uniforme, dal ripetersi cioè di un dato comportamento nel tempo ("diuturnitas"), accompagnato dalla convinzione della conformità al diritto e della necessità giuridica del comportamento stesso ("opinio iuris ac necessitatis").
Nella loro qualità di fonti del diritto del lavoro, gli usi assumono una valenza peculiare. Essi sono sempre dispositivi in quanto si applicano, di regola, solo in mancanza di disposizioni di legge o di contratto collettivo e non possono derogare la disciplina del contratto collettivo né prevalere su quella del contratto individuale. Tuttavia, essi, se più favorevoli al prestatore, prevalgono - è questa la deroga, contenuta nell'art. 2078, c.c., alla regola generale sancita dall'art. 8, preleggi - sulle norme dispositive di legge.
Da tale categoria di usi - i c.d. usi normativi - va tenuta distinta quella degli usi aziendali, che esplicano la loro efficacia nell'ambito, non della comunità generale, ma di una singola unità produttiva. Gli usi aziendali non hanno valore di norma inderogabile e, secondo la giurisprudenza, possono essere esclusi dalle parti, ancorché solo al momento della stipulazione del contratto individuale.
Per l’attuazione dei principi della Costituzione in materia di lavoro, un ruolo significativo è svolto dalla Corte Costituzionale, da sempre rivolta ad assicurare l’adeguamento delle norme di legge ai principi costituzionali. In molti casi, la Corte pronuncia delle sentenze esclusivamente interpretative delle leggi ordinarie, indicando entro quali limiti possa essere considerata costituzionalmente legittima una norma sospettata di incostituzionalità (sentenze interpretative di rigetto). Questa particolare attività interpretativa, alla stregua di quella della magistratura ordinaria, non pone alcun vincolo di osservanza ai giudice che, in seguito, si trovino ad essere investiti della cognizione della medesima fattispecie. Diverso è il caso in cui la Corte costituzionale decida per la incostituzionalità di alcune tra le disposizioni tra le possibili interpretazioni della norma. In questo caso, si ha una sentenza (interpretativa di accoglimento) che, pur non modificando il testo della norma ne trasforma profondamente il contenuto precettivo (Ghera).
Si ha riguardo, in particolare ai criteri di interpretazione della disciplina del lavoro capaci, in determinate ipotesi, di orientare la decisione sul bilanciamento degli interesso. Non si è, quindi, in presenza di fonti del diritto in senso formale, ma di criteri di guida sussidiari.
L’equità costituisce il criterio interpretativo ed il metodo di giudizio del caso concreto (ad es. artt. 36 Cost., 2109 c.c., 2110 c.c., 2118 c.c.).
Il principio del favor prestatoris caratterizza l’intero ordinamento giuridico del lavoro e si sostanzia nella particolare tutela che, nel contratto individuale di lavoro, viene accordata al contraente più debole, e cioè al prestatore, come conseguenza della necessità di riequilibrare il diverso peso contrattuale delle parti. L’affermazione più generale è contenuta nell’art. 35 Cost. che informa tutta la regolamentazione costituzionale. Il suo presupposto è la subordinazione socio economica del lavoratore, che si traduce in una disparità negoziale a vantaggio dell’imprenditore. Oltre che nella Costituzione, il principio è affermato anche in numerose disposizioni delle legge ordinaria come, ad esempio, il principio della invalidità delle rinunce e transazioni stipulate durante il rapporto di lavoro.
La dottrina tradizionale considerava il rapporto di lavoro subordinato nel settore privato l'oggetto esclusivo del diritto del lavoro in senso stretto. Di tale branca del diritto si registra, invece, oggi una tendenza espansiva; la tendenza cioè a regolamentare anche altri rapporti di lavoro, diversi da quello dipendente, ma ritenuti parimenti meritevoli di tutela giuridica.
Ciò detto, si pone innanzitutto il problema dell'individuazione dei caratteri costitutivi del rapporto di lavoro subordinato (c.d. "locatio operarum"), di quello autonomo (c.d. "locatio operis" o contratto d'opera) e di quello parasubordinato.
La distinzione tra questi diversi tipi di rapporto non è questione di poco momento: basti pensare, a titolo esemplificativo, che la disciplina particolarmente favorevole dettata in tema di recesso del datore di lavoro ovvero di previdenza ed assistenza si applica, in linea di principio, al solo rapporto di lavoro subordinato.
L'art. 2094, c.c., riferendosi al rapporto di lavoro alle dipendenze di un'impresa, definisce il prestatore di lavoro subordinato come colui che "si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore". Se il legislatore ha collocato la disciplina del rapporto di lavoro nell’ambito della disciplina dell’impresa posta dal libro V del codice civile, la ragione di tale sistemazione è da ricercare nella prospettiva adottata dal Codice del 1942, secondo cui il rapporto di lavoro, anche quando non sia inerente all’esercizio di un’impresa, viene tuttavia modellato sulle esigenze tipiche di questa (Ghera). Per i rapporti di lavoro con datori non imprenditori provvede l'art. 2239, c.c., che dispone l'applicabilità anche a questi ultimi della normativa del lavoro nell'impresa, in quanto compatibile con la specialità del rapporto.
Sulla base del dettato dell'art. 2094, c.c., gli elementi di qualificazione del lavoro subordinato vengono individuati nella subordinazione e nella collaborazione del prestatore.
La subordinazione rappresenta l'elemento qualificante del rapporto di lavoro in oggetto, indipendentemente dal luogo in cui questo si svolge, e ciò in quanto esso implica per definizione una prestazione non autonoma, ma svolta alle dipendenze e sotto la direzione del datore o di chi per lui.
Il grado di subordinazione effettiva varia, riducendosi via via che si passa dal lavoro meno qualificato alle prestazioni di alta specializzazione: questa, però, è solo un'implicazione di fatto, non conferente sul piano giuridico-formale.
La subordinazione del lavoratore presenta i seguenti caratteri:
Come osserva la dottrina prevalente (SANTORO, PASSARELLI, PERA), la subordinazione è una notazione non meramente economica - da intendere cioè in termini di inferiorità socio-economica e, dunque, di condizione sociale - ma propriamente giuridica - imposta cioè dalla normativa del codice. Essa comporta, infatti, che l'osservanza delle disposizioni a cui è tenuto il prestatore sia garantita dalle sanzioni che colpiscono le infrazioni del lavoratore, così come anche gli abusi del datore.
Proprio perché nel rapporto di lavoro di cui trattasi il prestatore si mette a disposizione del datore per svolgere l'attività dedotta nel contratto, i rischi connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa gravano sul datore. Più precisamente, su quest'ultimo gravano il rischio economico e la responsabilità verso i terzi per i danni causati dai dipendenti, mentre è coperto per legge da assicurazioni sociali obbligatorie il rischio dell'inabilità al lavoro e ricadono sugli istituti di assistenza e previdenza obbligatori - e solo indirettamente sul datore - i rischi per gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali.
Venendo all'altro carattere costitutivo del rapporto di lavoro subordinato, e cioè la collaborazione, va rilevato che autorevole dottrina ritiene che il riferimento ad essa, contenuto nell'art. 2094, c.c., sia da considerare quale "omaggio ideologico" alle tesi dominanti all'epoca dell'emanazione del codice. Secondo tali tesi, l'ordinamento del rapporto di lavoro doveva essere proiettato al superamento del conflitto tra le classi sociali; conflitto inconciliabile con il sistema corporativo di disciplina dei rapporti di produzione (GHERA).
Tuttavia, l'elemento della collaborazione può ritenersi ancora oggi attuale se inteso come descrittivo, per così dire, del fenomeno della partecipazione di un soggetto all'attività lavorativa di un altro soggetto.
Nel contratto di lavoro subordinato, la funzione o causa è individuata preventivamente in astratto dal legislatore il quale la identifica con lo scambio tra la collaborazione o prestazione di attività alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore e la retribuzione. La subordinazione, invece, può essere definita come l’effetto giudico esiziale del contratto: essa si identifica, da un lato, con la prestazione di una attività lavorativa da svolgersi secondo le direttive del creditore; dall’altro, si presenta come il contenuto del vincolo obbligatorio strumentale alla realizzazione del risultato della prestazione, che l’art. 2094 c.c. configura come la collaborazione nell’impresa. La collaborazione nell’impresa, dunque, è il risultato della prestazione dell’attività del lavoratore e, nello stesso tempo, il criterio per la tipicizzazione della subordinazione.
Più in dettaglio, si ritiene che la collaborazione si specifichi:
Anche il grado di collaborazione effettiva, come quello di subordinazione, varia col variare dell'intensità del vincolo che lega il prestatore al datore.
Se è vero che quelli di cui si è appena detto sono i caratteri costitutivi del rapporto di lavoro subordinato, è anche vero che non sempre nel caso concreto è facile stabilire se un determinato rapporto di lavoro partecipi oppure no di tali caratteri.
L'elemento della subordinazione, in particolare, non sempre può agevolmente apprezzarsi. Tale difficoltà ha dato vita ad un nutrito contenzioso che ha portato la giurisprudenza ad individuare determinate circostanze di fatto, ricavate per massima d'esperienza dalla realtà sociale, da considerarsi come indici o spie della sussistenza dell'elemento della subordinazione. Se ne menzionano alcune, e cioè:
Si sottolinea, però, che nessuno di tali criteri - e degli altri che pure sono stati individuati dalla giurisprudenza - è decisivo ai fini dell'esatta qualificazione del rapporto di lavoro, essendo la stessa sempre rimessa alla prudente valutazione del giudice. Devono quindi considerarsi come elementi sussidiari, con un rilievo distintivo soltanto complementare e secondario, indiziari rispetto all’unico elemento avente calore determinante rappresentato dalla dimostrazione dell’esistenza del vincolo della subordinazione, intesa prevalentemente come assoggettamento gerarchico del lavoratore al potere direzionale e di controllo del datore di lavoro (Cass. 10043/2004).
La qualificazione del rapporto di lavoro subordinato è determinante sotto il profilo degli effetti giuridici. Infatti i rapporti di lavoro subordinato sono regolati da una disciplina caratterizzata da una marcata finalità protettiva e garantista e nettamente distinta da quella applicata al lavoro autonomo o parasubordinato. Tra le principali conseguenze che derivano dalla natura subordinata del rapporto di lavoro, rilevano:
Ai sensi dell'art. 2222, c.c., si ha lavoro autonomo o "locatio operis" o contratto d'opera "quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente".
Come si evince dalla lettura di tale norma, nel rapporto di lavoro autonomo, l'oggetto della prestazione è rappresentato dall'"opus perfectum", ossia dal risultato finale dell'attività organizzata dallo stesso prestatore; risultato che potrà essere ovviamente assai diverso a seconda della specifica natura dell'opera o del servizio il cui compimento è dedotto in obbligazione.
Dunque, il lavoratore autonomo si trova in una posizione di autonomia, essendo rimessa alla sua piena discrezionalità la scelta circa le modalità, il luogo ed il tempo di organizzazione della propria attività e ricadendo completamente su di lui il rischio inerente all'esercizio dell'attività lavorativa (salva l'ipotesi di cui all'art. 2228, c.c.).
Tale posizione di autonomia rappresenta l'elemento che differenzia il lavoratore autonomo dal lavoratore dipendente, che si trova, al contrario, in una posizione di subordinazione, dovendo prestare il proprio lavoro secondo le direttive, la vigilanza ed il controllo del datore sul quale incide il rischio connesso allo svolgimento dell'attività lavorativa. Ancora, nel rapporto di lavoro dipendente oggetto della prestazione non è il risultato, ma le "operae" (pertanto si parla di "locatio operarum"), ossia le energie lavorative che il datore impiega per conseguire un risultato utile a proprio rischio.
La giurisprudenza ha anche chiarito che nel caso di contemporanea sussistenza di rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo va applicata la disciplina del rapporto i cui caratteri assumono prevalente rilevanza qualitativa e quantitativa.
Per determinare la natura del rapporto di lavoro (autonomo o subordinato) è irrilevante la denominazione attribuita dalle parti al contratto (c.d. volontà cartolare o nomen iuris), in quanto compete solo al giudice l’esatta qualificazione del rapporto. Ciò in ossequio al principio generale in base al quale si privilegia il comportamento tenuto dalle parti durante lo svolgimento del rapporto rispetto alla volontà da essi manifestata all’atto della stipulazione del contratto. In giurisprudenza è prevalso, da ultimo, il criterio dell’effettivo e concreto atteggiarsi del rapporto su quello delle manifestazioni espresse dalla volontà negoziale, tuttavia allorché dallo svolgimento del rapporto non possono trarsi elementi certi di qualificazione è proprio il nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto di lavoro che diviene un elemento indiziario di giudizio valendo una presunzione di corrispondenza tra il rapporto voluto (e dichiarato) ed il rapporto di fatto realizzatosi. Ma, adducendo una delle parti la natura diversa del rapporto di fatto rispetto al dichiarato, l’onere, su di essa incombente, di provare la vera identità del rapporto di lavoro non può limitarsi semplicemente a contrastare tale presunzione di corrispondenza, dovendo fornirsi elementi della sussistenza delle caratteristiche proprie del rapporto rivendicato.
Il rapporto di lavoro parasubordinato può essere definito come quel rapporto che, a prescindere dalla sua formale ed incontestata autonomia, si caratterizza, oltre che per la continuità, per il carattere strettamente personale della prestazione, integrata dall'impresa e da questa coordinata (PERA). Il rapporto di lavoro parasubordinato è di derivazione prettamente giurisprudenziale e dottrinale, che però ha trovato riscontro normativo nell’art. 409 c.p.c. il quale, come vedremo, ha esteso l’applicazione delle norme sul processo del lavoro ai rapporti di agenzie e rappresentanza commerciale.
Quindi, tale rapporto di lavoro è caratterizzato dalla:
Tali requisiti sono desumibili dall’art. 409, n. 3, c.p.c..
Del rapporto di lavoro in oggetto manca, allo stato attuale, una regolamentazione sostanziale diretta e protettiva. Tuttavia, la considerazione della posizione di inferiorità socio-economica in cui versa il lavoratore rispetto al committente, ha indotto il legislatore ad estendere, con la L. 11-88-73, n. 533, la disciplina delle controversie individuali di lavoro anche ai "rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d'opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato" (art. 409 c.p.c).
Le forme tipiche di rapporto parasubordinato sono dunque:
La giurisprudenza ha, poi, ritenuto che rientrino, tra gli altri, nello schema del rapporto di lavoro parasubordinato:
Una nuova lettura dei requisiti della parasubordinazione è stata offerta dalla copiosa prassi amministrativa emanata all’indomani dell’introduzione, ad opera del Dlgs 276 del 2003, della tipologia contrattuale del lavoro a progetto in cui deve essere inquadrata oggi la maggior parte dei rapporti di parasubordinazione. Tuttavia, ciò non significa che sia stato creato un nuovo genere di lavoro alternativo al lavoro autonomo e a quello subordinato, posto che il provvedimento di riforma si è limitato ad individuare le modalità di svolgimento della prestazione di lavoro del collaboratore, utili ai fini della qualificazione della fattispecie nel senso dell’autonomia o della subordinazione, senza mutare o sostituire la nozione di parasubordinazione desumibile dall’art. 409, comma 3, c.p.c., che era e resta fattispecie di natura autonoma malgrado le vicinanze con il lavoro subordinato.
Nel concreto svolgimento dei rapporti di lavoro, spesso lo strumento delle collaborazioni coordinate e continuative, diffusamente denominate co.co.co, è stato utilizzato per eludere la normativa sul lavoro subordinato. Il Dlgs n. 276 del 2003 ha tentato di dare una soluzione al problema introducendo un nuovo contratto di lavoro entro cui ricondurre i rapporti di collaborazione con un datore di lavoro diversi dalla subordinazione: il lavoro a progetto.
Il contratto di lavoro a progetto è un contratto di collaborazione coordinata e continuativa caratterizzato dal fatto di:
La disciplina prevista in materia di lavoro a progetto è finalizzata a prevenire l'utilizzo improprio delle collaborazioni coordinate e continuative e a tutelare maggiormente il lavoratore.
La previsione del legislatore, dell’obbligo di ricondurre i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa ad un contratto di lavoro a progetto si traduce nel divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici, comportando l’illegittimità dei rapporti co.co.co. al di fuori di questo schema negoziale tipico. L’apparato di sanzioni, predisposto dal legislatore al fine di reprimere sia la trasgressione del divieto di co.co.co. atipiche, sia l’abuso della forma giuridica del lavoro a progetto per dissimulare rapporti di lavoro subordinato, prevede che:
Il contratto di lavoro a progetto può essere stipulato da tutti i lavoratori e per tutti i settori e le attività, con determinate esclusioni (agenti e rappresentanti di commercio, coloro che esercitano professioni intellettuali per le quali è necessaria l'iscrizione a specifici albi professionali, componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società ecc.).
Il lavoro subordinato ha natura autonoma e i relativi elementi qualificanti, desunti dallo stesso Dlgs 276/2003, sono:
Il contratto di lavoro a progetto deve essere redatto in forma scritta e deve indicare, a fini della prova, i seguenti elementi:
Il contratto termina quando il progetto, il programma o la fase vengono realizzati. Il recesso anticipato può avvenire per giusta causa o in base alle modalità previste dalle parti nel contratto individuale.
Il compenso deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e deve tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del contratto.
Il Dlgs 276/2003 prevede una maggior tutela, rispetto alle collaborazioni coordinate e continuative, del lavoratore in caso di malattia, infortunio e gravidanza:
Sono stati inoltre previsti a favore del lavoratore:
Pare infine opportuno ricordare che il Dlgs 276 del 2003 ha confermato l’applicabilità delle norme in materia di processo del lavoro nonché degli istituti dell’invalidità delle rinunzie e delle transazioni (art. 2113 c.c.) e dell’art. 429 c.p.c. che prevede per i crediti da lavoro, in caso di condanna del datore di lavoro, il risarcimento del danno da svalutazione monetaria ed il pagamento degli interessi di mora sulle somme rivalutate.
La disciplina relativa al lavoro a progetto si applica alle collaborazioni coordinate e continuative stipulate dopo l'entrata in vigore della norma (24 ottobre 2003). Le collaborazioni coordinate e continuative stipulate prima del 24 ottobre 2003 senza il riferimento a un progetto o a una fase di esso, mantengono efficacia fino alla loro scadenza e in ogni caso non oltre un anno dall'entrata in vigore del Dlgs 276/2003, senza possibilità di rinnovo o proroga. Decorso il termine del 24 ottobre 2004 le collaborazioni non ricondotte a un progetto cessano automaticamente.
Possono essere stipulati accordi aziendali che stabiliscano che le collaborazioni non riconducibili a un progetto siano trasformate in una forma di lavoro subordinato che può essere individuata sia fra quelle previste dal decreto 276/2003 (lavoro intermittente, ripartito, distacco, somministrazione, appalto), sia fra quelle già disciplinate (contratto a termine o a tempo parziale). Questi accordi possono anche prevedere un termine di efficacia più ampio di quello del 24 ottobre 2004.
Per i rapporti di lavoro intermittente, ripartito, a tempo parziale e a progetto, nonché per i contratti d'associazione in partecipazione le parti possono avvalersi di una procedura di certificazione volontaria. Essa è rimessa ad enti bilaterali formati dalle organizzazioni più rappresentative di datori e lavoratori, Direzioni provinciali del lavoro, Università pubbliche e private. La certificazione mira prevalentemente ad un’esatta qualificazione del rapporto di lavoro (nomen iuris).
Nei confronti delle certificazioni si potrà proporre ricorso in giudizio per erronea qualificazione negoziale oppure per discrepanza tra certificazione ed esecuzione o, ancora, per vizi del consenso. Viene previsto che il preventivo tentativo di conciliazione di cui all’art 410 c.p.c. sia effettuato davanti alla commissione di certificazione che ha adottato l’atto di certificazione. Il meccanismo della certificazione potrà essere utilizzato anche per individuare ipotesi d'appalto lecito e somministrazione, distinguendole dall’illecito appalto di manodopera.
E’ datore di lavoro chi dà ad altri un lavoro alle proprie dipendenze in cambio di una retribuzione. Per essere datore di lavoro non è necessario svolgere una attivià organizzata nella forma dell’impresa: pertanto ogni soggetto di diritto che operi nel campo economico o sociale può assumere la veste di datore di lavoro (persone fisiche, imprenditori, società, persone giuridiche e stato). Per lo status giuridico di datore di lavoro non sono previsti requisiti particolari, applicandosi senza eccezioni le norme generali dettate per la capacità giuridica e di agire.
I datori di lavoro possono essere distinti in vari modi. La più usuale classificazione è tra datori di lavoro non professionali e professionali .
Prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 29/’93, la natura giuridica pubblica o privata del datore di lavoro rivestiva un’importanza fondamentale. Infatti, qualora il datore di lavoro fosse lo Stato od un Ente Pubblico non economico, non si applicava la disciplina del lavoro subordinato bensì la normativa relativa al pubblico impiego. In seguito al citato D.Lgs. e ad una serie di successivi provvedimenti, si è giunti ad una quasi totale equiparazione del rapporto di impiego alle dipendenze della P.A. al rapporto privato di lavoro subordinato.
Ai sensi dell’art. 2094 c.c. è prestatore di lavoro subordinato colui che “si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Tale definizione, tuttavia, risulta incompleta in quanto esclude le forme di lavoro subordinato che non vengono prestate nell’ambito dell’impresa come il lavoro domestico o il lavoro a domicilio. La dottrina è pertanto pervenuta a definire il lavoratore subordinato come “colui che si obbliga, dietro retribuzione, a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione di un altro soggetto”.
In alcuni rapporti associativi è rinvenibile la situazione in cui il socio e l’associato si trovi ad eseguire una attività di lavoro: è il caso del socio d’opera nelle società di persone, dell’associato in partecipazione e del socio lavoratore nelle cooperative di lavoro.
La peculiarità in tali ipotesi è che lo svolgimento di una attività lavorativa è di regola una conseguenza stessa del vincolo associativo. Ciò può far si che vengano a mancare quegli elementi indispensabili per l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e per l’applicazione della relativa disciplina.
Il socio d’opera. Il socio d’opera è colui che nelle società di persone conferisce, anziché beni, la propria attività lavorativa. In tal caso la causa del rapporto di lavoro che si realizza tra il socio e la società è nel contratto di società e non nello scambio tra lavoro e retribuzione. Inoltre il socio partecipa allo scopo societario ed è titolare dei poteri di amministrazione e decisione degli altri soci. Pertanto nelle società di persone il rapporto di lavoro subordinato risulta incompatibile con quello associativo ogni qual volta che l’attività prestata dal socio costituisca proprio l’oggetto del conferimento per la partecipazione alle società.
Il lavoro dei membri di organi sociali. Il lavoro prestato in organi sociali (amministratori delle S.p.a. e delle S.r.l.), comportando una immedesimazione del soggetto nella persona giuridica, non può qualificarsi come lavoro subordinato perché non si rinvengono gli elementi qualificanti della subordinazione. Può invece esistere un rapporto di lavoro subordinato nel caso di amministratori delegati, purché essi operino sotto il diretto controllo del Consiglio di amministrazione o di altro amministratore delegato.
L’associazione in partecipazione. L’associazione in partecipazione è il contratto col quale l’associante attribuisce all’associato la partecipazione agli utili dell’impresa o di singoli affari, come corrispettivo di un certo apporto che, per opinione comune, può consistere anche in una prestazione di lavoro. Tale ultima situazione è però incompatibile con un rapporto di subordinazione in quanto non si rinvengono gli elementi qualificanti la subordinazione (infatti l’associato non è obbligato a prestare la propria collaborazione sotto la direzione dell’asssociante, può controllare l’andamento dell’affare e partecipa ai risultati dell’attività svolta. Al fine di evitare fenomeni, il Dlgs 276/03 ha però stabilito che la mancanza di una effettiva partecipazione e di adeguare erogazioni all’associato che presti la propria attività comporta il diritto, in favore di quest’ultimo, ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato (art. 86, comma 2).
Il socio lavoratore nelle cooperative. Le società cooperative sono caratterizzate dallo svolgimento di un’attività economica organizzata con l’utilizzazione del lavoro dei soci, i quali sono istituzionalmente titolari del diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa. Tale fattispecie, in relazione alla quale dovrebbe decisamente affermarsi l’incompatibilità di un rapporto di lavoro subordinato, stante la sussistenza del vincolo mutualistico, è oggi disciplinata dalla n. 142 del 2001 cui si è provveduto alla revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore, poi modificata ed integrata dalla legge 30/01. Le disposizioni della legge riguardano espressamente le cooperative nelle quali il rapporto mutaualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio (cooperative di lavoro), sulla base di previsioni di regolamento che definiscono l’organizzazione del lavoro dei soci. In base all’art. 1 della legge 142 del 2001 tra socio e lavoratore e cooperativa si instaura un rapporto di tipo associativo dal quale deriva, tuttavia, un ulteriore rapporto, connesso all’attività prestata dal socio e con cui egli contribuisce al raggiungimento degli scopi sociali. Il rapporto di lavoro tra socio lavoratore e cooperativa deve essere concordato e formalizzato all’atto dell’adesione, o successivamente, e può assumere la forma della subordinazione o del lavoro autonomo compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale.
Dal rapporto associativo derivano, in capo al socio lavoratore, i tipici poteri e doveri dello status di socio di cooperativa: potere gestionale, mediante la partecipazione alla formazione degli organi sociali, alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’imprese e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, partecipazione al rischio di impresa e obbligo di contribuire alla formazione del capitale sociale, obbligo di mettere a disposizione le proprie capacità professionali anche in relazione al tipo e allo stato dell’attività svolta nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa. Il rapporto di lavoro è regolato dalle disposizioni della legge 142 del 2001, nonché, in quanto compatibili con la posizione del socio lavoratore, dalle leggi o dai contratti collettivi applicabili in base alla specie di lavoro realizzatesi tra le parti. Quando il rapporto di lavoro del socio lavoratore e cooperativa abbia natura subordinata, data la preminenza del rapporto associativo su quello di lavoro, si applica in maniera parziale la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. In particolare:
Il principio della preminenza del rapporto associativo su quello di lavoro, cui è informata l’intera legge 142 del 2001, è ben comprensibile se si guardano le disposizioni che regolano le cause e le conseguenze dell’estinzione del rapporto di lavoro, ed in specie:
Il rapporto di lavoro subordinato si presume oneroso: è infatti lavoratore subordinato, ai sensi dell’art. 2094 c.c., chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa. Secondo un indirizzo consolidato in dottrina e giurisprudenza è esclusa l’ammissibilità del lavoro gratuito poiché l’eventuale accordo volto ad eliminare qualsiasi tipo di retribuzione è invalido con la conseguente sostituzione della clausola nulla con il diritto alla retribuzione minima prevista dalla contratto collettivo. Un accordo del genere è legittimo solo ove vi sia un rilevante interesse del prestatore, che può consistere nello scopo di solidarietà per cui si è svolto il lavoro, ma si tratta di ipotesi molto limitate in cui la giurisprudenza ha tenuto conto di una serie di elementi quali la relazione intercorrente tra le parti, le modalità di lavoro ecc. ecc.. L’attività effettauta gratuitamente in virtù di un vincolo di cortesia, affetto o compiacenza si colloca quindi al di fuori dell’ordinamento giuridico del lavoro, nell’ambito delle relazioni sociali. L’esempio tipico è il lavoro prestato nell’ambito dell’attività della famiglia, anche se la legge (art. 230 bis c.c.) riconosce poi determinati diritti di contenuto economico ai familiari che collaborano nell’impresa.
L’art. 2 della L. 266/91 (legge quadro sul volontariato) definisce come attività di volontariato quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organiz-zazione cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà. Tale attività non può essere retribuita ed è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro, autonomo o subordinato, con l’organiz-zazione di appartenenza. Al lavoro di volontariato non si applica la disciplina del lavoro, eccetto l’obbligo di assicurazione dei volontari contro gli infortuni e le malattie connessi all’attività prestata e per la responsabilità civile verso i terzi.
Può configurarsi come volontariato l’attività dei soci delle cooperative di solidarietà finalizzate alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini; l’attività prestata in favore delle organizzazione non lucrative di utilità sociale (ONLUS) ovvero associazioni, fondazioni o cooperative aventi come esclusivo oggetto sociale il perseguimento di finalità di solidarietà sociale e delle associazioni di promozione sociale.
Le prestazioni di lavoro rese a favore di famiglie e di enti senza fini di lucro sono state oggetto anche del Dlgs 276 del 2003 che ha disciplinato, con disposizione che tuttavia appaiono di improbabile attuazione, il lavoro occasionale di ripo accessorio. Esso comprende una serie di prestazioni, rese da soggetti socialmente deboli, limitate nella durata e nel compenso. Le attività lavorative riguardano:
Soggetti legittimati a svolgere tale tipo di attività sono però solo i disoccupati da oltre un anno, casalinghe, studenti e pensionati, i disabili o le persone in comunità di recupero, i lavoratori extracomunitari regolarmente soggiornati, nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro.
Tale prestazioni, nella prassi latenti allo stato di lavoro irregolare, ma che ben potrebbero incardinarsi nell’ambito di rapporti di lavoro subordinato, autonomo o di collaborazione continuativa, sono sottratte da qualsiasi schema negoziale tipico per essere invece oggetto di una peculiare disciplina, che non comporta per il beneficiario della prestazione l’assunzione di oneri diversi da quello meramente retributivo.
Una delle questioni più dibattute dalla dottrina giuslavoristica è quella concernente l'origine contrattuale oppure no del rapporto di lavoro. Si possono distinguere, al riguardo, due diversi orientamenti di pensiero, in quanto:
Nell'ambito del primo orientamento, discorrendo in termini sintetici, possono ulteriormente distinguersi:
Le teorie suesposte sono però generalmente respinte dalla dottrina dominante che, seguita anche dalla giurisprudenza, si fa portatrice di concezioni contrattualistiche, individuando la fonte del rapporto di lavoro nel contratto ed osservando:
Una volta accolta la tesi contrattualistica, sorge però il problema di individuare la natura giuridica del contratto di lavoro. Questo viene di volta in volta configurato in vario modo, cioè a dire:
Quest'ultima concezione è quella seguita dalla dottrina più accreditata, che, tuttavia, incontra il problema ulteriore dell'inquadramento del contratto di lavoro negli altri contratti di scambio.
Un primo tentativo di risoluzione della questione si sviluppa nel senso di ricondurre il contratto alla compravendita, attribuendo alle energie lavorative la natura di beni immateriali che si staccano dalla persona del prestatore e che costituiscono, dunque, l'oggetto dello scambio. Tuttavia, in senso critico, è facile porre in evidenza l'impossibilità di scindere le energie dalla persona del lavoratore; impossibilità da cui deriva, a voler accogliere la concezione in discorso, la conseguenza di ritenere il lavoratore oggetto del contratto, con un'inaccettabile lesione della sua dignità.
Pertanto, è preferibile fare ricorso allo schema classico della "locatio operarum", effettuando, però, un distacco di tale figura dalla categoria generale della locazione, il cui elemento essenziale consiste sempre in un dare. La "locatio operarum" ha, invece, come contenuto un facere, cioè l'obbligo del lavoratore di prestare la propria opera al servizio del datore.
Così, il contratto di lavoro può, finalmente, essere definito come un contratto di scambio con il quale il prestatore si obbliga a mettere a disposizione dell'imprenditore, o altro datore, la sua attività, e questi si obbliga a corrispondere al prestatore di lavoro una retribuzione (SANTORO PASSARELLI).
Detto questo, occorre aggiungere come la disciplina del contratto di lavoro, proprio in dipendenza del prevalente concorso della fonte legale nella determinazione del regolamento contrattuale, presenti caratteristiche particolari anche in relazione ala rigidità ed alla estensione delle norme imperative che disciplinano il contenuto e dispongonogli effetti del contratto stesso.
I limiti a pena di nullità dei patti contrari, imposti all’autonomia negoziale nel rapporto di lavoro subordinato, mirano infatti a realizzare l’effetto della inderogabilità del regolamento contrattuale in virtù del quale le clausole volute dai contraenti in difformità dai precetti delle norme imperative di legge sono dalle stesse sostituite di diritto ai sensi e per gli effetti dell’art. 1419 c.c.. Al meccanismo della sostituzione legale va inoltre accomunato anche quello della inserzione automatica nel contratto dei precetti legali come effetto ulteriore della inderogabilità delle norme imperative. In effetti, nel rapporto di lavoro, l’autonomia contrattuale è ripartita in modo diseguale a causa della inferiorità della posizione economica del lavorare: proprio alla correzione di tale squilibrio è finalizzata non solo l’organizzazione e l’azione del sindacato ma anche la limitazione dell’autonomia privata imposta dalla disciplina imperativa legale. Va segnalato, peraltro, che tale disciplina imperativa è caratterizzata dalla unilateralità o flessibilità verso l’alto che le deriva dalla validità dei patti più favorevoli al prestatore introdotti dall’autonomia individuale o collettiva . Ed al riguardo va precisato che anche i precetti dell’autonomia collettiva sono dotati di efficacia inderogabile nel senso indicato.
La prevalenza del momento attuativo del rapporto sul momento dichiarativo dell’accordo non è soltanto un’operazione interpretativa funzionale all’accertamento, in via presuntiva, della volontà delle parti. In realtà tale prevalenza è anzitutto la conseguenza della compressione dell’autonomia individuale quale fonte regolatrice del rapporto di lavoro rispetto alle fonti ad essa sovraordinate: di qui il collegamento tra il tipo legale del contratto, identificato sul piano causale dalla subordinazione come vincolo funzionale alla collaborazione,ela disciplina imperativa del rapporto o statuto protettivo del lavoratore come persona e come contraente debole. Nel contratto di lavoro alla volontà delle parti è inibito separare la subordinazione dello statuto protettivo del lavoratore: la disciplina imperativa si sovrappone alla causa del contratto e conferisce alla subordinazione la funzione identificatrice del tipo legale. Per questo essa non può essere distaccata dal tipo legale del contratto di lavoro subordinato.
Quanto detto spiega perché le norme imperative poste a tutela dell’interesse del lavoratore hanno una funzione non già di mero ordine pubblico ma piuttosto protettiva, e quindi di tutela minimale, dell’interesse del lavoratore. Sotto questo profilo la compressione dell’autonomia negoziale serve piuttosto alla correzione del contenuto contrattuale che non alla sua riduzione entro i limiti del tipo o modello legale, di regolamento di interessi imposto dal legislatore all’autonomia privata. In tal modo il principio della inderogabilità del regolamento contrattuale imposto dalla legge e dai contratti collettivi si combina, in un rapporto di interdipendenza nei confronti dell’autonomia privata individuale, con il principio della prevalenza del trattamento più favorevole al lavoratore. In definitiva, la efficacia inderogabile della disciplina del contratto di lavoro opera attraverso il meccanismo della sostituzione legale delle clausole difformi e trae fondamento dal principio della effettività della tutela degli interessi del lavoratore.
La trattazione del rapporto tra regolamentazione autonoma e disciplina eteronoma non può dirsi conclusa senza affrontare il problema dei peculiari effetti che derivano dalla invalidità del contratto di lavoro. In linea generale tale invalidità è sancita solitamente nelle specie della nullità ed è l’effetto necessario della inosservanza dei limiti legali imposti dall’autonomia negoziale dei privati nella determinazione del contenuto del contratto. L’art. 2126 c.c. esclude la conservazione degli effetti del contratto invalido quando si sia in presenza di nullità derivante da illiceità dell’oggetto o della causa: il contratto relativo a prestazioni lavorative proibite da norme imperative di legge o contrarie all’ordine pubblico o al buon costume sarà dunque assolutamente inefficace. Al di fuori di questi casi, in tutte le altre ipotesi di annullamento e di nullità previste dall’art. 1418 c.c. la invalidità sarà temporaneamente inefficace e dal rapporto sorgeranno valide obbligazioni. Tale regola è rafforzata dalla esplicita disposizione dell’art. 2126, comma 2, c.c. secondo cui, quando la invalidità sia conseguenza della violazione di norme protettive del lavoratore, questi ha in ogni caso diritto ala retribuzione, la quale resta così garantita in ogni caso di effettiva prestazione di lavoro.
Punto di partenza per la definizione del contratto collettivo è la disamina dei rapporti collettivi di lavoro. Con tale denominazione si intende il complesso di relazioni tra le organizzazioni sindacali di imprenditori e di lavoratori subordinati che abbiano per scopo:
La dottrina definisce quindi il contratto collettivo di lavoro come l’accordo tra un datore di lavoro (o un gruppo di datori di lavoro) ed un’organizzazione o più di lavoratori, allo scopo di stabilire il trattamento minimo garantito e le condizioni di lavoro alle quali dovranno conformarsi i singoli contratti individuali stipulati sul territorio nazionale.
Fra le prerogative più evidenti occorre notare:
Dopo la prima guerra mondiale, ribadita ed accresciuta l’importanza pratica del contratto collettivo, si pose con urgenza il problema di una usa regolamentazione giuridica che fu attuata, però, solo con l’avvento del regime fascista. Gli accordi di palazzo Chigi (1923) e quelli di palazzo Vidoni (1925) riconobbero il monopolio della Confederazione delle corporazioni fasciste e della Confederazione generale dell’industria italiana di stipulare i contratti collettivi. Per ciascuna categoria di lavoratori e datori di lavoro veniva riconosciuta una sola organizzazione professionale che aveva personalità di diritto pubblico e la rappresentanza legale della categoria professionale ed era legittimata a stipulare i contratti collettivi corporativi. L’osservanza di tali contratti era garantita da sanzioni disciplinari, civile e penali. Tali contratti avevano efficacia erga omnes ed elevati a fonte normativa e la loro osservanza era garantita da sanzioni civili e penali.
Con la caduta del fascismo e l’abolizione dell’ordinamento corporativo, la posizione del contratto collettivo ritornò nella situazione di incertezza. Fu allora ideato un sistema che, a norma dell’art. 43 del Dlgs Lgt n. 369 del 1944, lasciava in vigore le norme contenute nei contratti collettivi, negli accordi economici, nelle sentenza della magistratura ed in alcune ordinanze corporative precedentemente emanate salvo le successive modifiche. I contratti collettivi corporativi mantenuti in vigore dal decreto del 1944 rivestono, oggi, nel nostro sistema una minima importanza, in quanto per la maggior parte, i contratti collettivi di diritto comune stipulati in seguito hanno modificato gli istituti da essi previsti.
Il contratto collettivo ex art. 39 della Costituzione e la rappresentanza unitaria. L’art. 39 della Costituzione stabilisce uno speciale procedimento per la stipulazione dei contratti collettivi attraverso il quale viene ad essi attribuita efficacia di norma giuridica, valevole, in quanto tale, erga omnes. Per raggiungere tale risultato la norma prevede che i sindacati registrati formino una rappresentanza unitaria, nella quale ciascun sindacato abbia un numero di rappresentanti proporzionale al numero dei propri iscritti. L’art. 39 della Costituzione, tuttavia presentava alcune difformità applicative, in particolare relative:
Sarebbe stata quindi necessaria l’emanazione di una legge di esecuzione dell’art. 39 Cost., che, tuttavia, non essendo realmente voluta né dal legislatore né dalle forze politico sociali interessate, non è stata, fino ad oggi, mai adottata.
La mancata attuazione dell’art. 39 e l’esigenza di fornire a tutte le categorie di lavoratori una piattaforma più aggiornata di trattamento minimo rispetto a quella dei contratti corporativi, portarono il legislatore, con la legge 741 del 1959 a conferire efficacia erga omnes ad alcuni contratti collettivi. La legge 741 del 1959 conferiva delega al governo ad emanare decreti legislativi aventi come contenuto la determinazione delle condizioni minime di lavoro per tutti gli appartenenti alla medesima categoria di lavoratori. Fin dalla sua promulgazione la legge fu tacciata di incostituzionalità (in particolare si riteneva fosse contraria al principio dell’art. 39 Cost., che riconosceva efficacia erga omnes ai soli contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali, riservando così solo ai sindacati tale funzione) da parte della dottrina e della giurisprudenza, ma il giudice costituzionale, in ragione della sua transitorietà, provvisorietà ed eccezionalità ne riconobbe la compatibilità con la carta Costituzionale.
Dall’evoluzione storica di cui si è detto appare evidente come e perché, nell’attuale ordinamento possono essere stipulati solo contratti collettivi, detti di diritto comune, con efficacia limitata ai soli soci iscritti alle organizzazioni sindacale stipulanti.
L’unico tipo di contratto collettivo che possa oggi realizzarsi nel nostro ordinamento è il contratto collettivo di diritto comune, così denominato in quanto regolato dalle norme di diritto comune in materia contrattuale. Tale tipo di contratto vincola esclusivamente gli associati alle organizzazioni sindacali (di datori e lavoratori) che li hanno stipulati.
Quanto alla natura giuridica del contratto collettivo, la dottrina è pressoché unanime a inserirlo nelle categoria dei contratti normativi, di quei contratti cioè che invece di regolare immediatamente gli interessi delle parti, determinano i contenuti di una futura produzione contrattuale. La causa del contratto collettivo, in quanto contratto normativo, può individuarsi proprio nella sua funzione normativa, e può essere definita come la realizzazione dell’interesse collettivo professionale alla pattuizione di disposizioni vincolanti per coloro che sono addivenuti o addiverranno alla costituzione contrattuale di rapporti individuali di lavoro compresi in quello che risulta essere il campo di applicazione della disciplina collettiva pattuita.
Nella dinamica della contrattazione collettiva possiamo individuare due tipi di contratti collettivi:
Scopo dei contratti collettivi è quello di stabilire le condizioni uniformi e obbligatorie valide per tutti i prestatori di una determinata categoria onde evitare una possibile e dannosa concorrenza sia fra i prestatori che fra i datori di lavoro.
Il fondamento giuridico del contratto collettivo sta da un lato nell’autonomia che l’ordinamento giuridico concede alle organizzazioni sindacali e, dall’altro, nel rapporto interno che unisce il sindacato ai suoi membri, per cui il primo rappresenta giuridicamente i secondi.
Quanto infine alla forma, pur in assenza di specifiche previsioni di legge, la dottrina prevalente ritiene che il contratto collettivo debba essere redatto, a pena di nullità, per iscritto e debba essere sottoscritto da tutti gli stipulanti.
Il contratto collettivo nazionale di categoria trova applicazione su tutto il territorio nazionale. La durata del contratto collettivo è stabilita dalle parti stipulanti.
Occorre precisare che contratto collettivo e contratto individuale di lavoro, essendo entrambi espressione dell’autonomia privata si collocano nello stesso ordina all’interno della gerarchia delle fonti. Tuttavia per la funzione di tutela che il primo svolge nei confronti del secondo, è prevista l’inderogabilità da parte del contratto individuale delle disposizioni del contratto collettivo, salvo che le disposizioni del contratto individuale siano più favorevoli.
Soggetti del contratto collettivo possono definirsi quelle entità collettive che risultano portatrici, per investitura dei singoli, del relativo potere negoziale di autonomia. Benché dette entità possano essere talvolta il risultato di una rappresentanza occasionale e limitata, solitamente si tratta invece di soggetti investiti della negoziazione collettiva in via permanente e cioè i sindacati.
Nel nostro paese si è instaurata una prassi di contratto a tre (CGIL, CISL, UIL) dalla parte dei lavoratori con la Confindustria dalla parte dei datori di lavoro. I livelli principali della contrattazione, individuati dagli accordi interconfederali del 1993 e del 1998, sono:
L’oggetto della contrattazione collettiva è individuabile essenzialmente in due diversi contenuti:
Nella realtà aziendale, le clausole obbligatorie – cioè tutte quelle clausole che istituiscono direttamente fra le associazioni stipulanti rapporti di obbligazione, il cui eventuale inadempimento determina la insorgenza di una responsabilità delle stesse associazioni – possono essere molteplici. Fra le più importanti:
Efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune
Il contratto collettivo vincola non solo le associazioni stipulanti, ma gli stessi associati, datori di lavoro o lavoratori. Il meccanismo che spiega tale vincolatività riflessa è il potere di rappresentanza conferito dagli associati all’associazione all’atto dell’adesione per cui al momento della stipula l’associazione agisce in sostituzione dell’individuo che rappresenta e che è titolare dell’autonomia collettiva.
Per quanto riguarda poi l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune, essa appare regolata dalle norme civilistiche in materia contrattuale (art. 1372, comma 2, c.c.) secondo le quali è dato concludere per una limitazione degli effetti dei contratti collettivi ai soli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti. Per poter, dunque, invocare l’applicazione del contratto collettivo, è l’attore, che nel relativo giudizio, deve dare la prova dell’adesione del datore di lavoro alle associazioni o all’associazione stipulanti. Se però il datore di lavoro non oppone nella prima difesa l’eccezione di inapplicabilità, l’applicabilità del contratto collettivo invocata si ritiene provata.
Anche se una parte, o ambedue le parti, non siano iscritte alle associazioni stipulanti, il contratto collettivo può trovare agevolmente applicazione tra le parti in via di fatto, quando vi sia stata, da parte dei soggetti del rapporto individuale, una adesione ai contratti collettivi, ovvero una implicita ricezione di essi nei contratti individuali, desumibile da una pratica costante, consolidatasi attraverso l’uniforme e prolungata applicazione dei contratti stessi. Ricorre l’adesione al contratto collettivo quanto il datore di lavoro, pur non facendo parte dell’associazione stipulante, aderisce ex art. 1322 c.c., al contratto stipulato da altri. Ricorre ricezione implicita del contratto collettivo allorché di fatto spontaneamente se ne applicano numerose e significative clausole.
Ogni contratto collettivo ha generalmente durata biennale o triennale. Alla scadenza si procede alla rinnovazione del contratto stesso mediante un procedimento – formalizzato, accogliendo prassi ed usi consolidati, dall’Accordo interconfederale del 1993 – che si articola nelle seguenti tre fasi:
Nella prassi attuale alla contrattazione collettiva partecipano solo le assicurazioni applicate alla tre principali confederazioni sindacali in quanto solo esse, nella generalità dei casi, hanno una forza contrattuale ed una effettiva rappresentatività nei confronti dei datori di lavoro. Per estendere alla organizzazioni minori che non partecipano materialmente alla contrattazione i contratti collettivi stipulati dalle tre confederazioni è invalso nella pratica l’uso di far sottoscrivere i separata sede a tali organizzazioni l’accordo raggiunto con le tre confederazioni.
Per il rapporto di lavoro la gerarchia delle fonti è la seguente:
L’applicazione rigida di tale schema presupporrebbe che nel contratto collettivo contenente deroghe rispetto alle disposizioni di legge, queste ultime prevarrebbero comunque rispetto ai contratti collettivi stessi. Sennonché, il principio del favore verso il lavoratore fa prevalere, fra più fonti regolatrici del rapporto di lavoro, quella più favorevole verso il lavoratore (derogabilità in melius).
Quanto ai rapporti fra contratto collettivo e contratto individuale, il secondo può derogare al primo solo in melius. Le eventuali clausole del contratto individuale difformi da quelle del contratto collettivo sono nulle.
Restano comunque escluse le norme assolutamente inderogabili.
L’unico tipo di contratto collettivo che, come deto, possa realizzarsi nel nostro ordinamento è il contratto collettivo di diritto comune (così chiamato perché regolato da norme di diritto comune). Tale tipo di contratto – proprio per un principio di diritto comune – vincola esclusivamente gli associati alle organizzazioni sindacali che lo hanno stipulato. Nei fatti, tuttavia, la giurisprudenza ha esteso in taluni casi l’efficacia di tali contratti anche nei confronti di lavoratori non appartenenti alle associazioni stipulanti, in particolare:
Il contratto individuale di lavoro è il contratto mediante il quale il prestatore si obbliga a mettere a disposizione del datore di lavoro la sua attività di lavoro e questi si obbliga a corrispondere al prestatore una retribuzione. Trattasi di un contratto:
Partendo dall’assunto secondo il quale l’art. 2094 c.c. offre la definizione di prestatore di lavoro subordinato, ma non anche della modalità con cui questi viene formalmente assunto dal datore di lavoro, la dottrina aveva sollevato dubbi circa la fonte contrattuale o meno del rapporto di lavoro subordinato. Attualmente la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel sostenere la natura contrattuale del rapporto. La dottrina più accreditata (Ghera, De Luca Tamajo) ha posto in evidenza che la natura contrattuale del rapporto va riconosciuta sul decisivo rilievo che esso è pur sempre costituito dall’incontro di volontà tra il datore ed il prestatore di lavoro. Le limitazioni all’autonomia delle singole parti del rapporto di lavoro, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva non incidono sulla fonte da cui esso ha origine. Il contratto, dunque, è necessario perché abbia origine il rapporto di lavoro subordinato e trovi applicazione la relativa disciplina tipica.
I soggetti (detti anche parti contraenti) del contratto di lavoro devono presentare determinati requisiti, alcuni derivanti dalle norme di carattere generale, altri peculiari della disciplina del rapporto di lavoro.
Al datore si applicano le norme dettate per la generalità dei soggetti in tema di capacità giuridica (attitudine giuridicamente riconosciuta ad essere titolare di diritti ed obblighi – si acquista dalla nascita per le persone fisiche e dal riconoscimento della personalità giuridica per le persone giuridiche) e di agire (attitudine a compiere manifestazioni di volontà idonee a modificare la propria situazione giuridica). Una disciplina sotto alcuni aspetti particolare vige, però, se il datore è un imprenditore, posto che in tal caso incombono su di lui alcuni obblighi e limiti, determinati dall'esigenza di tutela del lavoratore subordinato alle dipendenze dell'impresa, soprattutto media o grande. La qualità di imprenditore del datore assume rilevanza anche sotto il profilo della c.d. spersonalizzazione dell'imprenditore agli effetti della formazione e conclusione del contratto nonché della successione nello stesso. Sotto il primo aspetto, in omaggio al principio della continuità dell'impresa, si applica al lavoro subordinato l'art. 1330, c.c., ai sensi del quale la proposta o l'accettazione provenienti da un imprenditore restano ferme anche in caso di morte o di sopravvenuta incapacità prima della conclusione del contratto. Sotto il secondo aspetto, l'art. 2112, c.c., dispone che "in caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con l'acquirente ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano": da tale norma si desume agevolmente il principio della normale irrilevanza della persona dell'imprenditore ai fini della successione anche mortis causa nel contratto di lavoro.
Al lavoratore si applicano tutte le regole generalmente dettate per la capacità giuridica e di agire delle persone fisiche, in quanto, in ragione dell'implicazione delle energie del lavoratore nella prestazione, solo le persone fisiche sono capaci di prestare il proprio lavoro e di agire al riguardo ponendo in essere i relativi negozi. Una parte della dottrina afferma l'esistenza, in materia di lavoro, di una capacità giuridica speciale (De Luca Tamajo, Ghera), stante la vigenza di una disciplina particolare che - salve le disposizioni di legge che stabiliscono età minime inferiori o superiori - fissa l'età minima di ammissione al lavoro a quindici anni, salvo l’assolvimento dell’obbligo scolastico e dell’obbligo formativo. Il che, come si vede, costituisce una deroga al principio di cui all'art. 1, c.c., che sancisce che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita. Con riguardo alla capacità di agire, va detto che l'art. 2, c.c., dopo aver ribadito, al co. I, che con il compimento della maggiore età (18 anni) si acquista la capacità di porre in essere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un'età diversa, fa salve, con il co. II, le leggi speciali che stabiliscono un'età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro, statuendo che "in tal caso il minore è abilitato all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro". Dunque, vi è coincidenza tra la capacità giuridica, i.e. l'idoneità ad essere parte di un rapporto di lavoro, e la capacità al lavoro, ossia l'attitudine a prestare il proprio lavoro. In virtù di tale coincidenza tra capacità giuridica e capacità di agire in anticipazione rispetto alla regola generale, non vi è più spazio - secondo la dottrina maggioritaria - per l'intervento del genitore ovvero di qualunque altro rappresentante legale (nemmeno a titolo di semplice assistenza) nella stipulazione del contratto. Restano salvi, comunque, i casi in cui questo intervento sia espressamente previsto da norme speciali. A parte l'illiceità e, dunque, la nullità dei negozi contrari alle norme imperative di cui si è fin qui discorso, è prevista l'irrogazione di sanzioni penali per i datori che vi contravvengono e per i soggetti rivestiti di autorità o incaricati della vigilanza sui minori cui le violazioni si riferiscono.
Capacità psico fisica ed idoneità tecnica
Alcuni autori (Prosperati, Mazzoni) considerano come requisito autonomo la capacità psico fisica, cioè l’attitudine al lavoro dal punto di vista psico fisico. Tale requisito può essere interpretato sia come idoneità a svolgere una attività che intrinsecamente richieda determinati requisiti fisici sia come assenza di controindicazioni specifiche allo svolgimento di talune attività. L’idoneità tecnica attiene la capacità giuridica nei casi in cui sia richiesta la capacità professionale a svolgere una certa attività. Quando essa debba risultare da diplomi, patenti, iscrizioni ad albi o altre certificazioni della pubblica autorità, la sua mancanza è causa di nullità del contratto di lavoro. Ciò a tutela non solo dei contraenti ma pure dei terzi che dalla prestazione di lavoro possono ricevere un danno diretto.
Il contratto di lavoro non si discosta dalla normativa relativa al contratto in generale per quanto concerne i requisiti di cui all’art. 1325 c.c..
Il contratto di lavoro è un contratto consensuale, che si perfeziona con l'incontro delle volontà espresse dalle parti. Come è stato osservato (GHERA), nella formazione del contratto di lavoro, la disciplina generale del contratto dettata dal Codice Civile si applica con alcuni rilevanti caratteri di specialità, a causa dei numerosi limiti imposti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, che restringono in misura notevole il margine dell'autonomia privata. L'efficacia di tali limiti è particolarmente penetrante e si attua per mezzo del meccanismo dell'inserzione automatica di clausole (art. 1339, c.c.), e della sostituzione di diritto delle clausole difformi del contratto individuale (art. 1419, c.c.). Tuttavia, essa, incidendo solo sul piano della libera determinazione del contenuto del contratto, non esclude l'origine contrattuale del rapporto di lavoro e, in secondo luogo, non inficia la natura del contratto di lavoro che è e resta, come si è detto, un contratto consensuale.
La causa – intendendo per tale la funzione socio economica immediata che l’ordinamento riconosce ad un determinato tipo di negozio – del contratto di lavoro deve essere individuata nello scambio tra lavoro e retribuzione, scambio vincolato alla reciprocità per cui l'obbligazione e la prestazione di una parte sono in funzione dell'obbligazione e della prestazione dell'altra (SANTORO PASSARELLI). Dalla causa vanno tenuti distinti i motivi, che sono i particolari interessi o bisogni che rappresentano lo scopo concreto che, tramite gli effetti del negozio, le parti intendono raggiungere. Essi sono, di regola, giuridicamente irrilevanti, a meno che le parti si siano determinate a concludere il contratto esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe, nel qual caso il contratto è illecito (art. 1345, c.c.).
Secondo la dottrina dominante, l'oggetto del contratto di lavoro è rappresentato sia dalla prestazione lavorativa sia dalla retribuzione. In sostanza l’oggetto indica il contenuto delle rispettive prestazioni del lavoratore e del datore di lavoro ed ha una estensione articolata ed elastica fino a ricomprendere tutte le attività che possono essere ricondotte nel vincolo della subordinazione. I requisiti che esso deve possedere sono quelli richiesti dall'art. 1346, c.c., per il contratto in generale, ossia:
Il contratto di lavoro è un contratto a forma libera. Al principio della libertà della forma, tuttavia, si deroga in tutte le ipotesi in cui particolari patti, ovvero gli elementi accidentali del contratto, costituiscano clausole negoziali sfavorevoli al prestatore. Così devono risultare a pena di nullità da atto scritto:
Al principio della libertà della forma si deroga anche per determinati tipi di contratti di lavoro, tra cui si ricordano:
Ipotesi a sé stante è, poi, quella rappresentata dal contratto di lavoro a tempo determinato del personale di volo, per il quale è richiesta, sì, la forma scritta, ma non ad substantiam, bensì ad probationem, cioè ai soli fini probatori.
Gli elementi accidentali del contratto sono quegli elementi che le parti sono libere di apporre o meno, ma che una volta apposti incidono sull'efficacia del contratto stesso. Essi possono essere inseriti anche nel contratto di lavoro: nella pratica, ricorrente è soprattutto l'apposizione della condizione e del termine.
La condizione - che è un avvenimento futuro ed incerto dal quale le parti fanno dipendere la produzione degli effetti del contratto, cui la condizione è opposta, ovvero l'eliminazione degli effetti già prodotti dal contratto - può inerire in maniera esplicita od implicita al contratto di lavoro, e può essere:
Si osservano i principi civilistici con una particolarità: la retroattività della condizione sospensiva non può risalire oltre l'effettivo inizio della prestazione di lavoro; la retroattività della condizione risolutiva è sicuramente esclusa per l'impossibilità di restituzione delle prestazioni di lavoro già eseguite.
Una parte della dottrina (GHERA, MAZZIOTTI) configura, quale particolare forma di condizione sospensiva, il patto di prova, cioè la clausola scritta inserita nel contratto di lavoro, con la quale le parti subordinano la definitiva assunzione all'esperimento positivo di un periodo di prova (art. 2096, c.c.). Si è detto che il patto di prova è una clausola scritta: esso, infatti, deve risultare da atto scritto contenente l'indicazione della durata della prova: in mancanza, l'assunzione del lavoratore si considera definitiva. La funzione è quella di verificare, nel reciproco interesse, l’utilità della prosecuzione del rapporto di lavoro: in particolare, per il datore verificare la capacità professionale del lavoratore e la sua complessiva idoneità alle mansioni affidate ed al contenzioso aziendale; per il lavoratore, invece, il periodo di prova consente di valutare la sua convenienza all’occupazione del posto di lavoro.
Poiché la prova è evidentemente uno strumento predisposto più nell'interesse del datore che del prestatore, la legge (o il contratto collettivo) fissa il limite massimo di sei mesi per la sua durata. L'art. 2096, co. III, c.c., regola il recesso dal periodo di prova, stabilendo che "ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine". Con riguardo al recesso, la Corte costituzionale, con la sent. 16/12/1980, n. 189, ha chiarito che esso non può essere immotivato, ma deve trovare la sua ragione nell'esito negativo della prova: è, dunque, illegittimo il licenziamento in periodo di prova se non è stato concretamente consentito al lavoratore di dimostrare le sue qualità professionali.
Se poi l'esperimento dà esito positivo, il periodo di prova si trasforma nel rapporto di lavoro subordinato vero e proprio. Se, invece, l'esperimento dà esito negativo, il datore è obbligato a corrispondere al prestatore il trattamento di fine rapporto e le ferie retribuite o la relativa indennità sostitutiva, nonché ogni altro emolumento previsto per il lavoratore che non sia incompatibile con la particolare natura del periodo di prova.
Il nostro ordinamento ha da sempre affermato il principio della normalità del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e della eccezionalità di quello a tempo determinato.
A seguito dell'entrata in vigore del D. Lgs. 368/01 può legittimamente essere instaurato un rapporto di lavoro a tempo determinato tutte le volte in cui ricorrano ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.
La formula utilizzata dal legislatore, come si vede, è elastica e indefinita. Tuttavia, volendo provare a indicare quali ragioni possano concretamente legittimare la stipulazione del termine, si può pensare in primo luogo ai casi già contemplati dalla L. 230. Come si diceva, questa legge prevedeva ipotesi che, in via esclusiva e tassativa, consentivano l'apposizione del termine; attualmente, le stesse ipotesi possono essere utilizzati come esempi di valide giustificazioni dell'apposizione del termine. Quindi, bisogna continuare a familiarizzare con le attività stagionali, con la sostituzione dei lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, con l'esecuzione di un'opera predeterminata, straordinaria e occasionale, eccetera. Tuttavia, questi non sono altro che esempi della ragione che, secondo la nuova normativa, può legittimare l'assunzione di un lavoratore a termine.
In ogni caso, per quanto elastica sia la lettera della norma, si deve tener presente che la ragione tecnica o produttiva o organizzativa deve comunque legittimare l'apposizione di un termine ad un contratto che, altrimenti, sarebbe a tempo indeterminato o non sarebbe stipulato tout - court: del resto, la Cassazione ha affermato che, anche dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina legislativa, il contratto di lavoro normale è quello a tempo indeterminato, mentre il contratto a termine resta un'ipotesi eccezionale. Pertanto, la ragione giustificativa dell'apposizione del termine deve far riferimento ad un'esigenza particolare, eccezionale o comunque transitoria, tale da non poter essere soddisfatta né con l'impiego del personale già dipendente, né con l'assunzione di nuovi lavoratori a tempo indeterminato. La legge prevede anche ipotesi in cui l'apposizione di un termine è vietata. Ciò accade nei seguenti casi:
La legge precisa che tanto l'apposizione del termine, quanto la ragione che la giustifica devono risultare per iscritto, pena l'inefficacia del termine stesso, a meno che il termine non sia superiore a dodici giorni, nel qual caso l'atto scritto non è necessario. Copia dell'atto scritto deve essere consegnata al lavoratore entro cinque giorni dall'inizio della prestazione.
Il contratto a termine può essere prorogato, a condizione che il rapporto, inizialmente, avesse una durata inferiore a tre anni. La proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia giustificata da ragioni oggettive (che devono essere provate dal datore di lavoro), riferite alla stessa attività lavorativa per la quale era stato stipulato il contratto a termine. In ogni caso, per effetto della proroga il rapporto non può durare complessivamente più di tre anni.
Bisogna prestare attenzione al fatto che la legge contempla l'ipotesi del contratto a termine non superiore a tre anni solo al fine della eventuale proroga, non certo in considerazione della durata massima del rapporto. Ciò significa che nessuna norma vieta esplicitamente l'apposizione di un termine superiore a tre anni. Tuttavia, in concreto, si deve osservare che ben difficilmente si potrebbe ipotizzare una valida ragione giustificatrice che legittimi un termine così a lunga scadenza, se si pensa - come già si è detto - che la ragione giustificatrice deve comunque essere transitoria. Del resto, la stessa legge - come si è appena visto - dispone che, anche in caso di proroga, il termine non possa eccedere la durata dei tre anni: si vede quindi che lo stesso legislatore, se non vieta esplicitamente l'apposizione di un termine di durata superiore a tre anni, vede con estremo disfavore una simile ipotesi.
La continuazione del rapporto dopo la scadenza del termine non comporta di per sé la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. Infatti, in caso di continuazione del rapporto dopo la scadenza, il datore di lavoro deve corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione, in misura del venti per cento, per ogni giorno di prosecuzione del rapporto fino al decimo; per ogni giorno ulteriore la maggiorazione è fissata nella misura del quaranta per cento. La trasformazione del rapporto a tempo indeterminato si verifica solo nel caso di continuazione del rapporto oltre il ventesimo giorno, se il contratto aveva una durata inferiore a sei mesi, ovvero negli altri casi oltre il trentesimo giorno.
Tra un contratto a termine e l'altro deve intercorrere un intervallo minimo: si tratta di dieci giorni, ovvero di venti, a seconda che il contratto sia di durata fino a sei mesi o sia superiore. Se questo intervallo non viene rispettato, il secondo contratto si reputa a tempo indeterminato; se i due rapporti si succedono senza soluzione di continuità, si considera a tempo indeterminato l'intero rapporto, dalla data di stipulazione del primo contratto.
In ogni caso, la legge precisa che il lavoratore assunto a termine ha diritto alle ferie, alla tredicesima mensilità, al TFR e a ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori a tempo indeterminato inquadrati al medesimo livello; ovviamente, questi istituti spettano in proporzione al periodo lavorato, e sempre che non siano obiettivamente incompatibili con la natura del contratto a termine.
Il decreto legislativo assegna ai contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi la facoltà di individuare i limiti quantitativi di utilizzo dei contratti a termine. Al contempo, vengono indicate alcune ipotesi che non possono sottostare ad alcun limite (tra le altre, fase di avvio di nuove attività, contratti motivati da ragioni sostitutive o dalla stagionalità, intensificazione dell'attività produttiva in determinati periodi dell'anno, contratti a termine stipulati per specifici programmi o spettacoli radiofonici o televisivi). E' evidente la ragione che ha indotto il legislatore a introdurre un simile divieto. In effetti, il fatto stesso di assumere un lavoratore a termine in una mansione occupata da un altro lavoratore, messo in mobilità non più di sei mesi prima, induce a ritenere che era illegittima la messa in mobilità (in quanto non vi era una reale esuberanza strutturale in quella posizione lavorativa) e che comunque è illegittima l'apposizione del termine (in quanto è contraddittorio affermare che vi è un'esigenza temporanea di ricoprire una posizione lavorativa che poco tempo prima era stabilmente assegnata a un lavoratore). Per questo motivo, è curioso che il legislatore, da un lato, ponga il divieto e, dall'altro, consenta alle parti sociali di derogarlo. Bisogna dunque avvertire che questo potere di contrattazione, che la legge assegna al sindacato, deve essere utilizzato con estrema cautela, in quanto il sindacato rischierebbe di coprire e avallare un comportamento illegittimo del datore di lavoro. In ogni caso, sono esenti da limiti quantitativi i contratti di durata non superiore a sette mesi, compresa l'eventuale proroga, ovvero non superiore alla maggior durata definita dalla contrattazione collettiva con riferimento a una situazione di difficoltà occupazionale per specifiche aree geografiche. Tuttavia, è previsto che anche un contratto con le caratteristiche appena indicate soggiace ai limiti quantitativi, se lo stesso fa riferimento a una mansione identica a un'altra, che aveva formato oggetto di un altro contratto a termine, scaduto da meno di sei mesi.
Ai sensi del D.Lgs. n. 152/97, il datore di lavoro ha l’obbligo di informare per iscritto il lavoratore circa le condizioni applicabili al contratto o rapporto di lavoro. Tale obbligo, che deve essere adempiuto entro 30 giorni dall’avvenuta assunzione, si sostanzia in una serie di dettagliate notizie che devono essere rese al prestatore, in particolare:
Quanto alle modalità per rendere al lavoratore le informazioni suddette, si hanno in sostanza due possibilità:
Per quanto riguarda l’interpretazione del contratto di lavoro, non vi sono particolari differenze rispetto alla normativa civilistica generale. Assumono rilievo gli usi quando i datori di lavoro sono commercianti, artigiani, agricoltori.
L’integrazione del contratto trova vasta applicazione: il contratto di lavoro si limita in generale alle indicazioni essenziali, rinviando poi alla contrattazione collettiva e alle leggi.
Le vicende patologiche del contratto di lavoro sono regolate dai principi comuni di diritto privato. Perciò, tale contratto può essere:
Ciò detto in generale, occorre segnalare due fattispecie proprie del diritto del lavoro in cui il legislatore fa scaturire effetti giuridici da contratti di lavoro radicalmente nulli, e cioè:
L’invalidità del contratto di lavoro, come abbiamo visto, può derivare sia da cause di nullità, sia da cause di annullabilità. Le differenze sono rilevanti:
In deroga alla disciplina di diritto comune, secondo la quale il contratto nullo è inefficace fin dall’origine e quello annullabile conserva la sua efficacia sino al momento della pronuncia di annullamento, in materia di lavoro entrambi i vizi fanno salvi gli effetti giuridici prodotti dal contratto invalido al fine di evitare che il prestatore di lavoro subisca le conseguenze sfavorevoli della dichiarazione di nullità o dell’annullamento del contratto stesso (art. 2126).
Al fine di ridurre l’entità del contenzioso relativo a tale materia e deflazionare il carico dei Tribunali, il Dlgs 276/03 ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo istituto giuridico, la certificazione dei contratti di lavoro, che svolge la funzione di strumento volontario e fidefacente per le parti e per i terzi in ordine alla natura del rapporto di lavoro e dei suoi effetti. A seguito delle modifiche introdotte dal Dlgs 251/04, la certificazione è stata estesa a qualsiasi tipologia contrattuale di lavoro subordinato, nonché ad altre modalità lavorative, quali il lavoro a progetto, le collaborazioni coordinate e continuative e l’associazione in partecipazione. La procedura di certificazione può essere utilizzata anche:
La funzione di certificazione è esercitata da apposite Commissioni di certificazione che possono essere costituite ad iniziativa:
Le commissioni operano secondo un regolamento interno che esse sono tenute a trasmettere al Ministero del lavoro ai fini della valutazione di conformità alle disposizioni di legge. Il Dlgs 276/03 prevede, per uniformare il lavoro delle commissioni, l’emanazione da parte del Ministero del lavoro di appositi codici di buone pratiche per l’individuazione delle clausole indisponibili in sede di certificazione dei rapporti di lavoro, con specifico riferimento ai trattamenti economici e normativi. Inoltre lo stesso Ministero deve predisporre appositi moduli e formulari per la certificazione del contratto e del relativo programma negoziale.
L’avvio della procedura di certificazione avviene con apposita istanza presentata alla competente Commissione, redatta per iscritto e sottoscritta da entrambe le parti del contratto di lavoro. L’istanza deve espressamente indicare, a pena di improcedibilità, gli effetti civili, amministrativi, fiscali o previdenziali, in relazione ai quali le parti chiedono la certificazione.
La competenza territoriale ad accogliere l’istanza di certificazione e allo svolgimento della relativa procedura è così stabilita:
Il Dlgs, in considerazione che ogni commissione provvede alla certificazione sulla base di un proprio regolamento, si limita a stabilire i seguenti principi procedurali di base:
I contratti di lavoro certificati e la relativa documentazione devono essere conservati presso le sedi della certificazione, per un periodo di almeno 5 anni a far data dalla loro scadenza.
La commissione svolge altresì una funzione di consulenza ed assistenza effettiva sia in relazione alla stipulazione del contratto di lavoro e del relativo programma negoziale sia in relazione alle modifiche dello stesso concordate in sede di attuazione del rapporto di lavoro, con particolare riferimento alla disponibilità dei diritto ed alla esatta qualificazione dei contratti di lavoro.
Ai sensi dell’art. 79 del Dlgs 276/03, la certificazione ha effetto non solo tra le parti del contratto di lavoro certificato, ma anche verso i terzi. Contro gli effetti dell’atto di certificazione è possibile proporre ricorso al giudice del lavoro competente, con la particolarità che il ricorso non interrompe l’operatività della certificazioni cui effetti permangono per tutta la durata del giudizio e fino ad una eventuale sentenza di accoglimento. Possono proporre ricorso sia le parti del contratto, sia i terzi nella cui sfera giuridica la certificazione produce effetto. I motivi dell’impugnativa sono tassativamente indicati dalla legge (art. 80). In particolare il ricorso può essere proposto: 1. per erronea qualificazione del contratto; 2. per vizio del consenso dell’atto di certificazione; 2. per difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva e concreta attuazione.
L’esito del giudizio potrà essere una sentenza di rigetto o di accoglimento del ricorso. Nel primo caso il rapporto di lavoro permane tra le parti secondo la tipologia contrattuale certificata e restano impregiudicati gli effetti prodotti da tale contratto sin dalla sua stipulazione. In caso di accoglimento, la sentenza del giudice, che ha accertato l’erronea qualificazione del rapporto o la discordanza tra rapporto certificato e rapporto concretamente realizzato, fa sì che tra le parti si producano gli effetti del rapporto reale, in conformità al consolidato principio di prevalenza del rapporto fattuale sul nomen iuris. Tali effetti si producono: sin dall’inizio nel caso di erronea certificazione; dal momento in cui ha cominciato a verificarsi un comportamento discordante dal tipo contrattuale certificato.
È stabilita infine la competenza del TAR nella cui giurisdizione ha sede la commissione che ha certificato il contratto, per i ricorsi in caso di violazione del procedimento o per vizio o eccesso di potere.
Il 5 febbraio 2003 il Parlamento ha approvato la legge delega 30/2003 in materia di occupazione e di mercato del lavoro (la cosiddetta “Legge Biagi”). Il 24 ottobre 2003 è entrato in vigore il Decreto legislativo 276/2003, primo passo verso la piena attuazione della legge delega. Scopo della riforma è quello di garantire al settore del lavoro quella flessibilità che già lo caratterizza in altri contesti geografici al fine ultimo della crescita economica del Paese.
Il collocamento pubblico ha costituito nel nostro paese la più importante forma di intervento dello Stato nel mercato del lavoro. Tale disciplina, fortemente limitativa del potere negoziale dei privati, ha indubbiamente fallito il suo obiettivo riuscendo a collocare appena il 4 per cento dei lavoratori occupati. Il collocamento, inteso come sistema normativo predisposto per lo svolgimento della mediazione fra domanda e offerta di lavoro, in vista dell’assunzione della manodopera, ha costituito una funzione pubblica avente a fondamento, secondo la maggiore dottrina, l’art. 35, comma 1, Cost. il quale affida allo Stato il compito di tutelare il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.
Con la riforma del mercato del lavoro di cui al detto Dlgs 297 è stata riformata la funzione pubblica dei servizi all'impiego consentendo anche agli operatori privati (nella nuova denominazione di agenzie per il lavoro) e a determinate condizioni, di erogare tutti i servizi (collocamento, ricerca e selezione, orientamento e formazione, somministrazione di lavoro, ecc.). I servizi privati sono gratuiti per i lavoratori e onerosi solo per le imprese.
La gestione burocratica ed altamente verticistica del collocamento pubblico si è perpetrata per quasi cinquanta anni. La soluzione è stata quella del decentramento amministrativo, in ossequio al principio di sussidiarietà verticale che si realizza privilegiando il livello di regolamentazione più vicino agli interessi coinvolti. Nella materia del lavoro, tale decentramento amministrativo si è realizzato con il Dlgs n. 469 del 1997 che ha conferito, ovvero delegato, alle Regioni il compito di disciplinare, con proprie leggi e con riferimento al proprio territorio, l’organizzazione amministrativa e le modalità di esercizio delle funzioni conferite, ivi compresa l’attribuzione alle Province dei compiti in materia di collocamento. Ai sensi dell’art. 1, comma 3, Dlgs 469 del 1997 costituiscono funzioni e compiti dello Stato:
Tali competenze dello Stato, residuate dal decentramento operato dal Dlgs 469/1997, sono svolte dal Ministero del Lavoro mediante le Direzioni regionali e provinciali del lavoro.
L’art. 2, comma 1, del Dlgs 469/97 attribuisce alle Regioni la disciplina e la concreta gestione del collocamento, ordinario e speciale (agricolo, spettacolo, obbligatorio), nonché l’avviamento a selezione negli enti pubblici e nella pubblica amministrazione, la preselezione ed incontro tra domanda ed offerta di lavoro e le iniziative volte ad incrementare l’occupazione. Sono inoltre riconosciute alle regioni le funzioni in materia di politica attiva del lavoro ed in particolare la programmazione ed il coordinamento di iniziative volte ad incrementare l’occupazione e ad incentivare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, anche con riferimento all’occupazione femminile a soggetti tossicodipendenti ed ex detenuti, ai lavoratori in mobilità e alle categorie svantaggiate.
A livello provinciale, la gestione ed erogazioni dei servizi per l’impiego deve avvenire tramite strutture denominate centri per l’impiego, distribuite, sulla base di bacini provinciali non inferiore a 100.000 abitanti, fatto salve motivate esigenze socio geografiche. L’attribuzione alle regioni e agli enti locali delle funzioni del collocamento e di politica attiva del lavoro ha trovato successivamente un riscontro nella riforma del titolo V della Costituzione, ad opera della legge Cost. 3/01 con cui è stata riconosciuta alle regioni ampia autonomia amministrativa, nonché potestà legislativa in ogni materia non espressamente riservata alla competenza statale. Per quello che interessa l’art. 117 Cost. riconosce la competenza legislativa delle regioni nelle materie della tutela e sicurezza del lavoro.
Tale assetto è stato infine nuovamente ritoccato, per effetto della disciplina introdotta dal Dlgs 276/03 con il quale il legislatore nazionale fa sì salve le competenze riconosciute alle regioni e agli enti locali a seguito della riforma del titolo V della Cost., ma individua nuovi principi e criteri di governo del mercato del lavoro che ridisegnano il ruolo dell’operatore pubblico e che hanno una inevitabile ricaduta anche sul riparto di competenza tra stato e regioni.
A livello nazionale spetta allo Stato, l’importante funzione di garantire l’unitarietà del mercato del lavoro, il coordinamento tra tutti gli operatori del mercato e la vigilanza onde prevenire e reprimere fenomeni di abuso e violazione della disciplina di legge. A livello regionale, ciascuna regione è competente per l’organizzazione ed il governo del mercato del lavoro corrispondente al proprio territorio, nell’osservanza dei seguenti principi e criteri:
Una delle previsioni innovative del Dlgs 469 del 1997 era rappresentata dal Sistema informativo lavoro che avrebbe dovuto costituire una banca dati nazionale relativa a tutta la domanda e offerta del lavoro intermediata da soggetti pubblici e privati. Il Dlgs 276 del 2003 implementa questo importante progetto, prevedendo la costituzione della Borsa continua nazionale del lavoro a garanzia dell’effettivo godimento del diritto al lavoro di cui all’art. 4 della Costituzione, e nel pieno rispetto dell’articolo 120 della Costituzione stessa. Questa enorme rete telematica è strutturata su un livello nazionale, presso il Ministero del lavoro e su un livello decentrato che si realizza attraverso i nodi informativi regionale, di competenza di ogni regione. Le disposizioni regolamentari per l’effettiva operatività della Borsa sono state adottate con DM 2004, emanato dal ministero del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il ministero per l’innovazione e le tecnologie. Il funzionamento della borsa è basato sull’afflusso e sulla circolazione delle informazioni e deve garantire la libera accessibilità da parte dei lavoratori e delle imprese e la consultabilità da un qualunque punto della rete attraverso accessi appositamente dedicati da tutti gli operatori pubblici e privati, autorizzati o accreditati.
La mediazione. Le attività preordinate all’incontro tra domanda e offerta di lavoro, secondo il Dlgs 276/03 sono:
I servizi per l'impiego si rivolgono a lavoratori e imprese con l'obiettivo di favorire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro. Si occupano della prima accoglienza e dell'orientamento del lavoratore, al quale forniscono tutte le informazioni relative al mondo del lavoro, dalla normativa alle opportunità di impiego, ai percorsi formativi finalizzati all'inserimento o al reinserimento lavorativo.
La riforma Biagi delinea un mercato del lavoro nel quale operatori pubblici e operatori privati autorizzati svolgono la propria attività in regime di competizione e concorrenza.
Il Dlgs 276/2003 rende operativa la riforma dei Servizi per l'impiego, accostando ai tradizionali operatori pubblici del mercato (i Centri per l'impiego), le nuove Agenzie per il lavoro e gli altri operatori autorizzati. L'obiettivo è realizzare un sistema coerente di strumenti, per garantire la trasparenza e l'efficienza del mercato del lavoro anche grazie all'interconnessione con la Borsa nazionale del lavoro.
I Centri per l'impiego operano a livello provinciale secondo gli indirizzi dettati dalle Regioni. Hanno l'obiettivo di migliorare le possibilità di accesso dei disoccupati al mondo del lavoro e di assistere le imprese, favorendo l'incontro tra la domanda e l'offerta di lavoro. I Centri per l'impiego offrono una serie di servizi destinati ai lavoratori e alle imprese quali l’accoglienza , l’orientamento , l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, la preselezione, la consulenza alle imprese, l’assistenza a persone disabili o svantaggiate.
Le Agenzie per il lavoro sono soggetti in possesso di autorizzazione dello Stato che svolgono attività di somministrazione di lavoro, intermediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla ricollocazione professionale . Le Agenzie per il Lavoro che vengono autorizzate o accreditate devono essere iscritte a un apposito Albo istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. L'Albo è suddiviso in cinque sezioni: una per ogni tipo di attività che può essere svolta .
Per essere autorizzate, le Agenzie devono possedere alcuni requisiti:
Le Agenzie del lavoro si distinguono a seconda dell'attività che sono autorizzate a svolgere:
Le agenzie di somministrazione sono automaticamente autorizzate anche all'attività di intermediazione, ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale. Per ottenere l'autorizzazione, entrambe le tipologie di agenzie di somministrazione devono possedere requisiti specifici. Devono inoltre versare dei contributi ai fondi per la formazione e l'integrazione del reddito dei lavoratori assunti con contratto di somministrazione. Possono gestire specifici programmi di formazione, inserimento o riqualificazione professionale erogati a favore di lavoratori svantaggiati.
Accanto al divieto di mediazione privata nel collocamento della manodopera, sancito dalla legge 264 del 1949, il nostro ordinamento prevedeva anche il divieto di intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro, disciplinato dall’art. 2127 c.c. e dalla legge n. 1369 del 1960. Tale legge perseguiva lo scopo di reprimere il fenomeno dell’interposizione, che si verifica quando i lavoratori assunti da un datore (intermediario) in realtà prestano la loro attività in favore esclusivamente di altro imprenditore (committente).
La riforma Biagi introduce nel nostro mercato del lavoro la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato per una serie di attività e mansioni particolari (Art. 20, comma 2). La somministrazione di manodopera permette ad un soggetto (utilizzatore) di rivolgersi ad un altro soggetto appositamente autorizzato (somministratore), per utilizzare il lavoro di personale non assunto direttamente, ma dipendente del somministratore.
Prima di tale intervento la massima forma di flessibilità del mercato del lavoro italiano era rappresentata dal lavoro interinale (o lavoro ad interim o in affitto), introdotto dalla legge n. 196 del 1997. Con tale istituto si forniva alle imprese uno strumento contrattuale dinamico, con cui consentire l’impiego temporaneo di manodopera in relazione ad esigenze di produzione contingenti. Nel lavoro interinale la impresa di fornitura collocava, per un periodo di tempo predeterminato, soggetti in cerca di occupazione presso imprese che necessitassero di manodopera. La legge 196 del 1997 tuttavia non abrogava i divieti di mediazione ed interposizione di manodopera i quali continuavano ad operare al di fuori del lavoro interinale. Sicché, il permanere di tali divieti e la disciplina del lavoro interinale, considerata eccessivamente rigida, hanno limitato di fatto l’operatività di tale forma di lavoro, inducendo il legislatore, in occasione della riforma del mercato del lavoro, ad abrogare la legge 196 del 1997 e a dare una nuova disciplina al mercato del lavoro, basata sui seguenti criteri direttivi:
L’art. 2 del Dlgs 276 del 2003 definisce la somministrazione di lavoro come la fornitura professionale di manodopera, a tempo indeterminato o a termine, ai sensi dell’art. 20.. La norma richiamata stabilisce che “il contratto di somministrazione lavoro può essere concluso da ogni soggetto, di seguito denominato utilizzatore, che si rivolga ad altro soggetto, di seguito denominato somministratore, a ciò autorizzato”
Nella somministrazione occorre distinguere due contratti diversi:
Entrambi i contratti possono essere stipulati a tempo determinato o indeterminato. La somministrazione rientra nell'ambito delle esternalizzazioni delle attività di impresa, ed è diretta, da un lato, ad offrire alle aziende un nuovo ed efficiente strumento per procurarsi forza lavoro e, dall'altro, ad offrire particolari garanzie ai lavoratori somministrati.
La somministrazione a tempo indeterminato può essere effettuata sia dalle agenzie generaliste sia da quelle specialiste.
Il contratto di somministrazione a tempo indeterminato può essere stipulato per:
Il contratto di somministrazione a tempo determinato può essere stipulato per far fronte a esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all'ordinaria attività dell'utilizzatore (art. 20, Dlgs 276/2003) ovvero per le “esigenze temporanee” indicate dalle clausole dei contratti collettivi che avranno efficacia fino alla loro naturale scadenza (art. 86, Dlgs 276/2003). La somministrazione a tempo determinato può essere effettuata solo dalle agenzie generaliste.
Il contratto di lavoro a tempo determinato può essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata prevista dal contratto collettivo applicato dal somministratore.
Il contratto di somministrazione lavoro è il contratto tramite il quale viene regolata la fornitura di lavoratori tra l’agenzia di somministrazione all’utilizzatore per il soddisfacimento di esigenze di quest’ultimo. Il contratto di somministrazione deve avere forma scritta e deve riportare i seguenti elementi:
La mancanza della forma scritta è sanzionata con la previsione della nullità del contratto di somministrazione con la conseguenza che i lavoratori saranno considerati a tutti gli effetti alla dipendenze dell’utilizzatore. Inoltre è nulla qualsiasi clausola, apposta nel contratto di somministrazione che abbia l’effetto di limitare la facoltà dell’utilizzatore di assumere il lavoratore al termine della fornitura.
Non è richiesta invece alcuna forma specifica per il contratto di lavoro che lega il somministratore e il lavoratore.
Il Dlgs 276 del 2003 elenca le ipotesi in cui la somministrazione, sia a termine, sia a tempo indeterminato, è vietata ed in specie:
Il somministratore ha l’obbligo di comunicare per iscritto al lavoratore, all’atto della stipula del contratto di lavoro ovvero all’atto dell’invio presso l’utilizzatore, le informazioni contenute nel contratto di somministrazione, nonché la data di inizio e la durata prevedibile dell’attività lavorativa presso l’utilizzatore. L’utilizzatore ja l’obbligo di comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, alle associazioni territoriali di categoria aderenti alle confederazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale:
I lavoratori forniti all’utilizzatore non rientrano nel computo dei dipendenti ai fini dell’applicazione di leggi ed istituti che presuppongono una determinata soglia dimensionale.
I lavoratori dipendenti dal somministratore (che figura come il datore di lavoro) hanno diritto alla parità di trattamento economico e normativo rispetto ai dipendenti di pari livello dell'utilizzatore (il quale ha la direzione ed il controllo sul prestatore di lavoro), a parità di mansioni svolte. L'utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali: pertanto se il somministratore non dovesse versare il dovuto al lavoratore questo può richiederlo all'utilizzatore, che è obbligato a corrisponderlo. In caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato è previsto da parte del somministratore il pagamento di un'indennità per i periodi di mancata assegnazione presso l’impresa utilizzatrice la cui misura viene determinata dal contratto collettivo di riferimento e non può essere inferiore alla misura di 350 euro mensili, secondo quanto previsto da decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.
Il contratto di lavoro a tempo indeterminato è soggetto alla disciplina generale dei rapporti di lavoro prevista dal codice civile e dalle leggi speciali. Il contratto può essere stipulato anche a tempo parziale.
Se il contratto di lavoro è stipulato a tempo determinato si applicano in quanto compatibile le disposizioni del contratto a termine (Dlgs 368/2001), con alcune differenze:
È nulla ogni clausola che possa limitare, anche indirettamente, la facoltà dell'utilizzatore di assumere il lavoratore al termine del contratto di somministrazione. Il divieto può essere derogato a fronte di una congrua indennità per il lavoratore, secondo quanto previsto dal contratto collettivo applicabile al somministratore.
La peculiarità del rapporto di lavoro derivante da somministrazione determina una singolare ripartizione dei tipici poteri del datore di lavoro: tale ruolo è coperto dall’agenzia di somministrazione che gestisce direttamente tutti gli aspetti connessi al rapporto di lavoro, mentre l’utilizzatore rappresenta il soggetto che si avvale, per tutta la durata della somministrazione dell’attività dei lavoratori. La suddivisione dei poteri e dei doveri datoriali, desumibile dalle disposizioni del provvedimento è la seguente:
Con la riforma del dlgs 276 del 2003 viene abrogata la legge 1369 del 1960 e, con essa, cade il divieto generale di fornitura di manodopera a terzi. Tuttavia, l’ordinamento intende continuare a reprimere le forme illecite, ovvero attuate al di là delle regole e dei requisiti che presiedono alla somministrazione regolare. Si comprende pertanto il permanere dell’interesse del legislatore per la definizione dei requisiti dell’appalto genuino, anche al fine di distinguerlo da una mera fornitura di lavoro, e per le forme di tutela dei lavoratori dipendenti dall’appaltatore.
L’appalto è un contratto con il quale un soggetto (committente) incarica un imprenditore (appaltatore) di compiere un'opera o un servizio a fronte di un corrispettivo in denaro. L'imprenditore (appaltatore), per compiere l'opera o il servizio commissionati, deve organizzare i mezzi necessari (dirige i lavoratori alle proprie dipendenze senza che il committente possa interferire nelle modalità concrete di svolgimento del lavoro stesso) e assumere il rischio d'impresa (rispondere del risultato finale davanti al committente). Gli elementi che distinguono il contratto d'appalto dalla somministrazione sono dunque l'organizzazione dei mezzi necessari e l'assunzione dei rischi d'impresa.
L'appalto di servizi è caratterizzato dall'assunzione di una obbligazione solidale tra il committente e l'appaltatore: ciò significa che i lavoratori dipendenti dell'appaltatore possono rivolgersi, entro un anno dalla fine del contratto di appalto, al committente per riscuotere i crediti da lavoro (retribuzione, contributi etc) nel caso in cui il loro datore di lavoro non li abbia pagati.
La legge Biagi ha espressamente stabilito che non costituisce trasferimento d'azienda o di ramo della stessa l'ipotesi in cui un nuovo appaltatore subentri al contratto di appalto e assuma i lavoratori già impiegati nell'appalto stesso.
Il Dlgs 276 del 2003 interviene a disciplinare per la prima volta l’istituto del distacco del lavoratore da una impresa ad un l’altra per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. I requisiti per il distacco sono:
Nel caso in cui il distacco sia attuato in assenza di detti requisiti, il lavoratore interessato può dare ricorso al giudizio per la costituzione di un rapporto di lavoro con il soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, cioè il datore di lavoro presso cui è stato distaccato (art. 30, comma 4 bis, Dlgs 276 del 2003, introdotto dal Dlgs 251/04). Dal punto di vista delle tutele, quella principale è che il datore di lavoro distaccante rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore distaccato. A ciò si aggiungono due nuove garanzie: il distacco deve avvenire su base consensuale quando comporti un mutamento di mansioni; il distacco che comporti un trasferimento a una unità produttiva sita a più di 50 Km da quella in cui il lavoratore è adibito, deve essere giustificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.
La direttiva 96/71/CE fornisce tutela ai lavoratori distaccati, in uno Stato membro della Comunità europea diverso da quello nel cui territorio lavorino abitualmente. In attuazione di tale direttiva è stato emanato il Dlgs n. 70 del 2000 che si applica alle imprese stabilite in uno Stato membro dell’Unione Europea diverso dall’Italia, che:
La tutela dei lavoratori distaccati, fornita dal Dlgs 72/2000, è la seguente:
Per l’apposizione del patto di prova al contratto di lavoro è previsto l’atto scritto che deve essere di data anteriore o, al massimo, contestuale alla costituzione del rapporto di lavoro e deve essere sottoscritto da entrambe le parti.
Trattasi di nullità parziale in quanto la clausola viziata è sostituita di diritto con le norme imperative violate.
È inoltre previsto un processo di accreditamento da parte delle Regioni che consente alla Agenzie di operare a livello regionale e partecipare alla rete dei Servizi per l'impiego.
L'obiettivo è quello di realizzare un sistema efficace e coerente di strumenti che garantiscano la trasparenza del mercato e offrano nuove opportunità di inserimento professionale ai disoccupati e a quanti in cerca di prima occupazione, con particolare riferimento alle fasce deboli.
Con l’art. 2112 c.c. il legislatore ha inteso offrire tutela, in termini di stabilità dell’occupazione, in caso di trasferimento d’azienda, ai lavoratori dipendenti dall’impresa trasferita. Tale normativa, interamente rivista dalla legge n. 428 del 1990 di attuazione della Dir. 77/187/CEE, è stata successivamente modificata dal Dlgs n. 18 del 2001 ed anche dal Dlgs 276/03 allo scopo di estendere le tutele dei lavoratori previste per il trasferimento d’azienda anche al trasferimento di solo un ramo, funzionalmente autonomo della stessa. Anche in questo caso il legislatore ha perseguito l’obiettivo di garantire il mantenimento dei diritti dei lavoratori in tutte le varie circostanze in cui si realizza un trasferimento di azienda e soprattutto quando con esso si dia vita ad una forma di decentramento o esternalizzazione. La normativa di tutela, originariamente limitata alla fattispecie dell’alienazione, dell’usufrutto o dell’affitto, si applica:
La tutela dei lavoratori dell’azienda, o parte di essa, trasferita è la seguente:
Per poter effettuare il trasferimento di azienda è necessario attivare una procedura preventiva prevista dall’art. 47 della legge 428/90. Il cedente ed il cessionario devono dare comunicazione scritta del trasferimento alle rappresentanze sindacali unitarie, almeno 25 giorni prima che sia perfezionato l’atto da cui deriva il trasferimento o che sia raggiunta un’intesa vincolante tra le parti, nonché ai sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato nelle imprese interessate dal trasferimento. Ove le rappresentanze sindacali aziendali o i sindacati di categoria ne facciano richiesta per iscritto, il cedente ed il cessionario sono tenuti ad avviare un esame congiunto della situazione con le forze sindacali. La consultazione si intenderà esaurita qualora, decorsi dieci giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo. Il mancato rispetto da parte del cedente o del cessionario dell’obbligo dell’esame congiunto rappresenta condotta antisindacale sanzionabile ai sensi dell’art. 28 della legge 300/70.
Somministrazione irregolare e fraudolenta.
Il Dlgs 276/03 contempla due sole figure di illecito, ed in particolare:
Il Dlgs 276/03 individua ulteriori soggetti che possono effettuare l’attività di intermediazione, a condizione che operino senza finalità di lucro e con l’obbligo della interconnessione alla Borsa continua nazionale del lavoro, ed in particolare:
Il Dlgs 276 del 2003 prevede che le Regioni istituiscano appositi elenchi per l’accreditamento degli operatori pubblici e privati che operano nel proprio territorio. Condizione per l’accreditamento, le cui procedure sono rimesse ad apposita legge regionale, è:
A tutela del lavoratore il Dlgs 276 del 2003 ha stabilito, inoltre, precisi obblighi comportamentali a carico delle agenzie per il lavoro, degli operatori pubblici e di tutti gli altri soggetti abilitati ad operare sul mercato. Tali obblighi concernono:
Anche se le attività di mediazione e di fornitura lavoro sono state, con l’emanazione del Dlgs 276 del 2003, significativamente deregolamentate e semplificate sotto il profilo dei limiti operativi, ciò non significa che il legislatore non abbia inteso prevenire e reprimere abusi e irregolarità. Né è conferma la predisposizione di un regime sanzionatorio di natura civile e penale per le forme di speculazione parassitaria sul lavoro, previsto dall’art. 18 del Dlgs 276/03 modificato dal Dlgs 251 del 2004.
Nell’impostazione originaria del sistema del collocamento, la legge prevedeva posizioni di favore per determinate categorie soggettive che vantavano veri diritti e precedenze per l’assunzione presso i datori di lavoro privati e pubblici. Oltre al noto sistema del collocamento obbligatorio per i soggetti portatori di handicap, operava anche la riserva a favore delle c.d. fasce deboli, prevista dall’art. 25 della legge 223/91, da ultimo abrogato dal Dlgs 297 del 2002. Nel corso del tempo si è passati, tuttavia da un atteggiamento di carattere assistenziale, fondato sull’atto di imperio impositive dell’assunzione, ad una nuova filosofia d’intervento che si concreta nelle c.d. politiche attive del lavoro. Con tale espressione si intende l’insieme delle strategie ed interventi finalizzati alla qualificazione all’incremento dell’occupazione, in grado di influenzare positivamente le dinamiche occupazionale e che presuppongono un comportamento attivo dei soggetti beneficiari.
Il già citato Dlgs 181 del 2000 ha segnato un momento importante nel processo di ammodernamento degli interventi attuati dalle strutture pubbliche, affermando il principio della necessità di azioni volte, da un lato, ad accrescere le opportunità di impiego degli individui, dall’altro a prevenire il rischio della marginalizzazione, ovvero il deterioramento del loro potenziale culturale e professionale.
Un ruolo essenziale è affidato ai servizi pubblici per l’impiego, che oltre a svolgere compiti di tipo tradizionale connessi all’attività amministrativa ed alla vigilanza, sono deputati, nel nuovo sistema di competizione e collaborazione pubblico - privato, ad erogare servizi più innovativi. Essi sono precipuamente rivolti a gruppi di lavoratori svantaggiati e cioè, secondo la specifica nozione di cui all’art. 2 del Dlgs 276/03, qualsiasi persona appartenente ad una categoria che abbia difficoltà ad entrare, senza assistenza nel mondo del lavoro.
Ai fini della esatta individuazione dei soggetti destinatari degli interventi di politica attiva del lavoro è necessario dare riferimento alla normativa comunitaria in materia di incentivi all’occupazione. Si tratta:
A tali soggetti vanno aggiunti quelli contemplati dalla legge 389 del 1991, vale a dire gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione.
Misure per la formazione e l’integrazione del reddito dei lavoratori temporanei. Il Dlgs 276 del 2003 prevede l’istituzione, presso gli enti bilaterale, di appositi Fondi per la formazione e l’integrazione del reddito a favore dei lavoratori assunti da agenzie di somministrazione. Le risorse dei fondi devono essere utilizzate per:
Incentivazione economica e normativa finalizzata all’occupazione dei lavoratori svantaggiati. Il Dlgs 276/03 stabilisce, in favore delle agenzie di somministrazione, delle apposite misure di incentivazione economica e normativa al fine di promuovere l’inserimento o il reinserimento dei lavoratori svantaggiati nel quadro delle politiche attive realizzate sia a livello nazionale che locale. Tali forme di incentivazione sono:
Il collocamento obbligatorio, a lungo regolato dalla L. 482/68, è stato profondamente rivisitato per effetto della L. 68/99 e fatto salvo dalla riforma. La L. 68/99 si pone come finalità “la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”, intendendosi, per collocamento mirato dei disabili, l’insieme di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative allo scopo di inserirli in idonei posti di lavoro.
In base alla L. 482/68, i soggetti da assumere obbligatoriamente sono:
Quanto alla disciplina possiamo così riassumere:
La L. 68/99 estende il suo ambito di operatività:
Tra le principali novità della L. 68/99 rileva la variazione delle quote di riserva a carico dei datori di lavoro pubblici e privati, distinte nelle seguenti:
A differenza della precedente normativa basata esclusivamente sul meccanismo della richiesta numerica, la L. 68/99 prevede la richiesta nominativa per:
L’accertamento delle condizioni di disabilità che danno diritto all’iscrizione negli elenchi del collocamento obbligatorio è effettuato:
I disabili assumono obbligatoriamente hanno diritto al normale trattamento economico e normativo stabilito per la generalità dei lavoratori dalla contrattazione collettiva. Inoltre deve essere osservato il principio generale affermato dalla legge 68 del 1999, cioè che il datore di lavoro non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue mansioni. Il rapporto di lavoro con il disabile può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, l’apposita Commissione ASL accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda. In caso di risoluzione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a darne comunicazione, nel termine di dieci giorni, agli uffici competenti, al fine della sostituzione del lavoratore con altro avente diritto all’avviamento obbligatorio.
Cooperative sociali per l’inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati e disabili. Al fine di favorire l’inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati e dei lavoratori disabili l’art. 14 Dlgs 276/03 prevede che i servizi per l’impiego possono stipulare delle apposite convenzioni quadro con le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro e con le associazioni di rappresentanza, assistenza e tutela delle cooperative. Tali convenzioni hanno ad oggetto il conferimento di commesse di lavoro alle cooperative sociali da parte delle imprese associate o aderenti, sul presupposto che le attività commissionate siano svolte con il lavoro dei disabili o dei soggetti svantaggiati, individuati dai competenti servizi pubblici e inseriti nella cooperativa.
La legge 608 del 1996 ha introdotto la procedura per l’assunzione diretta, segnando il passaggio delle competenze pubbliche da una funzione obbligatoria di mediazione preventiva nella costituzione dei rapporti di lavoro ad una funzione di controllo a posteriori circa l’osservanza delle disposizioni legislative inderogabili. La modalità di assunzione diretta, prevista dalla legge 608/96, è stata poi riformulata dal Dlgs n. 297 del 2002, nell’ambito di un intervento di più ampia portata volto a conferire maggiore organicità e coerenza al sistema normativo relativo alla mediazione tra domanda e offerta di lavoro e ai servizi di promozione dell’occupazione. Dispone ora l’art. 4 del Dlgs 181 del 2000 che i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici procedono all’assunzione diretta di tutti i lavoratori per qualsiasi tipologia di rapporto di lavoro, salvo l’obbligo di assunzione mediante concorso eventualmente previsto dagli statuti degli enti pubblici economici.
Nel nuovo sistema di assunzione diretta l’unica formalità che permane per i datori di lavoro è quella di effettuare una comunicazione agli uffici pubblici di collocamento, disciplinata dall’art. 4 Dlgs 181/2000, come modificato dal Dlgs 297 del 2002. La norma stabilisce che:
Il regime dell’assunzione diretta non si applica alle assunzioni dei lavoratori disabili effettuate ai fini dell’assolvimento della quota di riserva di cui alla legge 68 del 1999. Lo stesso Dlgs 297 del 2002 non ha, infatti, abrogato le disposizioni relative agli elenchi del collocamento obbligatorio in cui devono iscriversi gli aventi diritto. Da un unico elenco pubblico risulta la graduatoria regionale dei disabili disoccupati. Gli elenchi sono predisposti e tenuti dai competenti uffici provinciali, che provvedono alle iscrizioni, a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e al collocamento dei lavoratori disabili.
A differenza della precedente normativa basata esclusivamente sul meccanismo della richiesta numerica, la legge 68/99 prevede per l’assunzione la richiesta nominativa per:
Per le Pubbliche Amministrazioni le assunzioni obbligatorie devono avvenire per chiamata numerica, previa verifica della compatibilità dell’invalidità con le mansioni da svolgere.
Le norme sono differenti secondo che si tratti di cittadini di paesi membri dell’Unione europea oppure dell’OCSE (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ovvero di lavoratori appartenenti a Stati che non aderiscano ai predetti organismi internazionali.
Lavoratori membri dell’U.E.. Per tali lavoratori vige una normativa particolare nell’ambito dell’U.E. volta ad limare ogni discriminazione tra i cittadini degli Stati membri nel porre in essere e svolgere un rapporto di lavoro subordinato. A tal fine il Trattato CE ha sancito il principio della libera circolazione dei lavoratori. Detto principio di articola nei seguenti punti:
Il DPR 54 del 2002 stabilisce che i cittadini di uno stato membro dell’UE hanno libero ingresso nel territorio italiano, fatte salve le limitazioni derivanti dalle disposizioni in materia penale e da quelle a tutela dell’ordine pubblico, della sicurezza interna e della sanità pubblica in vigore in Italia.
Lavoratori di Stati non appartenenti all’U.E.. Le assunzioni dei lavoratori extracomunitari (la cui disciplina si applica anche ai cittadini neocomunitari) sono disciplinate dal Dlgs n. 286 del 1998 e dal relativo regolamento di attuazione, approvato con DPR 394 del 1999 e da ultimo modificato con DPR n. 334 del 2004. Punto di partenza della disciplina è il principio per cui l’ingresso del lavoratore straniero nel territorio italiano per motivi di lavoro debba avvenire nell’ambito di quote massime, distinte a seconda se trattasi di lavoro subordinato o autonomo, stabilite annualmente con decreto del Presidente del consiglio dei Ministri al fine di garantire la massima compatibilità degli interessi con le potenzialità di inserimento nel mercato del lavoro. Lo sportello unico immigrazione è l’organismo, istituto in ogni Provincia, cui è demandata la gestione di tutta la procedura di assunzione del lavoratore straniero. Esso opera in rete con i centri per l’impego e le DRL e DPL, attraverso una anagrafe annuale informatizzata delle offerte e delle richieste di lavoro subordinato dei lavoratori stranieri, che è anche collegata con l’archivio organizzato dall0INPS e con le Questure. La richiesta del datore da avvio ad una procedura il cui esito è l’effettivo ingresso del lavoratore in Italia e la successiva stipulazione del contratto di lavoro presso lo sportello unico. Entro otto giorni dall’ingresso in Italia, il lavoratore extracomunitario deve presentarsi presso il competente Sportello unico per la sottoscrizione del contratto di soggiorno per lavoro subordinato. Lo sportello unico fa sottoscriver contestualmente al lavoratore straniero richiesta del permesso di soggiorno, i cui dati sono inoltrati alla Questura competente. Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro è rilasciato dalla Questura e la sua durata corrisponde a quella stabilita dal contratto di lavoro. Tale durata comunque non può superare:
Ai sensi del Dlgs 286/1998 stabilisce che la perdita del posto di lavoro non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno al lavoratore extracomunitario ed ai suoi familiari legalmente soggiornanti. In caso di licenziamento collettivo o individuale o di dimissioni, il lavoratore può essere iscritto nell’elenco anagrafico tenuto dal centro per l’impiego. È possibile anche l’iscrizione nelle liste del collocamento obbligatorio in caso di sopravvenuta invalidità del lavoratore straniero.
Allo scadere del permesso di soggiorno, lo straniero deve lasciare il territorio dello Stato, salvo risulti titolare di un nuovo contratto di soggiorno per lavoro ovvero abbia diritto al permesso di soggiorno ad altro titolo.
Accesso degli stranieri al lavoro stagionale. In ragione del fatto che i lavoratori stranieri sono diffusamente occupati nelle attività stagionali, il DPR 394 del 1999 disciplina in modo specifico l’accesso a tale tipologia d’impieghi. Le peculiarità riguardano:
L’art. 5 del Dlgs n. 286 del 1998 stabilisce che allo straniero che dimostri di essere venuto in Italia almeno due anni di seguito per prestare lavoro stagionale può essere rilasciato, qualora di tratti di impieghi ripetitivi, un permesso pluriennale.
Svolgimento di lavoro autonomo. L’art. 5 disciplina altresì l’accesso e il soggiorno degli stranieri nel nostro Stato per svolgere un’attività di lavoro autonomo. La norma stabilisce che possono inoltre soggiornare nel territorio dello Stato gli stranieri muniti di permesso di soggiorno per lavoro autonomo rilasciato sulla base della certificazione della competente rappresentanza diplomatica consolare italiana.
Il rapporto di lavoro si configura come un rapporto complesso per la molteplicità degli elementi che concorrono a definire la posizione giuridica delle parti, e cioè i loro reciproci diritti e doveri che possiamo così riassumere:
L’obbligazione di lavoro integra un rapporto complesso, nel quale la prestazione di lavoro costituisce il contenuto principale dell’obbligo del lavoratore.
Il contenuto sostanziale della prestazione, e cioè l’attività dedotta nel rapporto, è desunta da una serie di elementi, e precisamente dalle mansioni, dalle qualifiche e dalle categorie.
Tali elementi, sul piano della struttura del rapporto, identificano l’oggetto della prestazione di lavoro, mentre dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro individuano la posizione di lavoro ricoperta dal prestatore.
Le mansioni indicano l’insieme dei compiti e delle concrete operazioni che il lavoratore è chiamato ad eseguire e che possono essere pretesi dal datore di lavoro: indicano, in s
La prestazione di lavoro dell'impiegato si caratterizza, dunque, per:
Con riferimento al primo elemento, l'art. 1, R.D. 1825/1924, distingue la collaborazione di concetto da quella d'ordine, senza però definirle. Per la Cassazione, il criterio discretivo consiste non tanto nel carattere intellettivo della prestazione, quanto, piuttosto, nella parziale autonomia dell'impiegato di concetto rispetto ai superiori, autonomia da valutare non in ragione dell'incarico conferito, ma del lavoro effettivamente svolto.
Può quindi dirsi che è impiegato colui che svolge, non tanto attività di produzione, quanto di organizzazione della produzione (Ghera).
L'art. 1, R.D. 1825/1924, fornisce una definizione in negativo dell'operaio, essendo tale, per questa disposizione, il lavoratore che non può essere inquadrato in nessuna delle altre categorie. Con riguardo alla distinzione tra impiegato ed operaio, la dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengono, dopo molte incertezze, che sia determinante, non il carattere intellettuale o manuale del lavoro prestato, bensì il grado della collaborazione fornita dal lavoratore al datore. Così, mentre la prestazione dell'impiegato, anche d'ordine, si caratterizza per l'attività di "collaborazione all'impresa" - di cui si è detto al paragrafo precedente -, quella dell'operaio si caratterizza per la "collaborazione nell'impresa", consistente in un generico apporto al processo produttivo, realizzato mediante la mera attuazione delle direttive ricevute.
Si tratti di categorie di origine contrattuale, introdotte cioè dalla contrattazione collettiva in aggiunta a quelle legali. Le figure professionali che si individuano in tale ambito sono:
La distinzione tra impiegati ed operai è oggi parzialmente superata dall'introduzione, ad opera della contrattazione collettiva, di un nuovo sistema di inquadramento professionale: il c.d. sistema di inquadramento unico. Esso si fonda su una classificazione unica dei lavoratori, che vengono ordinati in una pluralità di livelli professionali, e non più, come avveniva in passato, per gruppi di qualifiche all'interno delle varie categorie. In sostanza mentre il sistema tradizionale classificava i lavoratori distribuendoli per gruppi di qualifiche all’interno delle varie categorie (es.: impiegati d’ordine e di concetto, di 1, 2, 3 ,4 categoria impiegatizia), nel sistema dell’inquadramento unito si ha una classificazione unica dei lavoratori, ordinata in 7 o 8 livelli professionali che raggruppano sia le categorie impiegatizia che quelle operaie e anche, talvolta, quelle dei quadri.
L’appartenenza a tali categorie è determinata sulla base di:
Le novità introdotte dal nuovo sistema possono, così, sintetizzarsi:
L'art. 2103, c.c., novellato dall'art. 13 dello Statuto dei lavoratori, al co. I, prima parte, testualmente recita: "Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione". Tale disposizione limita il c.d. jus variandi, ossia il potere unilaterale del datore di modificare le mansioni del lavoratore, il quale, oltre che alle mansioni per le quali è stato assunto, può essere adibito soltanto:
Al di fuori di questi casi, il lavoratore può sempre opporre il proprio rifiuto allo svolgimento di mansioni diverse da quelle per le quali fu assunto, in forza dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., senza quindi essere esposto a responsabilità disciplinare.
L'art. 2103, ult. co., c.c., prevede espressamente che "ogni patto contrario è nullo". Si tratta di un'ipotesi di nullità testuale che determina l'inefficacia di ogni modificazione in peius delle mansioni del prestatore, con attribuzione a quest'ultimo del diritto alla restituzione delle mansioni originarie o equivalenti ovvero, in alternativa, al risarcimento del danno causato alla sua professionalità.
Come detto l’articolo pone il divieto di assegnare il lavoratore a mansioni inferiori (mobilità verso il basso o demansionamento). Tale divieto può essere derogato: in presenza di esigenze straordinarie sopravvenute e temporanee; nell’ipotesi prevista dall’art. 7 del Dlgs 151/01 che vieta al datore di lavoro di adibire le lavoratrici durante il periodo di gestazione e nei 7 mesi dopo il parto a mansioni pregiudizievoli della salute, autorizzando, a tal fine, a spostare le lavoratrici anche a mansioni inferiori; nel caso di cui all’art. 4 della legge 223/91 relativamente ai lavoratori eccedenti, in presenza di un accordo sindacale che prevede il riassorbimento anche parziale dei lavoratori i esubero.
L'art. 2103, co. 1, c.c., disciplina anche il potere di trasferimento, disponendo che il lavoratore "non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive" (mobilità introaziendale). Tale previsione consente, nei limiti previsti, il potere unilaterale di modificare in via definitiva il luogo della prestazione lavorativa a parità di mansioni. Il trasferimento può essere disposto, però, sol per comprovate ragioni tecnico organizzative, che il datore ha l’onere di provare e comunicare al lavoratore interessato. Ciò in quanto il trasferimento può comportare la lesione di interessi lavorativi ed extralavorativi. L'onere della prova della legittimità del trasferimento è a carico del datore. Va notato che l'art. 2103, c.c., non si riferisce al trasferimento da una località all'altra, ma al trasferimento da un'unità produttiva all'altra: per unità produttiva deve intendersi ogni articolazione autonoma dell'impresa o azienda, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività di produzione di beni o servizi dell'impresa della quale è elemento organizzativo.
La prestazione di lavoro subordinato consiste nella messa a disposizione del proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore (art. 2094). Essa costituisce la prestazione specifica e conformatrice del rapporto di lavoro e rappresenta il contenuto principale dell’obbligazione del lavoratore. Trattasi di una obbligazione di mezzi che impegna il prestatore a tenere un determinato comportamento, ma anche a raggiungere mediante tale attività, un risultato ulteriore.
La prestazione di lavoro deve essere:
Gli elementi che concorrono a determinare la prestazione sono diversi, in specie:
Gli obblighi integrativi concorrono a definire il proprium della prestazione lavorativo e il quomodo della stessa.
Il primo degli obblighi integrativi facenti capo al prestatore è l'obbligo di diligenza. La diligenza nel suo significato ontologico, indica quel complesso di cautele, cure ed attenzioni che devono informare l’esecuzione della prestazione. L'art. 2104, c.c., sancisce che "Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale". Nella previsione normativa la diligenza costituisce il criterio di misura della prestazione dovuta dal lavoratore, idoneo ad indicare il grado e l’entità del quantum debeatur. La norma in esame fa riferimento a tre criteri, alla cui stregua la diligenza del prestatore deve essere valutata, e cioè quelli:
L'inosservanza del dovere di diligenza comporta per il prestatore:
Il co. II dell'art. 2104, c.c., pone a carico del prestatore l'obbligo di obbedienza, sancendo che egli deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro che gli vengono impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende. Come la giurisprudenza ha ripetutamente precisato, la soggezione del prestatore al datore ed ai suoi collaboratori non può superare i limiti imposti dalle norme di legge - in particolare, da quelle dello Statuto dei lavoratori - e dalle norme contrattuali, potendo, in caso contrario, il lavoratore, esercitare il c.d. jus resistentiae, cioè rifiutarsi di osservare le disposizioni impartite. L'inosservanza dell'obbligo di obbedienza può costituire, nei casi più gravi, giustificato motivo (soggettivo) di licenziamento.
L'art. 2105, c.c., rubricato "Obbligo di fedeltà" pone a carico del prestatore un obbligo volto a tutelare l'interesse dell'imprenditore alla capacità di concorrenza dell'impresa (GHERA). Esso trae origine dal principio generale per il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (artt. 1175 e 1375, c.c.).
Tre sono i divieti che costituiscono il contenuto dell'art. 2105, c.c., e cioè:
Sul piano civilistico, la violazione dell'art. 2105, c.c., dà luogo sia alla responsabilità disciplinare sia al risarcimento del danno eventualmente causato al datore.
In conclusione, va anche ricordato che per alcuni autori (BUONCRISTIANO, MAZZIOTTI) e per la giurisprudenza (Cass. 5257/87), l'art. 2105, c.c., è una norma dispositiva e non imperativa, per cui l'autonomia delle parti - individuali o collettive - può sia consentire lo svolgimento di attività in concorrenza sia vietare al lavoratore l'espletamento di altre attività, autonome o subordinate, a favore di terzi, indipendentemente dalla rilevanza o meno di esse sotto il profilo della concorrenza.
Il divieto di concorrenza, sancito dall'art. 2105, c.c., avendo natura contrattuale, si estingue al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Tuttavia, l'art. 2125, c.c., consente alle parti di limitare lo svolgimento dell'attività del prestatore anche successivamente alla cessazione del contratto, con la stipulazione del "patto di non concorrenza". Tale stipulazione è circondata da particolari garanzie, essendo richiesti:
La violazione del patto di non concorrenza può dar luogo ad una condanna al risarcimento del danno, ma non ad un ordine di cessazione dell'attività svolta.
I diritti del lavoratore costituiscono le situazioni giuridiche attive, riferibili alla prestazione lavorativa, che si esprimono nelle facoltà, libertà e prerogative riconosciute al lavoratore. Tali diritti possono essere classificati nel modo seguente:
I diritti personali sono i diritti, costituzionalmente garantiti, inerenti alla personalità del lavoratore nel cui ambito assumono peculiare rilievo:
I diritti sindacali sono diritti che costituiscono espressioni tipiche dell'attività sindacale, riconosciuta ai singoli prestatori di lavoro.
La dottrina più accreditata distingue:
È chiaro che ai diritti del lavoratore sono correlati altrettanti obblighi del datore, e viceversa.
Anche se l’esecuzione della prestazione lavorativa costituisce, più che un diritto, l’obbligo principale del lavoratore, vi sono casi in cui assume specifica rilevanza l’interesse personale e professionale del lavoratore stesso ad eseguire la prestazione.
Il mobbing è stato definito come l’insieme di quegli atti e comportamento posti in essere dal datore di lavoro, capi, intermedi e colleghi, che si traducono in atteggiamenti persecutori, attuati in forma evidente, con specifica determinazione e carattere di continuità, atti ad arrecare danni rilevanti alla condizione psico fisica del lavoratore, ovvero anche al solo fine di allontanarlo dalla collettività in seno alla quale presta la propria opera. La giurisprudenza suole fare una distinzione tra:
Le forme più frequenti di mobbing sono costituire dalla dequalificazione professionale del lavoratore, destinato a mansioni inferiori per modificarlo, da comportamenti fastidiosi ed offensivi ripetuti, ovvero da atti di generale svilimento della persona, nonché di isolamento. In proposito la giurisprudenza ha distinto dagli atti e comportamenti tipici, cioè inerenti alla gestione del rapporto di lavoro, quelli che di per sé non hanno attinenza con esso, e perciò definiti atipici, come ad esempio evitare di paralare con la vittima, ridicolizzarla ecc. ecc.. La pratica di mobbing sono idonee ad incidere negativamente sulla integrità psicofisica dell’individuo, provocandogli danni, quali depressione e disturbi post traumatici da stress, che possono avere sia carattere transitorio che permanente ed indurre, ad esempio, alle dimissioni il lavoratore.
La giurisprudenza e la dottrina hanno individuato i danni che possono derivare dal lavoro mobbizzato:
La liquidazione del danno in tali casi non può che essere effettuata in forma equitativa, salva la dimostrazione di specifici danni patrimoniali. Su questo tema è intervenuto l’INAIL il quale – sulla base della sentenza n. 178 del 1988 della Corte Costituzionale la quale riconosce malattie professionali anche quelle non indicate nelle apposite tabelle purché venga dimostrata la causa lavorativa – ha individuato una serie di situazioni di c.d. costrittività organizzativa, in cui è ricompreso il c.d. mobbing strategico, e consistenti nell’insieme di azioni finalizzate ad allontanare o emarginare il lavoratore che rivestono rilevanza assicurativa. A seguito della riconduzione del mobbing nell’ambito delle malattie professionali non gabellate, con applicazione delle apposite tabelle per la valutazione del danno biologico, deriva che il danno non patrimoniale da mobbing può essere quantificato non più solo ed esclusivamente in via equitativa.
Il responsabile del danno subito dal lavoratore vittima di mobbing è il datore di lavoro. Le norme che vengono in rilievo sono:
Per concludere sul punto è opportuno precisare che la norme che copre la risarcibilità dei danni non patrimoniali è l’art, 2059 c.c., in cui la corte, con una interpretazione costituzionalmente orientata, ricomprende ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona.
L’art. 2590, comma 1, c.c. stabilisce espressamente che il prestatore di lavoro ha diritto di essere riconosciuto autore dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro. La concreta tutela di tale diritto, attinente la personalità morale del lavoratore, è contenuta nel Dlgs n. 30 del 2005 che costituisce il Codice della proprietà industriale, e che ha disciplinato in un unico testo normativo i vari aspetti connessi ai diritti derivanti da proprietà industriale. La materia p stata oggetto nel tempo di ripetuti interventi normativi, gran parte dei quali abrogati dal Dlgs 30/05.
Dalla brevettazione dell’invenzione deriva la titolarità, per la durata di venti ani, dei diritti, che possono essere:
L’art. 64 del Dlgs 30 del 2005 disciplina in modo specifico le seguenti fattispecie:
La nuova disciplina si applica alle invenzioni sia in corso di rapporto di lavoro privato, sia pubblico. Unica eccezione è quella dei ricercatori universitari e dei pubblici dipendenti, quando il rapporto di lavoro con l’Università e l’Amministrazione abbia tra i suoi scopi istituzionale finalità di ricerca.
Va infine ricordato che le controversie relative all’accertamento della sussistenza del diritto del lavoratore ad un equo premio sono rimesse alla competenza del Tribunale mediate apposite sezioni specializzate.
Anche la posizione giuridica del datore di lavoro ha una struttura complessa dovuta alla sussistenza di diritti e doveri collegati con i corrispondenti diritti ed obblighi del lavoratore. Per quanto concerne la posizione attiva va rilevato che i relativi diritti possono essere configurati come poteri giuridici in senso proprio, esercitabili in modo discrezionale per la tutela di un interesse proprio o dell’impresa. La forma di manifestazione di tali poteri è del tutto libera potendo essere sia orale che scritta. Naturalmente i poteri dell’imprenditore incontrano dei limiti legislativi, primo fra tutti il divieto di discriminazione previsto dall’art. 15 St. La., integrato del Dlgs 2\5 del 2003 e dal Dlgs 216 del 2003, ove si dichiarano nulli tutti i patti e gli atti diretti a ledere in qualsiasi modo la posizione del lavoratore per motivi non solo sindacali, ma politici, religiosi, di sesso, di lingua, di razza, di convinzioni professionali, per ragioni di orientamento sessuale, per età o per handicap.
Designa il fondamentale potere del datore di lavoro, giuridicamente collocato in stretta correlazione con il dovere di obbedienza e diligenza del lavoratore.
Il potere direttivo in senso stretto si configura come potere organizzativo diretto a conformare l’attività utile di ciascun lavoratore alle esigenze dell’impresa stessa. Esso si traduce sul piano generale nelle istruzioni che il datore ed i suoi collaboratori impartiscono per l’esecuzione e la disciplina del lavoro (art. 2104 c.c.).
In tale ambito la dottrina e la giurisprudenza sono soliti ricomprendere l’esercizio dei seguenti poteri:
Il potere di vigilanza e di controllo è strettamente correlato al potere direttivo ed è diretto a verificare che l’esecuzione dell’attività lavorativa venga effettuata secondo le modalità stabilite dal datore di lavoro. Tale potere incontra alcuni limiti, previsti espressamente dagli artt. 2 – 3 – 4 – 5 – 6 della legge 300 del 1970:
Vanno infine menzionate le due fondamentali norme (artt. 1 e 8 St. Lav.) poste a tutela del principio di libertà del lavoratore, e per tale via operanti come limite di carattere generale ai poteri del datore di lavoro:
L'inosservanza delle disposizioni dettate dal legislatore in tema di diligenza e fedeltà del prestatore di lavoro (artt. 2104 e 2105, c.c.) può dar luogo all'irrogazione da parte del datore di sanzioni disciplinari, proporzionate alla gravità dell'infrazione (art. 2106, c.c.). Il potere disciplinare è, come il potere direttivo, espressione del potere gerarchico dell’imprenditore, ma sussidiario del primo: il suo fondamento è da ravvisarsi nella responsabilità disciplinare del lavoratore, che costituisce uno degli aspetti della subordinazione, rappresentato dalle conseguenze collegate all0inadempimento della prestazione lavorativa (Ghera). La tipologia delle sanzioni previste dai contratti collettivi è divenuta, con il passare del tempo, sempre più complessa. Le sanzioni disciplinari oggi irrogabili sono, in ordine crescente di gravità:
Sono illecite, invece, quelle sanzioni che determinano un mutamento definitivo del rapporto di lavoro (ad esempio, la retrocessione, che però è ammessa nel settore degli auto-ferrotranvieri). L'irrogazione delle sanzioni è espressione del potere disciplinare del datore, nel quale la dottrina dominante ravvisa un potere autoritativo, unilaterale e punitivo, previsto in via del tutto eccezionale nell'ambito dei rapporti tra privati e che trova la sua ratio nel vincolo di subordinazione tecnico-funzionale del lavoratore; le sanzioni disciplinari vengono configurate quali speciali pene private, che adempiono però ad una funzione non risarcitoria, ma preventiva. Il potere disciplinare trova oggi la sua principale fonte di regolamentazione, oltre che nel Codice Civile e nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 29 novembre 1982 - di cui si dirà al capitolo XIV quando si tratterà del licenziamento disciplinare -, nell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori. Tale articolo, al fine di tutelare la libertà e la dignità dei prestatori, limita notevolmente l'esercizio del potere disciplinare, depotenziando, in tal modo, l'autorità del datore come capo dell'impresa. In particolare, esso afferma due principi fondamentali:
L’art. 7 non prevede alcun obbligo per il datore di motivare il provvedimento disciplinare in relazione alle difese avanzate dal lavoratore. Tale obbligo sussiste solo se previsto dal codice disciplinare o dal contratto collettivo, di guisa che la sua mancanza comporterà la nullità del provvedimento disciplinare.
I requisiti sostanziali si concretano in presupposti che condizionano il legittimo esercizio del potere disciplinare; in specie:
La fase procedurale della contestazione e della discolpa si svolge davanti al datore, che non è terzo, ma parte in causa e che è chiamato ad applicare la sanzione se reputa insufficiente la discolpa del lavoratore. L'imparzialità dell'organo è invece prevista per la fase eventuale e successiva dell'impugnativa della sanzione, che, ai sensi dell'art. 7, co. VI, St. lav., può avvenire mediante:
Gli obblighi del datore di lavoro, cui corrispondono altrettanti diritti del lavoratore, possono così individuarsi:
Le disposizioni della legge 675 del 1996 (legge sulla privacy) e dei provvedimenti che successivamente hanno modificato ed integrato l’originaria disciplina sono state abrogate dal Dlgs n. 196 del 2003, c.d. Codice della privacy.
Il provvedimento enuncia una serie di principi di carattere generale, tra cui: il diritto di qualsiasi individuo alla protezione dei dati personali che lo riguardano; l’obbligo di osservare, nel trattamento dei dati, i diritti e le libertà fondamentali, nonché la dignità dell’interessato; l’obbligo di ridurre al minimo l’utilizzazione dei dati personali e dei dati identificativi.
Con riferimento al rapporto di lavoro, sia al momento dell’assunzione che nel corso dello svolgimento del rapporto stesso, il datore di lavoro viene in possesso di una serie di informazioni attinenti alla sfera professionale del lavoratore. Il datore di lavoro, quale titolare del trattamento, ha facoltà di designare il soggetto responsabile da individuare fra coloro che per esperienza, capacità ed affidabilità, forniscano idonea garanzia del pieno rispetto delle vigenti disposizioni in materia di trattamento, ivi compreso il profilo relativo alla sicurezza. In ogni caso, il datore deve vigilare sull’operato del responsabile. In base all’art. 30 sono altresì designati anche altri soggetti incaricati alle operazioni di trattamento di dati, i quali comunque agiscono sotto la diretta autorità del datore di lavoro o del soggetto responsabile. Il Dlgs 196/2003 pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di compiere una serie di adempimenti (artt. 37 – 41):
Il lavoratore ha diritto di accedere ai propri dati in possesso del datore di lavoro e di essere informato delle finalità e modalità del trattamento e il diritto di opporsi, in tutto o in parte, per motivi legittimi, al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta. Egli ha inoltre il diritto di ottenere l’aggiornamento, la rettifica ovvero, quando vi abbia interesse, l’integrazione dei dati, nonché il diritto di blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti.
Il lavoratore acquista come corrispettivo dell’attività prestata il diritto ad un congruo trattamento economico, che consiste nella corresponsione della retribuzione secondo cadenze periodiche.
La retribuzione costituisce, secondo la definizione generale desumibile dagli artt. 2094 e 2099 c.c., l'obbligazione fondamentale a cui il datore di lavoro è tenuto nei confronti del prestatore. Essa "può essere considerata il corrispettivo della messa a disposizione delle energie lavorative, in quanto costituisce il prezzo di quest'ultima, prezzo che non risponde a criteri strettamente economici essendo troppi i fattori sociali e politico-sindacali che si intrecciano nella determinazione del suo ammontare. Determinazione che trova la sua prima fonte in una norma costituzionale, l'art. 36, co. I" (MAZZIOTTI). Questa norma testualmente recita "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa". Nonostante la genericità dell'art. 36, co. I, Cost., è possibile individuare il significato:
Altri caratteri della retribuzione, desumibili dall’art. 2099 c.c., sono:
L'art. 36, Cost., ha innanzitutto natura programmatica, in quanto vincola il legislatore a stabilire, con provvedimenti del Governo o con appositi meccanismi procedurali di carattere amministrativo, il salario minimo spettante al lavoratore. Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico, non è mai stata emanata una legislazione determinatrice dei minimi salariali, per cui la giurisprudenza riconosce all'art. 36, Cost., oltre che la natura di norma direttiva, anche una funzione precettiva, considerandola direttamente vincolante nei confronti dell'autonomia privata. In altri termini, i giudici affermano che, in assenza di determinazione convenzionale della retribuzione o nell'ipotesi in cui la retribuzione pattuita sia insufficiente, il datore deve corrispondere un emolumento equivalente alla retribuzione minima prevista nei contratti collettivi di categoria o del settore produttivo di appartenenza del lavoratore, integrando i medesimi il requisito della sufficienza voluto dall'art. 36, Cost.. Per tale via, si realizza l'estensione erga omnes delle norme dei contratti collettivi riguardanti le tariffe salariali, che si applicano, infatti, in tal modo, anche ai prestatori dipendenti da imprese non aderenti alle associazioni sindacali.
Tra i principi generali in tema di retribuzione, parte della dottrina include anche quelli di eguaglianza e di non discriminazione, che hanno un vasto campo di applicazione in tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. In realtà, il problema della parità retributiva ha una sua pacifica applicazione sotto il profilo del divieto di discriminazione per specifici motivi; sul piano generale è da escludere, invece, un generale ed assoluto principio di eguaglianza retributiva. La cassazione, a sezioni unite, nel ripercorrere il complesso iter giurisprudenziale, ha affermato che nel nostro ordinamento giuridico non può assolutamente parlarsi di un principio di parità retributiva dei lavoratori a parità di mansioni, negando quindi che sussista una automatica equazione qualifica retribuzione: gli unici principi sussistenti sono quelli della garanzia del minimo retributivo e quello di non discriminazione.
L’obbligo retributivo caratterizza il rapporto di lavoro come rapporto oneroso di scambio o a prestazioni corrispettive. La corrispettività è un carattere tradizionalmente attribuito alla retribuzione, in quanto essa costituisce la prestazione del datore strutturalmente e funzionalmente correlata alla esecuzione della prestazione di lavoro.
La retribuzione presenta una struttura composita perché "pur essendo il corrispettivo della prestazione di lavoro può essere utilizzata, a causa della sua intrinseca elasticità, per realizzare determinati scopi aziendali" (MAZZIOTTI). Dunque essa si compone di vari elementi, quali:
Un cenno a sé merita l'indennità di contingenza, istituto volto a correggere, almeno in parte, la natura della retribuzione come credito di valuta e, quindi, ad adeguarne il valore nominale a quello reale. Il sistema si è basato, fin dall'origine, sulla c.d. scala mobile, meccanismo che comporta un adeguamento automatico del livello retributivo al costo della vita attraverso il riferimento alle variazioni dei prezzi di particolari beni costituenti il c.d. paniere. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Settanta, l'istituto della scala mobile è entrato in crisi e, dopo vari interventi legislativi, è stato soppresso con il protocollo triangolare di intesa tra Governo e parti sociali del 31 luglio 1992. L’intera materia della dinamica salariale è stata oggetto di una completa ridefinizione con il protocollo di intesa del 1993. Con tale accordo triangolare le parti sociali ed il governo hanno infatti concordato un nuovo ed organico assetto del sistema retributivo, impegnandosi nel contempo a rendere la contrattazione collettiva in materia salariale compatibile con le politiche economiche ed in particolare con le esigenze di controllo delle spinte inflative. L’accordo individua due livelli contrattuali, quello nazionale di categoria e quello aziendale. Al primo continua ad essere attribuita la tradizionale funzione di fonte generale di regolamentazione dei rapporti di lavoro, ma con la previsione di un ritmo quadriennale per il rinnovo della parte normativa, e di un ritmo biennale per il rinnovo della parte economica. In questo modo è assicurata la possibilità di una dinamica retributiva relativamente frequente, non automatica, ma volta a volta oggetto di negoziazione tra le parti sociali. Con l’importante, previsione, peraltro, che in caso di ritardo del rinnovo contrattuale superiore a tre mesi, sia corrisposta ai lavoratori un’indennità di vacanza contrattuale, di importo pari al 30% (50% dopo il sesto mese) del tasso di inflazione programmato in sede governativa, calcolato sui minimi contrattuali vigenti. Alla contrattazione aziendale è invece attribuita la funzione di definire istituti retributivi diversi rispetto a quelli disciplinati dal contratto nazionale e, specificamente, di prevedere erogazioni correlate ai risultati di produttività e all’andamento economico complessivo dell’azienda, nell’ambito dei programmi concordati tra le parti.
Problema particolarmente discusso in dottrina ed in giurisprudenza è quello dell'individuazione delle attribuzioni patrimoniali da far rientrare nel concetto giuridico di retribuzione. Esso inerisce alla sussistenza o meno, nel nostro ordinamento, del principio di omnicomprensività della retribuzione, per il quale essa ricomprende non solo il compenso che costituisce il diretto corrispettivo della prestazione lavorativa, ma anche tutti gli emolumenti che presentano carattere continuativo, periodico o costante nel tempo. Tale principio non è privo di risvolti sul piano pratico: primo fra tutti, quello dell'individuazione delle erogazioni che possono essere prese in considerazione per il calcolo di istituti che assumono la retribuzione come base di computo. La giurisprudenza era, in passato, nel senso della omnicomprensività della retribuzione, sostenuta sulla base di una congerie di argomentazioni, delle quali la più rilevante era quella dell'applicazione estensiva dell'art. 2121, c.c.. Oggi, anche a causa della modifica di tale articolo ad opera della L. 297/1982, tale orientamento è mutato e prevale quello per cui non esiste nel nostro ordinamento un concetto monolitico di retribuzione ed è da escludere che l'omnicomprensività valga oltre i casi richiamati espressamente dalla legge e dai contratti collettivi.
L’art. 2099 c.c. codifica una tipologia delle varie forme retributive, stabilendo che la retribuzione può essere determinata: a tempo, a cottimo, con partecipazione agli utili o a prodotti con provvigione, ed infine, in natura. Tali diversi sistemi di retribuzione costituiscono dei metodi per calcolare l’ammontare della retribuzione, a sua volta determinata dai contratti collettivi o, anche, degli accordi individuali. In realtà la retribuzione a tempo è il metodo adoperato in maniera esclusiva nel senso che le altre forme in precedenza indicate costituiscono forme di compenso parziale o di elementi della retribuzione, la quale mantiene sempre una parte fissa, determinata a tempo, al fine di garantire al lavoratore un minimo retributivo dovuto per il semplice fatto di aver prestato l’attività di un determinato periodo di tempo.
Alla stregua dell'art. 2099, c.c., la retribuzione può essere:
Il cottimo può poi essere:
A tutela dei prestatori, l'art. 2101, c.c., dispone che "L'imprenditore deve comunicare ai prestatori di lavoro i dati riguardanti gli elementi costitutivi della tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguirsi e il relativo compenso unitario". L’art. 2101 c.c. disciplina poi, in via generale, l’intervento del sindacato nella formazione delle tariffe di cottimo, disponendo che i contratti collettivi possono stabilire che le tariffe non divengano definitive se non dopo un periodo di esperimento e che possono essere sostituite oe modificate soltanto se intervengono mutamenti nelle condizioni di lavoro e in ragione degli stessi, aggiungendo inoltre che la sostituzione o variazione non diviene definitiva se non dopo un periodo di esperimento stabilito dalla norme dei contratti collettivi (c.d. assestamento).
Ancora, sempre a termini dell'art. 2099, c.c., la retribuzione può essere:
L’ammontare della retribuzione, secondo quanto disposto dall’art. 36 Cost., deve essere commisurata alla quantità e qualità del lavoro svolto. Per quanto concerne la concreta determinazione della misura della retribuzione, ai sensi dell’art. 2099 c.c., essa è stabilità:
La retribuzione è, di regola, corrisposta in danaro ed è, quindi, soggetta alla disciplina dettata dagli artt. 1277 e ss., c.c.. La contrattazione, collettiva ed individuale, fissa generalmente l'ammontare della retribuzione con riferimento ad un anno di lavoro; la corresponsione avviene, tuttavia, in ratei periodici e, per il principio c.d. della post-numerazione, dopo l'espletamento della prestazione lavorativa. Le modalità ed i termini di corresponsione della retribuzione sono quelli in uso nel luogo in cui il lavoro viene svolto, che è anche il luogo in cui la retribuzione viene pagata. In ordine alle modalità, la L. 5 gennaio 1953, n. 4, sanzionata penalmente, fa obbligo al datore di accompagnare la corresponsione della retribuzione con la consegna di un "prospetto paga", recante l'indicazione di tutti gli elementi costitutivi di essa.
La L. 29 maggio 1982, n. 297, ha sostituito all'indennità di anzianità - consistente nella retribuzione che maturava al momento della cessazione del rapporto di lavoro e che era pari al prodotto dell'importo dell'ultima retribuzione per il numero di anni di servizio prestato - il diverso istituto del trattamento di fine rapporto. Quest'ultimo, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti, ha natura retributiva e previdenziale insieme, perché rappresenta quella parte di retribuzione cui il lavoratore alle dipendenze di un privato o di un ente pubblico economico ha diritto in ogni caso di cessazione del rapporto, al fine di superare le eventuali difficoltà economiche connesse a tale cessazione.
L'art. 2120, c.c., nella nuova formulazione, dispone che il trattamento di fine rapporto si calcola accantonando, anno per anno, una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. Il totale delle quote accantonate - con esclusione della quota maturata nell'anno - è incrementato, su base composta, al 31 dicembre di ciascun anno, con l'applicazione di un tasso costituito dall'1,5% in misura fissa e dal 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall'ISTAT, rispetto al mese di dicembre dell'anno precedente.
Nella retribuzione media da prendere a base del calcolo devono farsi rientrare tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese. Previsioni diverse possono, però, essere contenute nei contratti collettivi a cui la L. 297/1982 concede ampio spazio, tanto che la Cassazione ritiene possibili anche deroghe in peius, purché la disciplina pattizia assicuri al prestatore un trattamento complessivamente più favorevole.
L'art. 2120, co. VI, c.c., dispone che il lavoratore, con almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore, può chiedere in costanza di rapporto di lavoro, un'anticipazione non superiore al 70% sul trattamento cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta. I commi dal VII all'XI dello stesso articolo contemplano una serie di limiti per tale anticipazione, che deve essere giustificata dalla necessità di:
L'indicazione delle finalità per cui può essere chiesta l'anticipazione è evidentemente generica: ciò si spiega in considerazione dell'ampio margine che la legge lascia in materia alla contrattazione collettiva ed individuale, chiamata ad integrare e migliorare la disciplina legislativa.
Il trattamento di fine rapporto, unitamente all'indennità di preavviso, spetta nel caso di morte del prestatore, ai "superstiti", ossia al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del lavoratore, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo grado. La ripartizione deve seguire i criteri stabiliti dall'accordo tra i superstiti; in difetto di accordo, il criterio del bisogno attuale di ciascuno.
Secondo l'orientamento dottrinale prevalente, il diritto spetta ai prossimi congiunti indicati dalla legge "iure proprio", ciò che implica importanti conseguenze sotto il profilo fiscale e sotto quello dei rapporti del de cuius con i creditori, che non possono rivalersi sull'indennità in questione avente natura anche previdenziale ed assistenziale. Solo in mancanza di "superstiti" subentrano le norme della successione testamentaria o legittima e l'acquisto avviene "iure successionis".
Il nostro ordinamento, fino ad un’epoca recente, forniva ancora un’altra nozione di retribuzione, applicabile al rapporto contributivo previdenziale e al fine di determinare la base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale. Ed a tal fine l’art. 12 della legge n. 153 del 1969, riferendosi a tutto ciò che veniva corrisposto dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto di lavoro, offriva una definizione molto ampia della retribuzione ai fini previdenziali. A fronte di questa definizione la giurisprudenza era giunta ad affermare la sottoposizione a contribuzione previdenziale non solo delle prestazioni assistenziali obbligatorie, ma perfino gli atti ricorrenti di liberalità del datore di lavoro a favore dei propri dipendenti. Il Dlgs n. 314 del 1997 ha superato tale principio riconoscendo la retribuzione imponibile in tutte le somme e i valori a qualunque titolo percepiti nel periodo di competenza in relazione al rapporto di lavoro, ferma restando l’esclusione di alcune voci indicate dal decreto stesso.
Il Dlgs 314 del 1997 ha altresì operato una armonizzazione della retribuzione imponibile ai fini previdenziali alla retribuzione imponibile ai fini fiscali, in quanto il calcolo della retribuzione da assoggettare a contribuzione è effettuato mediate derivazione dalla nozione di reddito di lavoro dipendente contenute nel Testo unico imposte sul reddito. Infatti, l’art. 12 della legge 153 del 1969, modificato dal Dlgs 314 del 1997, per la determinazione della retribuzione imponibile ai fini contributivi, rinvia alla nozione di reddito di lavoro dipendente di cui agli artt. 49 – 51 del T.u.i.r.. Ai sensi dell’art. 49 sono redditi da lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio. L’art. 51 stabilisce come deve essere determinato il reddito di lavoro dipendente, fornendo il criterio menzionato di retribuzione imponibile e un elenco di voci che non concorrono alla formazione del reddito. Dal combinato disposto dagli artt. 49 e 51 T.u.i.r. si ottiene in base imponibile ai fini fiscali, dalla quale, sottraendo gli importi relativi agli elementi indicati tassativamente nell’art. 12 della legge 153/69, si giunge alla base imponibile contributiva.
La retribuzione è, come detto, una tipica obbligazione corrispettiva da ricomprendere tra le obbligazioni pecuniarie, avente come oggetto una somma di denaro e sottoposte alla disciplina degli artt. 1277 c.c. e seg.. Per ciò che riguarda la corresponsione della retribuzione, il datore è sottoposto alle regole generali degli art. 1176 e 1182 c.c..
L’art. 2099 c.c. si limita a stabilire le modalità ed i termini e cioè i tempi e le circostanze del pagamento che devono essere desunti da quelli in uso nel luogo ove il lavoro viene eseguito. Quanto al luogo dell’adempimento, la retribuzione viene corrisposta nella sede dell’imprenditore, che è il luogo di lavoro nel quale il lavoratore presta la propria attività. La legge impone al datore di consegnare al lavoratore, unitamente alla retribuzione, un prospetto paga analitico delle diverse voci che compongono la retribuzione, con indicazione delle trattenute di legge, fiscali, previdenziale ed assistenziali.
Il termine per la corresponsione della retribuzione è, di regola, stabilito dai contratti collettivi o in mancanza dagli usi.
Il diritto al pagamento della retribuzione sorge a lavoro compiuto: è questo il principio della postnumerazione, in forza del quale il pagamento della retribuzione è posticipato rispetto alla erogazione della prestazione lavorativa.
Nel caso in cui un datore ometta in tutto o in parte di corrispondere al lavoratore il pagamento della retribuzione, sorge in capo a questi un diritto di credito nei confronti del primo, garantito da varie disposizioni di legge.
Le principali ipotesi di tutela del credito lavorativo sono:
Il lavoratore è tenuto a prestare l’attività lavorativa nel luogo stabilito dalle parti nel contratto o, in mancanza, nel luogo dove l’attività deve essere esplicata. secondo i principi generali la prestazione deve essere eseguita nel luogo determinato dal contratto, dagli usi o desumibile dalla natura della prestazione (art. 1182 c.c.).
La disciplina che limita la durata massima della prestazione di lavoro, concernente l'orario di lavoro, le pause settimanali e le ferie annuali, svolge una rilevantissima funzione di tutela della persona del lavoratore. Essa, infatti, è volta a consentire a quest'ultimo non solo di reintegrare le energie spese nello svolgimento della propria attività, ma anche di soddisfare le proprie esigenze ricreative, familiari e sociali. Le principali fonti normative in materia sono:
Il Dlgs 66 del 2003 definisce orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività e delle sue funzioni. L’orario di lavoro deve essere specificato nel regolamento di azienda e deve essere comunicato al lavoratore mediante il contratto di lavoro o la lettera di assunzione.
L’orario normale di lavoro è fissato di regola su base settimanale ed ha, come limite massimo, quello delle 40 ore. I contratti collettivi possono tuttavia stabilire una durata minore e riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno.
La durata massima concerne il solo lavoro effettivo, ossia quello che richiede un'applicazione continua e senza soste. Inoltre, poiché per il calcolo della giornata lavorativa deve, come si è detto, farsi riferimento al solo lavoro effettivo, non possono prendersi in considerazione: i riposi intermedi (per la consumazione dei pasti); il tempo occorrente per recarsi al lavoro; quello necessario per indossare gli abiti di lavoro o per fornirsi degli attrezzi; le soste di lavoro non inferiori a 10 minuti dovute a forza maggiore oppure a necessità tecniche.
Le ore di lavoro settimanale sono normalmente distribuite su 6 giorni. Il contratto collettivo e il datore di lavoro possono però ripartirle su 5 giorni. In tal caso il sabato (anche se non si lavora) non è considerato riposo settimanale.
L'articolo 16 del decreto legislativo 66/03 indica un lungo elenco di attività per le quali il limite della media settimanale sale a 48 ore: lavoratori agricoli, commessi viaggiatori, giornalisti, dipendenti delle industrie di impianti di distribuzione di carburante, personale di stabilimenti balneari, dipendenti di servizi di pubblica utilità e di servizi nei quali sia necessario assicurare la continuità operativa, ecc.
Non si applica il limite delle 40 ore settimanali anche ai cosiddetti lavoratori discontinui (custodi, guardiani, portinai, fattorini, ecc.), ossia a coloro che svolgendo un'attività di semplice attesa o custodia non hanno un impegno continuativo, e durante l'orario di lavoro hanno pause e lunghi riposi. L'elenco dei lavoratori discontinui è fissato dalla legge (RD 2657/23) e dai contratti nazionali. Anche la durata dell'orario di lavoro di queste figure professionali è fissata dal contratto collettivo nazionale, e sempre deve tener conto della integrità, della salute fisica e psichica del lavoratore.
Se l'orario di lavoro supera le sei ore, il lavoratore ha diritto a una pausa di riposo che per legge non può essere inferiore ai dieci minuti (art. 8 D.lgs.66/03). Generalmente la durata e le modalità della pausa sono indicate, sia nel contratto collettivo nazionale, sia in quello aziendale.
L'orario di lavoro giornaliero deve essere tale da consentire al lavoratore undici ore di riposo consecutive ogni ventiquattro ore. In alcuni specifici casi il contratto nazionale consente una deroga alla legge e la possibilità che al lavoratore siano accordati periodi di riposo più brevi, i quali comunque sono ammessi solo a condizione di periodi equipollenti di riposo compensativo.
L'orario di lavoro settimanale deve tener conto del diritto del personale a un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica. Fanno eccezione alcune situazioni caratterizzate dalle necessità dell'organizzazione dei lavoro a turni, da particolari attività per le quali sia necessario frazionare i periodi di lavoro nell'arco della giornata, e il personale del settore trasporti. Il lavoro svolto durante i giorni di riposo settimanale è compensato da una maggiorazione retributiva. Il riposo settimane è un principio stabilito dalla Costituzione (art. 36), la sua concessione non può essere rifiutata dal datore di lavoro, ne può essere legalmente negata in un contratto individuale.
II lavoro straordinario è quello svolto oltre l'orario normale di lavoro, ossia le 40 ore settimanali previste dalla legge (L. 66/03). Qualora il contratto applicato preveda un orario inferiore alle 40 ore, la prestazione che eccede l'orario contrattuale fino alle limite legale delle 40 ore è denominata lavoro supplementare.
La legge di riforma ammette il ricorso al lavoro straordinario per i seguenti motivi (art. 5 DLgs.66/03):
La legge ha fissato il tetto massimo di straordinario annuale in 250 ore (art. 4 D.lgs. 66/03), spesso la contrattazione collettiva ha stabilito limiti inferiori.
I contratti nazionali di categoria stabiliscono le modalità con le quali si esegue il lavoro straordinario e i limiti massimi (giornalieri e settimanali). Fissano anche le maggiorazioni retributive dovute ai lavoratori per risarcirli dell'allungamento dell'orario di lavoro, e spesso consentono di usufruire di riposi compensativi in aggiunta alle maggiorazioni.
Se mancano disposizioni collettive, si applicano i limiti legali stabiliti dal Dlgs 66/03 e cioè:
Il lavoro notturno è soggetto ad una serie di divieti e di limitazioni, in quanto, alterando i ritmi biologici di vita del prestatore, risulta più dannoso e faticoso non solo del lavoro diurno, ma anche del lavoro straordinario. Generalmente i contratti di categoria specificano l'ora da cui decorre il lavoro notturno e dalla quale scattano le maggiorazioni e i benefici contrattuali.
La legge stabilisce che l'orario notturno è quello svolto nell'intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino e che il lavoratore notturno è colui che svolge almeno tre ore del suo normale lavoro giornaliero durante il periodo notturno - secondo le norme definite dai contratti - oppure in mancanza di disciplina contrattuale: qualsiasi lavoratore che svolga lavoro notturno per almeno 80 giorni lavorativi all'anno. Il lavoro notturno non deve superare otto ore nell'arco delle 24, a meno che il contratto collettivo (nazionale o aziendale) non individui un periodo di riferimento più ampio su cui calcolare tale limite.
Per compensare la fatica del lavorare durante la notte, tutti contratti di categoria indicano maggiorazioni retributive e nella gran parte dei casi anche delle specifiche riduzioni dell'orario di lavoro. A meno che non sia accertata la non idoneità del dipendente (attraverso le strutture sanitarie competenti), esso ha l'obbligo, se gli viene richiesto, di prestare la sua attività anche di notte.
Sono esclusi dall'obbligo di lavorare dalla mezzanotte alle sei del mattino (art. 11 DIgs. 66/03) i seguenti soggetti:
L’introduzione del lavoro notturno comporta per il datore di lavoro i seguenti adempimenti di carattere informativo:
Lo svolgimento di prestazioni di lavoro notturno non può avvenire in danno della salute e dell’integrità psicofisica del lavoratore. Pertanto è obbligo del datore di lavoro accertare lo stato di salute dei lavoratori addetti al lavoro notturno attraverso controlli preventivi e periodici adeguati al rischio cui il lavoratore è esposto secondo le disposizioni previste dalla legge e dai contratti collettivi. Nel caso di sopravvenuta inidoneità alla prestazione di lavoro notturno, accertato dal medico competente o dalle strutture sanitarie pubbliche, il lavoratore verrà assegnato al lavoro diurno, in altre mansioni equivalenti, se esistenti e disponibili (Dlgs 66/03). Il Dlgs 66/03 non prevede quindi divieti soggettivi di effettuazione di lavoro notturno, assumendo invece il più efficace principio generale che esso non deve essere richiesto ogni qualvolta risulti incompatibile con le condizioni di salute del lavoratore.
Accanto al riposo settimanale si pongono le festività infrasettimanali, nazionali e religiose, disciplinate dalla L. 27 maggio 1949, n. 260, dalla L. 5 marzo 1977, n. 54 e dal D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 792. I giorni festivi oggi esistenti sono:
Durante tali festività, i datori di lavoro devono corrispondere ai propri dipendenti - compresi quelli retribuiti ad ore - la normale retribuzione giornaliera. Nel caso in cui, in tali giorni, i dipendenti lavorino, è loro dovuta, oltre la normale retribuzione globale di fatto giornaliera, comprensiva di ogni elemento accessorio, anche la retribuzione per l'attività svolta con la maggiorazione per il lavoro festivo. Nel settore del pubblico impiego, in luogo del trattamento economico, è previsto il recupero delle festività soppresse in altri giorni dell'anno come permessi straordinari o in aggiunta alle ferie, con il pagamento della retribuzione.
L'art. 36, co. III, Cost., sancisce che "Il lavoratore ha diritto a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi". Il D.Lgs. 66/2003 stabilisce che il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane, consentendo tuttavia alla contrattazione collettiva la facoltà di derogare in senso più favorevole.
Stante la funzione dell’istituto, la legge dispone che tale periodo minimo di quattro settimane non possa essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro.
Durante il periodo feriale, il prestatore ha diritto alla retribuzione globale di fatto corrispondente a quella che percepisce normalmente (comprensiva anche delle voci più strettamente connesse alla prestazione lavorativa); in caso di retribuzione in natura ha diritto all'equivalente in danaro.
La sentenza della Corte costituzionale 30 dicembre 1987, n. 6161, ha dichiarato che l'art. 2109, c.c., è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospenda il decorso. Assimilati alle ferie sono poi alcuni periodi di sosta nello svolgimento della prestazione, previsti dalla legge e volti a permettere al lavoratore di assolvere ad alcuni impegni di carattere civile e personale. Essi possono essere retribuiti ovvero non retribuiti. Si citano qui, a titolo di esempio: il congedo per le elezioni politiche ed amministrative e per i referendum, previsto a favore dei componenti il seggio elettorale e dei rappresentanti di lista; il congedo matrimoniale; i permessi (non retribuiti) spettanti ai dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali per la partecipazione a convegni, congressi ed iniziative sindacali in genere.
Altre possibilità di sosta nell’attività lavorativa subordinata sono previste dal legislatore per consentire al lavoratore l’espletamento di impegni di carattere civile e personale. Queste soste, che prendono il nome di congedi o permessi, e che costituiscono un vero e proprio diritto del lavoratore, non vanno confuse con eventuali permessi stabiliti dalla contrattazione collettiva o concessi a discrezione del datore di lavoro. Dei permessi e dei congedi parentali si dirà più avanti.
Permessi o congedi retribuiti.
Permessi o congedi non retribuiti.
Congedi e permessi per handicap grave. L’art. 33 della legge 104/92, modificato dal Dlgs 151/01, disciplina i permessi e i congedi spettanti ai lavoratori con handicap ovvero ai parenti che assistono familiari con handicap ed in particolare:
Il Dlgs 151 del 2001 contiene poi la disciplina per i genitori di bambini con handicap grave:
L’art. 42, comma 5, Dlgs 151/2001 prevede in favore dei lavoratori genitori di soggetto con handicap grave il diritto a fruire di congedo, continuativo e frazionato, della durata di due anni.
Permessi e congedi per eventi particolari. La legge 53/00 finalizza alla promozione del migliore equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione prevede che i lavoratori possono fruire di speciali permessi retribuiti pari a tre giorni complessivi all’anno in caso di eventi particolari (decesso o malattia grave di un parente). I lavoratori hanno diritto ad un periodo di congedo non retribuito per gravi e documentati motivi familiari, per la durata massima di due anni in tutta la vita lavorativa, fruibile in modo continuativo o non.
Né la legge 53/00, né le disposizioni di attuazione disciplinano le conseguenze del rifiuto del datore alla concessione del congedo per gravi e documentati motivi familiari, rimanendo alla contrattazione collettiva il compito di regolamentare il procedimento per la richiesta e per la concessione, anche parziale o dilazionata nel tempo, o il diniego del congedo per gravi e documentati morivi familiari.
La lavoratrice e il lavoratore hanno diritto a rientrare nel posto di lavoro alla scadenza del periodo di congedo, o anche prima purché non sia stata fissata una durata minima del congedo, dandone preventiva comunicazione al datore di lavoro.
Congedi per la formazione. La previsione della formazione professionale dei lavoratori riceve effettività della possibilità riconosciuta al lavoratore di fruire di appositi congedi per finalità formative. Tali congedi sono periodi di assenza dal lavoro finalizzati al completamento della scuola dell’obbligo, la conseguimento del titolo di studio di secondo gare, del diploma universitario o di laurea, alla partecipazione ad attività formative diverse da quelle poste in essere o finanziate dal datore di lavoro.
Per tali finalità i lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, con una anzianità di servizio prillo la stesse azienda o amministrazione di almeno 5 anni, possono richiedere al proprio datore di lavoro la sospensione del rapporto di lavoro per un periodo di congedo, da utilizzare in via continuativa o in modo frazionato, non superiore a 11 mesi nell’arco dell’intera vita lavorativa.
L’art. n. 6 della legge 53 del 2000 sancisce, invece, il diritto per tutti i lavoratori a fruire di percorsi di formazione per tutto l’arco della vita, allo scopo di accrescere le proprie conoscenze e competenze professionali; a tale scopo spetta allo Stato, alle Regioni, agli enti locali il compito di assicurare una offerta formativa articolata sul territorio. Il diritto a fruire di una formazione professionale continua può trovare attuazione attraversi una autonoma scelta del lavoratore dipendente che attraverso piani formativi aziendali o territoriali. Per le attività legate ad attività formative il lavoratore ha diritto ad un monte ore di congedi che dovrà essere stabilito dalla contrattazione nazionale e decentrata; a tale accordo è anche demandato il compito di stabilire i criteri per l’individuazione dei lavoratori che vi posson partecipare, le modalità di fruizione e la retribuzione connessa alla partecipazione a tali attività formative.
L’art 2087 c.c. fa obbligo al datore di lavoro di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro”. Il legislatore ha predisposto, in tal senso, due gruppi di norme: l’uno concernente la prevenzione degli infortuni, l’altro l’igiene del lavoro.
Al riguardo va ricordato che su ogni datore di lavoro incombe l’obbligo di assicurare i propri dipendenti contro gli infortuni sul lavoro e sulle malattie professionali. L’assicurazione è gestita dall’INAIL.
Tra le fonti normative in materia si possono citare:
Il vasto corpo normativo emanato in materia ha trovato nuova sistemazione con il Dlgs n. 626 del 1994 che ha dato attuazione alle direttive del consiglio della CE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro. Il Dlgs 626 del 94, che si applica a tutti i campi di attività sia pubblici che privati, ha significativamente innovatoli quadro giuridico in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro, dando effettività alla previsione generale contenuta nell’art. 2087 c.c. e ponendosi a coronamento e completamento della vastissima legislazione speciale esistente in materia.
La prevenzione nel campo della sicurezza del lavoro consiste nella “azione o la serie di azioni che mirano a cautelare dagli infortuni e ad evitarli”. Nel Dlgs 626 del 94 il legislatore individua una specifica nozione di prevenzione che viene definita, conformemente a quanto contenuto nella direttiva comunitaria recepita, come il complesso delle disposizioni o misure prese o previste in tutte le fasi dell’attività lavorativa per evitare o diminuire rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno. Nell’art.3 del D.Lgs. 626/94 vengono elencati, tra le misure generali di tutela, i seguenti precetti tassativi in cui si sostanzia, in concreto, l’azione preventiva:
Accanto al principio della prevenzione troviamo quello della programmazione: la prevenzione deve svolgersi secondo modalità predefinite che consistono nella valutazione dei rischi, nella redazione del documento di sicurezza, nell’organizzazione di una specifica funzione aziendale denominata servizio di prevenzione e protezione, nella designazione di addetti alle procedure di sicurezza, nella elaborazione dei programmi di informazione e formazione dei lavoratori.
La previsione di una serie di fasi e di specifici adempimenti, che prevedono e richiedono il coinvolgimento di ulteriori soggetti quali il medico competente, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, rendono l’obbligo di sicurezza un obbligo procedimentalizzato, non più quindi afferente la sola sfera dei poteri datoriali, ma sottoposto ad una gestione necessariamente condivisa con i soggetti terzi ed in particolare con le rappresentanze sindacali dei lavoratori.
L’obbligo giuridico di tutelare l’integrità psicofisica dei dipendenti mediante l’adozione ed il mantenimento in efficienza dei presidi antinfortunistici ricade – in virtù del combinato disposto dall’art. 2087 c.c., dall’art. 4 del DPR 574 del 1955 e dall’art. 9 della legge 300/1970 – sull’imprenditore datore di lavoro. L’individuazione della persona fisica responsabile, qualificabile come datore di lavoro, non è sempre agevole: tale identificazione è tuttavia di fondamentale importanza attesa l’eventuale responsabilità penale che, in quanto tale, non è riferibile alle persone giuridiche. La giurisprudenza si è avvalsa in passato del principio dell’effettività riconoscendo il datore di lavoro nel soggetto che – prescindendo dalle attribuzioni formali dei compiti nella gerarchia imprenditoriale – si occupa dell’assunzione del personale. L’art. 2 della “626” fornisce invece una definizione normativa di “datore di lavoro”: questi è il soggetto che, secondo il tipo e l’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa ovvero dell’unità produttiva, in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa. Ed inoltre, nelle P.A. per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale.
Fonte: http://www.controcampus.it/wp-content/uploads/2012/03/Mazziotti-Compendio_Di_Diritto_Del_Lavoro__Aggiornato_.doc
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Autore del testo: Compendio di DIRITTO DEL LAVORO A cura del dott. Marco De Stasio www.studiodestasio.it
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